martedì 31 luglio 2018

Anche se non scrivo


Anche se non scrivo per tre giorni, la bellezza alberga in me

Anche se non parlo, il cielo mi nutre
Anche se un’idea non esce dal mio cranio, dentro maree d'esistere mi scuotono

C'è un cambio di ritmo in ogni attimo, c'è un fiore d’ignoto in ogni fremito

Il flusso del tempo è una canzone, il ritornello si rinnova a ogni ritorno, la strofa si ripete diseguale, lode al creato, dal colibrì sino al maiale

Non parlare, non dire, nulla fare
Semplicemente veleggiare, spinto dal vento del respirare

C'è un gran tesoro in ogni piloro, giusto perché ci venne a noia parlar di cuore

sabato 28 luglio 2018

L'eclissi che t'eclissa


Io l’eclissi l’ho vista poco, perché la luna se ne stava ostinata sotto i palazzi e le case di fronte. Son dovuto scendere in giardino con la pila, attento a dove posavo i piedi per non crick-crockiare una lumaca, o tirare un pungente calcio di rigore a un porcospino.

Allora l’ho vista, se ne stava piccolina e bassa, un po' emaciata, fra il palazzo e un acero, con Marte grassottello a baciarle la coda più sotto. Ho pensato che la luna l’avevo vista molto più bella e spettacolare in tante altre occasioni.

Sono rientrato in casa e, sarà stato il sapere che un’eclissi era in corso; sarà stato che ne hanno parlato tanto; sarà stato un qualcosa di effettivamente sparso nell’aria…fatto sta che riaffacciandomi poi diverse volte, pur senza rivedere la luna, il buio mi sembrava un buio strano. Rarefatto.

A guardare quel buio era come fluttuare nel succo di un'arancia. Ma non spremuta. Un'arancia abnorme, intera, ai confini della quale stava la volta scura del cielo, nella cui polpa ci si sentiva immersi.

E un po' l’afa, e il sudore velato, e una brezza a far frusciare le foglie del noce, e che d’estate gli odori del corpo si dichiarano con tono stentoreo…tutte queste cose insieme…e per qualche attimo m'è sembrato di trovarmi sotto l'ascella dell’universo.

Ma questo al telegiornale, nei servizi sull’eclissi, non l'hanno mica detto.

venerdì 27 luglio 2018

Amplessi mentali, pensieri coitali


È a tutti familiare la duplicità di senso contenuta nel verbo concepire.

Si usa la stessa parola per riferirsi alla formazione in nuce di una nuova vita, così come allo sviluppo di un’idea, non a caso detta anche “concetto”.

Il linguaggio non si evolve mai a caso e questo apparentamento di termini non può essere fortuito. Perlomeno vi si possono vedere stimolanti somiglianze.

Probabilmente quando un’idea si va formando in noi, al momento non lo sappiamo ancora, non ne siamo consapevoli. Anzi, potremmo anche sospettare che quell’idea nemmeno la stavamo cercando. Si sviluppa dentro, ma la nostra “strada intenzionale” era un’altra.

Ciò che ci guidava era un obiettivo di desiderio e piacere (accomunabile sia al pensare che al fare l’amore), la meditazione e l’amplesso come potenti forme di ricerca di un auto-completamento. In entrambi i casi il compenetrarsi e il lasciar entrare sono requisiti necessari.

Per inciso, sovviene anche la curiosa ambiguità ambivalente contenuta nel verbo “possedere”, se riferito all’atto erotico, dove a ben guardare il “possidente” organo maschile è in realtà stretto “a pugno” dentro quello femminile, presunto “posseduto”.

Allo stesso modo, un’idea la possediamo o ci possiede?

L’analogia prosegue col periodo “di latenza” della gravidanza.

L’idea è ormai concepita, ma verrà al mondo solo in seguito. Qui a dire il vero la metafora zoppica un po': un’idea non nasce poi, dopo un preventivato regolare periodo di nove mesi. Ci salviamo in corner, pensando che anche il parto facilmente non cade con regolarità canonica precisa al millesimo.

Di fatto l’idea si sviluppa occultamente dopo un notevole periodo dalla sua inconsapevole “costituzione in seno”.

Infine nasce, si manifesta a noi e al mondo. Ma anche qui, come nel caso di un figlio, l’idea ci lascia solo per un certo periodo con l’impressione che sia “nostra”. Poi se ne va per le strade della vita, soggetta alle interpretazioni e agli sviluppi successivi propri e altrui.

Compito di ciascuno è capire come il meglio per ogni idea sia il venir concepita e nascere in forma di gesto amoroso, essere accompagnata con intento educativo, e infine venir lasciata andare con profondo senso di libertà.




giovedì 26 luglio 2018

Emily Dickinson (1858-59)


Ogni tanto, aprendo un libro di poesie, trovi una sorpresa gradita…

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“Emily Dickinson (1858-59)”

Le nostre vite sono svizzere –
così immobili – così fredde –
finché un pomeriggio chissà
le Alpi lasciano aperte le tende
e noi vediamo di là!
L'Italia è dall'altra parte!
Mentre come sentinelle in mezzo –
le Alpi solenni –
le Alpi sirene
eterne si frammettono!

