venerdì 29 giugno 2018

“Il Giuoco delle perle di vetro”, Hermann Hesse, 1943


Più che una recensione, alcuni pensieri sparsi (ma soprattutto: poi non dite che ve l’ho consigliato io, maledicendomi…).

Certi libri incarnano (o sarebbe più corretto dire “incartano”?) il Liceo classico della letteratura. Altri invece ne rappresentano l’ITIS.

Bando ai fraintendimenti: non sto facendo del “razzismo cultural-pedagogico” spicciolo. Si tratta soltanto di una metafora di metodo, e non di merito: esistono “capolavori-ITIS”, tanti quanti memorabili “libri-liceo”.

I libri che affrontano la narrazione da una prospettiva ITIS, si calano nei fatti vivi, fanno leva sulla bellezza architettonica della trama nei suoi incastri più fini, saggiano le dinamiche di incontro-scontro fra le personalità dei protagonisti. Il libro-ITIS si nutre insomma di fatti, guarda alla realtà immergendovisi, confondendosi con essa (un libro-ITIS capolavoro è ad esempio “Il giovane Holden” di Salinger).

I libri-Liceo invece si affidano alle grandi impalcature intellettuali, alle costruzioni mentali fascinose, alla prospettiva culturale vasta. I libri-Liceo sono insomma soffusi del sidereo impasto delle idee, trattano la realtà da alte quote.

Un bellissimo libro-Liceo è “Il giuoco delle perle di vetro” di Hermann Hesse.

È anche un grandissimo mattone, non possiamo negarcelo. Ma stupendo. Come possono concordarsi questi due termini apparentemente agli antipodi, mattone e stupendo?

“Il giuoco delle perle di vetro”, così come altri simili capolavori “di ampio respiro narrativo” (leggasi, volendo, “mattoni”), ci riconciliano con uno scorrimento più vasto del tempo.

Di rapidità, di fulmineità, di immediatezza, ne abbiamo fin che vogliamo, in questa epoca. Facebook, Twitter, il Frecciarossa, il viagra (battuta…), internet in genere, il poter balzare da un capo all'altro del mondo in poche ore…

L’ingrediente invece più scarso, in un certo senso quasi introvabile ormai, è invece una forma di temporalità distesa, allungata, comoda, a cui è concessa libertà di spaziare in lungo e in largo.

Lasciare respirare i pensieri a piena corsa, e non solo a singhiozzo. Far correre le idee fino al fondo della carica potenziale, inspirare a tutte sinapsi, allargare al massimo le maglie della riflessione per lasciar passare anche i concetti ingombranti e articolati.

Per tutto questo, un buon mattone, bello “peso”, ma di altissima qualità, è ciò che ogni tanto ci vuole.
“Il giuoco delle perle di vetro”, per esempio.

Con gran faccia da fondamento


Sempre da “I Vicerè” di Federico De Roberto, un'altra preziosità linguistica stavolta virante verso sfumature trivial-comico forbite.

Padre Don Blasco Uzeda è il più sulfureo e strabordante personaggio del romanzo.

Costretto a entrare in convento, fra i benedettini, per via di atavici e distorti meccanismi familiari che fra gli aristocratici destinavano a tale sorte i figli cadetti, è il vero e proprio “anti-frate” per partito preso e per ripicca socio-esistenziale sempre perseguita.

Don Blasco è un omaccione godereccio, collerico e attaccabrighe, dedito al gioco d’azzardo; “schiavazza” a destra e a manca per il quartiere intorno al convento, dove ha coltivato nel tempo una sua rete di ganze di fiducia, affezionandosi in particolare alla prediletta, la “Sigaraia”, alla quale ha pure dato un paio di corpulente figliole che sono la sua immagine sputata; si fa ricevere regolarmente anche in veste ufficiale a casa della Sigaraia, dove alla presenza del cornutaccio del marito, gli sono tributati tutti gli onori e il sommo rispetto religioso e gastronomico.

Don Blasco è un reazionario borbonico della più tignosa specie, e con i confratelli più propensi a una visione progressista e liberale, intavola furiose litigate verbali, sempre a rischio di sfociare in risse vere e proprie.

Nel corso di una delle più virulente di queste discussioni, invitato da un altro frate a leggere i giornali per informarsi meglio sui recenti “fatti risorgimentali”, don Blasco esplode in una sguaiata reazione:

“…Leggere i giornali?...Leggere i vostri giornali? […] …Ma dei vostri giornali io mi netto il fondamento!...Ah, no? Non volete capire?...Me ne netto il fondamento, così…” e fece il gesto…
Che superba definizione di un vile atto, per i più “fortunati”, quotidiano. E noi che lo avevamo sempre chiamato “pulirsi il c…”.

