martedì 30 agosto 2011

I pioppini della vita


Alcune puntate fa, vi parlai di come si fosse reso necessario il taglio del caro pioppo, da anni fedelmente posizionato di fronte a casa. Pur essendo ancora vigoroso, con la sua mole imperiosa rappresentava ormai un pericolo eccessivo, incombendo in modo particolare, nella sua potenza fronzuta, esattamente sopra il tetto della casa del vicino. Ad ogni vento un po’ più forte del consueto, c’era da passare brutti minuti d’apprensione. Ecco perché, seppur a malincuore, l’intervento della perfida motosega non si è potuto differire oltre.

La vicenda ha avuto tuttavia un tenero strascico proprio in questi giorni. Me ne stavo in giardino a “rastrellazzare” erba e foglie (operazione che concilia sempre il vagabondaggio per pensieri in maniera veramente eccelsa), quando mi cade l’occhio sul grosso ceppo, ultima testimonianza rimasta a terra della presenza del vecchio pioppo.

Per inciso, bisogna dire che il “boscaiolo” incaricato dell’opera ha fatto un lavoro pregevole. Se una piccola consolazione può esserci nell’aver visto portare via un caro amico arboreo come il vecchio pioppo, forse sta proprio nel fatto che a “dare il la” al commiato sia stato un tizio veramente bravo nel suo mestiere. Quasi un Mozart della motosega, credetemi, era uno spettacolo osservarlo sfrondare e sminuzzare rami e porzioni di tronco. Tanto che, al termine dell’opera, ha lasciato un ceppo quasi perfetto, una piccola piattaforma lignea praticamente allineata al suolo.

Ed è stato esattamente lì, che giusto ieri il mio stupore si è posato. Nell’angusta fessura che demarca lo scuro spessore della corteccia dal territorio più interno della bianchiccia polpa legnosa del fusto, uno stuolo di piccoli e nuovissimi “pioppini” hanno buttato fuori lo loro mini-chioma ribelle e smeraldina. Per un campagnolo scafato, si tratterà di un fenomeno più che preventivabile. Per un campagnolo sgangherato ed ingenuo come me, si è trattato invece di una sorta di “epifania tascabile”, scaturita direttamente dalle arcane potenze del vitalismo floro-naturalisitico. Come un segno mandato dalla “Bellezza” e un’esortazione alla fiducia che credo meriti di continuare ad essere riposta in essa.

Il piccolo episodio, mentre m’insufflava direttamente nell’animo un flautato moto di letizia, mi ha fatto dispiegare le ali del ricordo, riportandomi alla lontana visione di un vecchio film degli anni ’50, «L’albero della vita» di Edward Dmytryk, con Liz Taylor e Montgomery Clift. Lo so, il collegamento è piuttosto flebile ed ai più potrà apparire inconsistente, ma anche nelle vicende di quella pellicola, così come nel caso dei miei cuccioli di pioppo, si parlava del mistero del vivere metaforizzato attraverso l’elemento vegetale.

Non era nemmeno un film eccezionale, a ben vedere e ad osservarlo con una lente critica un po’ esigente. Concedeva troppo alla melensaggine ed alla retorica. Ma mi è sempre stato molto caro, proprio come succede con certe persone delle quali si conoscono bene i difetti, e tuttavia proprio a partire da quelle magagne si riesce a trovare un motivo speciale per voler loro ancor più bene.

E’ un film che risente fortemente delle atmosfere anni ’50, o almeno così a me pare. I sentori di disagio giovanile che si iniziavano ad intravedere in quel decennio, sono calati pressoché integri, con le loro contorsioni e tutte le problematiche relazionali, nel bel mezzo di un improbabile fine ‘800 rivisitato. Non manca niente. C’è la figura del giovane tormentato dalla sete di sapienza e d’amore, Monty Clift. C’è la donna fatale e “selenitica” (dire lunatica mi sembrava un po’ troppo crudo), Liz Taylor, simbolo dell’eterna irraggiungibilità del mistero femminile. C’è la ragazza della porta accanto, Eve Marie Saint, l’altra metà mansueta e materna dell’universo muliebre. E c’è il professore coltissimo e farfallonissimo, Nigel Patrick, oratore dall’irresistibile ipnotismo dialettico ed impollinatore impenitente di fanciulle opportunamente ipnotizzate.
Le vicende comuni di ciascuno ruotano intorno alla mitica immagine di un albero dai rami dorati, che la leggenda vuole nascosto in qualche favoloso angolo delle sconfinate paludi del circondario (la scena si svolge nella lussureggiante cornice della Lousiana). In questo albero, sempre secondo le ataviche convinzioni, si celerebbe il segreto dell’esistenza.

Ecco, ve lo dicevo, l’associazione è piuttosto blanda, ma anche a me i miei pioppini, per il modo in cui si sono presentati, sono sembrati una piccola e rinnovata versione dell’albero della vita in salsa gillipixiana.

Un altro motivo per cui mi sono affezionato a quel film, è la presenza di Montgomery Clift fra i protagonisti. Il travagliato divo americano, insieme a James Dean o Marlon Brando, è stato in qualche modo uno dei miei idoli adolescenziali. Da buon passatista, i miei modelli di celluloide me li andavo a pescare spesso e volentieri anche nei decenni indietro. Al di là del suo magnetismo estetico, del vecchio Monty mi colpì una volta una frase detta dalla collega Marylin Monroe. Stando alla sua opinione, fra quelle conosciute dall’attrice, Monty Clift era l’unica persona ad essere più triste di lei. Al che io, da buon sbarbatello ben bene crogiolato nel pieno delle mie caotiche burrasche esistenziali dell’età della maturazione, non potevo che considerare fra me e me: «…Minchia, Marilina…pensa allora un po’ te che io mi sento più triste di voi due messi assieme!...».

