giovedì 29 gennaio 2009

Analfa Style Collection


Volevo sentire il rumore che fa un blog quando tocca il fondo, così vi annuncio che la "Andarperpensieri Bas Couture" è orgogliosa di presentare il primo vestito firmato da uno stilista analfabeta. Prenota oggi stesso il tuo capo firmato Analfa (è disponibile la collezione "non ci sono più le mezze stagioni"). E ricorda:

Analfa: sulla moda ci tira una croce!

Ah...dimenticavo: il blog ha fatto questo rumore: TONF!!!

Linus Van Gillipelt

(Il più brutto fotomontaggio dal dagherrotipo ad oggi: di Gillipixel)

Il mondo di Charlie Brown possiede una universalità poetica nella quale credo ciascuno possa ritrovare almeno un tratto della propria personalità, dei propri atteggiamenti, delle proprie fissazioni.
Se dovessi paragonarmi ad uno dei personaggi dei Peanuts, sarei indeciso fra Charlie Van Pelt e Linus Brown.
No, non sto facendo confusione.
Il fatto è che per scovare fra quei teneri bambinetti esistenzialisti un tipo umano che possa assomigliare al mio, si dovrebbe fare una fusione dei caratteri del simpatico crapetta-pelata e del mini-nevrotico infagiolato davanti alla tele.
Rimanendo però sull’immagine di Linus, esiste una sua tipicità che sento anche tutta mia: l’attaccamento alla copertina di lana. Ovviamente la cosa non si è specificata nel mio caso negli stessi precisi modi di Linus. Un personaggio diventa infatti un vero e proprio “tipo narrativo” quando la sua portata poetica è talmente ampia da riuscire ad includere moltissimi particolari esistenziali individuali, pur senza riprodurli pedissequamente.

Un atteggiamento da copertina di Linus, io l’ho sempre avuto con indumenti, scarpe ed ammennicoli anti-nudistici vari. Oggi sono un po’ cambiato, ma la mia essenza sostanziale rimane ancora.
A causa di un misto di pigrizia, senso agorafobico del vestiario e titubanza verso il cambiamento, ogni volta che c’è da comprare un nuovo accessorio da indossare, tendo a cadere in un labirinto immobilista stile “Soviet Supremo della mutanda vecchia”.
Di riflesso a questa cosa, quando comincio ad affezionarmi ad una braga, una maglietta, una sciarpa, una scarpa o simili, userei sempre quelle e le porto fino a sfiorare livelli d’usura raggiunti forse solo coi vestiti dei manichini usati nei crash-test.

Il mio capolavoro “linusiano” lo raggiunsi però con un giubbetto divenuto in pratica il mio “alter ego” per lungo tempo. Era fatto sulla foggia dei giubbetti da college americano, simile a quelli che indossavano Richie o Potsy in Happy Days, però con alcuni dettagli leggermente più seriosi, tipo la tinta (blu, con le righine dei polsini e del colletto alternate rosse) e una foderina interna bianca in simil-raso o falsa-seta, che dava quel tocco pacchiano sulla pelle, quindi non visto all’esterno.
La mia affezione per quel giubbetto si sviluppò oltremisura. Lo mettevo a scuola, lo mettevo per fare due tiri a basket al campetto, lo mettevo in bici e a piedi, lo mettevo dal lunedì al sabato, mentre la domenica invece lo indossavo, lo indossavo per Natale, Pasqua e tutte le feste comprese fra oltre una decina di autunni ed altrettanti inizi primavera. L’ho misi tanto che era divenuto super-familiare anche ai miei amici.
Non ne ho mai approfittato perché sono rispettoso della dignità umana dei giubbetti, ma arrivato ad un certo punto, le volte che non me la sentivo di uscire di casa, al mio posto avrei potuto mandare in giro lui, che di certo aveva ormai acquisito una personalità ben più spiccata della mia.
In quel periodo poi, quando magari ero lì insieme agli amici e non mi andava tanto di parlare, loro non mi giudicavano il solito asociale di sempre, perché tanto c’era il mio giubbetto che faceva la mia parte di compagnia.
Eravamo una bella copia insomma, io e il mio giubbetto.
Fino alla sua malinconica uscita di scena. Si sa che le peggiori nemiche della “linusità” sono le mamme. Loro non sanno cogliere l’anarchica poeticità insita nel portare gli stessi jeans per un mese filato, l’indomita fierezza del calzino che mostra senza sprezzo del pericolo il ditone ribaldo.
Avevo difeso strenuamente il mio giubbetto attraverso gli assalti delle mode stagionali, e soprattutto l’avevo tutelato dalle pretese materne di rottamazione in cambio di ben più borghesi e prosaici paletot o loden.
Ma venne l’epoca della terribile guerra dei Balcani e con essa una raccolta benefica di indumenti usati organizzata dalla Caritas a favore di quei popoli martoriati. Mia mamma colse la palla al balzo, e pensò bene di unire al gesto umanitario anche un gesto di svecchiamento guardaroba filiale.
Fu una di quelle volte che andai più vicino al correre nell’ufficio competente per la rinuncia della “matria potestà”, causa violazione dei diritti umani di giubbetti anziani. Mi consolò il fatto che, se c’era un po’ di buono in quel giubbetto, andava a finire in un posto in cui ne avevano davvero bisogno.
E fu così che, nonostante la rinnovata attenzione mia e dei miei amici per tutte le edizioni dei diversi tg, metti il caso fosse capitato di vederlo indosso a qualche miliziano serbo o bosniaco, del mio giubbetto non seppi più nulla.
Spero solo che in quel mare di disperazione e di male, abbia portato almeno un briciolo della bontà bislacca che di solito la gente mi attribuisce.

lunedì 26 gennaio 2009

Verità ambrate di mito

(Trash-montaggio di Gillipixel -
del quale Gillipixel medesimo
si vergogna sommamente,
con la parziale scusante di non
aver potuto nulla di fronte
all'irrefrenabile anima
trash-agreste che si ritrova)

Siccome ogni minaccia è debito, vorrei mantenere la promessa fatta sul limitar del precedente scribacchiamento ed aggiungere un elemento di riflessione personale a proposito della forza conoscitiva del mito.

