domenica 31 luglio 2011

Sotto un cielo di stalle


Vi siete mai abbandonati al piacere della «deriva cazzatoria»? Ecco, magari se ci spieghi di cosa diavolo si tratta, c’è il caso che riusciamo anche a rispondere, direte voi.

Non è niente di complicato, credetemi. Tutto quel che serve è un gruppo di amici e una serata con del tempo da perdere. Con gli amici ci deve essere un’intesa piuttosto buona. La dimestichezza a chiacchierare con loro deve godere di un lungo periodo di sedimentazione costruito negli anni. La «deriva cazzatoria» riesce molto meglio se l’abitudine a discutere insieme di tutto e di nulla, senza una meta argomentativi precisa, sia stata esercitata in decine e decine di incontri privi di scopo pratico alcuno. L’effetto viene amplificato se parallelamente si è sedimentato un ampio e comune “vocabolario di stupidate” accumulate in quella lunga pratica del chiacchiericcio gratuito e surrealistico. Quando sussiste questa sintonia nel patrimonio “semantico idiotistico collettivo”, gli spunti per ridere e stare bene insieme si amplificano, perché si possono posare i piedi del ragionamento su un retroterra condiviso di significati faceti, frizzi e lazzi consolidati.

Altro fattore fondamentale: la «deriva cazzatoria» non è assolutamente programmabile. Non si sa mai il momento in cui può capitare, s’insinua fra le pieghe dei discorsi quando meno te l’aspetti, s’innesca impalpabile con passi leggeri, proprio mentre qualcuno se ne viene fuori con l’affermazione più improbabile ed inconsistente. Tanto che, nell’attimo in cui ti rendi conto di essere stato preso dentro i flutti turbinosi più cazzateschi e “non-sensuali”, è ormai già troppo tardi. L’unica cosa da fare a quel punto è godersi la corrente demenziale, prestare ad essa il fianco e rinfocolare il falò delle boiate con generosi ceppi di lignea scemenza.

Come l’altra sera.

Dovevo incontrarmi con due miei amici storici, in piazza a Gillipixiland. Dovete sapere che l’aere gillipixilandese, data la vicinanza di numerosi allevamenti, s’intride soventemente di afrori bovini, talvolta in misura blanda, tal’altra assumendo sfumature decisamente totalizzanti. Tanto che, fra le frasi di circostanza più in voga, «…Non ci sono più le mezze stagioni…» se la gioca ormai ad armi pari con «…Però, bella puzza di “me…da” stasera!…» (chiedo scusa, ma la “erre” se l’è mangiata la censura…).

E’ stato proprio con quella frase di rito, che me ne sono venuto fuori io dopo un po’, dando sfoggio della mia eccelsa sottigliezza di uomo che sa stare in società. Rincarando la dose poi subito appresso: «…Ci credo che è così potente…dev’essere quella stalla di circa 600 vacche…». Al che uno dei miei amici ha ribattuto: «…Eh sì, 600 Wacc sono tanti…».

Avevamo definito, senza quasi rendercene conto, la nuova unità di misura internazionale per la puzza di stalla. Da lì ad andare a valanga con le boiate, è stato un attimo. Chi “dementizzava”: «…Pensa se fossero mille Wacc…allora sì che ci sarebbe da stare barricati in casa, con un KiloWacc di potenza disperso per le strade…», e chi rinforzava d’idiozia molesta: «…Sì, è poi l’azienda dovrebbe dotarsi di un operaio super specializzato, il KiloWaccaro…».

La «deriva cazzatoria» era innescata e ormai nulla la poteva contenere. Una cosa che però mi sono dimenticato di aggiungere è che, forse, per difendersi dagli effetti molesti della puzza di stalla vagante per le strade al tuo fianco come un ingombrante compagno di viaggio, l’unica via di scampo sta nell’utilizzo di qualche prodotto repellente apposito.
La marca? Ma Johnson Wacc, ovviamente.

mercoledì 27 luglio 2011

Old poplar has gone away


Il vecchio pioppo non c’è più. Anzi: «…la vècia piòpa…».

E’ curioso come tanti tipi di albero, passando dall’italiano al dialetto gillipixilandese, risultino femminilizzati: il noce diventa la “nu’z”, l’albicocco la “burgnàga”, il ciliegio invece è la “sré’za”. Ora che ci penso, forse questa legge grammatical-botanico-vernacolare scatta solamente nel caso delle piante da frutto. Giustamente, l’immaginazione popolare le avrà da sempre associate alla fertilità, alla trasmissione della vita, sarà per questo che ha trasformato il loro genere forzando la normale classificazione prevista dalla lingua ufficiale.

Stando a questa regola però, non si spiegherebbe come mai il pioppo sia stato anch’esso linguisticamente mutato da maschio in femmina. Forse perché il pioppo per le zone lungo il fiume è sempre stato fonte di sostentamento per le famiglie, con la sua legna che si forma in tempi relativamente rapidi ed è presto pronta per essere smerciata. Il suo frutto è da sempre il suo legname ed esso ha rappresentato il corrispettivo del maiale nel mondo della flora, rapido a crescere ed interamente utile, dalle foglie al tronco. Ho saputo che dalla sua linfa, i nostri vecchi ricavavano addirittura una sorta di linimento buono per tanti mali ed acciacchi.

