venerdì 27 novembre 2009

Le case

Fotomontaggio di Gillipixel,
creato fondendo due foto scattate da Gillipixel...

(ogni tanto concedetemi di bullarmi un po' :-)
(ah...dimenticavo: e bici di Gillipixel :-)

Da bambini giocavamo nelle case in costruzione.
Non ho mai sentito dire che in altri paesi questo gioco venisse giocato. Oggi non succede più nemmeno qui. Quando mai costruiscono una casa nuova, adesso, nel mio paese?
Allora era l’epoca in cui farsi una casa non era considerato privilegio super-umano. L’opzione esistenziale “costruirsi una casa”, possedeva ancora sfumature pressoché naturali. Non dico che fosse come respirare, oppure come bere un bicchier d’acqua, ma poco ci mancava. Perlomeno, nell’acerba intuizione di un bambino per le cose della vita, sembrava funzionare così.
Non che ai tempi l’essere adulti fosse un gioco da bambini. Tuttavia, con un onesto impiego, facendo la formichina per una ventina d’anni, riuscivi a tirar su una dimora più che dignitosa. Quelle cravatte di canapa a diametro variabile, oggi così di moda col nome di mutui, quasi non si sapeva cosa fossero.

Ma all’epoca queste cose non le sapevo. Non era importante che le sapessi.
Gli alberi crescevano. I fiori crescevano. I bambini crescevano. E così anche le case.
Crescevano.
Questo era tutto quanto mi serviva sapere.
Non ricordo bene come venisse scelta una casa invece di un’altra, per la scorribanda del giorno. «Dacci oggi la nostra avventura quotidiana!», forse era questo il solo criterio, ma allora nemmeno questo era fra i miei pensieri. Solo col senno di adesso mi sorge il “sospetto” che fossero i più grandi a stabilire un piano d’azione.
Più che “in costruzione”, la casa doveva trovarsi in quella “terra di nessun muratore”, situata a metà fra la fase del compimento del tetto e la successiva predisposizione delle finiture (serramenti, intonaci, piastrelle, ecc.).
Era in quel limbo di sospensione edile che la fantasia dei piccoli pirati dell’immaginario poteva andare ad insinuarsi. In tutti gli altri passaggi dell’iter costruttivo, non sarebbe stato possibile: la presenza di qualche forma di molesto operaio, insensibile alla sana formazione infantile, sarebbe stata d’intralcio.
Inutile dire che si trattava di un gioco abusivo e che la spada di Damocle della ronda del muratore, faceva parte delle regole fondamentali per assaporare meglio la ricetta.
Un misto di pericolo e di senso della violazione di intimità domestiche potenziali. Doveva essere questo che ci attirava tanto fra quei muri grezzi. Una sorta di innocuo “Grande fratello” ante litteram, paradossalmente rispettoso della privacy, perché tutto basato su immaginate vicende familiari ancora ben lontane dall’essere vissute.
Entravamo di soppiatto, col cuore in gola. Una sensazione da ladri, verosimilmente. Con la differenza che noi andavamo a rubare solo fantasie, per altro fabbricate in proprio.
Non so se nella vita a seguire ho mai più provato una sensazione simile. Avere 7 o 8 anni ed essere padrone per qualche mezz’ora di una casa. Abitarla come mai nessuno in seguito avrebbe più potuto fare, nemmeno i legittimi proprietari. Perché l’arredamento noi lo potevamo disporre con la mente in mille forme mutevoli, le porte ancora inesistenti potevamo immaginarle scorrere con automatismi alla “Spazio 1999”; per noi le scabre scale cementate si coprivano di velluto rosso per dare accesso a sontuosi saloni principeschi, mentre da una balconata ancora grezza si poteva dominare la sconsiderata infinità del nostro regno spaziante fino agli estremi confini del globo, ossia l’argine maestro del fiume.
Ma la sortita del «Maligno» era sempre in agguato, sotto le mentite spoglie del perfido muratore “incerberito”. In realtà, il poveretto aveva ragione da vendere: faticacce insulse con secchio e cazzuola per tutta la settimana, e poi anche l’onere di tenere a bada gruppetti di mocciosi impiccioni. All’epoca però anche questo non era previsto che dovessi saperlo.
Capirlo sì, ma saperlo no.
Era sufficiente l’eco di un’accelerata intrasentita in lontananza, il tramestio di una gomma di bici sulla ghiaia, un roco colpo di tosse edile rimbombante in fondo alla via, e subito il panico serpeggiava lungo i muri occupati dai piccoli corsari: «Gh’è ‘l müradur…gh’è ‘l müradur!» (trad. «C’è il muratore…c’è il muratore!»).
Tra parentesi, la parola “muratore”, detta nel mio dialetto, impegna forse nella più ardua sfida di pronuncia immaginabile in ogni idioma mondiale: bisogna saper cucinare lingua ad involtino sotto al palato, in modo da dire la prima “ü” di “Dürer”, ma essere nel contempo sufficientemente lesti a ripianarla per bene subito dopo, passando alla pronuncia della seconda normalissima “u”.
Il più delle volte erano falsi allarmi: in fondo in fondo, lo sapevamo che il muratore preferiva di gran lunga starsene a sorseggiare il suo prosecco all’ombra dei tendoni del “Bar Sport”, ma ci piaceva immaginarlo sempre dietro l’angolo, pronto a seminare l’allarme fra le schiere dei ribaldi micro-invasori.

Due episodi, fra i tanti di queste avventure vissute dentro i muri della fascinazione infantile, mi sono rimasti impressi nella mente.
Uno dal sapore "mitologico". L'altro dai contorni burleschi.
Talvolta mi succede di ritrovare nei meandri della memoria lontanissimi fatti che, ricoperti dalla bruma del tempo fanciullesco, sono come condensati nella dimensione del "mito". Nel senso che si sono spogliati di ogni pretesa di verosimiglianza, rimanendo vestiti solo del manto dello stupore.
Fra questi va sicuramente ricondotto il primo frammento di memoria legato alle incursioni nelle case in costruzione. Quella volta eravamo in una casa piuttosto grande per il modulo edile medio locale. Tre piani, mi pare fossero.
Fra i "capi spirituali" leader della scorribanda, c'era una ragazzina di tre o quattro anni più grande di me. Di per sé, questa era una creatura dall'aura fatale, per noi sbarbatelli piccolini.
Da tempo in odore di eroica "maschiaccità", era una mezza leggenda della nostra infanzia, già protagonista di non meglio precisate narrazioni di passate monellerie di altissimo pregio.
Quello che compì quel giorno tuttavia superò ogni magia gestuale del repertorio del perfetto scavezzacollo in erba.
Non ricordo se fosse ancora una volta il fatidico allarme ad innescare il diapason della tensione, «Gh’è ‘l müradur…gh’è ‘l müradur!»...fatto sta che nel giro di pochi secondi tutta la banda si ritrovò in posizione utile per la dignitosa battuta in ritirata. Tutti tranne "lei", la Pippi Calzelunghe dei nostri lontani giorni di "anarco-bimbetti", che con la sua consueta audacia si era spinta alle quote alte dell'edificio accessibili solo agli impavidi puri. E qui s'innesta la parte propriamente mitico-infantile, per cui sospendete pure per un momento l'incredulità, che in questi casi si fa superflua.
Vi potrei giurare infatti, anche se non fosse vero, che io la vidi "volare": dal primo o dal secondo piano, non saprei dire. So solo che l'ideale femminino della mia selvaggità bambina quel giorno prese il volo, lanciandosi nel vuoto da un terrazzo incompleto, fendendo l'aria con un urlo da vero bucaniere del Pernambuco, con le sue lunghe gambe nude che nuotavano nel vento ed i neri e fluenti riccioli schiumosi a sostenere l'abbraccio della planata.
Ricadde perfetta, scultorea ed in piedi, sana e salva come una statua della Grecia classica, coi piedi conficcati alla caviglia, sulla sommità di una soffice montagnola di sabbia fine, che era stata sin dall'inizio l'obiettivo del suo balzo mitologico.