Pare insomma che il mito inglobi la "verità" come un pezzo d'ambra fa con gli insetti o altre piccole porzioni di vita, fermandole nel tempo. In modo analogo, il mito "congela" le verità esistenziali in una dimensione che in qualche misura ce le mostra ponendocele dinnanzi, pur lasciandole imprigionate in una sostanziale inafferrabilità diretta.
Vedete che a tentare di parlare del mito si finisce per avvoltolarsi in circonvoluzioni di senso, praticamente impossibilitati ad uscire dallo spirito labirintico che è proprio del mito stesso.

Ed ecco che qui si inserisce la parte mia personale di riflessione che vorrei aggiungere al discorso. Pensavo in questi giorni in particolare ad un elemento narrativo che ricorre in diversi miti: la proibizione di osservare l'oggetto del proprio desiderio (che poi è sempre un soggetto, almeno per gli esempi che mi ricordo).
Succede nel mito di Amore e Psiche: l'intesa amorosa fra i due può sussistere finché Psiche si attiene al patto di non pretendere di guardare mai l'amato direttamente.
Succede ad Orfeo disceso nell'Ade per riportare nel regno dei vivi l'amata Euridice, alla condizione di condurla per mano lungo il tragitto, senza girarsi ad osservarla in volto. Orfeo cade nella tentazione voltandosi indietro, ed Euridice sfuma di nuovo irrimediabilmente fra le ombre dell'Ade.
Succede in un certo senso anche a Narciso, che si "danna" osservando l'immagine di se stesso nello specchio d'acqua (anche se forse questo è un esempio meno pertinente per il mio discorso).

Se diamo dunque per buoni gli assunti posti sinora (e io li darei per buoni, già che sono nelle spese), dietro al velo narrativo del mito ci dev'essere una qualche verità profonda.

E non ve lo saprei spiegare in modo chiaro e lineare (altrimenti non ci sarebbe bisogno di ricorrere al mito), ma questo non poter osservare il “tema” del proprio desiderio direttamente “in volto”, mi pare di averlo percepito spesso. L’ho percepito in una sensazione vaga e soffusa, e quello che mi sembra di aver subodorato nella mia esperienza è che più ci si sforza di rinfocolare un desiderio, più lo si carica di speranze, più lo si blandisce, più ci si trastulla in una vagheggiata prospettiva di concretizzazione, insomma più lo si tiene bello e fisso di fronte alla propria considerazione costante, e più quel vigliacco stenta a realizzarsi, sfugge, si auto-rimanda, si trasforma nel nostro tormentone in perpetua dilazione.
Il desiderio allora non lo puoi guardare negli occhi, ma pur sapendo che nel tuo intimo esso continua a persistere, lo devi abbandonare così, ungarettianamente "come una cosa posata in un angolo e dimenticata".
Più si tiene alla realizzazione del desiderio, più gli si deve passare accanto quasi ignorandolo, trattandolo come la lettera rubata di Poe. Pur sapendolo lì sul tavolo, banalmente alla portata della tua “vis desiderandi” (se mi passate questa latinata in italiacano, questo sformato di maccheroni latini), bisogna fare finta che non ci sia, quasi snobbarlo, e forse un giorno, quando meno te lo aspetti, ti accorgi che si è realizzato, spazzando via nel frattempo anche la tentazione di fissarlo negli occhi oppure no.

domenica 25 gennaio 2009

She came in through the bathroom window

(Foto-melensaggio di Gillipixel)

Il bellissimo ed oscurissimo (almeno per me) libro di Roberto Calasso "Le nozze di Cadmo e Armonia", si apre con una piccola frase a preludio del testo, una delle epifanie del lettore più intense che io abbia mai incontrato, una citazione fantastica che in otto parole sintetizza tutto il significato della mitologia greca:

"Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre"
"Degli dèi e del mondo" - Salustio

La sapienza della quale i miti greci sono portatori, non a caso, dopo essere stata cacciata dalla porta filosofica, con il complicarsi del percorso conoscitivo umano lungo i secoli è stata fatta rientrare attraverso la finestra psicoanalitica.
Il senso del mito non è quello di creare una storiella per gonzi da raccontarsi la sera davanti ad un bel focherello sul quale si stanno facendo rosolare le caldarroste. Certo, nella narrazione mitologica c'è anche una componente ludica di superficie.
Ma il senso profondo del mito è rendere conto delle paradossalità dell'esistenza servendosi di complesse metafore che ne lasciano irrisolta la conflittualità sostanziale.
Il mito è in un certo modo un atto di rinuncia alla superbia conoscitiva chiara ed inconfutabile, e al tempo stesso un riconoscimento dei limiti insuperabili delle capacità dell'indagine razionale umana.
Il racconto mitologico dunque lascia sussistere la realtà nella sua effettiva complessità, nel suo farsi adesso, nel suo scorrere vivo ed inafferrabile sino in fondo. Non pretende di puntare sul mondo la luce abbacinante della chiarezza concettuale piena, ma preferisce percorsi densi di chiaroscuri, penombre e rispettosi silenzi capaci di essere più fedeli al magmatico enigma su cui l'esistenza è plasmata.