[…Our lives are Swiss –
So still – So Cool –
Till some odd afternoon –
The Alps neglect their Curtains
And we look farther on!
Italy stands the other side!
While like a guard between –
The solemn Alps
The siren Alps
Forever intervene!...]

mercoledì 25 luglio 2018

Lozioni di strano


Adoro le lingue inventate. Mi divertono un sacco gli idiomi simulati partendo da sillabe o sequele di suoni assimilabili a una qualche parlata immaginaria. In generale, mi piacciono i giochi di parole, le frasi i cui suoni diventano qualcos'altro, in una bizzarra sarabanda di significati più o meno fondati.

Fin da quando ero bambino, per me l’inglese è stata quasi come una lingua inventata. Me lo bevevo con grande inconsapevolezza attraverso le adorate canzoni pop e rock, non capendoci assolutamente nulla in quanto a senso del testo, ipnotizzato dalla bellezza delle melodie, che per osmosi estetica si trasmetteva a quelle misteriosi frasi, trasformandole in fascinose formule magiche verbali.

Non so quanti anni ci ho messo per capire cosa volessero dire i Rolling Stones con quella loro fatidica tiritera, che a me era sempre bastata così, nella sua potenza carismatica di puro suono: Aghegghetno sadisfescio! Enatrai! Enatrai! Enatrahai!...

E anche dopo, che l’inglese l’ho imparato un po', mi è successo di incontrare strane mescolanze semantico-sonore, sempre ascoltando bei brani musicali del miglior repertorio pop. E mi succede tuttora.

C'è ad esempio questa canzone di Paul Simon, molto bella per me, “Diamonds on the soles of her shoes”, contenuta nell’album “Graceland”.

Il testo a dire il vero, se provate a tradurlo, risulta molto surreale. Di fatto ci sono questi due ragazzi, lei molto ricca e lui poverissimo, si devono incontrare per un appuntamento, o qualcosa così.

A un certo punto arriva la buffa metamorfosi linguistica. Dice il testo: “...The poor boy changes clothes / And puts on after-shave / To compensate for his ordinary shoes…”, ossia “…Il povero ragazzo si cambia i vestiti / E mette il dopobarba / Per distogliere l’attenzione dalle sue scarpe ordinarie…”.

A sentire la frase cantata, un po' rapidamente anche per questioni di metrica, quando si arriva a “…puts on…” (“…mette su…”), si finisce per capire “puzón”.

Il risultato è dunque un improbabile “puzón afterscèiv”, dove la prima parola diventa quasi la marca del dopobarba, il famoso “dopobarba puzón”, per l'appunto, la lozione per l’uomo che non deve profumare mai.

Ferma restando la bellezza del brano, è divertente allora sorridere di queste piccole aleatorietà verbali, e domandarsi scherzosi quesiti del tipo: va beh che dovevi nascondere le scarpe brutte... ma cosa sei “semo”, a metterti il deodorante puzón?

martedì 24 luglio 2018

Riflessi in un occhio di merda


Se non fosse che anche l'ultimo degli stronzi ormai la conosce, questa mia riflessione avrebbe meritato di iniziare con la celeberrima frase di De André sui diamanti, i fiori e il letame.

Sì perché, camminavo sopra l'argine, sopra pensiero, quando per un pelo non finisco sopra un sontuosa cacca di cane.

Lieto della parziale deprivazione di quel pizzico di fortuna evitata, e non prima dei tre o quattro accidenti di rito scagliati all'inciviltà del degenere padrone dell’incolpevole cane, mi soffermo a notare un dettaglio assai curioso.

Sulla cilindriforme espressione retrospettiva canina, stavano adagiate infatti cinque o sei di quelle graziose e colorate piccole farfalle che solitamente vedo svolazzare e planare sopra altrettanto variopinti fiori o fra l’erbetta più fresca e verdeggiante.

Oh, portento! Mi sono detto…

Com'è che una creatura così aggraziata e leggiadra, si associa con tale liberalità al sozzume e alla bassezza palesi?

E dovevate vederle, come sottolineavano la bizzarra simbiosi con frementi battiti d’ala, neanche fossero posate sul più delicato e odoroso roseto del parco di Versailles!

Di sicuro una spiegazione eto-biologica del fenomeno ci sarà. Ma a me sono venute in mente soltanto quelle tre o quattro solite metafore filosfon-poeticastre.

Ho pensato senz’altro a tutto l’arco di pensiero occidentale che va da Eraclito a Hegel. A come la realtà debba essere per forza fatta di opposti, oppure non essere per niente.

Mi è sovvenuta la frase che si sente spesso dire, quella cioè riguardante il valore della diversità, e ho pensato: allora dev'essere proprio vera.

Ho riflettuto di nuovo sul già più volte frequentato e poi ancora rivisitato concetto di relatività (e non c’entra Einstein, o forse un pizzico sì…).

Che se quello che per noi è soltanto un rifiuto ripugnante, può divenire una risorsa, quando osservata da una diversa prospettiva del reale, beh allora tutto questo qualcosa vorrà dire.