Nossignori, da oggi in avanti, molto don-blaschianamente, siamo tutti invitati a “nettarci il fondamento”, perché il domani sia migliore sin dai primi attimi del giorno.

giovedì 28 giugno 2018

Le grattugie del cielo



Dove il mattino ha fatto un gradevole contratto con l’argine, s'incontrano pochi metri di ombra, su una distesa di camminamento altrimenti sotto il sole a picco per un'infinità di passi.

Una particolare curva del terrapieno, coincidendo col breve addensamento di alcuni pioppi a ciuffo (un “ciuffeto”) più vicini degli altri, concede al viandante una piazzola naturale di sosta refrigerata a temperatura ambiente mitigata.

Fermarsi, ascoltare l’alito del vento sopra tutto corpo e sollevare gli occhi in alto verso il fronzuto stormire dei rami, è un tutt’uno.

Pochi dettagli della natura riesco a trovare altrettanto evocativi e poetici, quanto un lenzuolo di cielo intravisto attraverso il crivello di una tremula cortina di rami abbondantemente fogliosi.

Pochi altri spettacoli sanno condensare così bene in sé la suggestione del molteplice che si sintetizza in un tema conduttore equilibrato.

Pochi professori di storia dell’arte saprebbero spiegare con altrettanta chiarezza, come da Monet a Jackson Pollock, ogni grande autore non abbia voluto raccontare niente di diverso da ciò che dicono con estrema limpidezza questi sfarfallamenti giocosi di fogliame.

Le piccole foglie del pioppo, fremendo una contro l’altra di migliaia di piccoli fugaci contatti, sono una distesa di manine salutanti e fatte nacchere nel vento.

Una simile apparecchiata di triangoli di cielo ritagliati dal fogliame, da un certo punto della storia poetica in poi, non ha potuto significare altro che queste parole:

“…Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi…” (Eugenio Montale),

dove il confondimento fra acqua e aria viene concesso senz’altro e con minimo sforzo, per licenza immaginativa.

Osservare il cielo, dunque, fra le “cangianze” vorticose del capriccio vegetale.

Lasciarsi inondare da grattugiate d'azzurro, piovute addosso come uno scroscio di caos addomesticato.

Galleggiare nelle profondità d’aria fresca d’ebano umbratile, come palombari appesi allo stupore della superficie di galleggiamento che s’intravede lassù, ordinatamente geometrizzata di assoluto.

mercoledì 27 giugno 2018

Ciccia mente


Ginofino De Rifrondis si trovò un bel giorno con la mente zeppa di pensieri obesi. Com'è noto, i pensieri escono dalla mente transitando per un’apposita canaletta smista-pensieri.

Quando provavano ad affacciarsi sul mondo, i pensieri di Ginofino si accicciavano tutti sull’imbocco della canaletta, rimanendo prigionieri del loro flusso.

Gli consigliarono di usare “Lisciovìl”, il classico lubrificante concettuale che favorisce lo scorrimento delle idee. Ma anche così non funzionava. Un pensiero magari bello inviscidito dal prodotto ce la faceva ad incunearsi nel dotto espressivo.

Però poi per la compressione patita fra le pareti della conduttura, si caricava di energia cinetica esprimente in eccesso, e sguazzava fuori con la virulenza incomunicante di un wurstel cicciarduto spruzzato a mano da uno strizza-anguille professionale.

Loretta Remordicinis aveva il problema opposto. I suoi pensieri erano smilzi, smilzissimi. Talmente smilzi che s’immettevano nella canaletta comunicativa con una scioltezza smodata, fuoriuscendo in fiotti caotici e affastellati a fusillo di cartoncino top-secret passato nel trita-documenti spaghettatore.

In poche parole: Loretta si spiegava (si fa per dire) solo a pastasciutte discorsive.
Anche a lei fu consigliato un rimedio, lo “Stringatón”, un preparato d’erbe motivazionali atto ad aggregare le fibre ragionative in nuclei dialettici dalla corpulenza potenziata. Però anche questo non funzionava per niente.

Il nuovo esito consisteva solo in mappazzoni di risacca mentale rifrangentisi a ritmo sincopato come ondate sguaiate sul pastasciuga della litoranea che porta a Nonsensopoli.

Al mondo non c'è giustizia, ma nelle favole sì. E fu giusto appunto per giustificare la giustezza di tal giusta giurisprudenza, che Ginofino e Loretta si incontrarono un martedì mattina sul far del mezzogiorno in una piccola trattoria fuori mano di pochi piedi.