Il mito di Narciso, il mito di Edipo o di Giocasta (ed immagino altri, che per ignoranza mia adesso non vi saprei citare) sono stati rispolverati da Freud proprio in questa prospettiva. Il padre della psicoanalisi ha colto in essi un'affinità di senso con il materiale psichico umano, molto maggiore di quella che potevano offire tutti gli altri strumenti conoscitivi.

Va beh, per il momento, su questo tema mi sembra di avervi già massacrato gli zebedei a sufficienza, quindi ora vi saluto così, ma vorrei tornare prossimamente a dire qualcosa ancora in proposito. E spero non la prendiate come una minaccia...



venerdì 23 gennaio 2009

Feeling powerfull (vol. II)



Io sono notoriamente un buono molto banale, ma questo non vuol dire che non sappia riconoscere la cattiveria ed il suo fascino estetico. Questa è la sequenza di note più cattivamente bella di tutta la storia della musica di ogni tempo.

"The black angel's death song"
The Velvet Underground (1967)

Feeling powerfull (vol. I)



Ogni tanto fa bene sentirsi un po' potenti, qualsiasi cosa questo significhi. Dopo possiamo tornare a non competere per la vita in tutta serenità. La competizione esistenziale causa sgraziate espressioni sul viso, meglio lasciar perdere, non è roba di classe.
Ma due minuti di potenza lasciateceli godere.

"White rabbit"
Jefferson Airplane (1967)

giovedì 22 gennaio 2009

With or without wallet

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Scordarsi a casa il portafogli in tempo di crisi diventa una piccola esperienza particolare.

Mi è successo ieri, sono arrivato in ufficio, ho messo mano alla solita tasca del solito giubbotto che solitamente porto sul solito me stesso, e mi sono accorto che il solito portafogli insolitamente non c’era.
Passati quei due o tre minuti durante i quali mi sono auto-dato del solito coglione, la mente si è messa subito ad ordire micro-piani economici per la giornata. Nella sala civica della scatola cranica si è riunito in seduta straordinaria il piccolo consiglio comunale del paesino di Neuronia Gillipixica, una ridente località in provincia di Svagonia.

C’era un gran fermento amministrativo per definire gli articoli dell’esercizio di previsione finanziaria per il “deca-orario” 8-18 della giornata in corso. Il sindaco Massimo Superio ha convocato d’urgenza l’assessore alla memoria, Reminiscenzio Rimembrini, minacciando gravi provvedimenti disciplinari, tipo l’allacciamento di bizzarri nodi nelle più svariate parti del corpo che offrono un minimo di “annodabilità”, come promemoria futuri.
Il povero Reminiscenzio ha accampato scuse scarsamente plausibili, tipo l’interferenza mattutina di gravi elementi distrattori, nella fattispecie un assalto all’arma bianca della tribù dei Sonnoloni (sempre in agguato alle pendici dei migliori letti), i postumi di un sogno vagamente erotico che avevano obbligato a “rabdomantici” andirivieni per la casa, il tutto aggravato da una colazione a base di caffè Innamorante, una speciale miscela prodotta dalla Cupido & Co.

Superate queste fasi intermedie di chiarimento, si è passati ai provvedimenti diretti. Alla ragioneria comunale, coordinata dal sempre ottimista pregiatissimo dott. Ravana Saccocce, è stata fatta immediatamente richiesta formale di eseguire un’indagine circa la liquidità di cassa disponibile. Il dott. Saccocce, con la sua incrollabile fiducia nel futuro, ancor prima di verificare lo stato di fatto, ha millantato la presenza di favolosi tesoretti, custoditi nella taschina rettangolare dei jeans, quella per le monete.
A detta del tecnico, dovevano essere presenti almeno 5 o 6, se non addirittura 7 euro, un budget più che sufficiente per tirare a sera col solito panino standard strabordante salsine deliziose e acqua minerale gassata. Una verifica più concreta è stata quindi affidata a due fattorini della ragioneria, i fratelli Pollicis ed Index Rectamanu. Di ritorno dalla verifica, il responso portato dai due è stato sconsolante: nel caveau erano stati reperiti solo 2 euro e 50, più alcuni spiccioli di taglio minimo, inservibili per la macchinetta delle merendine. Ed il ragionier Saccocce si è pure dichiarato lieto del fatto che di fronte a lui, anziché Pollicis ed Index, non si sia presentato il loro fratello maggiore Medius, un tipaccio sgarbato che è solito andare in giro solitario e svettante, prendendo a male parole tutti quanti.
Il ragioniere si è giustificato inoltre dichiarando che una cospicua parte del tesoretto era stata investita in una recentissima altra uscita senza portafogli, per l’acquisto di un cheeseburger e una birretta da MacDonald.
Scartata alla fine l’ipotesi di richiedere un prestito ai colleghi, per la fiera opposizione del consigliere Orgoglione Fasotutomì, è stato deliberato di razionalizzare il capitale, investendo su un panino molto molto asciutto, prelevato dalla macchinetta, più alcuni pacchetti di cracker ancor più asciutti. Il tutto annaffiato di ottima acqua minerale Acquedotta, sgorgante direttamente dalla fonte della Valle Lavandinare, alle falde del monte Cessorio Maschile.
Il lauto pranzo è stato consumato con l’estremo rammarico e le intense proteste di fondo espresse da frange estremiste e contestatrici, capeggiate dai capipopolo Golosio De Panza e Emiliano Panzata, in rappresentanza del sindacato dei Cobas Crapula, ma con somma soddisfazione dello spirito di Robinson Crusoe che alloggia in un angolo del reparto “Orgogli Futili & Cianfrusaglie Emotive”.

martedì 20 gennaio 2009

Parole in cerca di blogspot


Cari lettori di andarperpensieri,
Vi segnalo un blogghetto a me molto caro, in quanto, fra le altre cose, ne sono co-autore.