Oppure, beffardamente, il suo frutto fittizio sono anche quello strambo fenomeno che va sotto il nome di “piumini”, sintomo delle sfumature anche scherzose presenti nell’«indole» di questo albero. Il pioppo da una parte si piglia il privilegio della “femminilizzazione”, ma poi l’unica parvenza di frutto effettivo che riesce a sganciare è una sorta di fasulla nevicata primaverile, per niente adatta ad allietare i palati con fruttifere dolcezze saccarine, bensì capace tutt’al più di far incazzare interi eserciti di nasi allergici.

I vecchi boscaioli d’un tempo passavano le loro giornate fra i filari ordinati di pioppi allineati nei campi limitrofi alle acque fluviali, a raccogliere quello che il bosco poteva offrire nelle diverse stagioni. Sempre appesa alla cintola, sul fianco, la fedele “rampina”. Una specie di “machete” ricurvo in punta, che non abbandonavano mai, nemmeno quando entravano all’osteria e si sedevano intorno al tavolo per una briscola, come una sorta di cow-boy campagnoleschi, seduti per la loro mano di poker e rassicurati da un tocco di dita sulla colt, sempre a portata nella fondina.


Il pioppo è forse l’albero che meglio riflette il carattere della mia terra. Non è molto appariscente quanto a fattezze, non si pavoneggia in fioriture particolarmente spettacolari, ma possiede una sua bellezza austera ed in qualche modo speciale. Certe sue varietà, quando presentano il dorso argentato della foglia alle possenti brezze che di tanto in tanto s’incanalano lungo in grande imbuto del fiume, ricordano lo sfavillio multicolore del cimiero di valorosi cavalieri medievali completamente assorbiti nella sempiterna tenzone ingaggiata fra le forze della natura.

Poi il pioppo sopporta bene l’umidità. Addirittura, in tanti casi rappresenta l’unica soluzione agricola possibile nelle ampie distese di terra in balia delle periodiche inondazioni del fiume. Laddove ogni altra coltura soccomberebbe sotto i flutti, il pioppo se li lascia scivolare paziente lungo il tronco, incurante di qualunque ira alluvionale.

Il pioppo è protagonista del mio panorama fin da quando ero uno sbarbatello alto un metro e niente. Sopra la corona dell’argine, i gruppetti di pioppi formano spesso delle folte chiome verdi ondeggianti al vento ed era fiancheggiata da pioppi anche la casa vecchia in cui sono cresciuto. Con la sua generosa ed affusolata estensione in altezza, il pioppo è facile vittima di raffiche temporalesche e di fulmini. Quando si spezza in seguito alla furia degli elementi, non so a causa di quale fenomeno chimico-botanico, può capitare che la sua fibra bianca interna scoperta dallo schianto, risulti velata di una sfumatura che ricorda vagamente il sangue. Addirittura, anche la carne del pollo ormai severamente prosciugata in lunghe ore di bollitura per ricavarne il brodo della domenica, nella stoppacciosa asciuttezza delle sue candide fibre, in gillipixilandese viene familiarmente chiamata «piòpa».

Una di quelle notti lontane, si abbatté un grosso temporale sulla casa vecchia e su tutto il mio mondo infantile. Alla mattina, noi bimbi rinvenimmo dei frammenti di grossi rami e di corteccia di pioppo, maltrattati dagli eventi e precipitati violentemente al suolo, per di più intrisi di quello stupefacente sangue vegetale. Nella nostra ingenuità immaginifica bambineggiante, volemmo inscenare una sorta di funerale vegetale per il povero pioppo. Come succede nelle faccende di quell’età, ricordo la leggerezza fantasiosa attivata per l’occasione, ma nello stesso tempo, anche la serietà dei sentimenti spesi nel corso dello svolgimento di quello strano rituale. Nella consapevolezza della finzione, nondimeno esprimevamo a nostro modo una buffa e giocosa religiosità, come i rappresentanti senza tempo di un ludico primitivismo, radicato in chissà quali profondità ancestrali.

Di pioppi era coronata anche la casa nuova in cui andammo ad abitare non molto tempo dopo. Lo spazio per l’edificio era stato ricavato giusto giusto levando il necessario riquadro di piante, ma per il resto il campo rimase per qualche anno ancora tutto costellato da quella incombente presenza vegetale. Tutti gli alberi parlano, quando le loro fronde stormiscono nel vento, ma il modo di parlare del pioppo è particolarmente elegante. La nuova casa era in questo modo spesso immersa in un armonico coro arboreo e potete immaginare cosa potesse significare tutto questo agli occhi perennemente meravigliati di un bambino.


E’ stato in virtù di tutti questi ricordi che ieri mattina, quando le motoseghe si sono alternate in una rapida sarabanda potatoria, riducendo nel giro di poche ore il grande pioppo di fronte a casa in un mucchio di trucioli e grossi ceppi, tutto ciò non è stato un evento qualsiasi. Pur sapendo che era necessario, per il pericolo che ormai, ad ogni nuovo violento temporale, la pianta rappresentava con la sua minacciosa mole, così prossima alla strada e alle case vicine, non poteva essere un fatto qualsiasi. Di pioppi belli ce ne saranno ancora tanti, tutto intorno qua, ma questo era il mio e in qualche modo la sua voce mi mancherà. Con la sua ombra mi ha salutato fedele ogni giorno, andando verso scuola alle elementari, tornando da scuola alle medie, sbiciclettando verso la corriera per andare in città, al liceo e poi ancora smacchinando verso l’università. I suoi sospiri si sono uniti ai miei nel profondo delle notti, rimettendo l’auto in garage di ritorno dalla discoteca, dove regolarmente non avevo beccato niente, se non qualche due di picche o platonici allupamenti.