Dato l’esubero di avventori, per lo più camionisti obiettori di partenza e chimici nostalgici accorsi in città per la fiera campionaria dell’alchimia, il cameriere si vide costretto a far sedere Loretta e Ginofino nello stesso piccolo tavolo appartato.

Lei teneva lo sguardo fisso sul suo piatto di spaghetti, mentre Ginofino non mollava lo sguardo dai turgidi wurstel fumanti che predivorava già con gli occhi.

Eppure, per un attimo che i visi si alzarono, un’attrazione di sesto grado su una scala di due li colse all’unisono come ad essere in tre. Non potevano resistere, per niente al mondo e sulla luna, a posare l’una la fronte su quella dell'altro.

Il desideroso approssimarsi delle teste, come una dolce collisione fra pianeti, si sviluppò con gravitazionale lentezza fino al morbido atterraggio d’una pelle sull’altra. Pattuito il contatto, una corrente non detta di energie pensanti iniziò il suo andirivieni amoroso da una mente all'altra, con gran godimento concettuale di Loretta e Ginofino.

Pensieri obesi e smilzi si sposavano con cerimonie intellettive di ogni tipo, chiamando la semplicità a testimoniare, invitando comitive di rubizzi dizionari alle nozze: l’inspiegato si faceva lineare, l’oscuro, materia da insegnare.

Alla fine di quel pudibondo amplesso del pensiero, a Loretta e Ginofino non rimase altro che riabbassare gli sguardi imbarazzati di nuovo sui loro piatti, per scoprirli con gran stupore, adesso, ricolmi di smilzi wurstel inspaghettiti, misti a neoplastici spaghetti wurstellizzati.

Vecchio smarfone


Arugantia petecchialis cum delirium tremens d’omniputentia, più doppio salto mortale all’indietro culminante in inchiappettamentus de-vaselinizzatus summa cum presa per lo culus commercial-socio-goliardica ad sfetecchiandum lo populo bove inconsapevole di sua medesma incumsistentia moralis…

lunedì 25 giugno 2018

Lentamente muore


Lentamente muore
il neurone rassegnato a una Barbara-D’Ursica realtà

Si secca piano piano la sinapsi fra una molla e l’altra di materassevoli omelie Giorgio-Mastrotali

Si ottunde il senso critico, stando troppo “Dalla vostra parte”

Si spalanca la voragine cerebrale se continuamente flagellata da tg-quattrici sciacallaggi in salsa di vips villeggianti a Cortina

Implode la mente se compressa dal continuo sottovuoto spinto defilippico

S’abbruttisce l’animo in ammollo nelle pruriginose morbosità criminal-guardone elevate al Quarto grado

S’incataratta di bruma idioziale l’occhio ipnotizzato dal monomaniacale e voyeuristico guardare attraverso il Forum della serratura

Si lobo-letamizza la scatola cranica sotto l‘incessante fuoco nemico pubblicitario

Si desertifica inesorabilmente lo scroto di chi al posto del dubbio lascia subentrare Del Debbio…

E, quel che più conta, questo è il telecomando, figlio mio! Cambia quel cazzo di canale, o prendi in mano un buon libro, e mandali tutti affa’-n’audience!

Tua sarà la mente e tutto ciò che vi è in essa.


Il romanzo ai tempi di Twitter: "Inlibrarsi"


domenica 24 giugno 2018

Pubblicitrash


- Non trovando uno straccio di diavolo che gliela comprasse, un tizio vendette l’anima alla Lidl. Ne derivò lo strambo inconveniente che con ogni donna in seguito conquistata, gli riusciva soltanto la posizione erotica del 68 e 99.

- Sentendo uno spot che proclamava la scoperta di “un nuovo modo di liberare l’intestino” (*), un tale venne preso dal più ampio sconforto al pensiero di aver fatto, fino a quel momento, soltanto delle gran cagate.

(*) = giuro: sentito con le mie orecchie!

- Dopo dieci anni di ininterrotta visione di canali commerciali, dieci ore al giorno davanti alla tele, un tipo venne colto dall’imperativo morale di andare a vendere il culo lungo la statale.

- Il tipo della terza storia corse poi dal tale della seconda storia, per confortarlo dicendogli che forse aveva trovato un vero nuovo modo per liberare l’intestino.

Sur-parole


Tante volte, leggendo un bel libro, ci si imbatte in una frase di una bellezza tanto illuminante da procurarci un piccolo sussulto interiore, una delicata sur-place di stupore, che proprio come succede ai ciclisti su pista, induce a una esitazione estasiata.