Ho infine pensato che mi sarei dovuto scusare per l’immagine abbinata alle mie parole. La difficoltà di cogliere con uno scatto l'apice del trastullo “smerdaiolo” delle farfalline era massima.

Sembravano fare apposta a richiudere le ali a ogni mio clic, e i colori più belli li tenevano così celati, mostrando solo la livrea esterna, facilmente confondibile con la non esaltante tonalità cromatica su cui posavano.

Per dirla tutta poi, d’accordo, non ho una gran immagine personale da difendere ormai, ed è pur vero che sull’argine non passa così tanta gente, ma tutto sommato non mi sembrava proprio il massimo venir colto nell’atto di fotografare una merda.

lunedì 23 luglio 2018

Spruzzi di nichilismo

Spruzzi di nichilismo
in una mite
giornata di luglio


venerdì 20 luglio 2018

A me mi piacciono


Le donne a me mi piacciono proprio, ma io non piaccio molto alle donne...la donna è un involucro morbido dal contenuto forte, che piange per un gattino triste ma sbrana un leone infuriato, la donna è liscia da accarezzare, ha tanti capelli, e peli solo nei posti più belli, non come l’uomo che ce li ha in faccia e nelle orecchie, la donna ha la voce più bella da ascoltare, è complicata da capire, si erge impervia come un mistero chiaro-lunare, la donna è già un profumo solo a dire “donna”, una donna, quando ti piace da matti, ti manda ai matti, ami soprattutto i suoi difetti, perché ti ha inoculato una pozione che ti rovescia gli occhi come cannocchiali di Galileo Galilei Galivoi Galinoi, la donna ci hanno scritto milioni di poesie, romanzi, dipinto quadri, composte sinfonie, canzoni, trasvolati oceani, domati draghi, evasi capitali, abbandonati Eden, paesi e buoi, ma la donna, nessuno ci ha mai capito molto, la donna è un suono che anche solo a dirlo alla muta la lingua fa festa, la donna quando ti ride a una stupidata che hai detto il cielo si apre dalla terra e nella fessura c'è scritto “fesso” e non sei mai stato più contento per te stesso, la donna è uno specchio riflesso in mille specchi, e se ti specchi vai in confusione, non sai più se vedi la donna o la tua ombra che balla la rumba, la donna è un puzzle che profumle, la donna metti che prendi il dizionario e tutte le parole dentro e le combini in miliardi di modi come tutti gli atomi dell’universo, ecco, non sei ancora riuscito a dire com'è la donna, la donna è la donna ma è anche non la donna, la donna ti fa volare senza aereo e ti lascia lì col bagaglio “in” mano, la donna è sentirsi sognati da un sogno, la donna è fatta in modo che ci sa fare con le parole, si spiega proprio bene, ma l’occhio cade sempre da un'altra parte che chissà come mai finisce spesso in “ette” o “ulo”…a me mi piace proprio tanto, anche se io alla donna mica piaccio molto…

Una solitudine troppo rumorosa (1977)


Ho letto “Una solitudine troppo rumorosa” (1977) di Bohumil Hrabal, autore cecoslovacco (perché così andava il mondo ai tempi…).

È un libro difficilmente catalogabile, e infatti non ci penso nemmeno a farlo.

Raccontato in prima persona dall’addetto a una pressa che compatta rifiuti di carta di ogni tipo.
Nell'inesorabile tritatutto passano anche tanti libri, che la voce narrante vede passare come un flusso di vita dal quale cerca di salvare i pezzi più pregiati.

Negli anni finisce per rimpinzarsi la casa di un moloch libresco, sotto cui rischia continuamente di rimanere travolto e schiacciato, a letto mentre dorme, quando siede sul water e in ogni angolo della casa.

Da questa trama minimale scaturisce un monologo interiore sulfureo, surreale, paradossale, iperbolico, picaresco, crudele e poetico al tempo stesso, che è anche in trasparenza un ritratto della vita sotto la cappa del regime cecoslovacco sovietizzato.

I libri hanno sempre capacità evocative inopinate, e tra le altre cose a me questo libro ha suscitato insospettabili immagini.

Mi ha ricordato l’idea del mondo “oltre cortina di ferro”, per come ce la potevamo formare in mente guardando nelle tv in bianco e nero degli anni ’70 le  trasognate avventure dal gusto “burocratese”, del serafico e ineffabile Gustavo (Gusztáv, serie ungherese di cartoni animati brevi, realizzati tra il 1961 e il 1977 da Pannonia Film Studio).

Ma soprattutto, per lo stile narrativo, il dipanarsi del testo mi si è parato dinnanzi in corso di lettura con l’impatto di un quadro di Jackson Pollock.

Le frasi sono come frustate di vernice schioccate sulla pagina, sgocciolature all’apparenza disordinate, ma di fatto inquadrate in un complesso disegno generale (non a caso, il testo era nato in origine come poema in versi liberi, di cui conserva ancora l’eco delle “andate a capo”).