Si chiama "Parole-in-cerca" e questo è l'indirizzo:

http://paroleincerca.blogspot.com/

E' un posto per chi ama giocare con le parole, ma non solo, è un posto per chi è innamorato delle parole.

Lì, sono orgoglioso di poter collaborare con due blogger bravissime, "Farlocca Farlocchissima" e "Rosaluscemblog" (le ho ri-linkate qui, anche se non ce n'era bisogno in effetti, perchè Farly e Rose sono due punte di diamante del mio blogroll, qui fianco, due penne coi fiocchi che sanno regalare sempre al lettore emozioni stupende).

"Parole-in-cerca" non è solo un blog da leggere, ma si può anche collaborare scrivendo. E' sufficiente avere fantasia e giocare stando alle regole. L'idea è molto semplice: "pescare" le "parole" casualmente generate dalla verifica visiva dei blog di blogspot, quando si fanno i commenti, e partendo da quelle bizzarre sequenze di sillabe, creare ogni volta nuove storie, nuove definizioni scientifiche fantastiche, nuove discipline fondate nel nome del cazzeggio più puro, nuovi mondi della fantasia.

Venite a visitarci, siete i benvenuti!!! "...For the benefit of Mr. Kite..."

"...For the benefit of Mister Kite
There will be a show tonight on trampoline.
The Hendersons will all be there
Late of Pablo Fanques Fair - what a scene!
Over man and horses hoops and garters
Lastly through a hogshead of real fire!
In this way Mister K. will challenge the world!
The celebrated Mister K.
performs his feat on Saturday at Bishopsgate.
The Hendersons will dance and sing
As Mister Kite flies through the ring - don't be late!
Messrs. K. and H. assure the public
Their production will be second to none.
And of course Henry The Horse dances the waltz!
The band begins at ten to six
When Mister K. performs his tricks without a sound.
And Mister H. will demonstrate
Ten summersets he'll undertake on solid ground.
We've been some days in preparation
A splendid time is guaranteed for all.
And tonight Mister Kite is topping the bill.
And tonight Mister Kite is topping the bill..."

"Being for the benefit of Mr. Kite"
The Beatles (1967)

lunedì 19 gennaio 2009

Studio senza via d'uscita

(Fotomontaggio di Gillipixel)

“…Nemo profeta in patria…” dicevano i nostri nonni latini. E dicevano bene. Quindi non mi aspetto di profetizzare esattamente un bel nulla, proprio io che sono comodamente seduto sulla mia poltrona di casa preferita. Come a dire: così tanto in patria che più in patria non si può.
E’ allora più un sentore di disagio stupito, un malessere strisciante, quello di cui vorrei rendere conto. Un disagio che non riesco ad immaginare come non possa implodere un giorno, ritorcendosi contro coloro che lo stanno più o meno consciamente causando (e qui sta la piccola presunta porzione para-profetica della mia asserzione).
Per farla breve: mi sono accorto che la storica mia insofferenza per “Studio Aperto” sta ormai toccando livelli parossistici.
Mi è capitato nei giorni scorsi di vedere infatti alcune volte il tg di Italia 1 e di domandarmi: fino a che punto potranno spingere questo giochetto del “panem et circenses” mediatico prima che la gente si accorga in modo clamoroso e dilagante del vuoto che è stato fatto nelle loro menti nutrite esclusivamente di quella ristretta ed umiliante visione del mondo? Fino a che punto potranno tirare la corda già tesissima della mercificazione mentale?
A ben vedere, una forma molto più perversa e subdola del "panem et circenses" dei tempi gladiatorii: qui i "circenses" sono sfruttati come esca sull'amo al quale abboccherai, finendo per comprare il loro "panem".

I dubbi circa la portata profetica di tutta la mia riflessione sono tuttavia più che fondati. Forse la maggior parte della gente è ormai irreparabilmente impermeabile a ogni forma di coscienza critica ed è disposta a lasciarsi violentare lo spirito ad oltranza. Forse sto invecchiando io, sto diventando sempre più un intellettualoide bislacco chiuso nella mia torre d’avorio di meditazioni fumose.
“Panem et circenses”, già.
E’ una storia vecchia come il mondo.
Dare al pubblico anche le cose che si presumono da esso desiderate, è normale, è fisiologico per ogni forma di “rappresentazione”. Direi che anche nobilissime espressioni artistiche si sono inserite lecitamente in questo “meccanismo” e non per questo si possono considerare meno degne di rispetto.
Ma un conto è far passare insieme alla “circensità” anche contenuti di valore degni sotto l’aspetto estetico, informativo, dell’accrescimento culturale e conoscitivo. Un conto è usare pervicacemente il fulcro delle leve più istintuali per stimolare un attaccamento patologico allo strumento mediatico, al solo scopo di far passare insieme a questo attaccamento la pura comunicazione commerciale, che è ormai il vero ed unico obiettivo di certi programmi di certe reti.