Ma cosa dire allora quando su seicento pagine e passa, è un’unica, singolarissima e isolata parola a stagliarsi limpida nel suo cristallino potere ammaliante?

A me è successo leggendo un tomo di non trascurabile “tomitudine”: “I Vicerè” di Federico De Roberto. La storia abbraccia le tardo ottocentesche vicissitudini della nobile famiglia siciliana degli Uzeda. Tra i personaggi, c'è uno strambo zio, Don Eugenio, con strampalate velleità da archeologo, che pretenderebbe di aver individuato una nuova Pompei ai piedi dell’Etna, a suo avviso meritevole di indifferibili interventi di scavo.

E qui giunge la preziosa e ultra-inusitata parola, che nella sua rarità e nel sottile marchingegno etimologico da cui è sostenuta, mi ha donato un senso di meraviglia simile a quello provato tempo fa nell’ammirare le funamboliche trappole allestite da Will Coyote per il beffardo Bip-Bip, o da Silvestro per la petulante Titti.

Ecco cosa scrive don Eugenio, a titolo di una sua relazione da inviare alle autorità preposte:
“…Intorno la convenienza di essere intrapreso il discavo della Sicola Pompei […] sepolta nell’anno di grazia 1669 dalle ignivome lave…” e ZAC!!!

Eccola lì la piccola gemma lessicale: niente meno che “ignivome” sono per don Eugenio le lave. Sono sputa fuoco, o meglio “vomita fuoco”, dal latino “Ignis” più “vomere”, ossia “vomitare” appunto.

Ignivomo, “vomita-fuoco”: che termine assurdamente ed elitariamente strano.

Si potrebbe quasi rispolverare riguardo a certi tromboneschi personaggi pubblici odierni, che davvero vomitano spesso e volentieri il fuoco dell’insensatezza su tutto e su tutti.

O forse no. Forse in quel caso , più che di discorsi “ignivomi”, bisognerebbe parlare di proclami “idiozi-vomi”.

sabato 23 giugno 2018

Forzare il forziere


Fra le tante cose belle che mi fanno piacere la filosofia, ce n'è una particolare. La chiamerei “virtù della prova di rottura”.

L'immagine la prendo a prestito dal mondo dello studio dei materiali. Quando si vuole conoscere la capacità di resistenza di un materiale, lo si forza a condizioni estreme e si vede cosa succede: il momento in cui si rompe, dove sono i punti di maggiore criticità, dove la rottura ha inizio e per quali traiettorie si propaga, e così via.

Un esempio banale potrebbe essere quello di una trave in cemento armato: la si sobbarca di pesi, aumentandoli gradualmente e con l’apposita strumentazione si misurano gli effetti. Oppure un batiscafo: lo si sottopone a pressioni sempre più forti e si monitora cosa accade.

La filosofia, fra le altre sue prerogative, fa anche questo: forza i concetti, li conduce ai limiti (figurati) di stress argomentativo e registra gli effetti, i cigolii, gli allungamenti e nel caso persino le fratture.

In questo senso la filosofia è in grado di portare, praticamente sempre, il limite di rottura sino alle estreme conseguenze (si veda ad esempio il celeberrimo caso del “cogito” cartesiano, che ha infranto la tenuta stessa del senso di realtà).

Ma l’importante è quanto si può osservare dopo la frattura: andando a ritroso lungo le linee di fessurazione, valutando i margini rimasti di due monconi di concetto strappati, rilevando i punti precisi dove lo sfaldamento ha preso il via, si possono trarre molti insegnamenti e stimoli di riflessione.

La filosofia insomma smentisce il  più classico dei proverbi e ci consente di dire che la sua pratica può gratificare con un bel “chi rompe viene ripagato”.

venerdì 22 giugno 2018

Se fossi Sioux


Mi immagino di essere Sioux, nella tribù Lakota, laggiù, fra le sconfinate praterie lambite dall’imponenza del fiume Missouri…passo in rassegna col pensiero le ragazze più carine del villaggio e mi accorgo che le mie preferite sono:

- Puzzola di maggio
- Aurora sotto la coda
- Gemma di rugiada
- Natica orgogliosa
- Ascella muschiata
- Orsetta lavatrice
- Marmotta dei boschi
- Zampa
- Ciliegia brunita
- Quattro pesche e una rosa
- Alito di cielo
- Donnola danzante
- Fior di pancia
- Coniglia di velluto
- Due lune sul cuore
- Sorriso di more
- Orsa profumata
- Raggi di pelliccia
- Occhi di prato
- Primavera nel fiato
- Estate fra le mani
- Nube odorosa
- Lontra fra le brume
- Castoro sorridente
- Talpa delicata
- Silenzio sulle dita
- Criniera olente
- Ventre di piuma
- Brezza di petali
- Deretano in fiore
- Soffio
- Piccola coda
- Ciglia di cerva
- Succo di susina
- Mela che tramonta
- Quercia timida
- Orma di sole
- Goccia luminosa
- Due lamponi
- Guancia setosa
- Respiro d’ambra
- Aria
- Bufala giocosa
- Ombra nascosta
- Martora dal sottobosco
- Piccola canoa che doma i flutti
- Sorgente dei profumi
- Ombelico di miele
- Nuca selvatica
- Ali di ape
- Puledra sguaiata
- Fonte fra i fiori
- Sedere a plenilunio
- Vespa che bacia
- Gatta di casa
- Montagna
- Dolce foresta resinosa
- Calore sotto la tenda
- Prugna di luglio

Ci potete davvero contare, che mi piacerebbero queste ragazze…se fossi Sioux…
Parola di Sguardo di Ghiro!

giovedì 21 giugno 2018

Se dire il cielo


Stare soli con se stessi
Implodere
Meditare
Rimuginare
Fluttuare
Nullificare
Nullifluire
Evacuarsi
Rimangiarsi le parole
Digerirle
Assimilarle
Espandersi
Contrarsi
Pulsare
Compulsare
Esistere
Concentrarsi
Esplodere
Sovrapporre
Ciascun proprio atomo
Con ciascun atomo universale
In andata e ritorno.
E
Poi
A fior di puzzola
Espirare
L’inspirato
Ispirandosi
Al respiro
Del Tutto.
Se dire
il cielo
Ha ancora un senso per noi.

Dentro e fuori dai giochi


In italiano ci sono due parole, illudere e deludere, che affondano la radice nel latino “ludere”, a sua volta da “ludus”, “gioco”.

Secondo la spiegazione ufficiale del dizionario, entrambi i verbi rimandano al significato latino stesso che parla in generale di “un prendersi gioco di”. Illusione e delusione sono dunque frutto di una presa in giro, da parte di qualcuno o da parte della sorte addirittura.

Mi piacerebbe però immaginare una versione lievemente più poetica dell’etimo dei due termini.
In “illudere”, ci vedo piuttosto un “in-ludere”, un portare o entrare dentro al gioco. In questo senso, un’illusione non è per forza un fatto negativo. Chi si illude entra nel gioco, ossia in una dimensione parallela alla realtà, nella quale si simulano potenziali esperienze reali. Il gioco è tale solo se connotato da precise regole, dal rispetto delle quali dipende la natura stessa di gioco, del giocare in questione.

Ne consegue che anche l’illusione dovrà avere proprie regole.

Probabilmente e conseguentemente, si esce poi dal gioco, “de-ludere”, quando ci si accorge che le regole dell’illusione sono state infrante. Il tradimento della regola svuota di senso il giocare, per cui è preferibile abbandonare il confronto ludico. Anche la delusione allora non ha soltanto sfumature cattive.

Il deluso esce dal gioco quando vede le potenzialità negative della realtà, messe in luce dal giocare illusorio medesimo.

Insomma, anche nell’illudersi o nel rimanere delusi, a saperlo vedere, ci può essere un briciolo di buono.

domenica 17 giugno 2018

Il professor Cornacchioni tiene lezione


Bizzarri parallelismi para-filosofali, con serendipitevoli affacci sul mondo animale.

Mi stavo scornando le meningi con uno stimolantissimo libro di Georg Simmel, “I problemi fondamentali della filosofia”. A un certo punto della trattazione (altissima e assai ardua per le mie capacità, devo ammetterlo), Simmel mette la pulce nell’orecchio riguardo a una questione fondante che, nella mia ingenuità gnoseologica, avevo sempre dato, se non per assodata, almeno per abbastanza stabile. Mi riferisco all’affermazione di Parmenide “…l'essere è e non può non essere...”, con la quale si sono poi confrontati anche altri pensatori nei secoli.

Simmel invita a riflettere su come la frase “l’essere è” contenga nascosta già in se stessa un'insidiosa contraddizione.

Nel sostenere che “l'essere è”, attribuiamo in partenza all'essere proprio la prerogativa che vorremmo dimostrare appartenere ad esso. Che l’essere sia, è ancora da dimostrare: dire “l’essere è” dà per dimostrato in partenza ciò ch'è ancora da provare.