E non sarà un caso che insieme alla comparsa dei pioppini e al ricordo di quel vecchio film, in questi giorni mi è capitato anche di imbattermi in un illuminante passo, sempre nel corso della lettura dello stupendo «Casa Howard» (1910), di Edward Morgan Forster, già citato un paio di articoletti fa:

«…Guardando indietro ai sei mesi passati, Margaret comprendeva la natura caotica della nostra vita quotidiana e la sua diversità dall’ordinata sequenza fabbricata dagli storici. La vita reale è piena di falsi indizi e cartelli indicatori che non conducono da nessuna parte. Con infinito sforzo prepariamo il nostro animo a una crisi che non arriva mai. La carriera meglio riuscita deve mostrare uno spreco di forza che avrebbe potuto smuovere le montagne e la meno riuscita non è la carriera dell’uomo che è stato colto impreparato, ma di quello che si è preparato ma non è stato colto. Su una tragedia di questo genere, la morale del nostro paese mantiene il debito silenzio. Essa presuppone che la preparazione contro il pericolo sia in se stessa un bene e che gli uomini, come le nazioni, siano al meglio di se stessi quando brancolano nella vita armati fino ai denti. La tragedia dell’essere preparati è stata scarsamente trattata, salvo dai greci. La vita è davvero pericolosa, ma non nel modo in cui ci vorrebbe far credere la morale. E’ davvero ingovernabile, ma la sua essenza non è una battaglia. E’ ingovernabile perché romanzesca, e la sua essenza è la bellezza romanzesca…».

Ecco, a distanza di anni da quei tristi momenti adolescenziali, ci sarebbero voluti alcuni pioppini della vita, il ricordo di un vecchio film e la lettura di questo libro, per capire come a questo punto la mia tristezza, in qualche modo sempre presente in sottofondo, sia tuttavia mutata in senso qualitativo, grazie alla consapevolezza che ai tempi della sua massima virulenza quantitativa (durante l’adolescenza, appunto…) essa non fu altro che un infinito e probabilmente inutile sforzo di preparazione ad una crisi che non sarebbe arrivata mai.

lunedì 29 agosto 2011

Gillipixlight shadow


Già in diverse occasioni ho cercato di spiegare questo vezzo narrativo, a partire dal quale lo spazio del mio blog risulta essere un territorio identitario pressoché esclusivo di Gillipixel, mio alter-ego molto ego e poco alter, piuttosto che uno spazio effettivo dedicato al “me stesso reale”.

Vi ho già fatto due orchidee tante sulle ragioni di questa scelta. Ne ricordo qui rapidamente solo un paio, quelle fondamentali. Primo: del “me stesso reale” ne ho già abbastanza le palle piene nella vita concreta, per l’appunto, per andarlo a scomodare più di tanto anche in questa sede. Secondo: il me stesso scritto è molto diverso da quello reale, per cui rischierei in ogni caso di fallire nello scopo. In uno spazio fatto di parole, tanto vale dare le precedenza alla propria identità narrativa.

In alcune sparute occasioni, tuttavia, mi è stato chiesto qualcosa riguardo a chi sono e a cosa faccio, o se magari avessi potuto mettere un’immagine di me. Ora, nella piena consapevolezza che la curiosità inappagata di quei cari amici di blog non li ha costretti ad approvvigionamenti smodati di Tavor per ritrovare il sonno perduto, né ha in alcun modo influito sul giusto equilibrio del loro appetito, nondimeno mi è sembrato di aver individuato la parte di me adatta ad essere mostrata, senza scalfire in alcun modo l’integrità del personaggio Gillipixiano.

Mi riferisco alla mia ombra. In fondo la mia ombra e Gillipixel sono parenti stretti. Innanzitutto, li accomuna il fatto di essere entità parallele. In secondo luogo, Gillipixel e la mia ombra sono entrambi molto più affascinanti di me.

Laddove io sono goffo e maldestro nel mostrarmi, la mia ombra è invece slanciata ed elegante, filiforme per certi tratti. Sa presentarsi in società senza farsi troppi problemi, non è appesantita dalle mie timidezze. Lei ha ben più chiari i significati della vita, senza farsi la miriade di crucci dei quali è capace il mio animo titubante.
Se c’è il sole, è segno che il tempo di farsi vivi è giunto, mentre se c’è nuvolo, sa altrettanto bene che non ne varrà la pena. Non ci sono tante vie di mezzo o mediazioni, per la mia ombra: di volta in volta lei è o non è. Fine della storia.

In una bella e, per dirla tutta, molto triste e crudelissima fiaba di Hans Christian Andersen, un filosofo un bel giorno viene abbandonato dalla propria ombra. Questa se ne va per il mondo ad insaputa del suo padrone originario, lasciando l’uomo orfano della sua “propaggine semi-oscurante”, consolato solo da un piccolo simulacro umbratile sostitutivo, ricresciuto nel frattempo. Dopo diversi anni, l’ombra si ripresenta al filosofo in versione “umanizzata”. Grazie alla sua condizione di ombra, ha potuto vedere e conoscere tutto, è diventata ricca ed importante. La fiaba si conclude amaramente, con l’ombra che assorbe lentamente la personalità del vecchio padrone, sostituendolo in tutto e per tutto.

Senza arrivare alle drammatiche conseguenze della favola di Andersen (che a uno gli viene da toccarsi gli zebedei e dire: «…Minchia! Se questa era una fiaba, figuriamoci le tragedie…»), a volte sarebbe bello poter mandare la propria ombra in nostra rappresentanza. Giusto nelle occasione in cui ci sono da sbrigare gli aspetti più noiosi della vita. Pensate che bello: mentre la nostra ombra si prende la briga di sobbarcarsi la fila in posta, di andare in ufficio, di intrattenere rapporti sociali con scocciatori, noi si potrebbe stare serenamente a casa, a leggere un libro, a scrivere, a nutrirsi di nettare e ambrosia o a fare l’amore (magari con un’ombra a sua volta mandata da qualcun altro che non ci teneva più di tanto…ma che importa? Mica bisogna andare troppo per il sottile in queste cose).

Sono certo che la mia ombra se la caverebbe in modo molto più brillante di me, in tutte quelle attività pratiche, lasciandmi soltanto la gradevole incombenza di dover essere niente più che un Gillipixel in libertà. Purché la faccenda non assuma i toni che la fiaba anderseniana introduce dal momento in cui il filosofo e la sua vecchia ombra si ritrovarono. Ve ne riporto un piccolo assaggio, tanto per darvi un’idea e mettervi in guarda in ogni caso dalla vostra ombra.