Non dev’essere un caso allora nemmeno il fatto che pioppo in latino si dica “populus”. Un popolo al quale anche io un po’ mi sento di appartenere.

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Post Scriptum:
Pur essendo perfettamente consapevole della differenza fra flora (mondo vegetale) e fauna (mondo animale), non so come mai nel mio cranio alberga inveterato un ancestrale lapsus che mi fa confondere continuamente le due cose. Lo strano fenomeno si è verificato anche nel presente testo, in cui avevo scritto due o tre volte "faunistico" riferendomi però ovviamente al mondo vegetale. Ora ho corretto queste sviste con sinonimi o perifrasi all'uopo, ma volevo che restasse in ogni caso traccia del mio errore in queste due righe di precisazione, a beneficio di chi magari se ne fosse accorto prima della correzione.
A presto, a tutti!


sabato 23 luglio 2011

Le foto che non colsi


Credo che si possa imparare qualcosa sulla fotografia anche semplicemente guardandosi intorno. Con questo non voglio sostenere una sorta di “purezza autodidattica” da seguire a tutti i costi. Fare corsi, studiarsi manuali, imparare le potenzialità tecniche dello strumento utilizzato, seguire i consigli degli esperti, tutto ciò rimane sempre la strada maestra. E magari se mi fossi impegnato in qualcuna di queste attività pure io, ora saprei tirare fuori foto più interessanti dal “mare magnum” del “fotografabile universale” che mi circonda. Soprattutto, riuscirei a realizzarle tecnicamente meglio.

Avere un occhio fotograficamente allenato è tuttavia un’altra questione. Possedere la propensione fotografica nello sguardo, ecco come definirei questo atteggiamento. E’ questa la parte “didatticamente” meno trasmissibile nell’arte del fermare le immagini, essendo appunto anche quella meno codificabile e circoscrivibile con precisione.

Quando si inizia ad interessarsi di foto in maniera non banale, quando si riesce a subodorare in cosa diavolo consista quel meccanismo magico capace di trasformare in “bloccatore di attimi” anche il meno pretenzioso dei fotografi, allora ci si rende conto di come le foto “non scattate” siano altrettanto importanti di quelle effettivamente fermate sulla pellicola o fra i pixel. E’ infatti da quel momento in poi che si viene presi dalla deliziosa ossessione di affibbiare continuamente alla realtà un “taglio fotografico”.

Mi capita di continuo, mentre sono in giro, di osservare una scena che sarebbe stata meritevole di uno scatto. Dal momento che non si può avere sempre e perennemente a portata di mano la macchina fotografica, va a finire che le foto rimaste irrealizzate sono molto più numerose di quelle scattate per davvero. Oppure, le foto possono sfuggire anche quando si è lì con la macchina in mano, prontissimi allo scatto, ma la realtà si rivela ancora più veloce della nostra eventuale tempestività. Le foto “non fatte” non vanno tuttavia del tutto perdute. Esse possono in ogni caso rivelarsi significative, perché rappresentano continue mini-lezioni di fotografia alle quali abbiamo l’opportunità di assistere.

In fondo, a quale tipo di operazione diamo vita quando scattiamo una foto? Cos’altro facciamo, se non “mettere in sospeso” una certa porzione di realtà che è venuta assumendo in quel preciso attimo un assetto formale del tutto particolare?

Nell’attività ordinaria dell’osservare quotidiano, ci scorrono continuamente davanti allo sguardo migliaia di scene. Quand’è che succede di coglierne una meritevole di essere fermata fotograficamente?

Per cercare di spiegare come la vedo io, mi piace servirmi di una metafora. Il nostro campo visivo è come una sorta di lavagna “a caratteri mobili”, sulla cui superficie scorrono di continuo raggruppamenti di lettere. Righe, colonne, annuvolamenti, rasserenamenti, condensazioni e rarefazioni di lettere. Queste lettere sono l’insieme degli stimoli visivi che continuamente riceviamo. Nel normale scorrimento del nostro vedere, possono presentarsi con un certo ordine e anche ben armonicamente distribuite. Nell’angolo alto a destra, può far bella mostra di sé una nuvoletta di “a” ben disegnata; al centro si possono delineare delle righe di “m” e di “c” alternate, tutte in bella disposizione geometrica; e così via.

Ma è soltanto a certe condizioni che queste lettere si allineano, si organizzano, si dispongono figurativamente, finendo per dare forma a vere e proprie parole degne di essere immortalate in foto.

