martedì 29 marzo 2011

Florilegi claudicanti


A Gillipixiland tutti le aspettavano con ansia anche quest'anno.
Va beh...tutti...diciamo qualcuno. Anzi, ancor meglio: facciamo che le aspettavio io, via.
E poi, con ansia...
Si fa presto a dire "...con ansia...".
Insomma, in un modo o nell'altro, io le aspettavo.

Sto parlando di un tipo di fiorellini che ogni primavera si ripresentano puntuali puntuali. Sono delle piccole violette strane. In uno spiazzo ghiaiato dietro casa, sbucano pian piano, senza dare tanto nell'occhio. Sono poche, isolate e minuscole, ma il loro colore e la loro sagoma mi hanno sempre affascinato.

Mio zio le chiamava le "viole zoppe". E' anche per questo che mi sono care, perchè mi ricordano mio zio. Era stato lui a "metterle giù", tanti anni fa ("seminare" in gillipixilandese si dice anche "mettere giù").

Naturalmente, all'epoca lui le aveva messe giù belle ordinate, non ricordo più se in piccole aiuole o dentro vasetti. Poi quell'originario ceppo floreale armonizzato non so che fine fece. Ma si vede che queste violette sono di una razza pertinace (il cui nome vero, io, da perfetto campagnolo imperfetto, ovviamente ignoro...), perchè il seme si deve essere diffuso col vento e sparpagliato qua e là fra il ghiaietto, tanto che a distanza di anni, ancora ne sbucano dei begli esemplari spolverati in giro, come vi dicevo.

"Viole zoppe": non saprei dirvi come, non saprei dirvi perchè. E nemmeno so se il nome fosse riferito correttamente da mio zio al giusto fiorellino.
Ormai, ogni volta che ho un dubbio del genere, finisco sempre per digitare la parola in questione su google. Sulle prime mi ero illuso di non aver trovato stavolta nessun riscontro, nemmeno un'occorrenza, tanto che il piccolo diavoletto passatista dentro di me, un po' sadico e molto contraddittorio, aveva frettolosamente esultato: «...che goduria!!! Finalmente una cosa che non c'è neanche sulla fottuta wikipedia!...». Sì, perchè, certe volte, rimanere con un po' di mistero verso le cose della vita, non è poi così male.

Ma il mio stonato ed immotivato gaudio si è subito smorzato, quando, ad un'analisi più attenta, mi sono reso conto di come in effetti un risultato interessante, la ricerca su google l'aveva sortito. Riguardo alle "viole zoppe", è balzato fuori infatti un estratto di questo piccolo trattatello agricolo, o erbario, secentesco, la cui prosa arcaica mi sono divertito non poco a leggere, con quella grafia buffa per certe consonanti, a metà via fra l'altisonante e il trombonesco, che ho rigorosamente mantenuto riportando il brano di seguito:

«...Qveste dette anco altrimente herba della Trinità, fi piantano di Primauera, et producono fiori durabili fino all'Autunno, et anco fino all'Inuerno, pur che fiano adacquate fpeffo, et coltiuate diligentemente.
Le foglie loro prefe per bocca, ò applicate di fuori, fono eccellenti per glutinare le piaghe.
Le foglie loro difeccate, et pofte in poluere, beuute con vino roffo alla quantità di mezzo cucchiaio, hanno gran virtù per restringere il budello uscito fuori...».

"L'agricoltura e casa di villa"
Carlo Stefano - MDCXLVIII

Con l'immenso e rispettosissimo sorriso sulle labbra che solo l'antica prosa sa regalarmi, ho quindi considerato che non è poi quella gran iattura per noi moderni sopportare il "fardello" spoeticizzante di avere a che fare con wikipedia, se il prezzo da pagare per arrivare a questo è stato il fatto di vedere meno gente in giro coperta di piaghe o con budelli pendenti di varia natura.

Ho anche scoperto che forse la dicitura di mio zio non era corretta, perchè se le "viole zoppe" sono l'«erba della trinità», ho poi visto, sempre attraverso la "sciagura" onniconoscitiva di google, che questa è invece tutt'altra cosa.
Ma poco importa. Quel che importa è il ricordo dello zio che ancora vive attraverso questi fiorellini.

Era un omone grande e grosso, ma il più buono che poteste immaginare.
Eppure, di motivi per essere incazzato con la vita, ne avrebbe anche avuti, lo zio. Fra le velleità coloniali di quando c'era quel gran trombone di "Lui" e le successive vicissitudini belliche, si era fatto qualcosa come una dozzina di anni di militare, molti dei quali in Africa, Eritrea, Etiopia e dintorni, prigionia in campo di concentramento inglese compresa.

Dopo aveva conosciuto mia zia, si erano sposati e avevano sgobbato una vita nella grande Metropoli, portando avanti con passione la loro attività commerciale. Ma le radici contadine dello zio lo avevano infine riportato alla sua grande passione: la terra.
I suoi anni di pensione li ha passati quasi sempre nell'orto. Vedere crescere fiori, piante, verdure, frutti, era la sua soddisfazione più grande. E si dilettava ad intessere certe sue piccole sperimentazioni vegetali, seminando generi di colture poco usuali o perlomeno curiose per Gillipixiland, come le piante di Actinidia che ancora oggi, ogni autunno, danno tanti buoni e sugosi kiwi, o diversi banani (quelli purtroppo non hanno retto al rigore di alcune gelate invernali...), mirtilli, more e tantissimi generi di fiori ed arbusti.

Aveva le scarpe grosse, lo zio, le faceva fare su misura e raramente l'ho sentito parlare dei tempi dell'Africa, c'erano ricordi troppo duri fra i tanti portati a casa da là. La voce era sicura, i modi gentili e sempre garbati. Se dovessi descrivere in maniera semplice il suo modo di fare, direi che si muoveva proprio come un gigante buono e suo malgrado un po' ingombrante nel fisico.

Quando aveva in mano una zappa o la vanga, oppure il tronchesino per potare, e una giornata di sole davanti a sè, non c'era niente di meglio che desiderasse. Sorrideva volentieri, sempre per motivi semplici e limpidi come la logica di una pianta che cresce.

Ora che lo zio non c'è più, ci sono ancora tante delle sue piante che recano ancora nella propria linfa tutto l'amore agricolo da lui diffuso in quei suoi bei anni goduti nel libero spirito contadino ritrovato.

E fra tutti questi verdi testimoni, le violette zoppe, come lui le chiamava, rimangono per me il ricordo più bello dello zio. Forse perchè sono quelle che meglio riflettono la tenacia che si celava dietro la sua gentilezza sconfinata.


venerdì 25 marzo 2011

Should we talk about the weather?


"...Hello, I saw you, I know you, I knew you
I think I can remember your name...name
Hello I’m sorry, I lost myself
I think I thought you were someone else

Should we talk about the weather? (Hi...hi, hi)
Should we talk about the government? (Hi...hi, hi, hi)..."

"Pop song 89"
REM - 1989

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Diverse amiche blogger scrivono che è arrivata la primavera.
Lo dice Farly, lo dicono Vale e Lara.

Pensavo allora al vezzo di noi umani di parlare del tempo. A come un argomento così scontato qual è quello della ciclicità dei fenomeni stagionali, riesca sempre a rinnovarsi, diventando ancora una volta motivo per una chiacchiera disimpegnata, o forse nemmeno tanto.

Parlare del tempo può rivelarsi noioso e scontato, quando capita di farlo con persone superficiali. Se invece il discorso viene sfiorato da interlocutori la cui profondità d'animo ci è nota e comprovata (com'è sicuramente il caso delle amiche menzionate), parlare del tempo diventa una sorta di suggello amicale.

Spostando il ragionamento ad una portata ancor più generale, il valore del parlare del tempo è a mio parere equiparabile al silenzio che sanno intessere fra di loro due amici di lunga data.

Il raggiungimento di una gestione ottimale del silenzio si pone ad un livello molto avanzato delle dinamiche affettive che intercorrono fra due persone, a maggior ragione se si tratta di una relazione sentimentale. Quando ci sono di mezzo stima, affetto, amicizia, simpatia, piacere di stare insieme, è fondamentale avere un buon dialogo, ma è altrettanto indispensabile saper avere un buon silenzio.