Sono passati tanti anni e l’ombra bussa alla porta del filosofo. Lo stupore dell’uomo è immenso ed egli inizia a tempestare il buon vecchio alone tenebroso di mille domande. Il filosofo, molto familiarmente ed ingenuamente, si rivolge all’ombra dandole del “tu”. Sentite un po’ come gli risponde quella puzzona impunita:

«…”E poi, cosa hai visto?” chiese il filosofo. “Ho visto tutto, ora glielo racconterò, ma non è per superbia mi creda, libero come sono e con la mia cultura, per non parlare della mia buona posizione, e delle mie splendide condizioni finanziarie, desidererei proprio che mi desse del lei!”. “Le chiedo scusa”, disse subito il filosofo, “è una vecchia abitudine che non riesco a levarmi. Lei ha tutte le ragioni! Me ne ricorderò! Ma ora mi racconti tutto quello che ha visto!”...».

L’ombra
Hans Christian Andersen – 1847

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, poi non venitemi a dire che non vi avevo avvertito. Guardatevi bene dal dare troppa confidenza alla vostra ombra, datele sempre del “lei” e tenetevela ben stretta e docile sotto i piedi (…e di tanto in tanto, concedetevi pure il lusso di fare la pipì all’aperto sotto il sole, tanto per farle capire chi comanda…).

domenica 28 agosto 2011

From the moment I opened my eyes


Ragazzi, io ogni tanto ci provo a raccontare quanto questo mondo faccia schifo, ad osservare le cose come stanno e ad ipotizzare critiche, analisi, valutazioni obiettive. Ci provo a stigmatizzare le storture, a biasimare le magagne, a dargli addosso al birbaccione, ad atteggiarmi a paladino dei nobili valori.

Ma poi, mi capita di risentire una vecchia e cara canzone, mi viene da piangere e mi rendo conto ancora una volta di come tutto, ma proprio tutto, per quanto mi riguarda, passi attraverso il cuore, bypassando quasi automaticamente ogni tipo di calcolo, di misura, di proporzionata valutazione.

E a partire da quelle note, mi si rinfocola in grembo quella fierezza paradossale che da sempre mi accompagna, fregandomi.

Sto parlando dell’orgoglio di essere un fallito.

Lo so, sarà di certo la cosa più folle che vi è mai capitato di sentire, ma a tratti vengo colto da questi attacchi irrefrenabili, da siffatti moti interiori di auto-celebrazione al contrario e mi beo nella sana consapevolezza fallimentare.

Pensate un po’ come l’ho scampata bella. Mi sarebbe potuto capitare in sorte di essere l’uomo che non deve chiedere mai. Invece, fortunatamente, io non farei altro che chiedere, almeno quelle volte in cui trovo il coraggio di superare timidezza e timori vari.

Non solo, cari amici viandanti per pensieri. I pericoli scampati sono anche ben maggiori. Tanto per riprendere un tema recentemente sfiorato, avrei potuto essere un calciatore: immaginate voi che destino ingrato.
Oppure avrei potuto addirittura nascere automobilista (qui mi è andata bene forte, proprio di lusso…), avrei potuto essere un tizio che non ha mai torto, che va dritto per la sua strada senza guardare in faccia a niente e a nessuno.

Invece, grazie al Cielo, sono uno che non ha mai combinato niente di buono nella vita. E questa mi sembra una buona base per provare a vedere se si riesce a far ripartire in qualche modo il vecchio mondaccio porco su cui posiamo i nostri piedi ogni giorno.

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«…Il suo pensiero sorgeva dall’oscura zona di confine. Non sapeva spiegarlo a parole, ma sentiva che quanti si preparano in anticipo a tutte le emergenze della vita, rischiano di farlo a spese della gioia. E’ necessario prepararsi a un esame, o a un pranzo, o a un possibile crollo delle azioni in Borsa; chi mira ai rapporti umani deve adottare un altro metodo, o fallire. “Perché preferisco rischiare” fu la sua imperfetta conclusione…».

“Casa Howard”
Edward Morgan Forster - 1910



sabato 27 agosto 2011

Menti calcificate


«…Gesù piccino picciò Gesù Bambino
Fa che venga lo sciopero prima che si può
Fa che il calciatore prenda in mano la vanga piccina picciò
Fa che entri in campo solo per zappare
E fa che non veda più una velina o una discoteca
Fa che duri una vita e che sia come un vero lavoro…»

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Lo sciopero dei calciatori.
Era l’ultima che ci mancava alla collezione. Adesso possiamo dire di averle viste e sentite proprio tutte. O quasi (la potenza immaginifica della realtà non ha limiti e chissà quali altre fantasmagoriche sorprese ci riserva per il futuro…).

No, dico, a questo punto uno cosa dovrebbe pensare?
D’istinto, senza approfondire tanto la notizia, la prima reazione spontanea che tende a prorompere dall’animo di ciascuno è composta di puro “materiale cerebrale da bar”.
«…E’ uno schifo! Ma non si vergognano? Già sono dei super-privilegiati e adesso pretendono ancora di più…Che arroganza, è uno schiaffo in faccia alla dignità di chi lavora duramente per mille euro facendo fatica ad arrivare alla fine del mese! In miniera, se ne devono andare, nelle stalle, a spalare letame col cucchiaino…» e avanti così, qualunqisticheggiando in allegria.

Il qualunquismo però, si sa, produce sempre effetti assai modesti rispetto allo “sforzo ideale” messo in gioco. Col qualunquismo, si rischia sempre di finire a rivestire i panni di una sorta di redivivo malato immaginario in salsa Alberto Sordiana, rinverdendo i fasti di quella scena nella quale il buon Argante, interpellato dai medicastri riguardo agli esiti del suo certame interiore teso all’emancipazione intestinale, rispondeva: «…tanta flatulenza e poca consistenza…».

I vari telegiornali si sono sbizzarriti ad interpellare il mitico “uomo della strada”. Lui, coi suoi piedi bene posati sul caro asfalto al quale è tanto affezionato, ci ha messo meno di un secondo a strapparsi le vesti come da copione appreso impratichendosi fin da bambino nel gioco del “piccolo indignato”.