Sia ben chiaro: non ho niente contro gli istinti. Sono parte della natura umana e visti in una panoramica dell’anima equilibrata non possono essere esclusi dalla vita, pena il non poterla chiamare più con questo nome.
Quello che fa rabbia è come gli istinti vengano usati per manovrare le coscienze e in proporzioni così esclusive da rendere le persone dei puri “recettori istintuali”, senza alcun altra prospettiva culturale, intellettiva, del sentimento, per non parlare di più profondi affetti spirituali.
Sesso, pettegolezzo (se condito da cattiveria, tanto meglio), violenza, competitività (se sconfinante nel regno della litigiosità e dell’odio, tanto meglio), danaro. Il tutto condito da curiosità morbosa, sia fine a sé stessa, sia applicata ai precedenti “oggetti d’appetito” elencati.
Ecco gli ingredienti che bastano per fare di un mezzo di comunicazione una mera calamita di attenzione, svuotata di ogni contenuto altro.
E Studio Aperto è forse solo la punta dell’iceberg più clamorosa, ma ormai la “filosofia” generale di certa tv è tutta incentrata su questo.
Però, come si diceva, “…nemo profeta in patria…”, appunto, e con ogni probabilità non lo sarò nemmeno io. E così forse la corda dell’istinto continuerà ad essere tirata, non ci sarà nessuna implosione delle coscienze, con i più che seguiteranno ad accettare questo stato di fatto privo di rispetto per una dimensione umana degna di essere chiamata tale.
Ma voi non fateci caso: sono solo un campagnolo impressionabile.

domenica 18 gennaio 2009

La domenica del vilaggio

(Foto di Gillipixel)

"...Loris si rivoltò sul letto, la Nene ci guardò tutti e due malamente. Se ne accorse da sè e scoppio a ridere. Mi colpì che rideva in dialetto, come ridono le commesse, come rido qualche volta anch'io..."
[...]
"...- Non mi dirà, come qualcuna che conosco, che è bello nascere in un cortile...
Le dissi che il bello è pensare al cortile, facendo il confronto.

- Lo sapevo, - disse allora ridendo, - vivere è una cosa tanto sciocca che ci si attacca persino alla sciocchezza di esser nati
...".

"Tra donne sole", Cesare Pavese (1949)

Mi sto riavvicinando a Cesare Pavese.
Nella mia variegata carriera di lettore, mi sembra di aver capito che ogni autore non solo ha il suo tempo e le sue età per essere affrontato (questo è piuttosto scontato). Ma anche che, se davvero era "destinato" ad entrare a far parte del tuo patrimonio "estetico-esistenziale", in qualche modo ti "ritornerà incontro", quando meno te lo ri-aspetti, quasi non fosse stata nemmeno una tua scelta.
Pavese stava in sospeso nei miei interessi narrativi da parecchi anni. Lo avevo incontrato praticamente da ragazzino, una di quelle letture per la scuola che ti fanno fare durante le vacanze estive o di Natale. Nel mio caso la dolce imposizione era inoltre venuta da una prof. di italiano non bella nel senso canonico, ma intensamente fascinosa in un modo che definire adesso, col senno di poi, "pavesiano", sarebbe del tutto pertinente.
Non solo dunque, per il fatto di averlo già apprezzato effettivamente all'epoca, Pavese mi era già alquanto caro, ma anche per queste suggestioni parallele proto-sensuali soffusamente erotiche. In quel tempo tuttavia non riuscii a leggerne più di un paio di romanzi, "La luna e i falò" e "La casa in collina". I travagli spirituali dell'adolescenza mi impedirono di potermi addentrare ulteriormente in quel mondo dello scrittore piemontese di per sè già così pregno di analisi del dolore e del travaglio di vivere.
L'adolescenza può avere i suoi aspetti positivi (a dire il vero non ne ricordo poi così tanti), ma la possiamo vedere anche come una grossa ferita scoperta. E per me Pavese a quei tempi era sale fino versato sulla ferita.
Oggi (pur rimanendone un sacco tuttora irrisolti) molti dei fantasmi dell'adolescenza son riuscito a cacciarli in soffitta ed altri si sono tramutati in grossi peluche che sanno anche farmi compagnia. In questa ottica spirituale ruminata dal tempo, Pavese mi è tornato incontro.
E mi sembra di aver capito un altro aspetto della mia riconciliazione con questo artista.
Pavese è lo scrittore della domenica.
Non nel senso di un presunto dilettantismo, intendiamoci, non mi sognerei mai di dire una simile eresia. Pavese è uno dei più grandi interpreti della "sacralità" della parola.
Ma è scrittore della domenica perchè (pur non avendolo mia detto nessuno, credo, in questi termini: sto parlando nell'ambito di una mia metafora) forse meglio di ogni altro ha espresso il senso esistenziale della domenica, facendone uno dei motivi fondanti della sua poetica. La domenica come antitesi suprema del sabato del villaggio, come spegnimento delle speranze verso il domani. La domenica come momento dell'acuta cupezza del senso del dovere di vivere.

Volendo combinare ancora il dato letterario col mio personale percorso biografico, aggiungerei che forse questo aspetto di Pavese sono riuscito ad afferrarlo solo oggi che mi sto un po' riconciliando con lo spirito della domenica, oggi che non la vivo più con quell'angoscia greve dell'adolescenza, oggi che mi passa via leggermente meglio, sempre ingessata nel suo mantello da governante severa ed ottusa, ma un po' meno burbera di un tempo.
Ed è stato bello riaccorgermi come Pavese sia anche uno dei più grandi creatori di "epifanie brevi", ma intensissime, delle quali ho riportato due superbi esempi in apertura.

sabato 17 gennaio 2009

Fatece largo che passamo noi, sti giovanotti de' sta Parigi bella

(Foto-agri-montaggio ruraleggiante di Gillipixel)