Non mi riferisco a “parole” intese nel vero senso del termine, ovviamente: non si dimentichi che ci troviamo pur sempre nel bel mezzo della mia sgangherata metafora. Non sto parlando insomma di vocaboli dotati di un significato codificato, di gruppi di lettere già collezionate in un dizionario. In questo caso, chiunque potrebbe diventare un grande fotografo, perché riconoscere le parole di volta in volta sarebbe un gioco da ragazzi. Facile come parlare o leggere, appunto. Si tratta invece di “parole visive” ad interpretazione aperta, ma nondimeno capaci di evocare “pregnanze significative” di rilievo, una volta assorbite dal corredo culturale ed emotivo dell’osservatore. Non c’è una scuola che possa insegnare il linguaggio di queste parole. Non c’è ricetta precisa, né prescrizioni definite una volta per tutte. Si impara a coglierle con l’esperienza visiva e sviluppando una sensibilità per la continua osservazione.

Questo è quanto per oggi, cari amici viandanti per pensieri, ma prima di chiudere, vi dico ancora un paio di piccole cose. Innanzitutto, debbo precisare che la mia metafora della “lavagna mobile” è fortemente debitrice ai concetti di “studium” (la nuvolaglia di lettere) e di “punctum” (le medesime lettere organizzate in parole), elaborati da Roland Barthes nel suo affascinante saggio sulla fotografia, intitolato «La camera chiara» (Einaudi, 1980). Se dunque volete sapere qualcosa di serio sulla fotografia, vi rimando alla lettura del medesimo.

In conclusione poi, vi devo confessare che tutto questo sproloquio ve lo sareste potuto serenamente evitare, se una delle scorse mattine non mi fosse successo di vedermi sfumare sotto gli occhi una bella foto. Guidavo nella brughiera di Gillipixiland e mi rimiravo il paesaggio che lentamente andava svelando i suoi colori alla luce incipiente dell’alba (sempre con un occhio guardingo al fosso, naturalmente…). Lo scenario era quanto di più armonico ed elegante sapessero offrire le potenzialità paesaggistiche Gillipixilandesi, ma niente di più. Strada facendo, ci si è messo anche un grazioso stradello ghiaiato, a fendere piacevolmente l’ampio respiro della distesa verde di un bel prato rigoglioso. Ma tutto rimaneva pur sempre nei confini di una abituale distribuzione di “lettere visive” sulla lavagna dello scenario che mi scorreva davanti.

Quand’ecco, tutto ad un tratto, quelle “lettere” si sono organizzate in una “parola”: la stradina bianca è stata lentamente percorsa da un vecchio “Maggiolone Wolkswagen”, proprio un modello originale, probabilmente degli anni ’70, neanche tanto ben tenuto. Dimostrava insomma con fierezza tutti i suoi gloriosi trascorsi automobilistici.

Si fosse trattato di qualsiasi altro automezzo contemporaneo, nulla sarebbe mutato nella “uniformità letterale” della lavagna. Invece, tutte le “implicazioni vintage”, l’accumulo di ricordi e il contrasto di epoche innescato dalla vetustà motoristica epifanicamente manifestata nel mezzo di quello sfondo naturale, sono state la molla sufficiente a far “parlare” quella scena. Non avevo sotto mano la macchina fotografica ed anche avendola avuta, non avrei potuto scattare, essendo impegnato nella guida. Non me ne rammarico però, perché anche questa è rimasta un’importante foto “non colta”, fra le tante.

Che poi, volete mettere la soddisfazione di non essere andato nel fosso?

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E adesso, a proposito di vintage, beccatevi questa secchiata di melassa anni ’70…

martedì 19 luglio 2011

Intrecci di parentele archetipiche


Sapete cosa sono le “capacità attentive”?
A dire il vero, non è che lo sappia tanto bene nemmeno io. E magari farei meglio ad evitare di venirmi a bullare qui fra di voi, atteggiandomi a gran saccente. Ma si dà il caso che sentii parlare di questa nozione parecchio tempo fa ed essa da quella volta è sempre rimasta fra i miei beniamini concettuali. Più precisamente, fu un libro di psicologia che me la fece scoprire.

Della psicologia, mi ha sempre lasciato “Holdenianamente” di stucco (in un senso giovanile alla Holden Caulfield…) quel suo saper svelare faccende che per gran parte sapevi già, pur quasi non sapendo di averle sapute fino a quel momento. Il meccanismo è naturale, perché ovviamente le tematiche dei suoi studi sono sempre aspetti familiari del vivere, comuni a ciascun umano. Ma soltanto quando la psicologia scosta quel “velo” che li confonde e li camuffa nella nostra consapevolezza, ci si rende conto di non averli mai messi a fuoco così nitidamente prima di quell’attimo.

Ecco, per fare un esempio pecoreccio, buttandosi proprio in un parallelismo metaforico degno del mio immaginario “rozzesco”, potremmo dire che la psicologia sa rivelare verità apodittiche paragonabili all’evidenza preclara della seguente affermazione: “…le tette sono una delle grandi meraviglie della natura…”. Che è una cosa che tutti sanno, pur non rendendosene conto fino in fondo in questi termini precisi.

Ma bandendo le ciance, veniamo dunque alle “capacità attentive”.
Il concetto, detto un po’ in sintesi gillipexevole bestialis, si può sunteggiare nel seguente modo: la facoltà umana di prestare attenzione agli stimoli esterni, filtrandoli attraverso i sensi, è in qualche modo quantificabile e limitata. In particolare, esiste un tetto di stimolazioni che la nostra percezione è in grado di filtrare, oltre il quale molto del materiale sensoriale che ci investe, se ne va perduto. In pratica la nostra attenzione la possiamo vedere come una sorta di imbuto: dall’imboccatura ci può passare solo un certo quantitativo di stimoli, mentre il resto deborda inevitabilmente fuori, senza centrare il bersaglio, ossia senza andare ad imbibire il nostro cervello e la nostra consapevolezza.