A volte mi è capitato di osservare certe coppie sedute ad un tavolo di ristorante, in un bar o in situazioni simili, e notare che pur non aprendo effettivamente bocca, non erano capaci di stare in silenzio. Oh, per carità, sarà anche stata una mia erronea interpretazione e io sono proprio l’ultimo che dovrebbe permettersi di parlare di questi aspetti, dato che spesso e volentieri so districarmi tanto a stento nel dialogo, quanto nei silenzi.

Ad ogni modo, dall’impressione che mi pareva di poter trarre, non solo tacevano, ma sembravano fare una gran fatica a sostenere il silenzio. Sembravano presi fra due fuochi entrambi egualmente intollerabili: da una parte li incalzava una metà via d’imbarazzo e noia per non avere argomenti da intavolare, dall’altro canto invece subivano la pressione di un silenzio non disteso, non rilassato, mal-trattato.

Il silenzio in presenza d’altri, in generale, spaventa un po’. Non siamo più tanto abituati a concepire la tacita vicinanza altrui, anche per “abitudine mass-mediale”, forse. Sentiamo quasi la necessità impellente di riempire la distanza tra due animi pensanti. Lo spazio che separa il lavorio delle menti lasciate libere di vagare nei territori della propria interiorità, incute timore con i suoi vasti orizzonti. Solo se c’è un’intesa altamente qualitativa, una complicità rodata da tanto tempo condiviso "veramente" insieme, il peso del silenzio reciproco può divenire lieve come una piuma. A quel punto, anche l’imbarazzo diventa infatti un luogo dell’altro che si è in grado di visitare apprezzandolo come valore importante.

Quando fra due persone intercorre energia esistenziale vera attraverso meccanismi di osmosi effettivi, non si sente l'impellenza di coprire il silenzio e nemmeno l'agitazione di dover dire cose necessariamente importanti. In quei casi ci si può permettere anche il lusso di tacere o di parlare del tempo, perchè il rilievo delle reciproche profondità passa attraverso strumenti di misura interiore più raffinati ed articolati rispetto al valore delle semplici parole.

Per capire insomma se veramente state bene con una persona, fate un po’ mente locale ai vostri silenzi condivisi, o ai discorsi fatti sul tempo o su altre simili tematiche disimpegnate: se funzionano quelle cose lì, c’è buona possibilità che funzioni anche molto del resto.

E pensare che oggi volevo parlare di primavera…

martedì 22 marzo 2011

Deliriomanzando


Amici, stasera rincasando dal lavoro, ero fortemente intenzionato a scrivere un articoletto, qui sul blog. Peccato però che non avessi argomenti freschi a portata di neurone.
La cosa bizzarra, tra l'altro, era che per un articoletto non avevo materiale, ma per un romanzo sì.

Quando si dice che i tempi non collimano con i modi...

Protagonista di questo romanzo avrebbe dovuto essere una nuova specie di maschio umano. Questo "homo novus" avrebbe diffuso nel mondo un inedito genere di gentilezza. Si sarebbe trattato di un vero contagio a base di reciprocità ed ascolto vicendevole. Con un uomo simile non si avrebbero avuto più guerre, mentre il tasso di aggressività nell'aria si sarebbe ridotto a livelli "bradipèi".

Il concetto della parola "competizione" si sarebbe quasi ipercettibilmente disperso nel vento, lasciando posto ad altri significati custoditi dentro termini quali "solidarietà", "cooperazione", "apertura", "dialogo", "empatia", "immedesimazione nell'altro".

Un simile ateggiamento, avrebbe finito per aprire le porte di «...un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno...».

Tutto questo avrebbe anche forse portato un giorno ad una serena estinzione della razza umana? Può anche essere, ma nel rapimento della finzione romanzesca, l'obiezione sarebbe stata del tutto irrilevante.

Ecco dunque per grandi linee di cosa avrebbero trattato i miei sforzi narrativi. Ma dal momento che, come da miglior tradizione, il tempo anche stavolta era tiranno, tutto ciò che rimane del mio romanzo si riduce al suo solo titolo: «La rivoluzione degli uomini che pisciavano seduti».


venerdì 18 marzo 2011

Nostalgia militante


Vi ricordate quando da piccoli vi domandavano: «...Che mestiere ti piacerebbe fare da grande? Cosa vorresti diventare…?...».
Ebbene, se si potessero porre due condizioni la cui realizzabilità mi sembra di poter valutare nell’ordine di un “impossibilismo” pressoché totale, oggi, ben rifornito del senno di poi, mi sentirei di rispondere con molta più cognizione di causa di un tempo.

La prima condizione sarebbe data dalla possibilità di tornare indietro nel tempo, e già qui la cosa la vedo abbastanza dura.
Il secondo presupposto dipenderebbe invece dall’esistenza di un nuovo tipo di professionalità, attualmente purtroppo ancora relegata in un’incerta dimensione a metà strada fra il dilettantismo puro, l’espressione folcloristica popolare e una sorta di volontarismo esistenziale poeticizzante.

Sto parlando dei vecchietti pensionati che curiosano ai margini dei lavori in corso.

Ecco, se potessi essere ancora bambino e se questa attività fosse riconosciuta come professione vera e propria, risponderei esattamente così: «…Da grande voglio fare il pensionato che curiosa vicino ai lavori in corso...».

Un po’ risponderei in questo modo anche perché quella domanda, diciamolo con franchezza, mi è sempre stata parecchio sulle palle. Non so nemmeno che cosa mangerò oggi pomeriggio a merenda e tu mi vieni a chiedere cosa farò da grande?

Va beh che anche all’epoca non è che mi facessi eccessivamente pregare per sfornare risposte da perfetto suonato incoerente. Ero già bello indeciso fin da allora, e una volta rispondevo che mi sarebbe piaciuto diventare un meccanico, un’altra invece che avrei preferito un mestiere in cui non ci fosse da sporcarsi, da fare in giacca e cravatta. Ma forse dicevo queste cose più che altro per levarmi di torno il molesto interlocutore…

Tornando però al mestiere di “pensionato osserva cantieri”, ritengo che rappresenti una figura fondamentale nelle dinamiche dell’economia moderna, un vero e proprio ruolo professionale purtroppo ancora eccessivamente sottovalutato al giorno d’oggi.

Ovviamente la tipologia di “pensionato osserva cantieri” da me ipotizzata non avrebbe richiesto di aver lavorato per una mezza vita, prima di poter accedere alla professione in qualità di pensionato classico com’è comunemente inteso adesso. Ci sarebbero state invece scuole apposite di specializzazione, dalle quali saresti uscito, intorno ai vent’anni d’età, col diploma di “pensionato osserva cantieri” fatto e finito, regolarmente iscritto all’albo di pertinenza.

Io avrei frequentato la «Inter-rional School of Pensionology» e una volta preso il diploma sarei andato ad esercitare a Milano, perché è la città che offre più opportunità di lavoro in quel settore, con i mille e un cantiere di ogni genere di cui dispone. Nei primi tempi avrei cominciato, da bravo principiante, con dei cantieri di modeste dimensioni, tipo qualche scavo per le fibre ottiche o qualche ripristino di fognature.

Questi piccoli scenari mi avrebbero dato agio di impratichirmi con alcuni fondamentali della materia, mettendo subito in pratica i preziosissimi insegnamenti ricevuti da uno dei miei docenti più autorevoli, l’esimio professor Pino dei Palazzi.



Avvicinandomi ad uno dei lavoratori, avrei potuto insinuare in lui il fatidico dubbio circa la sensatezza del suo operato, servendomi di una classica formula di rito della mia professione: «…Uhè…ma se pudèva no de scavà un pü püsè dè chì?...» («…Uhè…ma non si poteva scavare un po' più in qui?...»), o utilizzando altre simili espressioni pregne di “poetica molestia”.

Superato questo periodo di gavetta, avrei potuto essere trasferito nei pressi di importanti cantieri per la costruzione di esagerati grattacieli totalmente fuori contesto urbanistico, oppure di super-mega-iper-strade (non meno di 250 km di sano asfalto atto a purificare quella schifezza dei prati e dei boschi), stese con l’utilissimo scopo di spostarsi da un capoluogo di provincia ad un altro con un quarto d’ora di tempo in meno (oh, non si sa mai che lungo il viaggio si venga presi da una drammatica stretta alle viscere…un quarto d’ora può essere fatale…non vorremo mica che il dinamico uomo moderno si caghi addosso, vero? Cosa ne sarebbe del suo prestigio?...).