È un libro che può essere letto nella prospettiva dei crudi fatti narrati, oppure in senso figurato-metaforico, e a mio avviso questa seconda strada risulta di certo le più potente.

mercoledì 18 luglio 2018

Copyright is in the air


Da quando all'aeroporto di Caselle, Torino, è sbarcato il bronzodiriaceo campionissimo di football in forza da ora alla Juventus, mi sono già più volte sorpreso a sostenere io stesso una camminata densa di ostentato stile ronalduto.

Per atteggiarsi a Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro, (meglio noto come Cristiano Ronaldo), bisogna incedere alteri e “fusteggianti”, sfoggiare sotto la maglietta i più marmorei pettorali e gli addominali dal maggior alabastrato spessore di cui si è capaci (non importa se poi non ci sono davvero, l'importante è l’idea di averli), e dispensare ammiccamenti dalla mascella volitiva, misti a sorrisi tirati con curvatura delle estremità delle labbra non eccedenti i dieci micron sulla scala di misura metrico-decimale-div-hollywoodiana.

Questa figura tragico-grandiosa di uomo della post-modernità si impone all’immaginario, forse ancora prima che per l’eccelsa valentia sportiva, per il suo ineluttabile obbligo fatale di trasudare soldi da ogni atto proprio di esistere.

E almeno in parte, seppur minimamente, a questa possanza esternante pecuniaria, finiamo per contribuire tutti. Anche se non andremo a vedere una partita, né faremo abbonamenti a pay-tv, o non ci compreremo magliette col suo nome; anche chi con la sigla CR continuerà a indicare soltanto Cremona nelle targhe.

Vuoi guardando di sfuggita un suo gol al tg in tele, e dedicandogli dunque una porzione di tempo e canone; vuoi subendo proprio malgrado un lieve “rigonfìo” (da leggersi accentato sulla “i” di fondo) alle gonadi nell'assistere a uno spot con lui protagonista; vuoi vedendo certo spazio televisivo, altrimenti destinabile a un ottimo documentario sul Costruttivismo russo e le avanguardie sovietiche degli anni ’20, occupato invece da moleste disamine di gioco all’aria fritta; vuoi in un modo, vuoi nell'altro, chiunque pagherà il suo pur involontario obolo alla gran movimentazione danarosa ronaldeggiante re-midizzata.

Ecco perché ultimamente mi son messo a traccheggiare avanzando in ronaldico sembiante: così almeno mi prendo indietro un piccolo anticipo di quanto spenderò. Però sto attento, faccio tutto in sordina e con estrema circospezione.

Hai visto mai che mi becca la Finanza e mi chiede il copyright, se non addirittura lo scontrino?

martedì 17 luglio 2018

Il convegno degli animi nudi


Racconta il mito dell’Albacoca, un'antichissima leggenda sortita dal nulla due minuti fa (e molto cara alle badanti moldave), che la notte, quando sogniamo, il nostro corpo rimane nel letto a dormire, mentre la nostra parte spirituale se ne va in giro, a zonzo dove le pare, per combinare tutte quelle giocose “surrealtà” che di fatto vediamo proiettate sullo schermo inscurito delle palpebre abbassate dal sonno.

Non riuscirei nemmeno a dire in misura approssimativa le innumerevoli volte che mi sono sognato di andare in giro nudo, e di fare le ordinarie cose che si fanno in mezzo alla gente, soprattutto normali conversazioni, però in versione assai discinta.

So che è roba da congresso psicoanalitico e un bravo esperto in materia ci imbastirebbe sopra alcune buone ore di conferenza, ma io mi sono spiegato a modo mio la natura di questo onirico vagare in adamitica propensione.

In questi sogni non sono mai nudo in maniera evidente, lo sono magari appena sotto quota-cintola, oltre lo striminzito confine del lembo inferiore di una maglietta strana, che copre e non copre, sempre a rischio di alzarsi troppo ad ogni movimento.

Ne ho dedotto l’ipotetica spiegazione che si tratti di nudità d’animo intenzionale, più che di immediatezza fisica pura e semplice.

Il mito dell’Albacoca in questo senso mi dà ragione. Se il nostro corpo nel sogno rimane a dormire, la nudità mandata a vagare per il mondo è di un tipo erotico “de-fisicizzato”.

Ha sempre a che fare con pudore e privatezze intime, e con il mistero del disvelarsi misto al nascondersi.

Ma porta in giro più che altro un anelito di apertura dialogica priva di barriere, una condivisione pura, nella quale io e gli altri diventiamo soggetti intercambiabili: io sono gli altri, gli altri sono io.
Se nella realtà tutti andassero per strada nudi, e sempre, commetteremmo il più gran “mistericidio” della storia (circoscrivendo ovviamente il discorso alla nostra cultura cosiddetta occidentale). La nudità coperta è la parte oscura della luna del vivere.

Però nel regno dell’Albacoca, possiamo darci ideale appuntamento direttamente stanotte. Siete tutti invitati, col vostro animo bello sereno e smutandato in temporaneo volo di piacere sopra al corpo: si parlerà di metafisica e giardinaggio, tra un salatino e una facezia, si sorseggerà un drink sotto una tenda, sorridendo consapevoli ch'è il medesimo venticello comune a carezzare le pudenda.

lunedì 16 luglio 2018

Paradise lost




Sto leggendo “Paradiso perduto” (1674) di John Milton.