L’esperimento che ricordo abbinato all’indagine di questa proprietà percettiva, era eseguito con dei giocatori professionisti di pallavolo. A questi veniva affidato il compito di ricevere il pallone battuto da un collega. Il giocatore in ricezione era chiamato inoltre a far fronte a diversi stimoli “attentivi distraenti”: doveva ad esempio sentire delle frasi da una cuffietta posta sulle orecchie, col compito di memorizzarne il più possibile, o era sottoposto ad altre simili modalità di impegno per la sua attenzione. Alla fine, gli sperimentatori, basandosi sulla percentuale di errore espressa dal giocatore nel ricevere la palla, potevano stilare dei veri e propri campionari di “misure distraenti”, stabilendo anche la maggiore o minore efficacia di un certo tipo di battuta.

Ecco, come quasi sempre capita ad ogni caro amico viandante per pensieri che s’imbatta nella lettura dei miei scribacchiamenti, a questo punto immagino che la considerazione sarà salita spontaneamente alle labbra di ciascuno: «…Sì, va beh, ma tutto questo che minchia mi rappresenta?...».

Il fatto è che tutta la questione delle “capacità attentive” mi è balenata alla mente una di queste sere, mentre scribacchiavo e canticchiavo, con la radio accesa in sottofondo. Ho allora riconsiderato per l’ennesima volta un fenomeno a me già ben stranoto: cercare di inseguire un motivetto, mentre un’altra musica ci depista sotto sotto, è una piccola ardua impresa. Si fatica parecchio e per ben che vada, dalla nostra capacità di riproduzione melodica (sia fischiettando, sia a voce), esce fuori un ibrido “stonaticcio” ed informe.

Questo mi ha fatto pensare che una tipologia di “distrazione attentiva” molto simile si verifica anche con i numeri: vi sarà capitato di contare o di eseguire anche piccoli calcoli, mentre in sottofondo vengono pronunciati altri numeri e cifre “distraenti” da altre persone. Il disagio esecutivo e l’impedimento operativo sono in tutto e per tutto “totalizzanti”, così come accade nel caso della musica.

Non è solamente questione di affinità del “materiale significante” che va ad interferire. Anche con le parole, per dire, succede qualcosa di simile. Ma con la parola, le nostre facoltà attentive hanno qualche via di scampo in più. Ad esempio, mentre si sta leggendo o scrivendo, c’è la possibilità di isolarsi in qualche modo dal depistaggio di altre persone che parlano. Chi ha l’abitudine di leggere in treno, lo può constatare agevolmente quando gli pare.

Coi numeri e con la musica invece no. Le scappatoie sono pochissime, se non nulle. Questo rappresenta forse una bislacca conferma, da me or ora confezionata, a quanto vanno dicendo da secoli pensatori ben più esimi del sottoscritto gillipixante. Per ricordarne solo uno, basta citare Pitagora (e scusate se è poco…), che aveva già colto ai suoi tempi la strettissima affinità fra i ritmi matematici e quelli musicali.

La musica e i numeri sono dunque non soltanto strettamente apparentati, ma hanno in comune anche questa loro proprietà di saper entrare in risonanza in misura molto profonda. Sono come “mattoncini di significato” che si attraggono irresistibilmente per andarsi ad incementare nel loro muro armonico di turno.

Concludo sottolineando che tutte queste considerazione le devo al digitale terrestre. A cosa è servita infatti l’introduzione di questa nuova forma di trasmissione del segnale televisivo? Ci ha portato tanti nuovi indispensabili canali di vendita di tappeti e prodotti dimagranti. Quelle due o tre reti che poi m’interesserebbero davvero, s’interrompono sempre a metà serata in un tripudio di quadratoni e scoppiettii che preannunciano il regolare oscuramento definitivo. Allora devio il telecomando sulle stazioni radiofoniche, ed è lì che comprendo l’importante ruolo del digitale: fare riscoprire il piacere di sentire la radio.

E’ stato giusto ascoltando la radio disponibile sui canali digitali della tv, che le riflessioni su numeri e musica mi hanno colto. La radio: anch’essa portatrice, per riprendere un tema di alcuni articoletti fa, di un fondamentale archetipo senza tempo, qual è l’atto del lasciarsi trasportare con l’immaginazione dal suono di una voce narrante o “melodiante”.



giovedì 14 luglio 2011

From house watcher to platonic-porn-star


A parte il carezzatore e grattinista professionale di gatti, oppure l’attore porno-platonico (e dopo vi spiego cos’è), fra i mestieri che più mi piacerebbe fare da grande c’è anche l’«osservatore itinerante di case». Sempre per via del discorso che non ritengo per nulla di essere diventato ancora grande.

Gustarsi la vista di case ed edifici di vario genere mentre ci si muove in mezzo ad una città o si “serpentineggia” lungo i flussi ambientali di un paesaggio, è attività molto gratificante in ordine alla sua proprietà evocativa.