L'altro episodio dai contorni buffoneschi, vide protagonista invece un altro amico che potrei definire storicamente un "farfallone" nei confronti degli aspetti "tecnici" della vita.
Il galateo del mini-pirata edile esigeva che spesso la casa in costruzione dovesse essere arrembata a piedi nudi.
Con la perfidia tipica dell'età acerba, ci divertimmo a rubare le stringhe dalle scarpe di questo amico bonaccione, da lui lasciate improvvidamente incustodite all'ingresso.
Lo scherzo si potrasse per lunghe estenuanti ore, al di là di ogni considerazione per l'umana pietà. Ma una sorta di bizzarra nemesi era pronta a calare sugli incauti "burlatori".
Alla fine la responsabilità della canzonatura aveva snervato gli stessi autori della beffa, non scevri da qualche filino di senso di colpa.
Mal ce ne incolse, una volta restituiti i dovuti "due" laccetti all'amico tontolone.
Perchè tutto quello era stato niente, al confronto della rullatura di maroni che dovemmo poi sorbirci fino all'imbrunire dal beffato medesimo, che sosteneva, insisteva e persisteva nella sua inconfutabile tesi, secondo la quale in ogni scarpa sono presenti normalmente due stringhe, totale quattro per paio, ragion per cui gliene dovevamo ancora due. Il suo fare avvocatizio bislacco ci perseguitò fin sulla soglia di casa, facendo barcollare il nostro equilibrio mentale stesso.
La sua proterva ottusità ci aveva alla fine storditi, facendoci ormai quasi dubitare del postulato di Ceneretola, che recita: per le asole di una scarpa passa uno ed un solo laccetto.

Anche qui non ricordo bene, ma mi pare che alla fine, per uscire vivi dalla sbilenca arringa itinerante, dovemmo far perdere le nostre tracce con qualche giro vizioso per le viuzze più contorte del paese, per seminare il molesto avvocato, gran segugio dell'assurdo.



martedì 24 novembre 2009

Narrativa edile


Oggi vi parlo di un libro già citato qualche puntata fa: «Kafka sulla spiaggia», del romanziere giapponese Murakami Haruki.
Non ho intenzione tuttavia di scrivere una recensione.
Per quella bisogna essere tagliati e poi, nel caso di opere di narrativa, si deve essere in grado di raccontare quel che basta di trama perché la recensione risulti completa, pur senza andare ad intaccare i passaggi fondanti della storia, in modo da non guastare il piacere della lettura. Sinceramente, non mi sento all'altezza di un'operazione del genere, la lascio fare a chi di dovere.
Anzi, cercherò di invertire addirittura i termini della tenzone: voglio provare a trattare di un romanzo senza fare il benché minimo accenno a trama, personaggi, ambientazioni, ecc.
Una piccola sfida.

Quella che volevo scrivere io è insomma una “pre-censione”.
Per re-censire bisogna addentrarsi nel vivo della “componente tangibile” di un libro, ossia quella serie di emozioni, suggestioni, spunti riflessivi, risultanti direttamente dalla lettura. Per pre-censire ci si può invece appostare al di fuori del libro, anzi appena sopra. Meglio ancora se abbastanza al di sopra. Sorvolarlo a volo d'uccello, guardandolo a distanza per poterne cogliere le strutture essenziali.
Invece di “pre-censione” dovrà dunque chiamarsi “supra-censione”? Può darsi.
La cosa interessante è che tutto questo mi offre l'occasione di riprendere in qualche modo il discorso relativo ai concetti di "forma" e "sostanza".

Paragoniamo per un momento il romanzo ad un edificio.
Entrambi sono percorsi da linee di forza sotterranee, interne, che ne costituiscono la struttura nascosta. Nel caso dell'edificio forse il concetto è più immediato da cogliere. Nell'«intimo» di pilastri, travi, volte, arcate, si distribuiscono i pesi e i contrappesi che vanno a costituire la “macchina statica” di tutto l'insieme. Come una circolazione sanguigna di forze in gioco, che scorrono lungo le venature della costruzione.

Entrando in un edificio, questo suo flusso dinamico interiore è proprio l'ultimo aspetto al quale un visitatore andrebbe a pensare. Passando di stanza in stanza, salendo le scale, soggiornando nei suoi locali, l'unica cosa che ci interessa fare è “leggerne la forma”. Vogliamo provare comfort, senso di rifugio, di protezione, di domesticità. Tutto, tranne sapere se ad esempio, i mattoni di un arcata sotto l'intonaco si stanno spingendo a vicenda come dei dannati per fare stare in piedi la baracca, oppure se una trave armata ci sta dando dentro di buona lena per accogliere lungo i tondini di ferro della sua anima il peso delle persone che si muovono all'interno.

In un romanzo succede una cosa simile.
Però per questa volta, con il libro di Murakami Haruki, non cercherò di appurare se le stanze siano ben illuminate e cromaticamente equilibrate, se la temperatura risulti gradevole e ponderata rispetto alle modificazioni climatiche, o se la ventilazione sia dosata nella maniera giusta. Proverò invece proprio ad occuparmi della sua circolazione sanguigna strutturale, delle forze narrative che scorrono all'interno dell'opera.
La mia “pre-censione-supra-censione” dovrà chiamarsi allora “intra-censione”? Boh, fate un po' voi. A questo punto chiamatela come meglio vi aggrada, purché non la chiamate “svacca-censione”.

«Kafka sulla spiaggia» è veramente un buon libro, anche se non il miglior Murakami che abbia letto. I miei preferiti rimangono «La ragazza dello Sputnik», «Dance, dance, dance», «Tokyo blues – Norwegian wood» e «L'uccello che girava le viti del mondo». Ma «Kafka sulla spiaggia» è comunque un gran buon Murakami.

L'impianto narrativo può sembrare sulle prime scontato, uno stratagemma da due soldi, per di più vecchio come l'arte del raccontare, ossia vecchio come l’uomo stesso. La storia infatti si dipana intorno ad alcuni gruppetti di personaggi, che inseguono le loro vicende a turno lungo i vari capitoli. In un capitolo procede una vicenda, nel successivo una seconda, e così via, a capitoli alterni.
Solo un narratore di classe può permettersi questa tecnica. Senza il completo controllo del mezzo, si rischia d'impantanarsi in un modesto “effetto fuilletton”, dando la sensazione di un costrutto artificioso. Un altro grande che sa padroneggiare questa procedura narrante in modo eccelso è il turco Orhan Pamuk (nobel letteratura 2006), ad esempio in «Il mio nome è rosso», romanzo di una bellezza ponderosa e densissima.
In «Kafka sulla spiaggia» l’alternanza della vicenda su capitoli sfalsati si dipana con la stessa naturalezza del frangersi delle onde sulla battigia: l’impennarsi dell’attesa sulla cresta di un flutto, si placa momentaneamente sul lungo distendersi del successivo, e così via in un coinvolgente crescendo globale.