Ne scrivo qui due brevi parole in corso di lettura, da ignorante. Nel senso che un esperto o un professore, mi bastonerebbero di sicuro per quanto sto per dire. E come mia scusante, posso portare solo il grande affetto che sto dedicando a questo bellissimo poema in versi liberi.

So che stiamo parlando di un capolavoro della letteratura; so che andrebbe studiato, analizzato, sviscerato nelle sue mille simbologie e implicazioni filosofico-morali. Lo so.

Ma non posso fare a meno di dire che lo sto leggendo con lo spirito, il godimento e l'entusiasmo che solamente un “grandissimo fumetto” saprebbe regalare.

C'è dentro il meglio della Marvel e della graphic novel di alta qualità, in questo testo, ma il bello è che non contiene nessun disegno: quelli ve li costruire tutti nella mente, lasciandovi trasportare dalle magistrali “affrescature” che Milton vi stampiglia nella fantasia.

C'è la lotta fra il Bene e il Male, entusiasmante come non mai, il tema dei temi, fondamentale per le storie di ogni epoca. Si tratta in questo caso però di un tipo di Bene e di Male dipinti quanto mai in maniera complessa, dubbiosa, a tratti persino velata di impagabili venature di ironia (in certi passaggi, si parteggia addirittura per le sorti degli angeli decaduti, fin quasi a comprendere un po' meglio perché a volte si dice “povero diavolo”).

È pieno di personaggi con superpoteri, che si fronteggiano in epici attriti al limite fra la possanza fisica e la intellettuale, col paradosso filosofico sempre pronto a metterci lo zampino.

C'è inoltre il piacere che sanno dare le grandi narrazioni mitologiche.

Ovvio, si sa già fin dall’inizio che Satana farà il marpione, Eva mangerà la mela, l’ira divina si scatenerà e così via. Ma non di meno lo stupore di scoprirlo rimarrà grande.

Così come una bella donna non delude mai, per il solo fatto che sappiamo già come sotto ai vestiti ci troveremo le stesse cose che hanno anche tutte le altre (metafora leggibile naturalmente anche in direzione “femmina verso maschio”, o in ogni altra possibile combinazione del desiderare).

(Piccola avvertenza faceta: non cercate in libreria l'edizione con la mela in copertina, trattasi soltanto di una mia personale “paraculata” fotografica, con mela vera appoggiata).

venerdì 13 luglio 2018

L'invenzione dei colori


Quella notte, avevano fatto l’amore in maniera portentosa.

Tutto era nato inaspettatamente da un candido film in bianco e nero visto alla tele. In realtà, scoprirono anni dopo, la pellicola sarebbe stata a colori.

Ma in casa allora c’era solo quello scatolotto antiquato a rimandare nella stanza i bagliori azzurrini di “Sogni proibiti”, con Danny Kaye e Virginia Mayo.

Della storia, pur nella sua semplicità, si erano intrisi con incanto, e ancor prima di infilarsi sotto le coperte, una tensione irresistibile a fondersi in uno, li aveva dolcemente tormentati tra l’incertezza di correre subito a letto per placare l’urgenza, e il piacere di portare invece a termine l’incantevole visione.

Dopo, in coincidenza con il più elevato dei picchi di piacere toccati all’unisono, una buffa sferzata di scintille era corsa giù per il lungo tubo che reggeva l’antenna, conficcato ben bene fin nella loro stanza del sottotetto.

Avevano riso di gusto per lo stravagante arcano, abbracciati ed esausti di godimento.
Nove mesi dopo era nato un frugoletto, a cui misero nome Tono Di Grigi.

Cresceva sano, rubizzo e robusto, poi un giorno all'asilo la suora gli chiese di scegliere il pastello rosso dall’astuccio, ma il piccolo non capiva. Tono Di Grigi non poteva vedere i colori.

Tutti lo commiserarono per questa manchevolezza sfortunata, ma Tono, anche qui, proprio non li capiva.

Vedere il mondo in bianco e nero era per lui una gioia estrema. Non sapeva davvero cosa farsene di questi…come li chiamavano?...colori?...

Immaginate di vedere tutto come in un vecchio film, dove la fierezza è quella di Gary Cooper, la leggiadria, quella di James Stewart, la grazia felina, quella di Marlene Dietrich, la gioia di sorridere, quella di Billy Wilder…

Tono Di Grigi non sapeva desiderare niente di più bello.

Solo un paio di crucci gli rimanevano. Gli amici lo prendevano un po' in giro per la sua particolarità, con la tipica spietatezza di certi bambini.

E poi non poteva mai partecipare quando gli altri lanciavano sfide a “strega comanda color”, un gioco che si raffigurava molto bello, e per il quale sarebbe stato disposto a perdere persino la beneamata visione in bianco e nero, ma che di fatto gli rimaneva precluso.

Restava allora a guardare e a suo modo, era bello anche così.

Un giorno conduceva il gioco una bimba di un anno più grande di Tono. Era vispa, spiritosa, svelta, e nei giochi sembrava sempre trovarsi come se ci fosse nata direttamente dentro.