Non a caso ricordavo prima come il “pensionato osserva cantieri” rappresenti una professionalità troppo trascurata dalla nostra società. Con la sua presenza discreta e un po’ rompitasche, egli mette in rilievo infatti la cattiva coscienza insita nel contorto concetto moderno di “crescita illimitata”.

Il “pensionato osserva cantieri” è un vero è proprio soldatino, arruolato fra i ranghi dell’esercito della nostalgia. Se ne sta lì, il “pensionato osserva cantieri”, ai margini del brulichio indaffarato altrui, sfaccendato al seguito dei propri pensieri lievi, col suo sguardo un po’ critico e un po’ sfottente.
E’ un promemoria vivente, il “pensionato osserva cantieri”.

Ricorda la possibilità di ritmi di vita meno frenetici. Non importa se magari questi ultimi sono solo un’illusione offerta da un’errata visione retrospettiva indirizzata verso un “aureo passato” mai esistito effettivamente. Non c’è bisogno di andarlo a raccontare al “pensionato osserva cantieri”: lui si è fatto un mazzo tanto nel corso della sua avventura lavorativa e lo sa bene quanto dura fosse la vitaccia di un tempo.

Ma se i ritmi meno frenetici non sono mai esistiti, questo non è un motivo sufficiente a far sì che non si possano ripensare adesso o in un domani non tanto lontano. Con maggiore precisione dunque, potremmo definire il “pensionato osserva cantieri” come un soldatino armato di nostalgia per il futuro.

Egli ricorda anche all’incolpevole operaio preso dentro dal convulso ingranaggio del cieco efficientismo ottuso, di non aver mai visto in vita sua, fra tutti gli esempi naturali che gli vengono alla mente, mai e poi mai un animale, una pianta, un fiore, niente di niente, che potesse continuare a crescere sempre, senza mai fermarsi.

Tutto ciò che è dato nella realtà così come la conosciamo, ha un limite. E’ una regola insita nella “struttura del reale”. Come ci rammenta un'antica espressione cara agli stilnovisti, “è così, e non ci sono cazzi”.

E se si pretende di inventarsi un’esistenza destinata a crescere indefinitamente, prima o poi s’incappa in uno dei tanti postulati del “pensionato osserva cantieri”, che con declinazione Gillipixilandese così può essere reso: «...Infèia ca’ t’infèi al balón, an bél mument al fnèsa pàr sciùpà...» («...Gonfia che ti gonfio il pallone, un bel momento finisce per scoppiare ...»).

giovedì 17 marzo 2011

Come fu che andando per graffiti rimanemmo graffitati


«…Pur con gl’infiniti suoi difetti, evviva l’Italia, per Dio!!!...»

Gillipixel17 marzo 2011

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Tutti abbiamo presente la magia sprigionata dall’atto di mettersi a leggere un nuovo libro.

Parlo di quel senso di iniziazione assoluta e sempre rinnovata che ogni volta ci fa sentire come dinnanzi allo spalancarsi di un’inedita avventura, tutta da assaporare proiettandola fra i territori di un mondo mentale ed emotivo “a venire”, ma sul momento ancora completamente sconosciuto.

Prendiamo in mano il nostro bel volumetto, lo soppesiamo, ci lasciamo accarezzare i polpastrelli dalla consistenza della copertina e dal “ruvidìo” della risacca zigrinata che possiamo far schiumeggiare a tenere ondate a partire dalle tre estremità scoperte delle pagine. Poi passiamo ad aprire l’intonso mistero lì racchiuso, con un gesto non molto dissimile dal fatidico disvelamento di una nudità fino ad un attimo prima rimasta celata dietro il dolce tormento di un succulento desiderio.

Magari ci affondiamo pure il naso, fra le pagine, colmandoci le narici di quello stupore necessario a rimanere ancora un attimo in sospeso, a rimandare ancora per qualche istante il piacere vero e proprio della lettura.

Poi finalmente possiamo “metterci in bocca” l’incipit, farlo nostro pronunciando mentalmente le parole che lo compongono. E, certo, ogni parte di un libro bello ci sarà cara, ma forse mai più, durante la lettura di tutto il resto delle frasi in esso contenute, riusciremo ad assaporare una “sensazione di possibilità” simile.

La consapevolezza così forte di uno stato in cui “tutto potrebbe ancora essere”.

In poche parole, la percezione di una dimensione di libertà d’animo così sconfinata.

Se nel momento di iniziare la sfida con una nuova lettura, tutte queste impressioni, pur nella confusione raffazzonata con cui ho tentato di riportarle, si presentano di tale vivida portata, non ho mai dimenticato quanto esse risultassero di molte volte amplificate ai tempi della scuola, allorché si trattava di affrontare “in duello” addirittura un’intera nuova materia.

Le prime pagine del libro di una materia nuova, lette nei primi giorni di un inizio anno scolastico: una delle sensazioni di libertà più forti mai provate in tutta la vita.

Se si trattava di matematica, potenzialmente e a pieno diritto tu potevi sentirti “ancora e già” un matematico con tutti i crismi. Lo stesso nel caso della fisica, o della geometria, o del latino, della storia. Le vere difficoltà sarebbero giunte successivamente e per il momento non ce ne fregava poi un granché. Per intanto, potevamo ancora darci del tu con l’autore, trattarlo alla pari, che la complessità da lui introdotta era ancora alla nostra portata, più che abbordabile.

Le maledizioni e gli accidenti erano ancora ben là da venire, sarebbero arrivati in seguito, andando sul difficile di ciascuna disciplina, ma quella sarebbe stata un’altra storia, da pensarci dopo…

In particolare, questo fascino da “iniziato culturale” l’ho sempre sentito in modo molto intenso affrontando una materia che sarebbe divenuta poi a me molto cara, la storia dell’arte (e, portate pazienza, ma quanto scritto finora era solamente una faloppa introduzione: da qui in avanti, passo a dire ciò che effettivamente volevo raccontare oggi…).

Praticamente tutti i manuali di storia dell’arte iniziavano (ed iniziano tuttora) con le pitture rupestri preistoriche. C'erano sempre le foto di quei tre o quattro “bisontini” stilizzati sulla parete di una grotta, quelle piccole mandrie di alci o cervi riassunti in alcuni “stecchini neri” tracciati a carbone, e il testo c’informava che nella mente dei nostri remoti antenati quelle raffigurazioni di animaletti avevano il valore di una sorta di magica appropriazione della realtà stessa: nel graffito, nostro nonno del pleistocene credeva che ci fosse dentro la bestiola vera e propria, in ciccia e pelliccia .

Noi leggevamo e prendevamo la faccenda per buona, anche senza capirci dentro più di tanto. Cosa importava, infatti? Era ancora l’epoca in cui all’Argan potevamo dare del tu come ad un vecchio zio, godendoci per il momento la nostra beata incoscienza di saputelli confinati fra quelle prime pagine e fra quei primi giorni di scuola. E chiudendo di fretta il testo, correvamo di filata al campetto per dare due calci al pallone o fare qualche tiro a canestro: ci avremmo pensato più tardi a preoccuparci, una volta giunti più o meno all’altezza dei bizantini o del periodo gotico.

Solo in seguito però mi sono reso conto, o perlomeno, così mi pare di aver capito (e in particolare mi è venuto da rifletterci proprio stamattina…sempre per via del fatto di non avere una strabeata fava di meglio a cui pensare…), che iniziare una storia dell’arte dai graffiti rupestri significa in qualche modo “prendere su” il discorso nel punto in cui è già iniziato da un bel po’ di tempo.

Nel tentativo di ristabilire in qualche modo le proporzioni storio-socio-cultural-etno-grafiche, credo che si debba andare a scavare molto più a fondo per trovare il primo mattone dell’edificio della conoscenza e di un primo abbozzo di consapevolezza estetica, riportandolo al momento dell’acquisizione da parte dell’uomo dell’atto del “significare”. Ora, l’uso di termini precisi, quando ci si addentra nella complessità di questi temi è sempre problematico. Parlo di “momento dell’acquisizione” per capirci velocemente, ma è normale che si sarà trattato di secoli se non di millenni di tempo.

Quale fu il “quid differenziale” che consentì all’uomo di distaccarsi dalla dimensione animale esclusiva in cui aveva sguazzato fino a pochi minuti prima? Come avvenne che il nostro lontanissimo bisnonno si cavò fuori dallo stato di natura, cominciando ad essere anche individuo di cultura?