Non sono mai stato un gran viaggiatore. Certo che, chi avesse seguito con un po’ di continuità il mio bloghetto, a questo punto si sentirà in diritto di pensare: “…Ammazzalo!...è asociale, è timido, è pigro…e adesso salta pure fuori che non viaggia neanche…ah beh…proprio un uomo da sposare!...”.
Ma lasciamo perdere, questi son dettagli.
Volevo parlare invece di quelle volte che sono stato a Roma e di quell’unica che sono stato a Parigi. Quella fu un sacco di tempo fa. D’accordo, la Bastiglia l’avevano già presa. Ma per dire, anche se la piramide del Louvre sarebbe sorta di lì a breve, all’epoca era ancora nella fantasia di Ieoh Ming Pei. A Roma invece ci son stato un po’ di volte in più, anche non tantissimo tempo fa.
Ma credo che ai fini della mia riflessione non importi tanto questo.
Con Roma e con Parigi mi successe un fatto da rimanere leggermente sbalorditi (il bisticcio quantitativo fra avverbio ed aggettivo non è casuale: denota la familiarità e al tempo stesso lo smarrimento provati).
Già l’ho detto diverse volte: per mia indole ed esperienza di vita ammonticchiata lungo gli anni, mi ritrovo oggi con un animo più congeniale ad una dimensione di campagna. Forse dopo un adeguato periodo di rodaggio, riuscirei a vivere anche in una città, ma al momento la mia visione e la mia percezione di me calato nel mondo è questa, ruraleggiantemente agreste e bifolchevole.
Roma e Parigi però (ferme restando le loro diversità di altro tipo) mi fecero ricredere e vacillare fortemente circa questo punto. Potrei elencare decine di fattori a favore di questa impressione positiva: sono città ricche di storia complessa e ad ogni angolo ti imbatti in monumenti fenomenali che ti fanno alzare quattro dita di “goose skin” dall’emozione. Sanno offrire scorci incredibili, sono entrambe maestose, imponenti, fortemente ammalianti.
Tutti questi motivi di fascino sono noti ed assodati. Ma ce n’è uno in particolare, forse meno codificabile in termini definiti, che mi è sembrato di poter scorgere intenso a Roma e Parigi. Dalle pietre, dai mattoni degli edifici, dai ciotoli delle strade, dalle finestre, dai portoni, dalle aiuole dei parchi, dalle fontane, dai crocicchi di queste due città sembra levarsi continuo, incessante, sicuro, l'invito di una volontà sorniona di farsi amare profondamente dal passante.
A Roma e a Parigi, camminando per le vie, senti la Bellezza traspirare da ogni cosa che ti circonda, come una fertile ed asciutta rugiada culturale.
Per quanto consta alla mia limitata esperienza di viaggiatore, Parigi e Roma sono forse le due città nelle quali si percepisce meno marcata la moderna frattura fra spazi privati e dimensione pubblica (tema da me già trattato andando per pensieri qualche temo fa). Ad una via, ad una piazza, ad un viale di Parigi o di Roma ti senti quasi di portare il medesimo rispetto ed affetto che ti possono suscitare un angolo riservato del tuo salotto di casa, o il cantuccio preferito della tua camera da letto.
Certo, non sarà esattamente così, sono pur sempre metropoli di dimensioni enormi, con tutti i loro gravi problemi del caso.
Ma quei sentimenti di romanità e di pariginità così intensi e al tempo stesso così privati, che un modesto campagnolo ha provato zonzeggiando per le strade di quelle città stupende, non li saprei trasmettere meglio in altri termini.

lunedì 12 gennaio 2009

Ah…socialità…già

(Fotomontaggio di Gillipixel)

L’asocialità è un po’ come una droga. Maggiori quantità ne assumi e più l’assuefazione sale. Almeno, a me succede una cosa del genere (ma non preoccupatevi: non è roba contagiosa e capita solo ai suonati più gravi, tipo me).
So che non è il migliore degli atteggiamenti. Per quanto sta nelle mie forze, cerco di combattere per contrastare la dipendenza. Uno straccio di vita sociale lo tengo in vita, gli faccio il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale sforzandomi di vedere qualcuno ogni tanto. Ma i frangenti del vivere poi ti blandiscono, alla fine non ci puoi fare più di tanto e ricadi nel tunnel.
Se sto alcuni giorni vedendo poca o nulla gente (com’è successo di recente, durante alcuni giorni di ferie), tendo ad adagiarmi nella mia presunta autosufficienza spirituale. L’illusione del “bastare a se stessi” si fa intensa. La cappa del focolare della completezza interiore si mette a tirare che è una meraviglia e bastano quei pochi visi noti presi nelle giuste dosi familiari ed amicali, per tenere sempre accesa la brace di una parvenza sociale, come contrappunto giustificativo. Un promemoria per non scordare che fai ancora parte del genere umano. Perché a volte, fosse per quello che mi consta, mi sento proprio calato in una nuova specie della quale sono l’unico rappresentante sopravvissuto sulla terra, nonché l’unico prototipo del quale sia mai stato avvistato esemplare scientificamente riconosciuto.
Che ne so, forse il Gillipixesius Humoralis Solipsistick…oppure il Pixeloidus Gilliformis Se Ipsum Manu Turbantis…
Un tempo, constatare questa cosa dentro di me mi faceva spavento. Nei caotici passaggi dell’adolescenza, soprattutto, quando l’impressione di essere una bestia rara sul procinto di estinguersi era un tratto comune di quasi tutte le giornate.
Ricordo in particolare un ritorno a scuola dalle vacanze natalizie, al tempo dei primi anni del liceo. La sensazione estraniante provata in quell’occasione fu talmente intensa da lasciarmi turbato in misura abnorme. A rivedere i compagni di classe, i professori, un po’ tutto l’arredo vivente della scuola insomma, mi sentivo come messo fra 10 parentesi che mi trasponevano in un’umanità esclusiva tutta mia, remotissima da quella altrui. Fluttuavo in una bolla isolata, solo in mezzo a tanti, ed ogni contatto con gli altri era pur sempre un parlare od esprimersi nella maniera più normale, ma lo percepivo scaturire da me come un boccheggiare e un gesticolare vano, lontano milioni di anni luce dall’eventualità di essere decodificato dall’esterno.