Fu allora che Tono si accorse di una magica stranezza. Ogni volta che la bimba comandava, per gli altri contendenti, il colore da andare a toccare, tutto quanto intorno avesse quella tinta, lui riusciva a vederlo per qualche attimo nella sua giusta tonalità.

La bimba urlò: “…Strega comanda color…AZZURRO!!!...” e il cielo, le imposte di una casa, una vecchia 126 parcheggiata lì sotto, s’illuminarono cromaticamente per Tono.

Ordinò di nuovo: “…Strega comanda color…FUCSIA!!!...” e Tono comprese il vero motivo per cui una vecchietta di passaggio dovette schermirsi divertita dal nugolo di bambini che le erano corsi intorno per toccarle il golfino.

Tono non si teneva più dalla voglia di andare a dire il piccolo miracolo alla bimba, ma portò pazienza sino a partita terminata. Poi finalmente le parlò con gran concitazione dell’inusitato fenomeno.

E solo alla fine, nella sua confusione, ammirandone i ricciolini scarmigliati e stringendole la mano ancora sudaticcia di ordinazioni cromatiche, le disse: “…Mi chiamo Tono Di Grigi…”.

Al che lei: “…Io sono Arcoba Lina!!!...”.

Da quel giorno diventarono molto amici e passavano tanto tempo in compagnia. A Tono non pareva vero di poter continuare a vedere il mondo con l'epico gusto di un western di John Ford e all’occorrenza, lasciare che Lina lo pitturasse per lui.

Quell’estate di vacanza dalla scuola furono inseparabili. Giocavano tutto il giorno a colorare il mondo insieme.

Perché tra l’altro, scoprirono anche, Lina era capace di far vedere a Tono colori invisibili a qualsiasi altro normale vedente. Bastava che la bimba dicesse un colore di fantasia e se nel mentre i due si stavano tenendo per mano, entrambi vedevano veramente quel colore sull’oggetto indicato.

“…Di che colore è quel muro?…” chiedeva Tono.
“…Color pelliccia di gatto svevo…” rispondeva magari Lina, oppure “…color frutto esotico di Burpinia…o color ruggito di arvicola newyorkese…o color Gheppofurbio marsupiato del Madagastir…” e subito tutti e due vedevano insieme quei buffi colori, stringendosi forte le mani dal divertimento.

L’inizio del nuovo anno scolastico segnò purtroppo la fine dell’incanto. Lina si trasferì altrove con la famiglia, e non potevano più vedersi per inventare colori.

Tono ritornò di buon grado a gustarsi il suo monocromo vedere e qualche volta ancora, potevano pur sempre telefonarsi.

Ecco allora che magari Arcoba Lina, fra un saluto e un aggiornamento sulla sua nuova vita, piazzava lì a sorpresa un bel “…color bue mostarda di Stoccarda…”, e di nuovo il piccolo gioco di prestigio si compiva sotto gli occhi di Tono, per qualche attimo immerso nell'anticamera di casa con moquette e carta da parati in perfetta tonalità "bue mostarda di Stoccarda”.

giovedì 12 luglio 2018

Bang super-sofico


La pubblicità diventa ogni giorno sempre più arrogante. La tracotanza che sprigiona, unita alla sua odiosa protervia strisciante, stanno toccando estremi impensati di molestia concettuale pura.

Si giunge persino a stravolgere ogni verosimiglianza filosofica. Si nega l’uomo medesimo nella sua essenza, si calpestano a piè pari le leggi ontologiche e ontiche.

I pubblicitari, novelli cagliostri di ‘sta minchia, stanno mettendo in atto il tentativo alchemico di tramutare l’intera realtà, in anti-realtà del bisognificio auto-trangugiante la propria quintessenza di ingannevole idiotizzazione.
Prendete quello spot che candidamente dichiara “...più sudi, più sai di fresco…”, o l’omologo equipollente che sostiene “...più sudi, più profumi…”.

Ma come? Che corbelleria sarebbe mai questa? Se sudo, io pretendo di puzzare, eccheccazzo!
Ne ho il diritto, “…homo sum, humani nihil a me alienum puto…”. Stai a vedere che adesso ci viene negato pure questo dato di fatto comprovato da millenni d’esperienza vissuta. Forse che dovremo d'ora in avanti aggiungerlo al testo Costituzionale?

“…Ogni cittadino ha il diritto inderogabile di puzzare liberamente, fermo restando il dovere di non farlo pesare sull’altrui olfatto in misura eccedente le normali regole di convivenza sociale. All’uopo sono da decenni approntati appositi dispositivi, detti saponi, atti a favorire la civile regimentazione del fenomeno, senza la pretesa di sradicare alle fondamenta la natura stessa dell’essere esseri umani…”.

Altre aberrazioni giungono dal mondo della cosmetica. Creme che millantano una non meglio definita “formula anti-età”, shampoo o balsami che promettono un effetto “disciplinante” sulle chiome.