Quando fu insomma che l’uomo divenne tale, mettendo nell’armadio la pelliccia animalesca per indossare i panni di una completa coscienza di sé e del suo “essere nel mondo”, portandosi a casa (con una sorta di “paghi uno prendi due” preistorico) anche il senso della irrimediabile finitezza insita nella propria condizione?

Per cercare di rispondere a queste domande “facili facili”, è utile a mio parere introdurre a questo punto una similitudine (tanto per fare ancora un po’ più di casino, che non ce n’era già abbastanza…).

L’uomo iniziò a poter essere chiamato veramente “uomo” dal momento in cui (e si parla sempre di momenti lunghi millenni, intendiamoci…) si addentrò sempre più nella paradossale illusione di riuscire ad essere un “possessore posseduto”. E questo momento ha coinciso con l’acquisizione della facoltà, della capacità, della consapevolezza, di saper “significare” le cose.

Quando l’uomo capisce che un “segno” è in grado di fare le veci della “cosa” significata, egli sente di poter in qualche maniera possedere il mondo. Ma si tratta pur sempre di un possesso paradossale, perché elevandosi al di sopra della natura attraverso i segni, l’uomo non può evitare di continuare ad essere parte di quella stessa natura.

Il “segno” non potrà mai essere un’etichetta appiccicata alla sua “cosa” di pertinenza, bensì “segno” e “cosa” nominata rimangono per sempre un unicum inscindibile. Il primordiale atto del significare umano (che ci portiamo ancora appresso tale e quale ancora oggi, come millenaria eredità fondativa del nostro essere “animali culturali”) può essere visto come un sostanziale atto sospeso a metà fra l’eroico ed il disperato, compiuto da un essere nel tentativo di innalzarsi, di cavarsi fuori, da un senso di realtà nella quale è invece irrimediabilmente ed inevitabilmente sempre immerso.

Sintetizzando proprio alla “bruto boia”: la cultura è illusione di possesso del mondo, che a sua volta continua sotto sotto a possedere noi.

Nella speranza di essere più chiaro (ma nella quasi certezza di non riuscirci), introduco ora la similitudine cui facevo cenno poco fa.

Vi rallegri almeno il fatto che questo mio metaforizzare si servirà di immagini tratte dall’ambito dell’amore fisico, del “fare all’ammòòre”. Quando si parla di pratiche erotiche o di accoppiamenti carnali che dir sì voglia, mi ha sempre incuriosito, causandomi anche qualche sorriso, lo strano vezzo di dire secondo il quale in quei dilettevoli frangenti sarebbe l’uomo a “possedere” la donna.

Adesso, non è certo questa la sede adatta per agevolare certi ripassi circa il funzionamento della “meccanica erotica”, ma se fate un attimo mente locale, concentrandovi proprio sul dettaglio anatomico più direttamente interessato, non potrete far altro che arrendervi ad una certa evidenza geometrica dei fatti.

Quando una sagoma cilindrica viene inghiottita da una cavità modellata più o meno nelle misure opportune ad accoglierla (d’accordo, c’è sempre anche chi lamenta fastidiose incompatibilità dimensionali, ma questo è un altro ragionamento…), l’ultima cosa che mi sembra di poter dire è che quel cilindro sta “possedendo” il proprio ricettacolo.

Sarebbe un po’ come scavare nel suolo un bel buco delle dimensioni giuste per accogliere il mio braccio, infilarcelo poi dentro fino all’ascella, e sostenere che sto “possedendo” la Terra.

Sarebbe come immaginare di essere presi nel pungo di un gigante dalle mani enormi il giusto per agguantarci alla perfezione, e sostenere di stare “possedendo” quel gigante stesso.

Sarebbe come essere uno dei tanti animali preistorici, mettersi un bel giorno a nominare la “cose” del mondo abbinandole a dei “segni” corrispondenti, e con quel primigenio atto culturale, pretendere di stare “possedendo” il mondo stesso, esigendo per di più, da quel momento in poi, di venir chiamato “uomo”.

Forse questa mia metafora introduce un’operazione ermeneutica troppo stiracchiata lungo i millenni, un funambolismo filologico-esistenziale troppo esagerato, per poter essere attendibile, coprendo un lasso di tempo che va dalla preistoria fino a noi. Un po’ come succede quando si pela “a spirale” una mela col coltello e difficilmente si riesce a cavarsela, nel percorso dal picciolo al fondo, con una sola striscia di buccia intatta.

Nonostante tutto però non ci costa nulla seguire la suggestione in virtù della quale in simili ragionamenti risieda il nucleo del “mistero di senso” celato nelle bestiole raffigurate attraverso le pitture rupestri: l’uomo era ormai divenuto uomo, ossia un illuso “possessore posseduto”, del mondo e dal mondo.

Per confondere ulteriormente le acque, mi sai concessa una citazione:

«…Immaginiamo di ritagliare dal giornale di oggi la fotografia della nostra diva o del nostro giocatore preferiti. Ci farebbe piacere prendere un ago e trapassar loro gli occhi? Sarebbe per noi altrettanto indifferente che bucare un qualunque altro punto del giornale? Credo di no.

Benché a mente lucida mi renda benissimo conto che un simile gesto contro il ritratto non può fare il minimo male al mio amico o al mio eroe, tuttavia, all'idea di compierlo, avverto una vaga ripugnanza. Sopravvive, chissà dove, l'assurda sensazione che ciò che viene fatto al ritratto viene fatto alla persona che esso rappresenta...».

"La storia dell'arte" - E.H. Gombrich - 1950

Ma come ho già accennato sopra, sono convinto che tutto ebbe inizio molto prima delle pitture rupestri. A quel punto l’uomo era già un esperto “significatore”, era un creatore di segni già bello e che scafato.

Tutto deve essere invece cominciato un bel giorno (anche questo durato dei secoli, suppongo sempre io…) di un bel po’ di tempo addietro. L’uomo non si poteva ancora definire tale, essendo uno dei tanti animali esistenti all’epoca: per il momento era ancora “tutto grugniti ed istintivo” (minchia, questa è terribile: che Brian De Palma abbia misericordia di me!...).

Doveva essersi satollato copiosamente di frutti succosi e dolcissime acque di ruscello quel giorno, il nostro bis-miliardis-nonno, tanto che nel giro di non tanti minuti lo aveva colto un’urgenza di alleggerirsi dei liquidi eccedenti. Dietro le fresche frasche si era così accomodato a fare due generosi zampilli, quando si avvide di come la bizzarria del caso, complice l’irrequietezza particolarmente possente del proprio sciabordio inguinale, aveva disegnato sulla rena una curiosa sagoma.

Gli ricordava vagamente un qualcosa visto da qualche parte, un albero, una collinetta, un fiore, una foglia, un insetto o un’altra bestia, e la mente gli corse allora ad una simile esperienza avuta osservando le nubi assumere sotto la forza plasmante della brezza mille forme cangianti, anch’esse riecheggianti cose diverse, viste nel mondo.

Saranno passati poi molti altri giorni (sempre di quei giorni millenari là…), e un bel pomeriggio, sempre lui, l’uomo, dopo aver trascorso diversi quarti d’ora in lieta compagnia della propria femmina, dilettandosi in faccende di cilindri e corrispettive cavità, si era magari ritrovato a cincischiare distratto col dito sul polveroso suolo, all’imboccatura della sua caverna.

Gli erano bastati allora pochi attimi (anche questi durati non meno di qualche lustro, in ogni caso…), giusto il tempo necessario a riaversi dalla sbornia sensuale, per accorgersi di come le tracce della punta del dito, strisciata sull’abbondante pulviscolo sul quale adagiava il preistorico deretano, continuamente cancellabili e ricreabili, non facevano altro che comportarsi alla stregua delle nubi nel cielo o delle proprie imprevedibilità corporali.

Con una differenza fondamentale, però: in questo caso non erano più l’aleatorietà degli esiti grafici di una pisciata o il capriccio del vento a reggere le redini del gioco. Questa volta era il suo dito a dettare le regole, guidato da ciò che, nel contempo, l'uomo andava in quel modo gradualmente conoscendo come “il proprio pensiero”.

Se ne sarà accorto a quei tempi, il nostro beneamato bis-miliardis-nonno che si stava avventurando in una faccenda parecchio intricata, un guazzabuglio dove ci si addentrava per possedere, ma se ne usciva in qualche modo anche posseduti?