Non a caso la naturalezza è l’habitat della poetica di Murakami Haruki. Questa constatazione mi offre lo spunto per introdurre un altro pilastro narrativo di «Kafka sulla spiaggia».
Forse l’elemento più straordinario del romanzo è la sua capacità di raccontare vicende totalmente improbabili e fantastiche, esponendole con la medesima “presa sul reale” che possono avere i fatti più minimali e quotidiani. Questa è la cosa straordinaria di Murakami: sa infondere la stessa sorta di bizzarra verosimiglianza sia che ti stia magari raccontando di un personaggio intento a bere una tazza di te, sia che allo stesso personaggio capiti di imbattersi in un fantasma.
Ed in questo risiede anche l’essenza di tutto il romanzo: pur non facendo quasi mai riferimento a Kafka (se non attraverso un puro nome, sfumato su una lieve invenzione dal sapore aneddotico), qui come mai in altri suoi scritti, Murakami trova felicemente la sua originale via nipponica alla «kafkità» (se mi passate l’orrendo termine).
Non si tratta chiaramente di un banale “fare il verso” al maestro boemo. Tutt’altro. Murakami dà invece dimostrazione di aver assorbito appieno la lezione di Franz Kafka e di averla rigenerata in una sua personale trasposizione.

L’operazione, nella dimensione narrativa scaturita da «Kafka sulla spiaggia», gli riesce facendo diventare pressoché superfluo il concetto stesso di verosimiglianza. Questo può accadere perché il mondo interiore dei personaggi e l’ambientazione esterna nella quale si muovono, tendono praticamente a coincidere, riflettendosi a vicenda. Ma la cosa avviene anche qui non in modo ovvio, non a livello superficiale. Per coglierla infatti è necessario scendere alle quote profonde delle forze costruttive che scorrono nell’intimo dell’edificio romanzesco.

Concludo con il solo, minimale, accenno ai contenuti del libro che mi concedo in questa “pre-supra-intra-censione”.
Non sarebbe necessario all’economia del discorso che volevo fare. Se introduco quest’ultima postilla è solo in forma di avvertimento ai lettori dall’«animo felino» che vorranno avventurarsi in questo bellissimo romanzo. Ad un certo punto della lettura, vi imbatterete in un capitolo veramente duro da affrontare per un umano dotato di vibrisse “honoris causa”. Io stesso, arrivato a questo passaggio, mi sono dovuto tenere aggrappato forte ai bordi del libro, quasi fossero le maniglie di un ottovolante in caduta frenetica verso un baratro di paura.
La sola cosa che posso dirvi è: tenete duro che ne vale la pena. Proseguendo vi accorgerete che non erano scene gratuite e che in qualche modo il vostro “felinismo” sarà risarcito. E trattandosi di uno scrittore da sempre fedele al culto del gatto in tutte le sue forme (basta dare un’occhiata al suo sito), un po’ me l’aspettavo.

venerdì 20 novembre 2009

Blue moons every nights

Avete presente il fatidico "motivetto ostinato", quello che ti si attaccatuttizza al neurone e non lo molla neanche sotto minaccia di fargli sentire tutta l'opera omnia di Albano e Romina?
Se poi capita che il "la" ti venga offerto dalla tua mezza chimera, i giochi sono fatti: Lune blu su tutti i fronti!


mercoledì 18 novembre 2009

Comodo, ma come dire, poca soddisfazione


«…Forma e sostanza…» cantavano Lindo Ferretti e i suoi Suonatori Indipendenti riuniti in Consorzio.
E fin qui siamo d’accordo, tutto normale.
La cosa un po’ meno normale è invece che la visionaria canzone dell’onirico cantore di poetiche meta-alienazioni post-metropolitane, mi sia tornata alla mente stamattina stringendo il volante della mia 313 GT, l’inutilitaria targata Gattopoli, con la quale ogni giorno mi reco in città.

L’autoradio non c’entra nulla, era regolarmente spenta. Nel tragitto antelucano attraverso le brumose plaghe di Gillipixiland, solamente a sentire un flebile cenno di voce umana potrei essere colto da irrefrenabili conati di volta-spirito.
No, no, niente autoradio dunque. L’oggetto tangibile che stavolta ha scatenato la mia reazione a catena riflessiva, è stato proprio lui: il volante della 313 GT.
E dire che si tratta del più normale e modesto dei volanti. Very very humble, nella sua “volantezza”. Il suo dovere di volante lo fa in maniera del tutto regolare. In altre parole: nella “sostanza volantesca”, nulla da eccepire.
Ma è stato un particolare della sua “forma” che mi ha fatto pensare.

Badate che da qui in avanti si andrà per importanti concetti estetici. Lasciate dunque ogni speranza voi che leggete.
Per il mio approfondimento, il volante della 313 GT è proprio ciò che serve.
Va precisato innanzitutto il concetto di “forma”, che potrebbe essere frainteso. Prendiamo ad esempio la sagoma geometrica del volante, o il suo diametro, o il diametro della sezione del tubolare da cui è costituito, o il fatto che nel mezzo ci siano delle razze attaccate al piantone dello sterzo: direste che questi elementi vadano classificati fra le caratteristiche costituenti la sua “forma”?
Uhm…così potrebbe sembrare: in un oggetto, c’è forse qualcosa di più connesso alla “forma” di quanto lo sia la sua sagoma geometrica?
Ma io dico invece di no: la sagoma geometrica e le suddette caratteristiche, fanno parte della “sostanza” del volante. L’avere una sagoma tondeggiante che agevoli la rotazione è caratteristica consustanziale all’oggetto “volante per auto ordinaria”. Per dire: in quelle da corsa, che hanno un’escursione dello sterzo molto più breve, il volante può magari essere anche tendente alla “rettangolarità”.
In un “volante per auto ordinaria” no.
Impugnando un oggetto, pur anche dotato di tutte le altre caratteristiche del volante, ma privo della sagoma tondeggiante, non si potrebbe dire di avere fra le mani un “volante per auto ordinaria”. E’ come se l’oggetto stesso mancasse. In pratica, non c’è la sua sostanza. Sarà un’altra cosa, si chiamerà “sbobbante” o “volevole”, ma di certo non volante.
Possedere una sagoma che favorisca un rapido movimento rotatorio fa parte della “volantità”.

Ma allora in questo caso che fine fa il concetto di “forma”, se nemmeno la sagoma geometrica ci rientra?
La “forma” è ciò che rimane dopo aver setacciato ogni aspetto della “sostanza”. La “forma” è il peso netto depurato della tara della “sostanza” (o viceversa).
Alla “forma” competono tutte le caratteristiche libere di mutare senza intaccare la sostanza dell’oggetto.
Il volante è giallo, blu, bianco, rosso o verdone? Rimane sempre un volante.
Il volante è liscio, ruvido, satinato, semirugoso? Rimane sempre un volante.
Il volante è di plastica, di acciaio, di alluminio? Rimane sempre un volante (anche qui un’apparente contraddizione: la sostanza, nel senso di materiale, di cui l’oggetto è composto, non fa parte in questo caso della sua “sostanza” concettuale).

«…Va beh...» dirà a questo punto spazientito il caro lettore, «…ma quando la finisci di bastonare il cane per l’aia?...».
Vengo al dunque, vengo al dunque…e riprendo in mano anche il volante della mia inutilitaria.
Cosa si deduce insomma da questa parte del mio sproloquio?
Due punti fondamentali.
Uno: distinguere gli elementi appartenenti alla “sostanza” da quelli di competenza della “forma”, non è sempre operazione così immediata.
Due: se è vero che sulla “sostanza” non si può barare (pena la perdita dell’essenza dell’oggetto), per quanto riguarda la “forma” invece possono entrare in gioco tutti i biscazzieri e gli stracci di gamblers immaginabili.