Non so se sia proprio così la questione, e se ci ho capito effettivamente bene. So solo che mentre mi arrovellavo con gusto attorno a questi pregevoli pippottoni mentali, si è frapposto un buffo intermezzo a tema.

Nella casa vicina, ci sono dei piccoli finestrini che chiudono sottili aperture sul vano del sottotetto. Una cornacchia da qualche giorno s'è messa a impratichirsi in un suo bizzarro vezzo.

Posa le zampette corvacee sul minimo di approdo che le è offerto dal ridottissimo davanzale, e si mette a rifilare energiche beccate contro il vetro del finestrino, commentando la sua azione con insistenti e stentorei “…craaa, craaa, craaa…”.

Non ho potuto fare a meno di pensare che anche la povera cornacchia si stesse scontrando a modo suo con qualche contorto tentativo di dimostrazione della realtà.

Forse, becchettando contro la propria sagoma riflessa dal vetro del finestrino, si interrogava prima di tutto riguardo al proprio essere, e da lì, chissà, magari coi suoi amletici cra-cra stava allargando il proprio dubitare all’intera sfera dell'essere in toto considerato.

In ogni caso è stato bello cogliere questa poetica sintonia fra quanto andavo leggendo, e un minimale episodio di ordinaria meraviglia animale.

martedì 12 giugno 2018

giovedì 7 giugno 2018

Il niente dei posti dove andare


Cercami
Nelle parole che mai ho detto
Trovami
Nei libri che non ho letto
Annusami
In un angolo giù dal tetto
Toccami
Nei panorami mai ammirati
Raggiungimi
In tutti gli altri stati
Sparpagliami
Su ogni donna ad un passo amata
Raccoglimi
Sulla spiaggia solo sfiorata
Frastagliami
La frangia spettinata
Ascoltami
Dove il suono stenta a stare
Nell’immensa miniera del mai potuto fare

Sboccia il più candido contraltare
Nell’intenzione rimasta tale
C'è tutto un sapido di sale
Andiamoci insieme ad abitare
In ogni bocca ti bacia il mare

mercoledì 6 giugno 2018

Il discorso della forbice


“…Ci sono più cose in un tagliar di forbice, Talpazio, di quante ne sogni la tua filosofia…”.

<<Talpleto principe di Danitalpa>> -
Talpilliam Shakespeare

*******

Muniti di un buon paio di forbici, avete mai provato a tagliare qualcosa con la sinistra, se siete destrimani, o con la destra, se siete mancini?

Tornando poi subito alla “mano familiare”, vi sarete così accorti che il nucleo del gesto non sta tanto nell’applicare la pura forza necessaria a far richiudere le lame (che per altro talvolta è davvero minima, come ad esempio nel caso in cui tagliamo un foglio di carta).

La dinamica è molto più sottile.

Stringendo la forbice, sembra quasi di sentire come una sommatoria di micro-aggiustamenti di forza, di mini-compensazioni muscolari, di lievi risposte di pollice e indice alle reazioni del materiale tagliato, in base alla pressione che stiamo facendo. In pratica, è come sentir fluire l'intensità della forza applicata e variamente distribuita, dalle dita, attraverso occhielli, manici e lame della forbice, per andare infine a impattare con la resistenza più o meno intensa del materiale che stiamo sforbiciando.

A voler stare ancora più attenti nella “auto-auscultazione” delle sensazioni, si noterà che il flusso del gesto inizia ben più a monte, nella nostra mente addirittura, nell'intenzionalità “centralizzata” da cui parte l’impulso a stringere gli occhielli della forbice e ad applicare nel corso del taglio, i necessari correttivi di moto e peso, lungo l’inesorabile cammino rotatorio di chiusura dell’affilato morso.

Dalla punta del nostro pensiero, dunque, a quella delle lame, facciamo innescare un atto continuo e fluido, che diventa un unicum gestuale integrato.

Qualcosa di simile avviene, anche solo metaforicamente parlando, in tanti comportamenti quotidiani e comuni, più o meno importanti.
Soprattutto quando abbiamo a che fare con gli altri.

Pensate soltanto a una parola, un sorriso o altra espressione, a un atteggiamento, rivolti a qualcuno.
Anche qui si tratta sempre di sequele di intensità interiori che convogliamo verso un obiettivo su cui applicare in un certo senso una sorta di cambiamento, o perlomeno un influsso.