Nel polverone tanto caro alle speranze giornalistiche, non ci si accorge tuttavia come le cose in fin dei conti stiano messe in modo infinitamente più semplice. A cosa serve infatti “flatulare” senza costrutto, con la bile traboccante dalle palle degli occhi? A cosa serve invocare la disistima più acre ed assolutizzante? A cosa serve mostrare e rimostrare spregio teorico, incanalato dentro il microfono dell’inviato di turno?

La cosa da fare sarebbe molto più banale: non spendere più una lira per il calcio. Perlomeno, non in modo diretto, ossia andando allo stadio o sborsando soldi per le partite televisive a pagamento. Forse non ci sarà modo di sottrarsi agli esborsi indiretti carpiti pubblicitariamente, ma almeno si potrà evitare di infilare di propria spontanea volontà i “maroni” sotto la pressa, andando a foraggiare quella grande presa per i fondelli in cui si è metamorficamente ridotto ormai il calcio.

Sono tuttavia consapevole anche del fatto che un simile invito cadrebbe regolarmente nel vuoto. Ancora una volta la calcificazione mentale prevarrà. Non sono stati sufficienti il doping, calciopoli, Moggi, le scommesse, i morti ammazzati, squadre ridotte ormai ad ammassi informi di mercenari internazionali. Allo stesso modo, anche lo scioperò scivolerà via sull’istinto pavloviano pallonaro con l’ininfluenza di una spruzzata di acqua di rose.

«…Bello sforzo fare i profeti in patria in questo modo…» si obietterà, «…ti piace vincere facile, eh?…».

Ebbene sì, bonsi-bonsi-bobo-bò!

Anche questa volta non cambierà nulla. L’uomo della strada tornerà ad abbronzarsi fedelmente i neuroni alla luce verdognola emanata dallo schermo televisivo ed i versi della canzone non potranno essere parafrasati a modo mio, bensì si confermeranno nel loro finale più classico ed originale:

«… Gesù piccino picciò Gesù Bambino alla deriva
se questa guerra deve proprio farsi fa che non sia cattiva
tu che le hai viste tutte
e sai che tutto non è ancora niente
se questa guerra deve proprio farsi
fa che non la faccia la gente
e poi perdona tutti quanti, tutti quanti tranne qualcuno
e quando poi sarà finita
fa che non la ricordi nessuno
e quando poi sarà finita
fa che non la ricordi nessuno…».

Gesù bambino
Francesco De Gregori - 1979

sabato 20 agosto 2011

Gilli O’Riley ovvero Baba O’Pixel


Ciao ragazzi.

Fermo restando il fatto che chi vuole può lasciare un commento anche sotto al mio criptico intervento di ieri, dove ho inserito semplicemente un video corredato di un titolo enigmatico dalla scarsissima eleganza (anzi, praticamente un urlo belluino…), forse vi devo qualche spiegazione.

Era il 2 giugno 2008. Quel giorno nasceva «Andarperpensieri» (mi lascio un po’ andare all’enfasi trombonesca con questo semi-incipit balordamente gigioneggiante, stile “Hemingway de noantri”; concedetemelo e portate pazienza…).

Sono poco più di tre anni e, fatto un rapido conto, mi sono accorto di aver scritto da allora 441 volte nello spazio di questo blog. Con quella di oggi, faranno 442. O meglio, questo numero va depurato di tutte quelle occasioni in cui mi sono limitato a piazzare lì un video, senza scrivere nulla di particolare (come ho fatto per l’appunto anche ieri). Nella sostanza, saranno dunque circa 400 articoletti veri e propri quelli che ho pubblicato. Circa, e quasi, uno ogni 3 giorni.

Sono tanti. Almeno, per il mio modo di vedere sono davvero un bel numero. Anzi, non è tanto una questione di stima quantitativa. Per chi è abituato a ritmi di scrittura “professionali”, possono sembrare forse una bazzecola. Quello che trovo invece degno di nota in questo numero, riguarda più una sfera di sensazioni strettamente personali. Per quattrocento volte (volta più, volta meno), mi sono messo lì ed ho in qualche modo aperto il mio cuore, ho fatto girare le rotelline, ho lasciato sfogare la diga delle emozioni. Ho provato insomma a condividere con qualcuno, qualcosa riguardo a tutta la faccenda in cui mi pare di aver capito che consista il fatto di essere parte del genere umano (ogni volta che dalle mie mani esce un periodo così labirintico, mi sovviene anche la mitica scena in cui Trinità, fronteggiando il birbaccione di turno nei pressi del bancone del saloon, lo intimorisce estraendo e rinfoderando a raffica la Colt con ubriacanti gesti di “giocoleria pistoleristica”, chiedendogli alla fine: «…non ci hai capito una mazza, vero? Vuoi che lo rifaccia più lentamente?...»).

Insomma, direte voi, d’accordo, ma questo ogni blogger, ogni giornalista, ogni scrittore, ogni scribacchino di trentaduesima categoria, lo fa. Infatti, la cosa non sposta il ragionamento di una virgola: chiunque al mondo, in ogni luogo ed in ogni epoca, si sia messo davanti ad un foglio bianco con una penna in mano, o ad una tavoletta brandendo scalpellino e mazzuola, oppure ad uno schermo cincischiando con tastiera e mouse (…eeehhh basta!!!), chiunque si sia affidato al mezzo della scrittura, lo ha sempre fatto nel tentativo di gettare un’ancora verso il “mare magnum” dell’umanità.

La scrittura in questo senso è uno strumento di salvezza, e decantate pure questa mia espressione da qualsivoglia declinazione profetica o para-religiosa. Non perché abbia nulla contro le religioni, ma per il motivo che non sarebbe certo quello il campo di competenza nel quale mi sentirei di avventurarmi propriamente a mio agio, tale e tanta è la sua complessità.

La salvezza, ed il desiderio di essa, di cui parlo sono invece tratti umanissimi che ciascuno di noi può ritrovare estremamente vivi in seno alla propria interiorità. Parlo dell’esigenza di sentirsi fusi con una “totalità umana” della quale ogni individuo prova costantemente una nostalgia struggente.