Sono convinto che nei primi anni della propria vita, ciascun essere umano riceva una sorta di “imprinting” architettonico dalle case nelle quali si ritrova a vivere il suo tempo. Ci sono dei dettagli, delle particolarità, talune componenti specifiche degli ambienti in cui si dipanano le fasi cruciali della nostra formazione personale, che si fondono così indissolubilmente a certe sensazioni e percezioni profondamente assorbite da fonti di altra natura, tanto da formare un substrato inconscio che ci accompagna poi per tutti gli anni a venire (uhm…forse il discorso non suona proprio così nuovo. Marcel Proust: chi era costui?).

Una componente fondamentale del mestiere di «osservatore itinerante di case» (se regolarmente iscritto all’albo dei professionisti del “divertirsi con poco”), è la velocità con la quale ci si muove entro il panorama del proprio osservatorio. In questo senso, si determinano tre tipologie di «osservatori itineranti di case»: l’appiedato, il “biciclettato” e il motorizzato (quest’ultimo anche nella fondamentale variante del “trenizzato”).

L’osservazione di case praticata muovendosi a piedi è paragonabile alla lettura di un lungo romanzo, magari di quelli ottocenteschi, belli “tomeschi” e ricchi di personaggi a fiume. Lo scenario ideale in questo caso è l’ambiente urbano. Il profilo di un balcone si staglia in fondo all’imbuto visivo di un borghetto; una certa decorazione incornicia una sequenza di finestre; attraverso un portone semichiuso, la penombra misteriosa lascia intravedere l’antro di un giardinetto tutto verzure, sprizzante cure amorevoli da ogni ordinata fogliolina.

I dettagli si sommano fra di loro, mescolandosi a suggestioni interiori, delle quali nemmeno sapremmo rendere conto in termini espliciti e diretti, vaghe impressioni rimaste chissà come appiccicate a quelle fattezze edili, magari già viste in forme analoghe, chissà quando e chissà dove, in chissà quali altre occasioni, fino a quando nei nostro pensieri prende vita un racconto non lineare, ampio, nel quale è bello lasciarsi trascinare, quasi smarrendosi in esso.

Osservare le case muovendosi in bicicletta è invece una prerogativa più strettamente “campagnolesca”. Non solo per il fatto che in città, distraendoti quel filo più del dovuto, corri il non trascurabile rischio di venir arrotato senza tanti complimenti. Ma soprattutto per le fondamentali implicazioni legate alla velocità. Pur essendo ridotta nel caso della bici, questa è già sufficiente per far esigere spazi più ampi alla “degustazione architettonica” e per trasformare l’osservazione di case in una sorta di ben più snella lettura di racconto. C’è meno tempo per attardarsi sui dettagli, bisogna essere più selettivi nel coglierli, il motivo conduttore della storia deve imporsi con più celerità ed evidenza, ed inevitabilmente il senso del nostro “assorbire forme” passa proprio dai modi ampi e dilatati del romanzo, a quelli nervosi, scattanti, del racconto.

C’è poi l’osservatore di case motorizzato. Qui l’assorbimento di fogge architettoniche ha la proprietà di evocare effetti mnemonici e suggestivi a raffica. L’osservazione di case praticata su mezzi ad alta velocità può veramente concretizzarsi in una scorpacciata di emozioni non comune. La cosa assume poi tratti ancor più peculiari nel caso del treno, per via della linearità del moto e della possibilità di inquadrare lo scenario degustato entro la cornice stabile di un finestrino ampio. In treno, osservazione e pensiero scorrono dapprima su due flussi paralleli indisturbati e, lasciandosi gradatamente andare, ci si accorge che dopo un po’ quei flussi si sono fusi, sempre a patto di non farci caso più di tanto, per non far svanire l’incanto. Quasi inutile precisare che se a piedi era un romanzo e in bici un racconto, con questa ultima modalità di movimento elevato, l’osservazione di case si trasforma nella visione di un film.

I dettagli architettonici che sanno suscitare in me ricordi profondissimi e remoti sono una miriade. In modo particolare, sono sensibile alle case diroccate, ma non saprei dirvi bene perché. Le case mezze crollate, quelle dove rimane in piedi qualche mozzicone di muro, oppure con le pareti ancora piuttosto integre, ma con grandi sbrecciature. Forse il fascino che, promanando da esse, finisce per catturarmi sta nel loro essere situate ormai in una dimensione che va “oltre il dolore e l’affanno umano”. Immagino le generazioni che vi hanno abitato, le mille gioie e preoccupazioni che hanno albergato fra quelle mura, e che un tempo furono sentimenti immensi, talvolta anche sconvolgenti, all’apparenza insormontabili persino. E comparo tutto questo alla quiete odierna di quei mattoni ormai saggi, ormai familiari ad ogni evento, ormai scafati dal tempo, per averne viste di tutti i colori, sotto ogni clima.

Non deve stupire il fatto che dei muri cadenti possano fornire materiale utile per l’osservatore di case. Egli sa che non deve aspettarsi solamente sensazioni edulcorate o rassicuranti. Deve farsi trovare pronto a leggere negli oggetti della propria contemplazione, non solo gli aspetti piacevoli, ma anche la “durezza del vivere”. In ogni caso, il suo occhio deve rivolgersi sempre con estrema sincerità d’animo a muri, tetti, strade e compagnia architettonica bella, che di volta in volta si appresta a rimirare. Questa è l’unica e primaria regola deontologica alla quale lo scrupoloso osservatore di case deve attenersi.