Qui mi sento di obiettare che chi proprio proprio vuol mettersi alla ricerca di una “formula anti-età”, la trova bella e pronta nel repertorio della tradizione secolare, e si chiama suicidio: l’unica strada definitiva per combattere una volta per tutte l’invecchiamento.

L’idea poi di “disciplinare” i capelli fa un ribrezzo che richiama i più ritriti linguaggi dei peggiori totalitarismi autoritari. Che poi magari ci si ritrova belli soddisfatti e fieri, e col ciuffo ben disciplinato si corre a scuola a protestare vibratamente se il maestro ha osato mettere una nota al proprio povero rampollo che ha fatto esplodere il water con i petardi.

Si sente poi parlare in tanti spot di “illimitato” di qua e “senza limiti” di là. Ma di cosa stiamo parlando? Se basta un raffreddore per far sentire ciascuno l’essere più cagionevole, limitato e caduco dell'universo…

In una umana prospettiva genuina, non vi è nulla senza limite. Non esiste inganno più grande del vagheggiare la chimera dell’illimitatezza. La vita stessa tutta, è limite…vorresti dunque farmi credere che non lo è, un fottuto abbonamento telefonico?

Per non parlare di quel tizio che vorrebbe farmi bere del tè, solo perché me lo dice una modella lungo i gradini di Trinità dei Monti, col sottofondo neomelodico di un classico della canzone italiana interpretato in una risibile “papponistic new version” d’accatto: “…Sendza fine…scilly bulli like...sendza fine...coccobbello like…sendza fine…”.

Ma per favore!

L’ultimo tè l’ho bevuto nel gennaio del ’92 e se mi venisse di nuovo voglia, non aspetto certo che me lo venga a dire una che ne saprà sicuramente di mutande, tailleur e golfini, ma sulle bevande ha la stessa autorità pontificante dell'ultimo opinionista da bar.

Insomma, cosa rimane da dire…caro pubblicitario, la tua fantasia puzza d’inganno; piantala di fare il pirla che c’hai n’età; coi consigli che mi dai, diventan vecchi i neuroni; rispetta i limiti che l’autovelox delle cazzate è sempre acceso; disciplinami tua nonna, e il tuo tè balordo, bevitelo te.

martedì 10 luglio 2018

Il pensare


Vi siete mai soffermati a pensare che forma abbia il pensare? Io sì.

Il pensare me lo raffiguro come una sorta di nastro trasportatore. È lunghissimo, ma ne percepiamo vividamente solo alcuni metri davanti, e altrettanti dietro di noi. Il resto sappiamo che esiste, ma per il momento non ne disponiamo in maniera diretta.

Il “tappeto rullante” del pensiero è fatto di parole esplicitate. La parte tangibile del pensare si manifesta come parola detta mentalmente. Tale dinamica è così intensa, che se ci fate caso, i pensieri vivi di ciascun momento sono quasi accompagnati da una muta sequela di abbozzi potenziali di movimenti della lingua.

Mentre pensiamo, la lingua “si immagina” le mosse che farebbe nel pronunciare effettivamente le varie sillabe, e “nella  sua mente” (quella della lingua), quei movimenti si realizzano per davvero.

Questo, tra le altre cose, instaura un fecondo contaminarsi di tante prerogative psico-fisico-affettive umane, tutte incentrate sul fascinoso muscolo umido che ciascuno si ritrova in bocca.

La lingua parla, gusta, bacia, lecca, nei primi tempi del nostro stare al mondo, da infanti, è un’importante bussola di consapevolezza spaziale, in seguito è strumento fondamentale di espressione e conoscenza erotica, sensuale, e oltre a questo, come detto ora, la lingua pensa anche.

Il pensiero affonda allora le radici nel pieno della fisicità, perché è principalmente eco muta di suoni riprodotti nell’intimo, su una base fortemente corporea.

Eppure, ovviamente, il pensare non è solo quel nastro di parole, libere anche di scorrere in un flusso spontaneo e pre-formato, rispetto a un ordine che verrà poi assegnato quando le frasi usciranno effettivamente dalla bocca.

Il pensiero è fatto in gran parte anche di una miriade di correnti carsiche sotterranee, che trasportano riverberi di immagini, rapporti di forza visivi, barlumi di ricordi, fantasmi di sentimento, mozziconi di stato d’animo, architetture e griglie mentali familiari e già frequentate.

E il tutto non viene esplicitato, ma lavora, rimugina, rimacina in sottofondo, come fondamento magmatico e sempre mobile della parte consapevole di superficie del “pensare parlato”.

Il pensare, nella più ampia prospettiva filosofica, è dunque una attività che in gran parte sfugge al nostro dominio consapevole. È un lavorio “numinoso” interiore che cala in noi, durante il quale molte volte anziché come soggetti attivi, ci ritroviamo impegnati come maggiordomi di un rituale nobile, vasto, complesso, labirintico e per certi versi mai completamente afferrabile, o circoscrivibile in pieno.

Fanno allora un po' sorridere certe espressioni del tipo “…a cosa stai pensando?...” (tra l'altro assunta anche come Facebookkiano tormentone) oppure “…io dico sempre ciò che penso…”, che pure hanno una loro coerenza nel discorso secondo il senso comune quotidiano.