Sinceramente non credo che gliene fregasse poi tanto, perché era ancora alle prime pagine nella lettura del grande libro dell'uomo, ed a quei tempi era troppo preso dall'assaporarne l'incipit.


martedì 15 marzo 2011

Respirando haiku


Mentre si attende sempre con grande trepidazione il ritorno a casa, il prima possibile, degli artisti del Maggio Fiorentino (una vicenda, nell'ambito del disastro giapponese, ingenerosamente e ingiustamente trascurata dai media nazionali, con poche rare eccezioni...), il cuore rimane ancora troppo denso di apprensione e cupezza per poter andare per pensieri con la dovuta levità.

Oggi non mi va altro che rifugiarmi nel conforto di poche, «inutili», sconfinate parole, simbolo della grandezza di un popolo...come una piccola preghiera, indecisa tra il laico ed il religioso, affinchè l'immane sofferenza che lo sta starziando possa finire presto...

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«...perle di rugiada:
in ognuna vedo
il mio villaggio...»

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«...nel convolvolo
soffia il suo naso
la ragazza in fiore...».

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«...anche per le pulci
è forse lunga la notte
e solitaria...».

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«...si fa largo
fra la folla, brandendo
un papavero...».

Kobayashi Issa - (1763-1828)


domenica 13 marzo 2011

Arrivederci ieri


Riflettevo su di un’idea banalissima, ma fondamentale: la nostra identità è costruita per larghissima parte anche sulle cose percepite attraverso la visione. Con “identità” intendo tutto l’insieme di fattori esistenziali che prendiamo in considerazione nel momento in cui pensiamo al concetto di “io”, di “me stesso”.

L'identità come coscienza di sé, insomma, ha una larghissima componente visiva.

Io sono anche l’ambiente in cui mi muovo, sono le persone che frequento, le strade che percorro. Io sono anche il paesaggio che mi circonda, gli alberi, i fiori, gli edifici, sono i fiumi, i monti, il cielo. E tutti questi elementi sono a loro volta convogliati per larga parte verso me attraverso lo stimolo visivo da essi proiettato.

Fin qui nulla di speciale, sono considerazioni che vi poteva fare anche il primo fesso che incontravate per strada. Oggi, seppur virtualmente, vi è toccato d’incontrare me su questa strada telematica, così la parte del fesso la faccio io .

L’aspetto curioso del ragionamento tuttavia è sbucato fuori nel momento in cui ho pensato al “bianco e nero”. Con sommo stupore misto a freddo acume professorale, mi è venuto allora spontaneo prorompere fra me e me con la più classica delle esclamazioni accademiche: «…Minchia!!!...» mi sono detto, «…ma il bianco e nero non è sempre esistito...».

Il mondo è irrimediabilmente colorato e, in virtù del più puzzone dei paradossi, ci sono voluti secoli per arrivare a vederlo in bianco e nero. Ditemi voi se questa non è una bizzarria bella e buona, una stranezza degna di due innocue riflessioni e tre sapide fregnacce da riportare su “andarperpensieri”.

Più riflettevo sullo strano caso, più gli elementi anomali della mia breve indagine interiore si accumulavano. Sì, perché da una parte le sensazioni e le suggestioni legate al bianco e nero le associamo quasi spontaneamente ad un qualcosa che appartiene al passato. Un filmato, una foto in bianco e nero, da un punto di vista della pura “linea estetico-cronologica”, li consideriamo come soggetti che “vengono prima” rispetto ai corrispettivi omologhi colorati, perfezionati soltanto in una seconda fase.
Eppure per l’uomo, prima dell’invenzione di quel vecchio zio della fotografia vera e propria che andava sotto il nome di dagherrotipo, sarebbe stato del tutto inconcepibile ed innaturale vedere la realtà deprivata delle proprie specificazioni cromatiche.

Forte della convinzione che nella vita non è tanto importante trovare delle risposte, bensì sia ben più divertente e stimolante porsi delle domande, mi sono ritrovato a sguazzare in questo delicato dubbio: ma allora, il bianco e nero è una caratteristica che è giusto abbinare ad un sensazione di passato oppure appartiene più alla modernità?

La fotografia ed il cinema sono stati fenomenali strumenti di innovazione zampillati dalla ricerca dell’uomo per fare un passo avanti verso la modernità e tuttavia, per le iniziali limitazioni tecniche, questo passo avanti era obbligato ad essere mosso a partire da una rinuncia non da poco.
I colori andavano momentaneamente perduti, scivolavano via da addosso alle cose, rimanendo di pertinenza effettiva di queste ultime ed innescando nello stesso tempo un senso di connaturata nostalgia inseparabile dalle nuove immagini riproducibili

Il nuovo modo di “immaginare” in bianco e nero nasceva dunque portandosi appresso fin da subito una propria nostalgia interna per i colori abbandonati. Facendo un passo verso il “domani”, ci si ritrovava in qualche modo intrisi di “ieri”.

Certo, va anche precisato un aspetto importantissimo del discorso. Non è che con l’introduzione della fotografia, e del cinema poi, l’umanità veniva catapultata ex-abrupto, come se si partisse da una “fase zero” concettuale, nella dimensione del bianco e nero. Il “terreno estetico” in questo senso era stato precedentemente dissodato ben bene da diversi altri strumenti della riproducibilità per immagine. A replicare un mondo privo di colori ci avevano già pensato tecniche d’incisione e di stampa fra le più disparate (acquaforte, serigrafia, puntasecca, xilografia e così via, che fa pure rima…).

L’idea della riproduzione di soggetti privati della loro originaria cromia era stato patrimonio concettuale anche di altre espressioni artistiche “più dirette”, come la tecnica del carboncino, solo per fare un esempio banale, o altri modi di dipingere o “lasciare segni” ancor più primitivi (per banalizzare ancor di più, penso anche ai graffiti preistorici).

In aggiunta a tutto questo, si può menzionare la potente spallata inferta alla questione da un altro involontario evento che lentamente, nei secoli, si era insinuato fra le pieghe dei meccanismi estetici verso i quali l’uomo è sensibile. Parlo dell’idea di «classicità», una delle categorie fondamentali di tutta la “storia estetica umana”, che si è andata stranamente formando intorno ad un’erronea convinzione.

Quando pensiamo al termine “classico” in ambito artistico, non è difficile associarlo semi-automaticamente a scenari di rinuncia del colore: la candida plasticità delle state di Fidia o Prassitele, il fascino marmoreo dei templi dell'antica Grecia, ecc.
La cosa curiosa sta nel fatto che tutto ciò si fonda su di un equivoco capace di suscitare quasi il sorriso.
Quelle opere si sono infatti fatte largo fra i secoli per giungere sino a noi sulla scia di un clamoroso fraintendimento, perché in origine erano completamente colorate ed è stato solamente in virtù della beffarda mano del tempo, che ce le siamo ritrovate restituite nude nel loro biancore chiaroscurale.

Insomma, anche se ora per pura mia ignoranza in materia non mi vengono in mente esempi più illuminanti, è fuori di dubbio che il bianco e nero non è nato con la fotografia, né col cinema. Eppure la deprivazione cromatica non era probabilmente mai stata recepita in misura così netta e “tranciante”, come dal momento in cui quelle due tecniche a noi ormai più che familiari furono introdotte.

La novità delle prime foto e dei primi film ha sfiorato così efficacemente l'illusorietà di una riproduzione realistica da sottolineare in maniera mai prima sperimentata l'assenza di una delle componenti più potenti di quell'illusione, com'era quella del colore.
Ogni volta che l'uomo, prima dell'avvento della foto e del filmato, si era armato dell'intenzione di riprodurre per immagini la realtà, si era preoccupato per prima cosa dei colori, essi erano stati il suo pensiero più immediato. Ora, ecco che arrivavano invece queste due nuove tecniche capaci di imitare il mondo in una strabiliante maniera mai vista prima, ma che si perdevano per strada un ingrediente così basilare della loro magia.

E per aggiungere ancora solamente una piccola impressione personale estemporanea, non sarà allora un caso che quando sento una persona di 60 o 70 anni o più raccontare un aneddoto della propria gioventù, alla mia immaginazione viene spontaneo fabbricarsi degli ideali fotogrammi mentali in bianco e nero delle vicende ascoltate.