Ma come, proprio tu, uno dei massimi teorizzatori mondiali dell’«asocialismo reale», ci vieni adesso a parlare di queste cose? Certo, proprio io, perché sono convinto che quando si ha a che fare con l’aspirazione umana alla conoscenza, non esista mai individuo più in tensione verso una qualche verità, di colui che a causa di quella verità soffre, sentendosi perennemente assillato dalle soffocanti spire della contraddizione e del paradosso, peculiari del suo rapporto con quella parte di verità.

In parole più semplici, è esattamente perché ho problemi nel mio rapporto con la gente, che la mia “brama di gente” è più intensa, e scrivere rappresenta nel medesimo tempo sia un sintomo di questo stato, sia una cura per tutto ciò.

Cosa c’entrano questi argomenti con «Baba O’Riley» degli Who e con quel bislacco sfogo bloghesco di ieri?
Sono in perfetta coerenza, credo.
Perché arrivano anche certi momenti in cui l’indicibile si fa così intensamente pressante, da costringerci a dichiarare in quei casi la nostra impotenza espressiva. Tensioni e prove interiori di varia natura si accumulano così pesantemente nel nostro animo, da risultare non solo sconfinate ed impossibili da abbracciare con uno sguardo complessivo, sia pure esso sintetico, ma al tempo stesso anche così complesse, private, intricate ed incomprensibili al di fuori del nostro stesso contesto interiore, da far sì che l’unico ed estremo appiglio, per tirarsi fuori un minimo dai turbini ammutolenti dell’annichilimento espressivo, rimanga a quel punto solamente l’energia di una canzone o, per dirla in modo più globale, la forza “eternizzante” della musica.

E’ buffo, perché «Baba O’Riley» l’ho scoperta solamente alcuni mesi fa, ossia a quarant’anni suonati di distanza dal momento in cui fu scritta e proposta al mondo. Me ne sono innamorato dopo pochi ascolti e forse non c’è nemmeno bisogno di dirlo a chi legge questo blog, dato che ve l’ho rifilata ormai in diverse versioni e salse.

Per me questa canzone si sta rivelando pian piano un piccolo simbolo del faticoso distacco dagli affanni adolescenziali, una condizione dalla quale non credo che guarirò mai definitivamente. Non solo per il suo testo, decisamente evocativo proprio di quelle tematiche, ma soprattutto per la musica.

Analizzare una canzone ben riuscita facendo dei distinguo fra musica e testo, ha altrettanto poco senso che affermare, della donna di cui si è innamorati, di preferire la sua tetta destra alla sinistra. Tuttavia, posso dire che nelle note di «Baba O’Riley» scorre un flusso energetico col quale mi sento parecchio in sintonia. «Baba O’Riley», in quei suoi fugaci minuti, mette a disposizione un efficacissimo “fanculizzatore” del mondo. E’ come l’urlo dopo un gol segnato mollando una gran pedata liberatoria al pallone, fortissima; è come un canestro infilzato da sette metri, saltando alto, quasi sulle spalle del difensore e gustandosi nell’espressione degli avversari lo sconforto, misto ad ammirazione ed invidia per il gesto atletico da loro appena preso nei denti.

«...I don’t need to fight, to prove I’m right...».
Non ho bisogno di lottare per provare di essere a posto. Sono a posto così. Perché in questa vita devi avere sempre gente intorno, a chiederti di dimostrare qualcosa?
«...I don’t need to be forgiven...».
Non ho bisogno di essere perdonato, minchia, sono un uomo, è più nella mia natura sbagliare che fare cose giuste.
«...It’s only teenage wasteland…Sally take my hand, we’ll travel south cross land... ».
E’ solamente la terra desolata della nostra adolescenza. Sally, prendimi per mano, forse camminando insieme potremo farcela.

Insomma, ridendo e scherzando, «Baba O’Riley» è diventata in qualche modo la sigla ufficiosa del mio blog. Con buona pace dei tizi dei telefilm di CSI, che dovranno subire questa mia acerrima concorrenza.

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Out here in the fields
I fight for my meals
I get my back into my living.

I don't need to fight
To prove I'm right
I don't need to be forgiven.
yeah,yeah,yeah,yeah,yeah

Don't cry
Don't raise your eye
It's only teenage wasteland

Sally, take my hand
We'll travel south cross land
Put out the fire
And don't look past my shoulder.

The exodus is here
The happy ones are near
Let's get together
Before we get much older.

Teenage wasteland
It's only teenage wasteland.
Teenage wasteland
Oh, yeah
Its only teenage wasteland
They're all wasted!



venerdì 19 agosto 2011

martedì 16 agosto 2011

Buon scampato Ferragosto


Ma questo Gillipixel, ma chi sarà mai? Chi si nasconde dietro lo strambo nomignolo? Forse un’associazione di produttori manifatturieri di vaccate? Forse un consorzio di confezionatori riuniti di boiate sottovuoto?

Non a caso, gira ormai voce che non si tratti di una singola persona scrivente, bensì, come già in certe leggende sorte attorno alle figure di Omero o di Shakespeare, di un’equipe di scribacchini, in questa circostanza decisamente male assortiti. Lo stupore, nella fattispecie, non va a posarsi infatti sulla presunta maestria letteraria del soggetto, ma scaturisce piuttosto dall’inverosimiglianza della mole di str…ate (per chi vuole, la “onz” si può trovare come sorpresa nelle patatine…), che il medesimo è in grado di sfornare. Tanta demenza “nullificante” condensata in una sola persona ed ostentata con tale fierezza, non si era mai vista.

Gillipixel sarà dunque uomo oppure donna? Sarà più uomini o più donne, oppure ancora un gruppo promiscuo di uomini, donne e gatti?

Sono domande che mi ripeto spesso pure io, cari amici viandanti per pensieri. Soprattutto in questi giorni di metà estate. Sì, perché, aprile sarà pure il più crudele dei mesi, caro T.S. Eliott, e chi ti dà torto. Ma lasciamelo dire, anche agosto in fatto di bastardaggine si difende mica male.