Una reminiscenza di quelle sensazioni me l’ha riservata il ritorno al lavoro stamattina. Sono arrivato in città ben foderato di “campagnolflex”, un materiale dal fortissimo potere isolante contro ogni tipo di relazione umana, roba che cinque spanne di poliuretano non sono niente.
Ma mi sono reso conto che ormai molte cose sono cambiate. Ormai sono invecchiato, non sono più quell’inflessibile professionista dell’introversione di un tempo. Un asso ero all’epoca, il Barone Rosso dell’asocialità.
Adesso, sì, la mia essenza rimane e non la posso tradire, certo, ma son divenuto un modesto pilota dell’Alitalia, per di più in fase di transizione “CAI - AirFrance"..."…che - la - riforma - della - Giustizia - si - fa – con - o - senza – minoranza – e - l’Italia - è - stretta - nella - morsa - del – gelo -…”.
Soprattutto non mi fa più tanto paura essere così. Ed averne meno paura mi aiuta anche ad essere meno così. Sapere che l’asocialità è nella mia essenza, e che non devo cercare di cambiarla incamminandomi inutilmente per vie comportamentali che non mi sono consone, paradossalmente mi aiuta a vedermi meno diverso e singolare, meno bestia rara, e come conseguenza mi dà una mano ad aprirmi di più verso gli altri, perché (citando la celeberrima invettiva rivolta da “Bambino-Bud Spencer” al fratello “Trinità-Terence Hill”, per redarguirlo circa il suo bizzarro modo di stare in sella) in questa ottica acquisita con l’esperienza degli anni, mi sento visto dagli altri non più come un alieno lontano tre mondi e due universi, bensì come un semplice, comunissimo, “bastardo qualsiasi”.

mercoledì 7 gennaio 2009

La spazialità del linguaggio

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Mi capita di tornare a meditare spesso sulle cose scritte qui sul mio blogghetto e a volte mi accorgo di aver dato troppo per scontato il senso di certe affermazioni, di essere stato troppo frettoloso nel trarre talune conclusioni. Volevo dunque riprendere una cosa affermata l’altro giorno trattando l’argomento dei LEGO, cercando di portare stavolta alcuni elementi ulteriori per far capire meglio quel che volevo dire.
In particolare mi riferisco all’associazione sottolineata fra passione per i LEGO e successivo sviluppo nel mio animo dell’amore per la lettura (e di riflesso inevitabile, anche per lo scrivere).
Ad un certo punto del mio eterogeneo ed onnivoro cammino di studi, mi capitò di leggere qualcosa circa la sostanziale “natura spaziale” del linguaggio.
Piccola digressione: non so se capita pure a voi, ma io, tutte le volte che lungo il percorso di accrescimento della mia Conoscenza mi sono imbattuto in concetti capaci di cambiare (in misura più o meno grande) la mia visione generale delle cose, mi sono sempre sentito “stupid-allegro”.
Allegro: perché la sensazione che ti procura il trovarti al cospetto di un passaggio concettuale decisivo nel panorama di una certa materia (per fare due esempi banali, il “cogito” cartesiano in filosofia, oppure tutta la malia della multidimensionalità intellettuale racchiusa nel calcolo differenziale in matematica), è esattamente una gioia vertiginosa ed in qualche modo spiazzante.
Stupido: perché quei passaggi intellettuali sono percepiti talmente in armonia con la struttura genuina fondante del nostro pensiero, talmente consustanziali ad esso, da lasciare un piacevole senso di smarrimento e stupore per non averli saputi cogliere prima da soli, tanto sono perfetti e consonanti ad una “luminosità” del pensare.
Una di queste esperienze di “stupid-allegria” conoscitiva me la procurò dunque questo concetto di “natura spaziale” del linguaggio.
L’idea di base deriva dalla supposizione, più che ragionevole, che il linguaggio (da non dimenticare: nella sua articolazione e complessità, privilegio della sola specie homo sapiens) debba essere nato da un “nominare” basato originariamente sul porre in stretto rapporto il “muoversi fra le cose concrete” ed il “il muoversi nella mente”, trasponendo il primo tipo di moto nel secondo.
Pur essendosi evoluto nel corso della storia umana in forme articolate ed astratte di estrema complessità, il linguaggio conserva in nuce questo suo momento fondativo originario: i rapporti fra parole rimangono nella sostanza “rapporti fra cose trasposti”.
Alcuni esempi per entrare un po’ più nel merito specifico.
Considerate la “forza spaziale” di alcune parole, in particolare gli avverbi, i pronomi, ma in genere tutti quei piccoli elementi grammaticali di tessitura della “trama discorsiva”. Per dirne qualcuno: molto banalmente, la differenza di distanze denotata da “questo” e “quello”. Oppure, il senso di brusca “marcia indietro” discorsiva introdotta dagli avverbi “invece” e “ma”: con il loro intervento si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un “muro” del discorso, con la conseguente necessità di incamminarsi per vie quasi opposte del ragionamento.
E ancora, la deviazione più blanda portata dall’entrata in scena di un “però” o di un “tuttavia”. Oppure, il senso di “apertura di orizzonti” che la paroline “dunque” e “quindi” recano con sé, quasi fossero una sorta di piccoli custodi addetti a spalancare i cancelli di nuove possibilità di prosecuzione di un discorso.
Gli elementi per esemplificare la natura spaziale della composizione del linguaggio sono dunque tantissimi.
Vorrei portarvi però un altro suggestivo elemento, sempre reminiscenza di quel mio felice incappare nel concetto della spazialità del linguaggio. Ed è la differenza fra le lingue strutturalmente impostate sull’uso delle declinazioni (latino e tedesco, ad esempio, e anche il russo, mi pare, ma chiedo perdono se per caso ho sparato una boiata) e quelle invece preferibilmente articolate con preposizioni esterne ai vocaboli. Purtroppo non ricordo con precisione quanto veniva detto nello specifico su quel libro letto tanti anni fa.
Ma ricordo che la differenziazione fra le due tipologie (con declinazioni, oppure senza) era imputata ad un diverso senso di rapportarsi alla “spazialità”, in relazione anche ad un certo maggiore o minore dinamismo del popolo parlante una determinata lingua. Sotto questo punto di vista, sarebbe interessante e curioso indagare ad esempio come il latino, espressione con le sue declinazioni di un popolo (come quello degli antichi romani) dinamico e strettamente contiguo alla concretezza delle cose, si sia evoluto nell’italiano, che ha perso le declinazioni lungo la strada, per assumere il “distacco” dalle cose insito nell’utilizzo delle preposizioni.
(Non credo tuttavia di ricordare con tanta precisione, altrimenti non si spiegherebbe come il tedesco, lingua basata sulle declinazioni, abbia dato altresì vita ai sistemi filosofici più complessi - Heghel, Kant, ecc. Prendete dunque un po’ con le pinze quanto detto, fatta salva la validità dell’assunto che fra propensione all’uso delle declinazioni oppure delle preposizioni, ci passa di base una discriminante spaziale).
Per concludere dunque, ecco il senso di quanto scrivevo l’altro giorno sui LEGO: questo gioco mi ha introdotto all’amore per la lettura e per la scrittura, proprio perché me le ha anticipate con la sua capacità di fare appassionare allo “spazio” e alle sue fascinazioni.
Ogni volta che leggiamo è infatti come percorrere un’ideale architettura fatta di forze e dispositivi spaziali pensati. Ed ogni volta che scriviamo è come dare vita ad una nuova di queste architetture.