Lo stesso avviene (anche se in una dimensione ancor più fuggevole, a livelli ancor più impalpabile e sfuggenti) per ogni nostro atteggiamento rivolto verso il mondo, per ogni nostro disporci più o meno propositivamente verso lo scorrere delle cose.

Anche in questi casi, agiamo come se azionassimo una forbice.

L'intenzionalità interiore deve poter scorrere fluida lungo noi stessi. La sensibilità della stretta deve essere soppesata, calibrata, adeguatamente aggiustata a seconda delle risposte dei materiali incontrati. Il giusto abbandonarsi del taglio alla nostra regolabile stretta diventano un tutt’uno di azione e reazione, che percepiamo non solo sulla punta delle dita, ma nel corpo intero e nel pensiero.
Fra le cose del mondo e la mente corre un’energia in comunicazione.

Come in un tagliar di forbice, tra i mutamenti del mondo e le nostre intenzioni, possiamo far scorrere un dialogo, un discorso di botta e risposta, un flusso di ascolto e reazione molto sottile.

Certo, non sarà sempre cosi semplice come tagliare un foglio di carta. Ma già impugnare la forbice con la giusta sensibilità potrà aiutare a predisporsi bene verso una risposta adeguata degli eventi.

Magari, spesso la forbice si incepperà, le lame si accavalleranno, la carta farà grinze inattese.

Però rimarrà in ogni caso fondamentale sentire e ascoltare, come in quel contatto delle dita con gli occhielli della forbice, si concentri un nucleo decisivo e fondamentale di energia da ben interpretare e gestire.

martedì 5 giugno 2018

Basilike



Micro foresta aliena, familiare boschetto infante, ombrellini minimali sparsi sopra brulle spiagge lunari, terriccio astrale di decollo mini vegetale, cuccioli di basilico imbarcati su astronave d'interplanetario coccio, per trasvolate orbitali attorno alla galassia della Pastasciutta, dall’oggi prendete il volo per atterrare sul vasto verde del domani, dall’aria vi gonfiate di profumi, alla luce carpite aromi, alla nera narice narrerete odori, della pupilla carezzerete la palla, la lieta papilla vi glorificherà grata, piccoli cuccioli di basilico, cari petali su un miracolo in bilico.

lunedì 4 giugno 2018

Temporale inglacano


Listenna outsaido!
Raininga a lotto!
Le droppe heavyde
Reboundano sul ruffo
So farro avai
Thundereggia in the skai
Nel gàrdeno la grass
Si fa grín big and gross
Li birdini sopra i triis
Che twittano cips and cheese
Ol la cauntry è very fresh
Lukka come Marrakech
Summereggia rainingoso
Nel beghinno of thisso giuno
Noi si get quel che càm
Tant there is no madòn


Tema: Una cosa che ti fa davvero schifo

Tema: “Una cosa che ti fa davvero schifo”


Svolgimento (di Gianfiordino Sparagnulfi)

A casa mia mi fa un aschifo piccolo il mio fratellino, siccome acchè è proprio piccolo e fa tutte quelle aschiffezzine delli anneonati. Ma se lo devo propio dire, che mi fa un aschifo davvero grande, c'è il Grande Fratello di Barba Ratturso. Che uno che ci pensa bene, lè propio niorante come una zolfa di terra pena rata.

Io sarò niorante, mica li dico di no, ma almeno sono ancora abbambino. Che invece, se uno ancora che da dulto ti guarda ancora che il grande fratello, allora non cià più neanche una speransa di sniorantarsi maipiù. Rimarrà niorante piantato per terra come il palo della luce del Lenel.

Secondo a me, la più niorante della banda è propio la Barba Ratturso. Io ce lò il fratellino che fa aschifezzine, ma non lo dico neanche tanto ingiro. Che invece, la Barba Ratturso, con un fratello grande, che fa aschifo propio in grande, ma non te lovà mica a dire persino dentro nella televisione? Ma io dico che più niorante di così si sciòppa propio.

Il grande fratello è fatto in modo che più ne guardi più diventi niorante. Una familia che guarda il grande fratello, per farlo cià da essere già ben niorante. E alora dico: non ce nai già bastansa nioranti in casa che ne vuoi vedere anche delli altri in della televisione?

Che così, a tutti quelli che ci venga volia di guardare il grande fratello, mi viene volia di dirci: stai attento, che la nioransa lè na brutta bestia. Smorsa la televisione, che lè melio, e ascolta le fusa del gatto, che son più furbe.