Ferragosto s’impone al mio palato sempre con un retrogusto di mestizia, così come succede col Capodanno. Nel tempo, ci ho fatto un po’ il callo e mando giù con meno fatica, ma un senso di spiacevolezza permane in ogni modo.

La fregatura però è che viene anche da pensare: per fortuna che ad un certo punto dell’anno, arriva Ferragosto. Sono “feste cipolla”: ad ogni loro passaggio, ti levi uno strato, molli giù qualche fogliolina usurata. Non è mai propriamente indolore, però ti carichi delle speranze di cui è cosparso il nuovo lucido mantello che quasi senza renderti conto, ti sei ritrovato cucito addosso.

Questo tipo di feste superiori, di passaggio, sono come un amore mai colto, oppure come un amore colto così tanto e in misura talmente sconvolgente, da averci lasciato sempre dentro il rammarico di non averlo vissuto nella sua interezza, proprio perché essa era eccessivamente smisurata per le limitate capacità passionali e sensuali di cui si disponeva. Ferragosto (e anche Capodanno) condensa nel culmine dalla contraddizione esistenziale, suscita sbalordimento agrodolce, deposita nel cuore e nei polmoni il medesimo meravigliato timore notturno scaturito da un onirico incidente adolescenziale.

Anche per questa serie di motivi (oltre che per una ben più prosaica penuria di tempo, in cui sono incappato ieri…), quest’anno invece di buon Ferragosto, vi auguro un “buon scampato Ferragosto”, cari amici viandanti per pensieri. Anche per quest’anno l’abbiamo sdoganato. Al prossimo, ci penseremo. Grazie di cuore ancora a tutti, a chi mi legge, a chi commenta, a chi non commenta, a chiunque passi di qui lasciando giù un sorriso.

Questo Ferragosto, fra l’altro, lascia in coda una piccola sorpresa. "Per un pelo", uno dei componenti della scribacchiante banda Gillipixel non veniva colto nel bel mezzo di un fotogramma. Ma non fidatevi mai, si tratta pur sempre di una bestiaccia subdola e sospettosa. Appena sentito l’eco del clic, con gesto fulmineo ha dribblato lo scatto, lasciando catturata dentro la fugace inquadratura soltanto una propaggine di sé.
Ed alla fine, come potete ben constatare dalla risicata immagine, non si trattava tanto di questione di “un pelo”. I peli in ballo erano ben più folti.

Il mistero s’infittisce…

domenica 14 agosto 2011

E’ iscritto a parlare l’onorevole Willer: ne ha la facoltà


«…Lies will flow from my lips, but there may perhaps be some truth mixed up with them: it is for you to seek out this truth and to decide whether any part of it is worth keeping. If not, you will of course throw the whole of it into the waste-paper basket and forget all about it...»

A room of one’ own
Virginia Woolf - 1929

«…Dalle mie labbra sgorgheranno bugie, ma è possibile che frammista a esse vi sia una porzione di verità: sta a voi cercare questa verità e decidere se ce n’è una parte che merita di essere conservata. In caso contrario, naturalmente, getterete il tutto nel cestino e ve ne dimenticherete...»

Una stanza tutta per sè
Virginia Woolf - 1929

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E’ veramente molto difficile di questi tempi riuscire a strappare un sorriso a se stessi e agli altri.

Motivi di preoccupazione se ne possono trovare a bizzeffe tutt’intorno a noi, non c’è nemmeno bisogno di sforzarsi tanto nella ricerca. Anzi, molto spesso la posta in gioco risulta ancor meno misera di un sorriso. Un barlume di serenità, uno sprazzo flebile di speranza, uno sprizzo minimale di fiducia, questo è il massimo che ci aspettiamo di portare a casa, visto il clima dalla sagoma vagamente “depressoidale” in cui ci ritroviamo calati.

Torno un attimo su una precisazione che mi preme tenere sempre viva, fra i dispositivi narrativi indispensabili alla prosecuzione della mia avventura bloghesca.
Ogni tanto ci tengo ad inframmezzare l’atmosfera ostinatamente surrealistica che regna in questo mio blog, con piccoli segnali di preservata sanità mentale. Se preferisco ancora parlare di argomenti minimali ed iper-secondari, se continuo ad ancorarmi allo scoglio dell’inutilità, della leggerezza e dell’ironia diffusa, non è per via del fatto che sono ormai definitivamente partito di zucca. Se così mi piace fare, non lo faccio nello spirito del crocerista che continua imperterrito ad abbracciare la sua dama, producendosi in eleganti passi di tango e volteggi di valzer, mentre con un vacuo sorriso occhieggia alla grande scritta dominante l’ampio salone delle feste del mastodontico naviglio sul quale è imbarcato: TITANIC!

Fermi restando il rispetto sommo e la preoccupata considerazione per le grandi problematiche esistenziali, mi piace fare così per provare a vedere se, anche concentrandosi sui dettagli minimali, e a volte anche buffi, del vivere, ci sia modo di scovare fuori qualche piccola pagliuzza di instabile e provvisoria verità. Non si tratta tanto di un rimirarsi l’ombelico, attrezzandosi per bene di confortevoli paraocchi “prosciuttati”. Piuttosto è un tentativo di verificare se anche l’ombelico possa dimostrarsi una rampa di decollo degna per prendere il volo verso modi di affrontare la vita ricchi di grazia, bellezza e consapevolezza dell’intero suo peso effettivo.

Non a caso, è stato dopo aver rassicurato me stesso riguardo a questi capisaldi, che mi è venuto da pensare a Tex Willer come ideale presidente del consiglio. Vedete? Mi ci vuole un niente a tornare subito nella mia…

Tex sarebbe l’unico indicato a rivestire il ruolo di premier, ormai. Ho passato mentalmente in rassegna tutti i possibili personaggi più prestigiosi del mondo della politica in primis, della cultura, dell’imprenditoria, ma non mi è sembrato di trovare nessuno più autorevole di Tex.