In un orizzonte filosofico invece queste frasi non hanno senso: nessuno sa mai veramente fino in fondo quel che pensa, e tantomeno lo saprebbe riferire con fedeltà.

Perché gli stessi Picasso, Jackson Pollock, Leopardi o Beethoven, hanno speso una vita intera nel tentativo di dirci cosa pensavano, e anche se ci sono andati magistralmente vicini in molti casi, pure loro lo hanno sempre fatto soltanto in parte.

mercoledì 4 luglio 2018

"Ma robe da nutria" - Ipno-tiritere-socio-sgrossa-grulli





Colazione con Hegel


Il mondo ci si dispone continuamente davanti in “pacchetti significativi”. I nostri apparati di ricezione e di codificazione a un certo punto isolano un gruppo di stimoli che solleticano lo spirito interpretativo, e da lì nasce una “conformazione degna di nota”.

Uso questo termine, “conformazione”, in una maniera del tutto specifica e naif-artigianale, inventata da me per l'occasione: ossia lo intendo come sintesi di “contenuto” e “forma”.

In questa foto, c'è una tazza di infuso che mi volevo bere. Scottava un po’ e allora l’ho posata qualche momento sul davanzale perché si raffreddasse. M'è caduto l'occhio un istante e l'insieme sembrava raccontarmi qualcosa.

Non so bene cosa, ma non mi lasciava indifferente. Un gioco di simmetrie, il riflesso della tenda nel liquido, il tondo della tazza, e così via. Chi lo sa cos'era. Fatto sta che mi parlava di un senso possibile (degno di una foto, tra l'altro).

In tali “conformazioni” incappiamo di continuo. Non è sempre necessariamente un qualcosa di visivo. Può trattarsi di un’idea, di un suono, di un profumo, di un pensiero. Il passaggio cruciale sta nel riconoscere un contenuto veicolato da una forma.

Queste conformazioni esistono nella realtà esterna indipendentemente dal nostro percepirle?
Oppure scaturiscono esclusivamente dal pensare che ne facciamo?

Oppure ancora, esistono in una non meglio precisata “dimensione eterna dello spirito”, al di là del fatto che un uomo le abbia mai concepite, e al di là di qualsiasi loro verificarsi in una realtà effettiva?

In altre parole, “due piu due” avrebbe sempre fatto quattro, anche se nessuna mente umana se ne fosse mai accorta e se la cosa non si fosse mai concretizzata in nessun fenomeno reale?

Ho preso in mano la tazza, mi ci sono riflesso un attimo e poi ho bevuto l'infuso ormai gradevolmente tiepido. E nel dolce gustino assaporato, c’era la risposta: sì, “due più due” avrebbe fatto sempre quattro, anche se l’uomo non l’avesse mai saputo; anche se due pianeti vicini non avessero avuto ciascuno un suo satellite.

Anche se non avessi mai posato quella tazza sul davanzale.

domenica 1 luglio 2018

Lessons in loss


Quando diventerò ministro della pubblica istruzione Roso Russo Nutrio Lino, introdurrò nelle scuole di ogni grado l'insegnamento dell'educazione alla sconfitta.

La vita tutto sommato non è altro che un'unica, generale, sconfitta annunciata. Alla fine della fola, tutti si perde e tutto si perde. Com'è possibile che questo non venga discusso e approfondito a scuola?
Le lezioni di educazione alla sconfitta verteranno fondamentalmente sui seguenti temi:

- Per una rivisitazione ontologica del concetto di sconfitta
- Totale assenza di merito nell'essere nato europeo benestante, invece che africano povero
- Presa di coscienza collettiva dell'incontrovertibile realtà di fatto che tutti scoreggiamo (in base al livello di consapevolezza raggiunto, seguirà esercitazione pratica)
- Essere interisti oggi: svantaggi e inconvenienti
- Accettare il due di picche col sorriso sulle perdute grandi labbra
- “Stai all'occhio che m’incacchio”: sull’importanza del non infierire su chi ha perso: dal trattato di Versailles a “Cane di paglia” di Sam Peckinpah, una retrospettiva storica
- “Oggi a me, domani a te”: limiti alla boria, nei casi di vittoria; la statistica o la sfiga, prima o poi ti mettono in riga
- La sconfitta è soltanto una vittoria a cui si accede dalla porta di servizio
- “La solitudine del vincente”: se non esistesse chi perde, il vincente sarebbe soltanto un povero stronzo; esistendo lo sconfitto, il vincente è soltanto uno stronzo di pregio
- Chi non perde mai non sa cosa si perde: fertilità emotiva e umana dei frangenti di sconfitta
- Lo sconfitto, inappagato, vive di desiderio; il vincitore, satollo di gesta compiute, si strafoga di noia
- “And in the end, the love you take is equal to the love you make”: maggiore equilibrio esistenziale dello sconfitto
- Giocare per il gusto del gioco: abbandono dell’ossessione della meta, in favore dei piaceri del percorso.

Per la consegna dei diplomi di frequenza ai corsi, rigorosamente senza voti, ogni scuola verrà dotata di un aula magna “Gianpiero Ventura”.