Come appunto è accaduto con il volante della 313 GT, che con una sua stravagante caratteristica formale mi ha fatto un po’ sobbalzar d’ilare sdegno.
Cosa non ti vanno mai ad accarezzare infatti i miei polpastrelli e palmi delle mani, ogni qual volta impugno il fatidico “tondo guidi”?
Ovvove!!! Una simil-superficie plastica maldestramente taroccata in guisa di simil-pelle di un non meglio precisato simil-animale, estinto ancor prima di appartenere a qualsivoglia simil-specie!!!
Ditemi voi che senso può avere: un accessorio fondamentale, come il volante in plastica, montato su uno degli strumenti più preclari della modernità, qual è l’automobile, agghindato con una fasulla rifinitura, che pretende di rievocare bislaccamente vetuste guarnizioni in pelle da cocchio stile Belle Epoque, o giù di lì.


Ed eccoci alfin giunti al concetto estetico cruciale di tutto il mio discorso. Dal volante di una inutilitaria al mondo dell’espressività e dell’arte in generale, il passo non è breve. Ma grazie alla fantasia che nella mente frolla del viandante per pensieri di certo non scarseggia, l’ardua impronta è tosto posta innanzi.
Cosa ci insegna infatti un umile volante di 313 GT, riguardo al modo in cui i frutti dell’ingegno umano “ci parlano”?
Che tra “forma” espressiva e “sostanza” espressiva ci deve essere una sintonia consequenziale; e che lo scollamento tra “forma” e “sostanza” può causare una stonatura inaccettabile che va ad inficiare tutto l’atto comunicativo nel suo insieme.
La riflessione, portata in alto di diversi gradini, sino a farle raggiungere i livelli del ragionar d’arte, introduce la categoria del «kitsch».
Il «kitsch» fa la sua comparsa quando, per “maldestria” (sono orgoglioso di questo neologismo, che si contrappone nel suono e nel senso a “maestria”) o per cattiva fede, l’artista si lascia scappare o introduce scientemente uno scollamento tra “forma” e “sostanza” espressiva.

La morale della favola è ancora una volta duplice e correlata.
Uno: se già risulta non proprio banale distinguere tra “forma” e “sostanza” in un umile volante di 313 GT, figurarsi come potrà essere arduo in ambiti espressivi ben più complessi.
Due: l’inganno espressivo praticato attraverso un umile volante suscita al massimo un sorriso, mentre la truffa creativa imbastita con strumenti comunicativi ben più articolati (dove forma e sostanza sono ancor più compenetrati, reciprocamente sfumati) può dare adito a pericolosi fenomeni di manipolazione delle menti “esteticamente” più sprovvedute ed indifese.

That’s all, folks!
…e se fino a qui ve le ho cantate io, ora lasciatevele cantare un po’ anche da Lindo…



martedì 17 novembre 2009

lunedì 16 novembre 2009

Pensieri sfogliati


Ieri mattina, prima di andare a fare un giretto in piazza, mi sono messo a rastrellare le foglie intorno a casa.
Come attività è tanto banale quanto foriera di vagabondaggio per pensieri.
Se le piante sono in numero discreto, con produzione ragguardevole di fogliame, l'impresa assume contorni grotteschi con sfumature mitologiche. Più ne raccogli, di quelle vegetali perfide pellicolette auree, e più ti sembra se ne accumulino.
Dopo qualche momento, quando sei riuscito a dar forma già a svariati montarozzi criso-muschiati, cominci a sentirti una mezza via fra Ercole chiamato alla titanica impresa della pulitura delle stalle di Augia, e Paperon de Paperoni che sguazza fra rivoli di monete lucenti. Con la lieve variante che le foglie, al cambio corrente, te le valutano una beneamata.

Immerso in questo soffuso non-senso, per di più col venticello che ti rammenda di foglie fresche il pezzettino di prato testé spazzolato, non ti rimane che dar libero sfogo al pensiero, cullandolo con l'andirivieni del rastrello. Così, pensa che ti ripensa, mi sono ritrovato a riflettere sul fatto che avevo addosso svariati ammennicoli portatori di memoria artificiale.
In una tasca delle braghe, due chiavette USB che mi porto sempre appresso, una da 1 giga e l'altra da 8. Nel giubbotto, il cellulare e il lettore mp3 da 2 giga, che tra l'altro, rigorosamente appigliato tramite cuffiette ai miei timpani, forniva ulteriore supporto riflessivo.
A quel punto mi è venuta in mente una cosa sentita l’altro giorno dal barbiere.
Una persona affetta da un disturbo nervoso, che da tempo lo costringeva ad improvvisi movimenti compulsivi fuori controllo, grazie all'impianto di un'apparecchiatura direttamente connessa alla fonte cerebrale dell'impulso sghembo, riesce ora ad evitare quegli scatti involontari.
Ora, stando alla descrizione del facondo tonsore, ci si immaginava quasi che dall'intervento fosse uscito fuori un cugino di secondo grado del prode hacker Neo, pronto a rinnovare la sfida con le oscure forze di Matrix.
Ma pur prendendo la notizia col dovuto beneficio d'inventario, depurandola ben bene dell'opportuna colorita tara "barbieresca", è un fatto che l'intromissione diretta della medicina nei nostri "centri decisionali" sia ormai divenuta realtà. Tanto più quando la faccenda si ritrova ad incrociarsi con altre discipline competenti in materia, come cibernetica, robotica e simili diavolerie moderne.
Insomma, rastrella che ti ripenso, defoglia che ti rimugino fra le tasche, mi sono sorpreso a domandarmi quanto tempo passerà ancora sino giorno in cui ci ritroveremo a poter intessere un colloquio in presa diretta fra la mente e queste appendici mnemoniche, senza intermediazione operativa di altre protesi informatiche come pc o lettori elettronici vari ed eventuali.
Chissà se un giorno sarà fattibile, ma soprattutto, chissà che conseguenze avrà la cosa. Seguendo la matassa dei pensieri, mi sono divertito ad ipotizzare alcuni scenari simil-faceti.

Il nostro processore spiritual-razionale sembra funzionare con tre software principali: Io, Es, e SuperIo. La convivenza dei tre programmi però è spesso faticosa. In fondo, ognuno dei tre reparti vorrebbe andare per la sua strada.
L'Es non capisce altro che di godimento e stravizi: se prendesse in mano tutta la baracca lui, tempo due giorni e sei bollito.
Il SuperIo vorrebbe vedere ordine ovunque, e all'uopo infradicia le sinapsi di sensi di colpa. Mentre l'Io si accontenterebbe di fare la sua vitaccia regolare, sentendosi dire sempre e solo pane al pane e vino al vino.

Immaginavo allora cosa potrebbe significare ritrovarsi con la disponibilità di parcheggiare momentaneamente uno o più dei suddetti programmi su di un disco rigido esterno.
Prendiamo ad esempio un data-base stupendo che il nostro hardware si ritrova talvolta a processare: l'innamoramento. Una sensazione bellissima, ma anche molto faticosa.
A seconda che la cosa venga macinata da uno dei tre programmi, assume sfumature diverse: l'Es non si schioderebbe mai più dal letto, l'Io azzarderebbe timidamente normalissimi progetti per una serena convivenza, mentre il SuperIo si tufferebbe a pesce in una pianificazione della carriera dei quattro figlioli che come minimo esigerebbe quale frutto del solidissimo matrimonio auspicato.
Quando ciascun programma elabora l’innamoramento secondo la propria competenza, le cose sembrano non andare neanche malaccio.
I problemi nascono quando i dati entrano contemporaneamente nei circuiti integrati di tutti e tre i software. Allora si inizia a sentire la ventola psichica supplementare che ronza all’impazzata, mentre finestre mentali si chiudono senza motivo, con relativo avviso di segnalare l’inghippo a Microbrain o a Cerebrapple, dipende da che sistema avete caricato (…tanto poi di regola si sceglie sempre il pulsante “non inviare”…).