Un altro dettaglio architettonico per me molto fascinoso, ma della cui origine suggestiva vi so rendere conto ancor di meno, sono quegli altissimi monocoli di finestra oblunghi e verticali, che da un certo periodo in poi (diciamo metà ‘900, anche se non sono di certo un’invenzione, né una novità di quel secolo) si è cominciato a posizionare sulla parete che fiancheggia esternamente il vano delle scale di casette, condomini, o ville. Queste finestrature allungate in elevazione mi hanno sempre trasmesso un’idea di possibilità, l’eventualità di poter avere “accesso spirituale” alla casa che su cui sono appiccicate. Sono come degli spaccati ideali, anche se poi di fatto non lasciano intravedere nulla dell’interno. La forza evocativa di queste alte finestre dev’essere anche legata al loro parallelismo con la scala, che a sua volta rappresenta una sorta di sonda d’esplorazione verticale di tutto l’«umore» dell’edificio.

Ma troppo ci sarebbe da dire, cari amici viandanti per pensieri, sulle sfumature edili dalle quali un appassionato osservatore di case può lasciarsi trasportare con sommo diletto. Tante e tali, che faremmo notte. Non mi rimane dunque che chiudere qui il discorso ed augurare per adesso buonanotte ai suonatori.

Ah, no, scusate…quasi dimenticavo. Vi avevo promesso d’illustrarvi in cosa consiste la professione dell’attore porno-platonico. Il genere cinematografico in questione non è ancora noto, attualmente. Entrerà in voga grosso modo verso la metà del presente secolo. Questi film, a dispetto della loro definizione, fanno dell’assenza totale del sesso esplicito, la propria forza narrativa. Nei film porno-platonici il sesso è assolutamente implicito. I protagonisti sono persone pressoché normali, coi loro sani appetiti ed istinti. Per la loro inveterata ed inguaribile ritrosia e timidezza, tuttavia, non riescono mai a battere chiodo. I protagonisti si rincorrono, si cercano, si desiderano anche parecchio, ma per un motivo o per l’altro il loro desiderio rimane sempre potenziale ed inespresso. Le storie sono così continuamente attraversate da una tensione erotica fortissima, che mai si concretizza, mai è portata a compimento.

Ma perché definirli anche con la parola “porno”? Perché come nei film pornografici tradizionali, anche in quelli platonici sono raffigurati accadimenti del tutto irreali o perlomeno altamente improbabili in un’ambientazione che ambisca ad avere una minima parvenza di verosimiglianza.

O no?

martedì 12 luglio 2011

Fra il nulla ed il mondo, io

"...Who loves the wind
Who cares that it makes breezes
Who cares what it does
Since you broke my heart..."

"Who loves the sun"
The Velvet Underground - 1970


Cari amici viandanti per pensieri, vi chiedo di portare gentilmente un po' di pazienza in questo periodo di Gillipixel magri. E nella speranza che mi torni presto un cencio d'idea per scarabocchiare due righe degne di questo nome, vogliate gradire questi quattro estemporanei versi animaleschi...

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Fra il nulla ed il mondo, io

Di tanto in tanto mi capita.
Mi sento esattamente una nullità,
l'ultimo scarto di cui nemmeno il mondo non si capacita,
un refuso dell'umanità.

Ma tutto questo non mi fa paura.
Nessun altro, se non io, desiderei essere nel mondo intero,
ed è proprio lì che sta l'ammaliante e tormentosa fregatura:
di me stesso vado comunque fiero.

martedì 5 luglio 2011

Teleselezione naturale


Credo che di fronte a certi strumenti della modernità, non smetterò mai di provare impressioni e sentori di fondo simili a quelli di un selvaggio primitivo, mezzo impaurito e mezzo affascinato, nella sua animata e fantastica percezione del mondo, da diavolerie inzeppate di spiriti ed entità misteriose.

In questo senso, il mio più grande tabù tecnologico è sempre stato il telefono.

Ripensavo un po’ a questo fatto nei giorni scorsi, dopo aver ricevuto una telefonata da uno di quei colleghi che non disdegnano il molesto vezzo di replicare al tuo “…pronto?...” di circostanza, con mozziconi e lacerti di un’altra conversazione nel frattempo già intrapresa, sul breve intervallo dei tre o quattro squilli intercorsi, con altri suoi vicini di scrivania, lasciandoti per alcuni secondi in mezzo al guado dell’incertezza comunicativa.

E’ stata proprio l’usuale amletica titubanza che mi coglie in questi casi, in bilico fra l’opzione del pazientare con educata disposizione d’animo e la drastica alternativa di avvalermi della legittima facoltà del “fanculare” in libertà, a farmi meditare sul mio atavico e controverso rapporto con la cornetta.

Saldamente innestati nella consuetudine “campagnolistica” più ancestrale, a casa mia, fino a che son stato bambino e poi anche un po’ oltre, non abbiamo mai avuto il telefono. “Villa Pixel” non è mai stata un crocevia di informazioni talmente trafficato da far nascere l’esigenza di avere a portata di mano quella bizzarra protuberanza “auricolo-vocale”. Le cose più importanti da dire erano per lo più riservate alle tre o quattro famiglie affacciate sul cortile comune, e per loro era sufficiente dare una voce più vigorosa del solito, che subito qualcuno si presentava alla porta per sapere se c’era bisogno.