Chissà, forse è proprio in forza di tutte queste loro componenti storico-culturali che la foto o il fotogramma in bianco e nero ci affascinano tuttora così tanto. Forse è per quella loro tendenza a canzonarci con la temporalità illogica in essi contenuta fin dall'attimo in cui sono stati inventati, che ci sono sempre apparsi velati di un'aura di enigma.
Forse è perché ancora oggi, di fronte ad un immagine o ad un filmato in bianco e nero non sappiamo mai deciderci bene se siano sempre moderni benché poco attuali, oppure sempre attuali benché poco moderni.

Forse sarà un po' per tutti questi motivi, ma non venitelo a chiedere a me. Parafrasando infatti il poeta, seppur in tono molto più modesto, come già vi accennavo prima, «...io di risposte non ne ho, io faccio solo uòkk-enn-uòll...».


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venerdì 11 marzo 2011

Un pensiero al Giappone e a due amiche

Non è possibile stasera praticare la leggerezza consueta di questo blog con in mente le terribili immagini provenienti dal Giappone.

La preoccupazione si fa poi ancor più densa sapendo che laggiù ci sono due amiche di blog, spesso simpatiche e graditissime ospiti nel mio spazio dei commenti.
Marisa (autrice del blog "Fuori e dentro di me") e Maria Rosaria (autrice di "Oceani capovolti") sono andate in Giappone a portare la bellezza della nostra musica lirica. Fortunatamente ho letto che tutti i componenti dell'orchestra e del coro del Maggio Fiorentino stanno bene, ma è immaginabile lo stato d'animo di chi sta vivendo da vicino una simile esperienza.

Niente...non aggiungo altro per non rischiare di addentrarmi in inutili contorcimenti retorici. Era solo per dire che, per quell'inezia che può valere, sono vicino con lo spirito alle care Marisa e Maria Rosaria, a tutti i loro colleghi ed al nobile popolo giapponese così duramente colpito.


martedì 8 marzo 2011

Frammenti di un discorso gelatinoso


Le gelatine sono le mie caramelle preferite in assoluto.
E aggiungo pure che questa è proprio una di quelle notizie che farebbero la gioia del Grande Capo Estiqaatsi (per non parlare del suo venerabile nonno, Estigranqaatsi...).

Le gelatine non me le concedo troppo frequentemente, perché rischierei di cadere in uno stato di dipendenza dura e pura. Se nell’ambito della mia pur persistente e stolida fanciullaggine mentale cronica, non avessi acquisito negli anni quel minimo che si richiede di autocontrollo e di freni inibitori, attualmente, messo di fronte ad un camion e rimorchio di gelatine, sarei capace benissimo di arrivare carponi alla motrice in poco tempo, lasciandomi dietro una strage di cartine appallottolate.

I motivi per cui adoro le gelatine sono svariati. I migliori suppongo siano quelli di natura inconscia, che si potrebbero riassumere nel breve lasso di tempo concesso da questa stringata formula: le gelatine mi piacciono perché…perché sì!

Tuttavia, se la mia analisi si dovesse limitare ai fattori inconsci, questo articolo del menga dovrebbe già terminare qui. Siccome mi va invece di intrattenervi ancora un po’ con alcune facezie, passerò a sviscerare anche le cause palesi della mia predilezione per il gommoide parallelepipedo zuccheroso.

Quasi inutile dire che in questo momento sto scrivendo nel più rigoroso rispetto del metodo Stanislavskij. Le sensazioni causate da una gelatina le conosco molto bene a memoria, ma per parlarvene con la massima cognizione di causa, con l’immedesimazione ed il trasporto più intensi che si possano immaginare, passo senza meno a scartarne una, introducendola poscia lestamente fra le fauci.

Scrisc…scrosc (rumore della cartina…), aaahhhmmm (suono dell’introduzione in bocca…).
Ecco, “ce l’ho”: possiamo proseguire.

La prima cosa da rimarcare riguardo alla gelatina è la sua stretta somiglianza con quegli altri tipi di piaceri voluttuosi che stanno fra l'amoroso e l'erotico. Qual è il fattore che determina questa immediata parentela di sensazioni? A mio parere è senza dubbio la morbidezza.

Tuttavia, a differenza di codesti effettivi e reali altri godimenti, che spesso prevedono impegni e fatiche non indifferenti per essere agguantati, con la gelatina lo sforzo più grosso da fare è superare l'arrendevole barriera dello zucchero di superficie. Quella dolce sfarinata, quella sapiente “impanatura” saccarifera, per me è un altro degli aspetti geniali della gelatina.

Forse sono stato troppo oscuro nel mio favellare e allora lo dico più chiaramente: palleggiando una gelatina fra lingua e palato, veniamo calati molto in prossimità di una sorta di reazione propriocettiva che ricorda chiaramente quella scaturita da un profondo bacio alla francese (per quelli ancora più duri di comprendonio: la classica spanna di lingua in bocca durante una limonata all'ultimo respiro, senza fare prigionieri...).

Se da una parte però, la possanza della voluttà scaturita dalla gelatina è tale da contenere parecchi degli ingredienti del fare peccaminoso, per altri versi non manca di elargire nemmeno le prove più ardue richieste al più sapiente dei peccatori.

Il vero gaudente saggio è infatti colui che sa trarre il massimo dal piacere senza farsi fregare dal medesimo. I nostri cari antichi erano spesso soliti assimilare il piacere all'immagine del fuoco. La metafora potrà apparirci alquanto pacchiana e stantia, ma se ci riflettiamo sopra un attimo ci possiamo rendere conto di come non sia poi così sfiatata.

Dal fuoco possiamo ricevere tanto calore per lungo tempo, oppure bruciarci le penne con esso in pochi istanti. Tutto sta a saperlo manipolare, a saper dosare il giusto equilibrio fra altezza delle vampe e distanza mantenuta rispetto alla fonte della calura. Lo stesso accade coi piaceri, né più né meno.

Dov'è sta il passaggio delle dinamiche degustatorie della gelatina che meglio riflette questo fondamentale rapporto con i meccanismi del piacere? A mio parere sta nella quasi intollerabile e semi-tormentosa tentazione di addentare in ogni momento il frutto del proprio trasporto. Per non mordere una gelatina bisogna essere in possesso di un dirittura morale di ordine superiore, di una capacità estrema nel sapersi destreggiare fra i meandri più insidiosi della voluttà.

Con una gelatina in bocca, basta un attimo per mandare in malora un lavorio estatico pazientemente costruito con diversi minuti d'impegno. Esattamente come in tutte le questioni erotico-amorose, la fretta e la precipitazione sono anche qui le più cattive fra le consigliere.
Un piccolo gesto mal riposto, un insignificante guizzo della mandibola ribelle, e facciamo crollare tutto il castello del piacere. Tanto che i frammenti dispersi in bocca di gelatina masticata hanno il sapore deludente della bella occasione perduta, misto ad un lieve retrogusto di senso di colpa.

Nello stesso tempo, la gelatina è foriera di profonde suggestioni metaforiche anche se la consideriamo sotto l'aspetto del suo gusto vero e proprio, del suo aroma effettivo. Non so se avete presente, magari al momento non vi sovviene, perché può darsi che abbiate assaggiato l'ultima un po' di tempo fa, ma fidatevi se vi dico che il gusto della gelatina è sempre “un passo avanti”. La gelatina sa di “irraggiungibilità”, il suo gusto non lo afferri mai in pieno, scappa sempre via, e questo ti spinge a succhiarla con ancor più dedizione, innescando un corto circuito sensoriale senza via di fuga.

Anche questo ritengo che sia un dato molto erotico della gelatina. Tipico delle faccende di eros è infatti vedere spostato il traguardo sempre più avanti, sempre più avanti, mentre la ricompensa è tanto più inseguita ed appetita quanto più siamo in grado di mantenerla viva ed integra nella sua indefinibile ed indefinita desiderabilità.

I sapori, gli odori, le sensazioni tutte del frangente amoroso non sono mai abbracciati a sufficienza, mai contemplati con la soddisfazione voluta. C'è sempre un dettaglio che rimane fuori, un particolare non compreso, che nell'abbaglio del momento vissuto ci sembra una sfumatura, ma nel riverbero del ricordo si tramuta in una lacuna incolmabile, pozzo profondissimo di nostalgie sensuali.