Ma in un futuro, col nostro disco esterno, forse potremo mettere in standby qualche programma senza lasciare che interferisca o crei attriti con il resto del sistema.
Metti che sei cotto/a di una tipa o di un tipo. Spunti un’uscita serale e sei già in palla perché ti prefiguri gelidi momenti di timidezza, rossori inopportuni, mancanza di argomenti nel dialogo, tonalità vocali fracchiesche, secchezza delle fauci, sudorazione copiosa, piede palmato e alluce del tennista.
Niente panico: Start/Impostazioni/Pannello di controllo/Installazione applicazioni/SuperIo/Cambia-rimuovi: e giù che l'Es e l'Io si possono sbizzarrire a più non posso, il primo dando sfogo a tutta la sua arcaica disinibizione e il secondo bullandosi da gran playboy imperiale.
Basterà avere l'accortezza di programmare per il mattino successivo la re-installazione automatica del Super-Io, per non ritrovarsi a Las Vegas con in mano un certificato di matrimonio rilasciato dal pastore della chiesa Elvis-Presleyana, sottocongregazione del Basettone Celeste Miracoloso.

Altra situazione: un "creativo finanziario" ha mandato sul lastrico migliaia di famiglie.
Dov'è il problema? Gli si disinstallano Es ed Io!
Non passa mezz’ora che è già corso all'aeroporto, biglietto alla mano per le isole Cayman (o paradiso fiscale equipollente). L’aereo ha ancora le gomme calde sulla pista d’atterraggio del cassonetto finanziario, che lui è già corso dal suo insabbiatore di fondi neri di fiducia.
Lì, si mette a far piovere bonifici congrui sui conti dei poveri truffati, vende i 10 yacht, le 40 ville, e dismette 7 bordelli ben avviati, interessandosi di persona circa un futuro lavorativo dignitoso per le ragazze neo-disoccupate. Col ricavato paga tutte le tasse evase, poi torna a casa in barca a remi condotta da sé medesimo ed accetta di buon grado la generosa offerta di lavoro alla catena di montaggio di una rinomata fabbrica di raddrizzamento banane, rigorosamente solo turni di notte.

Uhm, no eh?…Decisamente no…
Alla fine me ne sono reso conto pure io: rastrellare le foglie non fa per niente bene all’equilibrio mentale…

domenica 15 novembre 2009

Bergson sulla spiaggia


Quando una piccola illuminazione significante (leggi "epifania") ti si presenta con triplo salto concettuale, doppia coincidenza carpiata e coefficiente di difficoltà temporale 3.2, il normale stupore epifanico risulta ancor più acuito.

Solamente pochi giorni fa, avevo tirato in ballo un discorso riguardo gli attimi del nostro tempo, su come tendano a mutare paradossalmente in ricordo con una velocità che è superiore a qualsiasi possibilità da parte nostra di "presa concettuale dell'istante".
Non che avessi detto cose particolarmente originali. Sapevo che il tema è stato sviscerato dalla crema dei pensatori di tutti i tempi, fra i quali mi risultava anche Henri Bergson.
E fin qui tutto bene, regolare.

La cosa degna di nota (sempre nell'ottica di un sano "divertirsi con poco", s'intende) è invece un'altra.
Sto leggendo in questi giorni uno degli ultimi romanzi di Murakami Haruki, da parecchio tempo fra i miei beniamini narranti prediletti.
«Kafka sulla spiaggia» s'intitola.
Sono dunque lì che mi gusto la storia magistralmente giostrata dal buon Haruki, quando....in quale frase non ti vado ad incappare...

«...Il puro presente è il processo impercettibile in cui il passato avanza divorando il futuro. A dire il vero, ogni percezione è già ricordo...».

Inutile dire che ho fatto immantinente una capriola seduta stante (o meglio, coricata stante, perchè per la precisione si trattava di reading in bed).
Era esattamente quello che mi ero arrabattato a dire io! E la frase è proprio una citazione di Henri Bergson, da una delle sue opere fondamentali, «Materia e memoria».
Poco importa se uscendo dalla bocca del personaggio di «Kafka sulla spiaggia» che si produce nel dotto riferimento, una leggiadra e procace signorina, per un motivo che lascio scoprire a chi vorrà avventurarsi nella lettura, la frase risulta avere più o meno questo suono: Maheriae-memohia.
Ciò che importa è che ora mi è venuta una gran voglia di leggermi «Materia e memoria». Anche se so, cari amici viandanti per pensieri, che questo potrà suonare per voi come una grave minaccia.



giovedì 12 novembre 2009

In piedi: entra la corte!

E’ noto come il periodo della cronaca patria passata prossima, ormai archiviato fra i faldoni della storiografia moderna con l’arcinoto appellativo di «tangentopoli», abbia rappresentato nel primo scorcio degli anni ‘90 un momento di speranza per tutti gli italiani.

Le successive vicende sono sfortunatamente un film troppe volte già visto: il minimo sindacale del rubacchiamento diffuso è tornato ad imporsi come costume assodato, mentre l’atavico cinismo tornava a riappropriarsi dell’animo di una nazione intera.

Una piccola, tenera nemesi storica si sta tuttavia compiendo in questi giorni. Sarà soddisfazione minima, ma oggi possiamo orgogliosamente rendere merito all’unica illustre personalità italica che sia stata in grado di compiere l’impresa all’epoca solo accarezzata da fior fior di giudici.

mercoledì 11 novembre 2009

Er benzinaro vàààhhh contro corentéééhhh....

«…Er barcarolo va contro corente
e quanno canta, l'eco s'arisente.
Si è vero, fiume, che tu dai la pace,
fiume affatato, fammela trova'…»
“Er barcarolo romano” – Canto popolare (…romano)

Or non è guari, leggiadri viandanti per pensieri, che vi frangi-fluttuai le orchidee, narrandovi delle mie scorribande mentali fra sofisticherie di “surrealtà” semantica, scaturite da graffitanti zotichezze urbane.
Oggi ho due novità sul tema.
Per prima cosa, subito a seguire, sono in grado di recarvi testimonianza tangibile della fonte ispirante di quella mia scorribanda fra le bizzarrie grafo-politane.


In seconda convocazione, debbo poi rendervi edotti di un’altra mia avventura psico-verbale negli aleatori anfratti della villania cittadina messa per iscritto.
La cosa più buffa è che stavolta il misfatto è successo in ambito “non-graffitesco”. Questo rende l’episodio ancor più prezioso (ooohhh…stupore a pagamento!...).
Perché se trovar parolacce nel settore dei muri istoriati non è certo cosa rara, cogliere invece il fior del turpiloquio nel verde prato della semi-ufficialità, è proprio notizia da classico cane morso da un passante.
Non molti passi più avanti rispetto al marciapiede ormai famigerato per la sua iscrizione honoris causa alla «Federazione Italiana Giochi Amatoriali», incontro ogni mattina un distributore.
Le sorti dell’«eroga-benza» sono segnate da tempo. Essendo piazzato sul limitar dell’agglomerato urbano, per ragioni di incolumità media del cittadino medio, è stato destinato allo smantellamento, come capitato ormai a decine e decine di suoi consimili.
Le procedure però debbono essere andate per le lunghe. Si saranno messe di mezzo “Brown-Peace” o “Italia Vostra”, note associazioni inquinantiste, strenuamente impegnate nella battaglia per ricoprire di cacca le ultime zone naturali rimaste incontaminate.
Sta di fatto che il luogo in questione langue ormai da mesi in quel melanconico e limbico distacco che solitamente si frappone fra un ordinario periodo di operosa attività e la sana spianata caterpillarica risolutiva.