Tex è abituato da sempre a fare il contropelo ai birbaccioni di ogni risma, per cui, una volta insediato, inizierebbe innanzitutto a fare la cosa che meglio gli riesce, ossia prendere in mano il timone della giustizia e dare una bella ripulita. Corrotti, tangentari, disonesti, mafiosi, ladri di ogni genere e specie, per ognuno avrebbe la ricetta giusta.

Quattro cartoni nei denti, quando ci vogliono, ai politicastri rubagalline che si fanno gli affaracci loro approfittando delle mani in pasta nella cosa pubblica; rapinatori disarmati sparandogli con precisione nella presa sull’arma (“…zing!!!...”, e peraltro senza minimamente scalfirgli la mano); consigli d’amministrazione truffaldini sbaragliati entrando direttamente a cavallo nel bel mezzo delle riunioni, sfasciando sedie e tavoli, e assicurando i manigoldi affaristici alle mani della giustizia: questi sarebbero per grandi linee i punti salienti della manovra di fine estate stilata dalla squadra di governo di Tex.

Il glorioso ranger del Texas avrebbe poi a disposizione un’equipe di ministri di primissimo livello. S’inizierebbe con Kit Carson all’economia, con delega alla previdenza sociale. Il buon vecchio “Capelli d’argento”, arcinoto taccagno che ha sempre lasciato pagare il conto a Tex, nei ristoranti, bettole e posadas di mezzo far west, saprebbe prendere in mano i conti dello Stato e farli quadrare alla perfezione. «…Una bistecca alta quattro dita, sommersa da una montagna di patatine e una pinta di birra ghiacciata…» è il suo immancabile refrain, rinnovato all’ingresso di ogni nuovo locale incontrato sulle polverose strade delle loro avventure, sempre pensando però fra sé e sé: «…tanto paga Tex…».

Carson ha anche, e da sempre, una certa età e conosce molto bene la condizione degli anziani, le loro esigenze, il loro modo di vedere la vita. Forse nessun’altra persona al mondo è stata anziana così a lungo quanto lo è stato Kit Carson. Era anziano negli anni ’50 e lo è ancora nel secondo decennio del ventunesimo secolo. Sono sessant’anni che se ne sta lì, sul limitare della pensione: saprà bene lui quali sono i problemi principali di quella fascia d’età! Con tutte le notti all’addiaccio che si è dovuto sorbire, inseguendo criminali di ogni genere e grado, con tutte le zucche vuote sulle quali hanno rimbombato i suoi possenti cazzotti, con tutte le facce da delinquente che ha dovuto sbugiardare nel corso della sua esemplare carriera, Carson ha messo giù una marea di contributi al fine di ottenere la pensione massima da giustiziere. Chi meglio di lui può essere indicato per predisporre una riforma pensionistica coi contro-fiocchi?

Per il capitolo del rinnovamento e dell’incentivo alle “forze giovani” della nazione, ogni ministero competente sarebbe affidato al figlio di Tex, Kit Willer. Lui, col suo entusiasmo, con la sua voglia di mollare un destro sul naso al fetentone di turno che infastidisce la bella del saloon, con il suo desiderio sempre vivo di vedere le cose andare bene, con la sua meticolosità nel seguire i piani per sgominare bande di malfattori, saprebbe far filare a meraviglia il dicastero dello sviluppo economico, nonché quello della scuola, trasmettendo fra l’altro ai giovani un buonissimo esempio.

Tex saprebbe inoltre mettere a disposizione anche un eccellente ministro dell’ambiente e della cultura. Mi riferisco al suo fidatissimo socio indiano Navajo, Tiger Jack. Tiger è cresciuto in un villaggio pellirosse, ma ha avuto modo di conoscere benissimo anche l’ambiente dei bianchi, assorbendo anche da questo abitudini, tradizioni e modi di essere. Nessuno meglio di lui sa cosa vuol dire la comprensione verso la diversità, che di fondo rappresenta il significato più profondo e genuino della parola “cultura”. Anche per quanto riguarda l’ambiente, con Tiger andremmo perfettamente a nozze: nella tradizione pellirosse, la simbiosi fra uomo e natura è non solo acquisita come dato di fatto certo, ma addirittura reputata sacra.

Altro elemento a favore di Tex, come ipotetico governante ideale: da sempre lui è incrollabilmente fedele alla memoria della sua amata Lilith, la giovane indiana che gli diede il figlio Kit, morendo purtroppo prematuramente. Anche dal punto di vista di eventuali scandali a sfondo sessuale, saremmo dunque più che immunizzati: l’integrità di Tex non li potrebbe non solo tollerare, ma nemmeno minimamente concepire.

Tra l’altro, nel sottobosco delle leggende sbocciate in parallelo alla figura dell’indomito ranger, da anni girano voci di intercorsi interludi fra Tex e Carson sulla falsariga delle misteriose vicende di Brokeback Mountain. La fondatezza di queste dicerie è tutta da verificare, Tex non si è mai pronunciato in proposito, ma anche se fosse, sarebbe soltanto un’ulteriore garanzia di apertura e tolleranza verso tutte le possibili sfumature dell’umano sentire.

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, nel caso che alle prossime politiche Tex si candidasse, non so voi…ma io un pensierino, quasi quasi ce lo farei.



martedì 9 agosto 2011

Le vaccazioni Gillipixberg


«...Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio
d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo...»

Estate” -
da “Lavorare stanca” - Cesare Pavese 1940

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Quando mi ci metto d’impegno, fare lo stupido mi riesce anche abbastanza bene.

E non lo dico per vantarmi.

Addirittura mi distinguo in performance degne di nota anche quando sono da solo. Di solito, l’idiozia in solitaria mi scatta mettendomi a canticchiare svogliatamente, abitudine che coltivo fra l’altro piuttosto spesso. Io, un motivetto in bocca c’è l’ho praticamente sempre. Ho sempre fatto così, da che mi ricordo. O fischietto, o canto, o mugolo melodicamente, o improvviso un coretto a bocca chiusa, fatto sta che in un modo o nell’altro la musica è sempre presente fra le mie labbra.