Poi tutto può essere consumato scriteriatamente, con un gesto selvaggio e risolutore che lascia in bocca un leggero sentore di amara delusione, oppure con un appagamento centellinato, ma anch'esso incapace di spiegarci con chiarezza il mistero attraverso il quale siamo transitati.
A quel punto, quando ormai sarà ridotta ai minimi termini, anche la gelatina la potremo inghiottire senza timori.

Tanto, sia che l'abbiate valorizzata da saggi e pazienti succhiatori, sia che l'abbiate bruciata con morsi irresponsabili, la regola alla quale nemmeno il piacere della gelatina riesce a sfuggire è purtroppo sempre la solita: «...post gelatinam, omne animal triste est...».

sabato 5 marzo 2011

Lo strano caso del cinema mito


«…Sono un abitudinario,
leggo la targhetta sopra l'ascensore:
qual è la capienza, quanti chili porta,
poi si apre la porta e non lo so già più...»

Nubi di ieri sul nostro domani odierno” (“Abitudinario”)
Elio e le Storie Tese – 1989

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Amici, ma voi vi sentite più mitologici o cinematografici?

«...eccolo là, ci siamo giocati il Gillipixel…ha puntato al lotto, perdendo, quei tre neuroni che gli avanzavano ed ora fluttua di felice inconsapevolezza nel regno dei “grandi affratellati”…».

No, ecco…l’interrogativo può apparire peregrino, ma di fatto potrebbe essere foriero di alcune interessanti riflessioni.
«…Certo, il più è capire di cosa minchia vai cianciando…» ribatterete ancora voi. Va beh, ma a questo siete ormai abituati e se mi concedete lo spazio di una paginetta, vado senza meno ad incominciare.

In realtà, le questioni annidate dietro al mio interrogativo d’apertura sono tali, tante e così complesse che meriterebbero una trattazione a livello universitario. Ma siccome immagino che non avrete tutto questo tempo a disposizione, vedrò di cavarmela con le solite tre fregnacce.

Quello di cui in sostanza si sta parlando qui, sono due differenti concezioni del tempo. Da una parte, il tempo interpretato come espressione di una ciclicità che continuamente si rinnova; dall’altra, il tempo visto come progressione lungo la quale nessun momento è mai uguale al precedente, né al successivo.

Sarebbe arduo andare a spulciare le origini culturali di queste due concezioni cronologiche. Forse uno più bravo di me vi saprebbe fare una bella ricostruzione storico-concettual-filologico-esegetica, ma per quanto ne so io, mi pare di poter dire che le fonti dei due modi d’intendere il tempo le possiamo ritrovare mescolate e non ben precisamente distinte un po’ nelle diverse culture.

Tanto per dirne una, la cultura greca contiene in sé il germe di entrambe le visioni, essendo stata la culla della filosofia, ma anche di uno degli “apparati” mitologici più complessi ed articolati di tutta la storia umana. Dai greci, passando anche per la filosofia, è derivata poi in qualche modo la stessa scienza, territorio di elezione del “tempo progressivo”, ma ne sono conseguite anche posizioni “eretiche” come il pensiero di Nietzsche, che si è cibato di nuovo del nutrimento del mito e del senso del ciclico ritorno delle ere, per non dimenticare i corsi e ricorsi di Vico (minchia, sto facendo carne di porco di duemila anni di cultura…).
Senza parlare poi delle abbondanti infarinate che la grande polpetta della storia ha ricevuto dalla lunga tradizione ebraico-cristiana, nell’ambito della quale la concezione di un tempo progressivo focalizzato ad un fine (la salvezza) si è ulteriormente arricchita ed articolata.

Per aggiungere ulteriore confusione al mio sunto già di per sé sufficientemente strampalato, posso inoltre ricordare come per altri versanti il senso della ciclicità del tempo sia stato paradossalmente rivalutato con le ultime frontiere della fisica dell’«infinitamente piccolo». Non chiedetemi di spiegarvi come sia possibile, ma pare, l'ho letto da qualche parte, che discendendo alle dimensioni infinitesimali delle particelle più elementari, il tempo che ritorna sui suoi passi non rappresenti un assurdo così palese, come accade invece all’interno del “macro-contorno” delle nostre esperienze di umani. Ebbene sì, cari amici viandanti per pensieri, pare proprio che una particella subatomica possa risalire l’orologio a ritroso, tornando indietro nel tempo.

Perché dunque ho parlato di mito e di cinema? Forse perché non c’era già abbastanza casino in ciò che ho detto finora? Forse anche per questo, ma in particolar modo perché credo che niente meglio di queste due fondamentali modalità narrative, nel loro “fare espressivo”, riesca ad entrare in sintonia coi modi essenziali del tempo ciclico (mito) e con quelli del tempo progressivo (cinema).

Nel mito (insieme ai suoi cugini più prossimi, quali possono essere la favola e la leggenda), il racconto è sempre fondato su certi capisaldi fissi ed immodificabili della storia raccontata, intorno ai quali si possono intessere leggere varianti, coloriture, sfumature di toni e di atmosfere, ma mantenendo sempre una generale fedeltà al narrato originario. In virtù di questa sua “natura”, il mito non solo tollera, ma addirittura quasi esige la ripetizione.

Nel cinema invece (anche se, per “necessità metaforiche” sto facendo ovviamente un discorso semplificato e forzatamente generalizzato), il materiale raccontato progredisce per accumulo nel corso della narrazione, che prevede un inizio ed una fine, come fossero gli estremi di un’immaginaria linea retta temporale. Nel cinema (perlomeno, di regola generale e confacente allo strumento espressivo è così, ma poi ci saranno di certo anche qui le eccezioni), il ritorno all’inizio della storia per ricominciare a raccontarla è una forzatura.

Certo, fa piacere anche rivedere un film, ma esso vive più che altro della magia della prima visione. Gli attimi spesi a vedere un film per la prima volta li viviamo di norma come un unicum irripetibile, mentre le visioni replicate, quando ci recano soddisfazione, non fanno altro che confermare un’anomala tendenza del film stesso in questione verso una propria “mitologizzazione”. Quando il film regge tante visioni ripetute, è forse per il fatto di possedere in sé le “potenzialità del mito”, della favola. Un film che amiamo rivedere è un mito travestito da lungometraggio.

Ma alla fine, quel che più interessa è come di fatto la duplice dimensione cronologica venga vissuta dentro di sé da ciascuna singola persona in una non meglio differenziata miscela esistenziale.
In tanti piccoli frangenti quotidiani, io stesso mi rendo conto di tendere talvolta alla dimensione del mito, e talaltra invece a quella filmica. Parlo proprio anche di questioni minimali, piccole inezie del vivere.

Aggiungiamo che probabilmente il fatto di essere “mitologici” oppure “cinematografici”, non ce lo possiamo scegliere. Sono forse propensioni a noi connaturate e allo stesso modo del coraggio di don Abbondio, il “mito” o il “cinema” non ce li possiamo dare da soli.

L’opinione dominante, la tendenza che maggiormente si è diffusa fra le pieghe della modernità, consiste in una preferenza generalmente accordata ad un’esistenza da vivere “cinematograficamente”. Praticamente noi tutti “viventi dell’oggi” siamo stati educati a considerare la ripetitività come un fattore negativo, atteggiamento al quale fa da contraltare una ben più consigliata tendenza a ricercare il nuovo, l’inedito, l’inaudito. La monotonia è temuta più di certi flagelli biblici, mentre l’inquieta indagine per scovare novità si prefigura come la terra promessa alla quale si dovrebbe tendere.

Vivere la vita “mitologicamente” tuttavia potrebbe rappresentare l’uovo di Colombo per il conseguimento di un certo stato di serenità ed equilibrio. L’uomo per sua natura, ma ancor più la donna (e non è una battuta…), sono esseri ampiamente “mitologici”.
Lo sono da un punto di vista spirituale, perché il nostro animo si nutre in primo luogo di certezze rinsaldate nel corso dell’esperienza vissuta. In fondo, legarsi ai propri affetti può essere visto come un ribadire i punti saldi della narrazione del proprio personale mito, ossia della propria vita stessa.

Volere veramente bene a qualcuno o a qualcosa (intendendo con “qualcosa”, ad esempio, un mestiere, un ambiente, il “paesaggio fisico” entro il quale spendere i propri giorni, e così via…) può essere visto come capacità di imparare a raccontare sempre meglio la favola della propria quotidianità. Sarò un grande ingenuo a dire così, ma io credo che possiamo innamorarci, e per davvero, solo quando sappiamo trovare sempre nuove fonti di interesse e di passione, in chi si ripete, e in ciò che si ripete, nella propria identità.