Non so se anche a voi fa lo stesso effetto.
Ma a me, quando mi capita di vedere una componente della modernità, inserita nel suo contorno di modernità, e tuttavia destituita del dinamismo moderno senza il quale nessuna realtà può definirsi moderna, mi pare quasi di non aver mai visto una cosa morta più morta di così (e sottolineo l’«a me mi» bifacciale, ci tengo…).
Un’entità moderna svuotata dei tempi e dei ritmi che più le sono consoni, risulta più remota di uno ziggurat mesopotamico.
Ed è così che si presenta anche questo distributore a pompe secche che incrocio ogni mattina. Una sorta di “Overlook petrol station” ancora pregna dell’aura dello “shining-benzinaro” che si aggira con sguardo diabolico fra una pompa e l’altra.
Rifugiato alfin nella meta-storica garitta, lì puoi immaginarlo piegato a capofitto sopra un taccuino, intento a scribacchiare ostinatamente, invece delle fatture del diesel per i camionisti, pagine e pagine della sua allucinata sentenza: «…il gasolio ha l’oro in bocca… il gasolio ha l’oro in bocca … il gasolio ha l’oro in bocca …».

Tutto questo se non fossimo in Italia. Il Bel Paese possiede infatti la strabiliante capacità di “Alvaro-Vitalizzare” anche la più estrema delle situazioni kubrickiane. Se Bergman avesse girato un film da noi, tempo quattro ciack e sarebbe finita a rutti e pernacchie.
Cosa non ti vado a leggere dunque, fra i numerini in plastica della lista prezzi carburanti, croce e delizia dell’automobilista errante, ormai congelati sulle tariffe dei bei tempi andati?
Chissà, il benzinaro abdicante avrà voluto lasciare il suo piccolo messaggio nella bottiglia, ma i mezzi espressivi erano limitati. Al pari degli esperti di comunicazione della Nasa, alle prese con l’incertezza su come rimpinzare la scatoletta sparata nello spazio per mandare informazioni alle eventuali altre forme di vita intelligente nell’universo, si è trovato di fronte ad un arduo dilemma tecnico e di contenuti.
Quei numerilli mutevoli in plastica, dall’inequivocabile alone anni ‘70 – ’80, non si adeguano infatti tantissimo a riprodurre ogni lettera e per di più sono solo quattro (…detto per inciso, questo ultimo dato rassicura circa le intenzioni delle compagnie petrolifere di mantenere ancora per un po’ i prezzi lontani dai 10 euro al litro).
Il benzinaro deve aver fatto due rapidi calcoli verbali: «Uhm, vediamo, solo due sillabe e neanche tutte le lettere…la prima è facile, dai: la C ce l’ho, la I pure, la A e la O ci si appiccicano quasi naturali: CIAO…».
Però a questo punto, nell’animo del benzinaro, deve essere scattato il “demone della perversità” (Cit. - Edgar Allan Poe). Memore di tutto il tempo trascorso a far da vampiro per conto terzi, “soldi-suga” in trincea, a metterci la faccia al posto delle multinazionali dell’ottano, avrà pensato: «…Ma CIAO una beata minchia! Se ho già la C e la O, ma chi m’impedisce di metterci nel bel mezzo anche la U e la L, che coi numerilli non riescono neanche male? E’ lì che v’invito ad andare a soggiornare, cari i miei prepotenti della carburazione…».

Detto, fatto: ecco consumata, nel breve volgere di una sfarfallata di lettere, la meritata vendetta a scoppio ritardato del benzinaro abbandonato. Anni spesi a domar proboscidi diesel, ad ammansire tentacoli unleaded; giornate e giornate di strusciante attesa, a pelle di daino sul parabrezza del tempo, sgommando via minuti di moscerini, secondi di olio frusto; e come sempiterno sottofondo, l’infaticabile salmodiare: «…acqua-e-olio-tutto-a-posto?...».
Tutto spazzato via, con la disarmante semplicità di due sillabe del più giocoso sarcasmo.
Lo stesso, medesimo sarcasmo sul quale in questo momento stai seduta tu, cara amica lettrice.
Lo stesso, medesimo sarcasmo che pure tu, caro amico lettore, sei costretto taluni sabati a schiodare dal divano, per assecondare la repentina smania della tua dolce metà di far visita all'IKEA, alla ricerca di quel fantomatico comodino in arte povera, in tinta con le tende della camera color "can che fugge".

Questo è quanto mi son divertito a fantasticare insomma, sulla scia di quella paroluzza quadriletterale di scherno petrolifero.
Adesso anche tu potrai essere annoverato nella schiera dei miei eroi post-moderni, oh benzinaro “controcorente”, insieme all’Uomo Torcia e a Superciuk.
Ed ogni qual volta immaginerò, d’ora in avanti, alzarsi al cielo il tuo canto di ribellione contro l’oppressore idrocarburico, mi parrà come per incanto di accorgermi, oh benzinaro, che nell’aria intrisa di vapori di benzina “l’eco s’arisente”: «’NCU…ULO…ULO…ULO…».



martedì 10 novembre 2009

Gelo e poi sento l'alma avvampar...



In un attimo di interregno, nella terra dei pensieri, si alzò al cielo una delle più fantastiche sequenze di note mai messe in fila...

sabato 7 novembre 2009

Muri



Cari amici viandanti per pensieri, oggi sono andato a cercare muri per voi (e poi dite che non vi penso...).
Dovete sapere che da qualche tempo a questa parte nutro un'insana passione per le case diroccate e per i muri vecchi. Oh...cosa ci volete fare...ognuno ha i suoi vizi.
C'è chi tira interi limiti dell'area di coca; c'è chi è afflitto dalla "sindrome del puttaniere inconscio" (per il suo bene gli han fatto credere che si chiamano "escort"); c'è chi si affida ad amori alternativi, alla ricerca dei centimetri di affetto perduto...e poi c'è chi "si fa" di muri vecchi.



Da un punto di vista più articolato, avevo già introdotto un argomento affine, tempo fa.
Non tutti i muri vecchi sanno suscitarmi lo stupore "murario" atteso. La casa poi non deve essere necessariamente diroccata. L'importante è che mostri evidentissimi i segni del tempo posati sulle proprie superfici e fra i suoi interstizi.
Non so dirvi di preciso quali siano gli elementi che mi fanno scattare l'«epifania edile».
Quello che so è che quando accade, quel muro, o quella sua porzione particolare, mi appaiono come il volto di un vecchio saggio pieno di rughe, in fondo ai cui occhi si legge solo la serenità di un tempo che è trascorso in pienezza e densità.
Oppure, per strano che possa sembrare a dirsi, mi sembra di essere di fronte ad un quadro dalla spiazzante modernità, una composizione elegantissima, visivamente autosufficiente e dotata di un'altissima dignità estetica.