Non so allora se mi ho spiegato bene: uno aschifo grande a me mi fa il grande fratello e a Barba Ratturso.

domenica 3 giugno 2018

Quattro pensieri senza un nesso apparente


1) È impressionante, se uno si sofferma un attimo a farvi mente locale, la quantità di pregiudizi che sforniamo in continuazione dentro di noi, mentre pensiamo. Seguiamo quasi una sorta di automatismo, bisogna proprio fare un certo sforzo per astrarsi, tirandocisi fuori, e vedere “dal di sopra” la gran quantità di sentenze ideali che sputiamo a destra e a manca, riflettendo. Dev'essere un fatto legato allo spirito di sopravvivenza. La rapidità di scelta è spesso decisiva, questa consapevolezza si deve essere radicata in noi con atavica ostinazione. Il punto è che molte volte rimane solo la preoccupazione per la rapidità, mentre viene meno la cura della veridicità.

2) A volte si è colti dal dubbio-impressione che andiamo cercando amicizie, relazioni, affetti, formando legami e affinità presunte, solo al fine di circondarci di nostri “sé in negativo”, nel senso letterale della locuzione. Ci fa comodo poter disporre di “cari parafulmine”, da trattare come simbolici “magneti” di ogni difetto che in realtà è prima di tutto nostro.

3) Chi vive facendone continuamente una questione di principio, si apre la probabile strada per giungere a fare una brutta fine. È un pensiero double-face, vale sia in termini positivi, sia in accezione negativa. Il principio può essere nobile, e tale sarà la fine conseguente. Il principio può consistere in una ben più banale ostinazione fine a se stessa, e poco nobile la fine effettiva probabile.

4) Quando sento parlare di uova da galline “allevate a terra” come se gli facessero quel gran favore (poi, che siano otto milioni in un metro quadro, chi se ne sbatte…), non so perché, ma provo un filo di turbamento al mio amor di coerenza, simile a quando sento dire del calo della disoccupazione, nel quale probabilmente sono conteggiati quei poveri cristi che si scapicollano in bici nel traffico metropolitano, rischiando la pelle a ogni incrocio, per portare a casa la cena ancora calda a quattro scoreggioni brigosi di farsi un uovo fritto o di alzare le chiappe per andare alla pizzeria due isolati in là.

venerdì 1 giugno 2018

Jellystone al potere


Eppure c'è anche questo aspetto.

Non dico che sia l’unico, anzi, è di certo marginale, ma io credo che, in qualche modo, sussista.

E si tratta di questo.

Sottolineo e preciso: parlo di eventi. Senza voler responsabilizzare tizio o caio, che sarebbe troppo complicato, se non impossibile.

Gli eventi dunque ci hanno talmente esasperato; gli eventi ci hanno così sfiancato; gli eventi ci hanno a tal punto sfinito, esasperato, tartassato, bombardato, massacrato, sdilinquito, rammollito, frullato, bollito, soffritto, lessato, affettato alla julienne, triturato, asfaltato, macinato, che…

…a questo punto, al governo ci sarebbero andati bene anche Yoghi e Bubu…

Foi fenire di Italia???


Pare che le autorità comunitarie europee, per il tramite di una commissione dedicata, stiano approntando un progetto preliminare per realizzare, nelle sedi di Bruxelles e Strasburgo, appositi stanzini denominati “Fucked damn pork italian fish and shit little rooms!”, detti anche “Gabinetti dello sfogone insultante anti-italico”.

Questo in considerazione degli esorbitanti tetti di spesa ormai raggiunti dalla UE per mantenere in servizio un esercito di smentitori professionali, chiamati ogni volta a rabberciare le parole del politico europeo di turno, spiegando che, sì, ha detto così, ma voleva dire cosà, ha parlato in un modo, ma andava tradotto in un altro, e così via.

Coi nuovi stanzini “Fish and shit”, tutto questo sarà solo un imbarazzante ricordo. Quando a un presidente di commissione, a un ministro, a un sottosegretario europeo extra-italico, scapperà l’invettiva luogocomunista pregiudizievole contro l'Italia, non dovrà far altro che correre al “Gabinetto dello sfogone”, chiudere la porta e una volta dentro, urlare a pieni polmoni contro le pareti insonorizzate: “…fucked italians, shit, merd and burp, spaghetti, mandolino, fancazz all day long, gratt’al ball twentyfour hours a day…corrott’e-mmmerd, oh mamma mia, mafiosi e melodia…bonasera signorina, fuck all night fin-a-mattina…li mortaki de zi’ Peppe, oh fuck, too you, nel cielo deppinto de blu…” e via maledicendo.

Dopo lo sfogo, il politico alleggerito potrà così uscire più sereno e si saranno risparmiare preziose risorse stampa e comunicative.