L’uomo è inoltre fortemente “mitologico” soprattutto dal punto di vista fisico. Il corpo è un racconto mitico i cui capisaldi narrativi s’imperniano sulla ciclicità “sonno-veglia”, “fame-sazietà”, “desiderio-chiav…ehm…appagamento”, e così via.

La stessa biologia, la stessa chimica della nostra fisicità sembrano volerci imbeccare verso tali significati. Durante il corso della propria vita, le cellule e gli atomi tutti di cui un umano è composto si rinnovano completamente diverse volte, eppure ciascuno rimane sempre il medesimo “racconto” che è stato e che sarà.
Mi guardo una mano, un piede, o qualsiasi altro arto o muscolo o dettaglio del mio corpo: li riconosco, mi sono familiari, sono gli stessi di quando ero bambino e poi ragazzo, e via via crescendo. Sono cambiati in dimensione e proporzioni, ma rimangono sempre la medesima parte di me che potevo osservare all’epoca, pur non essendoci probabilmente più dentro nemmeno un protone o un neutrone di allora.

Perché dovremmo dunque reputare saggio andare continuamente a caccia della novità assoluta a tutti i costi, quando tutta la nostra costituzione di umani ci suggerisce che siamo fatti per approfondire ciò che rimane stabile? A me pare che la via fondamentale da percorrere risieda nella ricerca di sempre ulteriori e più preziose sfumature da scandagliare nelle acque di quegli affetti primari fissati stabilmente come nostro orizzonte esistenziale.

Poi, certo, la tentazione di volere una vita spericolata come quelle dei film rimane sempre molto forte, ma ciascuno può fare in merito le proprie valutazioni e riflessioni del caso.

Insomma, care amiche e cari amici viandanti per pensieri, alla fine non lo so nemmeno io perché mi sono messo a straparlare di queste cose oggi.

Voi però fate così: la prossima volta che vi troverete magari a mostrare il vostro corpo in una piscina, o su una spiaggia, fregatevene dei timori estetici dettati da un filo di pancetta o da un po’ di sfumata cellulite. Fermate il primo che passa e proclamategli a gran voce: «…Questa mia persona è un mito!...». E non preoccupatevi per le conseguenze. Se vi guarderà un po’ stranito ed incredulo, vorrà dire che in sostanza il fesso rimane pur sempre lui.

martedì 1 marzo 2011

Un Gilly, due compari e un pollo


«…Sotto il ponte di Baracca
c’è Pierin che fa la cacca,
il dottore la misura,
la misura trentatre,
stare sotto tocca a te…»

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Vi capita mai di essere visitati dal «Genio»?
Non vi succede di sentirvi talvolta abitati da un’«energia numinosa» della cui origine precisa non sapreste rendere propriamente conto? E le volte che tutto ciò si verifica, non vi pare di assaporare una sensazione simile allo scoordinamento di movenze del quale siamo facile preda quando, armeggiando col rasoio di fronte allo specchio, tentiamo di levare i peluzzi sopra ed intorno alle orecchie? (a dire il vero, la prima metafora che mi era balzata alla mente era ben più dozzinale, e “scurrilozza” anziché no: trattava degli spaesamenti onanistici che l’inusitato impiego dell’arto sinistro cagiona nella risposta propriocettiva generale del solingo cultore destrorso del “fai da te”…per fortuna però che di questa metafora alla fine non se n’è fatto nulla…).

Ma andiamo per gradi e freniamo il “fregnacciometro”.

Se ho esordito così oggi, è stato naturalmente per raccontarvi di come il «Genio» in effetti mi venga di tanto in tanto a visitare, cosa che mi è successa anche di recente. Con questo non intendo certo millantare di essere io quel tizio che trova di botto una lineare spiegazione al teorema di Riemann, oppure che se ne viene fuori con una nuova teoria capace di far cigolare di meno tutta la baracca economica e politica globale.

Se un po’ mi conoscete ormai, saprete che non sono certo il tipo da vantarsi più di tanto di proprie presunte doti. Anzi, ciò che tendo a fare di preferenza è semmai pendere alquanto dal lato dell’autoflagellazione. L’abbinamento tra me ed il «Genio» ha dunque ben altra intenzionalità di significati.

Dobbiamo infatti intenderci su cosa si vuol dire con il termine «Genio». Usando questa “paroletta” mi riferisco a quelle circostanze in cui ci sembra di agire (oppure, ancor più frequentemente, di parlare) mossi da una volontà esterna. Il fenomeno si concretizza molto più facilmente nell’ambito del linguaggio, o perlomeno in questo senso è più agevole cogliere esempi immediati, ed è proprio di un caso simile che vi voglio raccontare.

Ecco dunque come il «Genio» è venuto a farmi visita.
In ufficio sono circondato dalle postazioni di tre o quattro colleghi, per cui diventa pressoché spontaneo scambiare ogni tanto una chiacchiera. Il collega sulla mia sinistra, non ricordo più nell’ambito di quale ragionamento, mi stava parlando di un certo ponte. Intendo proprio un ponte vero, reale, uno di quei manufatti eretti all’uopo di oltrepassare fiumi, o impedimenti orografici simili, senza bagnarsi i piedi.

Il collega sulla mia destra, che non disdegna l’estemporanea facezia, cogliendo al balzo la palla del discorso, ha attirato la mia attenzione e mi fa: «…Gillipix…il ponte di Baracca!...».
Al che io, con reazione istintuale “semi-pavloviano”, non ho potuto fare a meno di fargli eco a tono, proseguendo nel seguente modo: «…Sotto il ponte di Baracca, c’è Pierin che fa la cacca…».
Per inserirsi nello scherzoso scambio d’opinioni, a quel punto un’altra collega mi dice: «…Ma la conosci?...».

Ora, chiedere a me se conosco «Sotto il ponte di Baracca» sarebbe stato come domandare a Cartesio se sapeva cosa fossero le ascisse e le ordinate. Nella mitologia demenzial-bambinesca anni ’70 ci sono praticamente nato in mezzo, me ne sono nutrito fin dalla più tenera età, l’ho respirata nell’aria della mia infanzia. Fra il “fantasma formaggino” ed un “…ci sono un tedesco, un francese, un americano e un italiano…”, buona e fondamentale parte del mio humus culturale si è plasmato.

In particolare, i sublimi versi di «Sotto il ponte di Baracca» li ricordo utilizzati in giocose conte per stabilire chi dovesse “stare sotto” a nascondino o in altre simili competizioni bambineggianti.
Per correttezza esegetica va aggiunto che esisteva pure una versione ulteriormente “trasgressiva”. Invece di terminare con la tradizionale chiusa «…stare sotto tocca a te…», questa trasposizione estrema si accomiatava dall’ultimo “contato” beffeggiandolo con l’epilogo a sorpresa: «…un bell’asino sei te…».

Tutta l’atmosfera scherzosa in ufficio si era andata dunque condensando intorno a siffatti stimoli dai contorni “proust-ianeggianti”. Sarà stato forse anche per questo che il «Genio» ha avuto ancora una volta modo di esprimersi attraverso di me.

Ci tengo a ribadire però: se parlo di «Genio» in associazione alla mia persona, non lo faccio assolutamente per accreditarmi nessunissima credenziale di genialità. Non è questo ciò che intendo. Anzi, proprio il fatto di essere io solitamente un parlatore tutt’altro che geniale, rappresenta la conferma del mio discorso. Raramente ho la battuta pronta, sono impacciato dialetticamente. Insomma nelle conversazioni non spicco certo per brillantezza.

Ecco perché mi pare di poter dire con ancor più giustificata cognizione di causa, che la risposta da me data all’imbeccata della collega, anche per la straordinaria rapidità con la quale mi è sgorgata alle labbra, non è stata in fin dei conti opera mia, ma del «Genio» che mi ha furtivamente visitato.

«…Sotto il ponte di Baracca, c’è Pierin che fa la cacca…» ho fatto per l’appunto io.
«…Ma la conosci?...» ha ribattuto la collega.
Ed io ancora, con la celerità di mezzo battito di ciglia, ho allora sentenziato: «…Certo che la conosco: l’ho portata alla maturità!...».