Fra gli elementi della vetustà iconografica muraria che prediligo, c'è l'affioramento dello strato dei mattoni, da sotto il velo dell'intonaco "evaporato" in parte o del tutto.
I muri vecchi presentano spesso una trama meno precisa di quelli più recenti. L'ordito dei mattoni non è affidato ad una rigorosa geometria prestabilita, "pre-pensata". Questo suggerisce meglio l'idea di un'entità che è cresciuta adattandosi alle vicissitudini accidentali poste dinnanzi dallo scorrere del vivere.
I mattoni dei muri vecchi sono simili ad un discorso fatto da un oratore capace, che ha saputo adattare le sfumature e le espressioni del suo dire all'umore mutevole dell'uditorio che si trovava di fronte.
Laddove il "murar moderno" è invece più vicino all'immagine di un freddo comunicato redazionale, affidato al galoppino di turno più basso in grado, in occasione di un improvviso sciopero dei tg.
La multiformità delle sagome dei singoli pezzi murari antichi, suggerisce inoltre meglio l'idea di una distribuzione soppesata delle forze in gioco. Si immagina la sapienza del mastro che ai tempi parlò il suo discorso di muro, scegliendo opportunamente virgole di malta, sillabe di sabbia e preposizioni di coccio.
E' un muro più liquido, il muro vecchio. I tratti delle sue nervature calcificate si incanalano a cascata, con naturalità gravitazionale che evoca rivoli di un ruscello di terracotta.



I muri vecchi mi affascinano poi tantissimo quando si mettono ad intessere il loro antico dialogo con gli altri elementi della costruzione. Allora sì che ci si sente trascinati in un vero e proprio crocchio di vecchietti dai quali emana un'autorevolezza atavica profondissima, seduti su una panca, all'ombra di una quercia secolare.
Le venature dei legni battuti dalle acque, scheggiati e messi alla prova dalla sferza del vento e dal maglio implacabile del solleone. La gentilezza di ferree ed ormai cigolanti cerniere. Il pragmatismo immediato di altri metallici dispositivi. Travi che sgusciano via a destra e a manca, dando vita alla loro fuggevole danza ortogonale con l'involucro murario.

Ce n'è per tutti i gusti, cari amici viandanti per pensieri.
Basta solo mettersi davanti ad un vecchio muro e lasciare che esso ci parli.




giovedì 5 novembre 2009

Ricordi a composizione autocondotta


C’è una cosa che mi sono sempre chiesto: ma gli attimi del nostro passato...ma dove vanno a finire?
Ma guardate che è un bello scherzo, eh…
Cosa ci sarà mai, una discarica di attimi passati, da qualche parte? C’è un «attimaro», un rigattiere di attimi? O un ricettatore, per chi non può vantare un passato propriamente limpido…
Va beh che tanto è perfettamente inutile star lì a rodersi. E’ il paradosso del tempo che già Sant’Agostino aveva focalizzato in maniera così preclara, e se non ci è saltato fuori un santo, figuriamoci un campagnolo come me.
L’attimo presente è la cosa più concreta che possiamo immaginare, non c’è nulla di più tangibile, corporeo, consistente, materialmente verificabile. Eppure, nel medesimo tempo in cui lo pensi, l’attimo ti ha già fregato: puff! Se n’è volato via, sulla scia “concettuale” di quella gonza battuta anni ’70, che più o meno recitava: «Voltati di scatto e morditi un orecchio!».
Hai voglia ad essere rapido: l’attimo non lo mordi mai.

Uno dice: «…D’accordo, ma ci sono i ricordi…dove sta il problema?…».
«Sì…e ‘sta minchia ce la vogliamo mettere?» mi sento autorizzato a ribattere io.
Risolvere l’enigma degli attimi passati servendosi del loro ricordo è come scivolare lungo una fognatura che sfocia giusta giusta nel bel mezzo di un letamaio: alla fine non è che le cose siano tanto più chiare di prima (e scusate per l’eleganza della metafora).
Se invece mi si viene a dire: «…Cosa ci vuoi fare? Non ci restano che i ricordi…», allora sì che ragioniamo un po' meglio e mi sento di rispondere: «Eh già, amico mio…proprio così…entriamo in questo bar che ti pago da bere, dai…».

Ma i ricordi son roba difficile da masticare. Sono stoppacciosi come i coccodrilli del Nilo assaggiati una volta da Obelix in mancanza dei suoi beneamati e bensbafati cinghiali.
I ricordi sono ombre. Già gli attimi sono evanescenti, figuriamoci allora le loro ombre.

Però qui casca l’asino che va per pensieri!
Perché a ragionarci su bene, si può quasi arrivare alla bizzarra quanto paradossale conclusione che in questo particolare caso le ombre sono più concrete degli oggetti dai quali sono originate.
Via via sillogizzando in tal guisa bislacca, si può altresì dedurre che se l’attimo è svanito, e non ne rimane altro che il ricordo, allora le nostre personalità sono fatte di puro ricordo.
Così mi voglio rovinare con l’ultimo azzardo deduttivo finale, concludendo che i ricordi sono l’unica roba concreta su cui possiamo fare affidamento.

D’accordo, mi rendo perfettamente conto che a questo punto Aristotele avrebbe senz’altro storto il naso, e mica poco. Ma chi va per pensieri vuole in primo luogo divertirsi e questo gli basta.
Tanto più che tale strambo argomentare mi è stato ispirato dal ricordo di un’ancor più singolare entità: l’«oggetto a composizione autocondotta».


Si tratta di una creazione di Enzo Mari, architetto e designer milanese, per "adozione culturale", che la concepì nell’ormai lontano 1959 (e scusate per la poca qualità delle immagini, non ne ho trovate di migliori).
Una cornice di legno delimita due piccole lastre di vetro, mantenendole parallele, in modo da lasciare un’intercapedine “di aria” nel mezzo. La distanza fra i due vetri è giusta giusta per adeguarsi allo spessore di vari pezzetti di legno dalle diverse sagome elementari (rombetti, quadratini, triangoli), i quali sono così liberi di muoversi dentro le due “vetrinette”, quando l’oggetto viene ruotato o capovolto. Unico ostacolo alla distribuzione libera dei legnetti, è una piccole barretta fissata alla cornice, che interferisce sui possibili tragitti del contenuto mobile.
A considerarlo bene, l’«oggetto a composizione autocondotta», parte già con un punto a suo favore: è perfettamente inutile.
L’unica cosa che sa fare è stimolare riflessioni.
E’ un “riflessoforo” e a me una riflessione l’ha portata. Non sarà quella prevista da Enzo Mari, ma è pur sempre una riflessione.
Ho immaginato che i pezzetti di legno fluttuanti fra le due vetrinette, fossero i miei ricordi. L’oggetto, con la sua particolare sagoma, è stato di grande aiuto nel suggerirmi l’idea che i ricordi sono la cosa più concreta di noi stessi.
I movimenti dei legnetti sono gli attimi della nostra vita, ma i ricordi degli attimi sono i legnetti stessi.
Dei movimenti si perde traccia, essendo praticamente infiniti, ma i legnetti restano “dati” per sempre.
Però anche i legnetti non sono statici, congelati una volta per tutte. Muovendosi, originano nuove composizioni determinate dal reciproco confronto, e le loro posizioni sono pure infinite.