Per eventuali contatti coi parenti di città, c’era la cabina telefonica pubblica, in uno dei bar del paese. Nella mia fantasia di bambino, la vedevo come una sorta di capsula spaziale a tenuta stagna, dentro la quale ci si isolava dal mondo, immersi in uno strano odore ovattato, un misto di afrori plastici, aromi metallici ed in parte anche profusioni umane di varia natura. Non che io ci abbia mai parlato veramente dentro a quella cornetta comunitaria, però alcune volte mi capitò di accompagnare qualche adulto della famiglia.

In quei casi, si verificava sempre questa piccola magia del passaggio dal frastuono ciarliero perennemente aleggiante intorno alla verde chiazza del panno da biliardo, all’attutito antro di contatto con le care persone che vivevano lontano. La pesante porta si chiudeva con un fruscio soffiato ed io mi ritrovavo sotto l’ala protettrice dell’adulto di turno, a contare i forellini sulle pareti di lamiera, cogliendo qua e là frammenti di quella conversazione nata lontano, che non sempre comprendevo fino in fondo.

Quando si presentava invece la necessità di dare adito al flusso comunicativo nella direzione opposta, ossia dal mondo verso “Villa Pixel”, ne potevano nascere anche episodi buffi. Un giorno eravamo tutti nel campetto vicino a casa, a ripulire con la zappa le neonate pianticelle di melica (leggi “mais”), nella mal riposta speranza di farle fruttare novemila lire in perdita, anziché le solite quindicimila, quand’ecco che sul limitare dell’orizzonte “granoturchese” si affaccia il figlio del barista. Nelle mie reminiscenze bambinesche, costui è sempre rimasto impresso come una classica “icona anni ‘70”, una via di mezzo fra un cugino di ottavo grado dei Bee Gees ed il protagonista dell’improbabile pellicola «Gillipixiland violenta: i bifolchi sparano letame, la polizia risponde picche».

Zazzera fluente e camicia quasi sempre spalancata sull’irsuto zerbino pettorale, lo potevi vedere indifferentemente assiepato dietro il bancone del locale, oppure mentre inforcava la sua rimbombante Ducati tutta cromature e pellami di guarnizione, sempre sfoderando il medesimo sguardo assente d’ordinanza, semi nascosto dietro il sipario dell’abbondante ciuffo.

C’era stata una chiamata per noi alla cabina pubblica e il figlio del barista veniva a riferirlo a mio babbo. La cosa fantastica però fu che nella sua “volpesca” sveltezza, non si era annotato né chi aveva chiamato, né da dove, né si era fatto riferire uno straccio di argomento attraverso cui poter avere una minchia d’indizio da riuscire, eventualmente, a richiamare. L’unica acutissima indicazione che riuscì a fornire, rifulgendo nel massimo candore del suo proto-moderno medievalismo post-sessantottino, fu riassunta tutta in questa sua frase: «…i’ parevan lé svéń…» («…sembravano lì vicini…»). Come se dal volume della voce nella cornetta, si fosse potuto desumere la distanza del luogo da cui proveniva la chiamata. Genialità “panevolpistica” pura!

Tempo dopo, ormai facevo già il liceo, si decise che anche casa nostra avrebbe avuto la sua bella coda telefonica attaccata al resto della civiltà. Un mio amico di scuola mi chiamò dalla città per “invenare” il flusso comunicativo, e fu allora che mi resi conto del mio disagevole rapporto con lo strumento. Già non sono mai stato un fulmine di loquela, ma con l’orecchio appeso a quella protuberanza “cornuta” risultavo smodatamente impacciato. Mi mancava l’appiglio dei gesti, delle espressioni del viso, cinture di sicurezza indispensabili per un timido preso in mezzo al turbine di un dialogo. La mia voce, spietatamente gettata dentro l’imbuto bucherellato del microfono telefonico, mi rimandava le stesse sensazioni rassicuranti che si possono provare sul ciglio di un dirupo a strapiombo su tre chilometri di vuoto.

Era la prima telefonata della mia vita, alla bellezza di 16 o 17 anni più che suonati. Il giorno dopo non mi presentai a scuola: avevo la febbre. Fu senz’altro una coincidenza, ma il dubbio che anche l’emozione del mio debutto telefonico avesse giocato un ruolo nel far salire la temperatura, mi è sempre rimasto.

Col tempo, sono leggermente migliorato, come oratore telefonico. Ma i difetti di base mi sono rimasti tutti, belli intatti: quasi regolarmente sbaglio i tempi della conversazione, parto a parlare quando non devo, sto troppo zitto quando non servirebbe, mi sovrappongo all’interlocutore oppure lascio troppi vuoti. La mia specialità poi è l’imperizia conclusiva: sono sempre in estrema difficoltà con le frasi di commiato, tanto che i miei congedi telefonici si concretano per lo più con titubanti ed insipide smorzate colloquiali, delle piccole Caporetto discorsive, quando non vere e proprie Waterloo dell’interurbana.

Ma come si dice, al mondo c’è di peggio…e insomma: imbranato nel parlare, pigro affetto da buonismo molesto, campagnolo difettoso, timido con un tono di voce impercettibile, passatista, asociale e adesso, si scopre, anche allergico alla dinamica telefonica…sono o non sono sempre più un uomo da sposare?