Con questo non è che mi voglia presuntuosamente spacciare per un ottimista a tutto spiano. Non sono certo il tizio più adatto a gorgheggiare «…voglio vivere così col sole in fronte…». Io canticchio sia che il buon umore mi stia cogliendo, sia durante i momenti di mestizia, sia quando sono sull’incazzato andante, oppure ancora se sono sereno, e così via. Più che altro il “musicheggiare in proprio” è una sorta di mio habitat naturale, ci passo attraverso come un pesce sguazza nell’acqua.

E’ stato così che non molto tempo fa, guidando verso casa («…Take the long way home…») al volante della mia inutilitaria 313GT (Gattopoli), mi è scappato di fare lo stupido da solo in maniera esagerata. Naturalmente stavo canticchiando, quando mi sono ricordato di un discorso fatto alcuni giorni prima coi miei amici. Tema delle nostre chiacchiere era Lucio Battisti («…Ancora tu? Ma non dovevamo rivederci più?...»). O meglio, si parlava degli artisti italiani che hanno avuto o stanno avendo successo all’estero, vedi Ramazzotti («…Siamo ragazzi di oggi…vàca dü dé, vàca dü dà…») o la Pausini («…Marco se n'è andato e non ritorna più / Il treno delle 7:30 senza lui / È un cuore…di panna per noi…»), per fare due nomi a caso.

Ci si domandava come mai Battisti, così capace di impregnare i modi di sentire italico-moderni, non era invece riuscito a far filtrare altrettanto efficacemente la propria poetica musicale oltre confine. Coi miei amici abbiamo convenuto che il suo era un modello melodico troppo connaturato al nostro panorama culturale nazionale. Quella di Battisti è una complessità musicale che può essere apprezzata al meglio solamente se continua a nutrirsi dell’humus di sensibilità in cui è germogliata. E pensare che diversi tentativi di tradurre i testi battistiani in inglese, furono fatti, ma con risultati modesti.

Una canzone di Battisti è quasi impensabile, una volta zompata fuori dal recinto espressivo mogoliano, si diceva ancora fra di noi. Come faceva quella? «…Sì, viaggiare...». Come suonerebbe in inglese, ci chiedevamo ancora: «…Yes, to travel...», e lì giù a ridacchiare da gran cultori della vaccata collettiva. Il discorso era ormai deragliato irrimediabilmente su binari surreali, per cui della serietà del discorso di partenza non rimanevano che brandelli d’idiozia sparsi ovunque, ma tutta la cosa, come per l’appunto vi dicevo, mi è tornata in mente («…bella più che mai, forse ancor di più...») guidacchiando placido verso Gillipixiland («…Guido piano / e ho qualcosa dentro al cuore / che mistero...»).

Quasi senza pensarci, ma riproducendo fedelmente la melodia originaria, mi sono messo allora a canticchiare: «…Yes, to travel - dudindida – didundida - nana - nana» e non ho fatto in tempo a ripetermi più di due volte questo mantra dell’assoluta idiozia, che mi sono messo a ghignare fra me e me come un deficiente assoluto. La cosa notevole era che guidavo e ridevo, me la suonavo e me la cantavo tutta da me, suscitando chissà quali nobili impressioni agli occhi degli altri automobilisti che incrociavo.

Non capivo nemmeno bene perché quella cosa mi facesse così ridere. Forse era la forza del maccaronico anglismo contrabbandato attraverso quello sgangherato trasferimento testuale, a far scattare la molla della scemenza. Fatto sta che la sensazione più pregnante del momento consisteva in uno debordante orgoglio nel constatarmi così stupendamente stupido.

Va detto inoltre che l’idiozia solinga e canzoniera non abbisogna sempre di un retroterra discorsivo di siffatta elaborazione. Può capitare anche così, come un fulmine di imbecillità a mente serena. Non a caso, un altro dei miei capolavori storici in questo senso, ossia la “cagno-trasposizione” di alcuni versi della celeberrima canzone di Percy Sledge «When a man loves a woman», lo concepii un bel giorno proprio grazie ad un colpo d’ispirazione folgorante. La strofa incriminata è la seguente «…when a man loves a woman / I know exactly how he feels / 'Cause baby, baby, baby, you're my world...».

Uno dei miei principali problemi di canticchiatore è che, sarei anche abbastanza intonato, ma ho una memoria da schifo. Figuriamoci con i testi inglesi, che capisco al 33,333333 %, e anche per quel terzo, li capisco sbagliati. Però canticchiare senza parole ha poco senso. Così, nello spazio melodico a disposizione, spesso ci infogno dentro di tutto, pur che quadri bene o male come metrica e come tempo.

Ed ecco come andò quella volta con Percy Sledge.

Per iniziare, tutto facile, almeno il titolo me lo ricordavo. Ecco allora che mi avventuro nel primo verso: «…when a man loves a woman /…», ma già col secondo, arrivano le note dolenti. Decido dunque istintivamente di cavarmela con un truffaldino escamotage da due soldi, così proseguendo: «…when a man loves a woman / a woman loves a man…». Oh, il discorso non faceva una grinza: dove c’è un “man” che “loves a woman”, come minimo ci si aspetta dall’altra parte una “woman” che “loves” il medesimo “man”. Non è detto che vada sempre così, ma perlomeno ci se lo augura.

Fu tuttavia sul verso conclusivo, che mi abbandonai alla più pura idiotizzazione vernacolare, concludendo la mai interpretazione, letta nella sua totalità, nel seguente deplorevole modo: «…when a man loves a woman / a woman loves a man / baby, baby, baby, va a’ dà via ‘l cü-ül...»

Va bene, cari amici viandanti per pensieri, per oggi vi saluto. Perdonate se ultimamente scrivo poco e per lo più mi attengo a tematiche caratterizzate da un peso culturale d’importanza pari alla puzza d’ascella di una farfalla. E’ un periodo che mi va un po’ così: le idee sono poche e per lo più balorde. Speriamo in meglio per il futuro. Siamo pur sempre in periodo ferragostano. Se non si sparano due spropositi adesso, ditemi voi quando lo dovremmo fare.

L’ultima cosa che voglio è svegliarmi un bel giorno e ritrovarmi costretto a canticchiare: «…Penso che un sogno così non ritorni mai più / ti dipingevo le mani ed il culo di blu / …Vaccare, oh-ho / vaccare, oho-oho…».