E’ stato qui che mi è scattata l’epifania più piacevole.
Da tempo mi sto rendendo conto che i miei ricordi si comportano proprio come i legnetti di Enzo Mari. Non è che mutino nella loro fisionomia fondamentale, ma disponendosi in modo differente fra le due vetrinette della memoria, assumono valenze nuove nel grande contesto della mia interiorità.
Ci sono ricordi che un tempo mi angosciavano, mi facevano addirittura paura; mescolati nel mio spirituale "compositore ad autoconduzione", hanno finito per incasellarsi entro l'animo con disposizione ben più rassicurante .
Altre reminiscenze ancora, magari sono rimaste a lungo insignificanti nell'archivio della mia memoria, fino a quando, con uno scossone adeguato, han finito per disporsi sotto una prospettiva che donava loro il risalto meritato.
La fondamentale differenza tra la realtà ed il "dispositivo poetico" di Enzo Mari, è che fra i vetrini della nostra memoria si aggiungono sempre nuove sagome.
Ma a me piace pensare che questa ulteriore variabile, non potendo essere materialmente significata per ovvi motivi pratici, sia comunque in qualche modo introdotta dalla piccola stecca di legno fissa che attraversa lo spazio di manovra dei "ricordi lignei" come uno statico setaccio monolitico: quella è l'illusoria fissità della "quotidianità sparigliatrice", dalla quale ci si attende un'immissione a getto continuo di nuovi ricordi freschi.

Un bella fucina di suggestione insomma, questo «oggetto a composizione autocondotta»: regala quasi l'illusione di esser riusciti, se non a mordersi, almeno a darsi una lieve leccatina al lobo.


lunedì 2 novembre 2009

Gastronomia da asporto o l’esperanto dell’arte


(Avvertenza: contiene prosa fortemente nauseabonda ed indigesta. Può nuocere gravemente alla sanità mentale...)

***

Per comodità di comprensione, siamo soliti classificare il mondo in grandi capitoli tematici.
Di più: per intenderci fra umani, abbiamo bisogno di suddividere gli ambiti conoscitivi in cui ci muoviamo in “sottostrutture funzionali”, in “reparti operativi”, che agiscono secondo proprie logiche interne.
Non ci avete capito una mazza, eh?
Avete ragione da vendere…e non sono sicuro di averci capito molto nemmeno io.
Scendo dunque un attimo dal pero e ricomincio, cercando di spiegarmi meglio con degli esempi.

Prendiamo un ambito conoscitivo vastissimo: l’arte.
Per similitudine, mettiamo che l’arte sia una cartella di windows. Dentro ci sono tante sottocartelle: la pittura, la scultura, la narrativa, la musica, la poesia, il cinema. Queste sottocartelle, riprendendo lo sproloquio iniziale, sono ciò che prima ho chiamato “sottostrutture funzionali” o “reparti operativi”.
Nell’accezione comune, ad un’analisi sommaria, queste cartelle non dialogano fra loro, o se lo fanno, questo succede in forme alquanto marginali.
In ogni cartelletta minore si persegue lo scopo previsto dalla “sovra-cartellona” onnicomprensiva denominata “arte”: la ricerca di inediti significati esistenziali tramite la sperimentazione “linguistica”. Ma ad ogni sottocartellina compete la sua specificità di mezzi, la sua operatività particolare.
Ci può essere una trasversalità di temi (l’amore, per dire, può essere raccontato in un film, narrato da un romanzo, raffigurato su una tela, espresso plasticamente), ma il pittore continua ad usare i pennelli, lo scrittore la penna, lo scultore mazzuolo e scalpello, il regista attori e pellicola. Nel senso: ciascun artista percorre i propri canali e strumenti espressivi peculiari.
Ciò che normalmente meno si sospetta invece, è che possa sussistere anche una trasversalità “strutturale”: le sottocartelle dell’arte possono essere imparentate anche rispetto alla loro essenza espressiva.
Insomma, tutta questa fiera per raccontarvi di una magia, quella che succede quando un libro parla come un dipinto o viceversa. Quando una poesia o una scultura si mettono a sillabare all’unisono. Quando vi accorgete che posando gli occhi sulla tela di un quadro, riconoscete la sensazione emanata come familiare, perché è la stessa assorbita tempo addietro dalle pagine di un romanzo.

A questo punto, ritorna in ballo il concetto di “gastronomia del delta”, col quale vi ho ammorbato nella scorsa “puntata”.
Lo riassumo al volo: consiste nella straordinaria capacità, che solo i più sublimi narratori posseggono, di saper illuminare profondissimi “significati di vita”, servendosi del linguaggio quotidiano. Per tradurre nella mia bislacca similitudine: parlando come mangiano, sanno far sfociare dal loro racconto mille rivoli di verità (come le diramazioni del delta di un fiume).

Ed eccoci alfin giunti al succo del mio odierno sproloquiare.
Normalmente, con ogni probabilità, non me ne sarei reso conto. Ma il fatto di aver appena coniato questo concetto “fondamentale” per il prosieguo delle sorti dell’umanità, mi ha fatto accorgere che anche il pittore americano Edward Hopper è un grande “gastronomo del delta”.
Anzi: grandissimo.
Prendete uno qualunque dei suoi dipinti.
Nelle “arti visive”, dopo la prepotente entrata in scena dell’astrattismo e di tutte le tipologie espressive che (con faciloneria “tutte-l’erbe-un-fasciale”) condenserei nell’aggettivo “concettuali” (Klee, Mirò, Mondrian, Kandinski, Malèvic, Duchamp, Tristan Tzara, and so on), ci si sarebbe forse potuto aspettare che al realismo, al parlare con linguaggio figurativo, toccasse in sorte un rapido declino per “obsolescenza”.
Invece no.
Per un lungo stralcio di ‘900, quando quasi tutti gli altri ci davano giù di brutto con linee, volumi e colori puri finalizzati all’emozionalità cristallina, Edward Hopper ha parlato il linguaggio della quotidianità, ha attinto le sue “sillabe” dalle forme del reale. Si è sempre mantenuto “alla luce del sole”, è proprio il caso di dirlo. Non c’è ricerca apparente di mistero nelle sue forme, ma non di meno il mistero e l’ambiguità si materializzano in piena luce.
Hopper sa cogliere uno dei più stranianti dati della modernità: le sue ambientazioni urbane trasudano trasparenza scientifica da tutte le angolazioni (i suoi omini e donnine sembrano quasi collocati sotto lampade da laboratorio), ma l’angoscia metafisica che quello stesso razionalismo avrebbe preteso di scacciare fuori dalla porta della inconvertibilità sperimentale, rientra dalla finestra del dubbio esistenziale pragmatico, fra squarci di luce abbacinante.
Non c’è astrazione, non c’è fuga nell’intellettualismo: Hopper accetta la sfida con la tangibilità del vivere, con gli elementi concreti della realtà, riuscendo nondimeno a farceli osservare da prospettive nuove e poeticamente inespresse prima.
Ci sono insomma modalità di linguaggio che attraversano tutta l’arte senza badare ai suoi specifici ambiti espressivi.
Come un esperanto dell’arte.
Ammirare un quadro di Hopper, mi pare allora, è un’esperienza estetica di poco dissimile dal leggere un romanzo di Hemingway o un racconto di Carver.
Autori che lasciano poco o nullo spazio all’introspezione o alla speculazione filosofica, affidando tutta la loro immensa poetica all’esclusività della maestria nel trattare i piccoli frammenti espressivi della concretezza del vivere.

Che dire ancora, cari amici viandanti per pensieri...
Due cose.
La prima è che, casualmente, in questi giorni si tiene a Milano (Palazzo Reale) una bella mostra dedicata proprio ad Edward Hopper e magari, se riesco, ci faccio una capatina.
La seconda è che, poco ma sicuro (e lo si capisce dalle “complicazzate” sparate anche in questa occasione), io non sono affatto un “gastronomo del delta”.
Ma neanche per idea.