lunedì 5 gennaio 2009

L'Ego


(Fotomontaggio di Gillipixel)

Mi ero ripromesso di dedicare uno scritto ai LEGO, grande gioco-culto che ha punteggiato tanti momenti di "estetica profonda" nella mia infanzia, ma poi ci ho meditato su un po'. Temevo di andare a dire cose troppo personali e riferite a mie particolari sensazioni così autoriferite da risultare pressochè incomprensibili. Poi mi sono detto: ma questo lo faccio ogni volta che scrivo qui su, tratto sempre temi ultra-marginali. E allora mi sono convinto a proseguire nell'intento.
I LEGO per me non sono stati solo un semplice gioco. Sono stati un pecorso di "autoeducazione" e di introduzione a tante dimensioni che poi da adulto avrei ritrovato sviluppate con più ampia portata.
"Autoeducazione" nel senso che attraverso il gioco dei LEGO sentivo facilitata in me l'apertura di certi orizzonti già presenti nella mia piccola personalità in itinere.
L'amore per la "spazialità", ad esempio. Un primo rudimento di consapevolezza circa il fatto che nel mondo ci si muove attraverso rapporti di forza volumetrico-spaziali, sia fisici che mentali (confondibili, scambiabili e mescolabili spesso e volentieri fra di loro), mi è venuto dai LEGO.
Ma vorrei spiegarmi meglio: non è che prima non la sapessi, questa cosa. Anche io, come tutti i poppanti, ho debitamente sbattuto la testa contro gli spigoli mentre imparavo a camminare e sono pure caduto dal seggiolone, nella migliore delle tradizioni infantili. Non è dunque che non sapessi cosa fossero lo spazio e le sue concretezze varie.
Con i LEGO tuttavia ho imparato ad apprezzarne il fascino e soprattutto il fatto che fra spazialità propriamente detta, fisica vera e propria, e spazialità immaginata, fantasticata, sognata, è possibile instaurare una continuità magica. La mente parla un alfabeto spaziale ed i LEGO mi hanno aiutato molto ad entrare nel senso di questo ABC.
Mi hanno aiutato anche parecchio ad intraprendere le due strade, consonanti fra di loro, dell'astrazione e dell'auto-astrazione.
Astrazione, perchè una piccola stanzetta di 10 cm. per 15, delimitata da quattro muri di mattoncini LEGO, con qualche altro piccolo ammennicolo ulteriore a simulare tettoie e balconi, nella mia mente diventavano di volta in volta la più lussuosa delle case, o un castello inespugnabile, o un garage per automobiline. L'importante era "lavorare" solo coi mattoncini "puri". Di svariate lunghezze, ma nudi e crudi.
Considero infatti un po' una degnerazione successiva l'aver introdotto pezzi sempre più specializzati, con sagome prestabilite, molto attraenti, senza dubbio, ma al tempo stesso parecchio limitative per la fantasia del bambino, inevitabilmente incanalata su binari immaginativi prestabiliti.
Auto-astrazione perchè nel gioco dei LEGO (come in nessun altro) riuscivo ad immergermi in misura totalizzante, tanto da non percepire più lo spazio nè il tempo intorno. Esercizio questo che mi pare di poter dire esser stato un'ottima introduzione all'amore per la lettura e, ahimè, anche ad una certa mia attitudine all'orsezza (da "orso") caratteriale.
Niente. Questo è quanto per ora mi sentivo di dire sui LEGO. Ma non è detto che non ritorni ancora sull'argomento.

domenica 4 gennaio 2009

Lo zen a l'arte di andare in bici senza mani

(Foto ed elaborazione di Gillipixel)

Osservando un piccolo, banalissimo fatto quotidiano, mi è successo di tornare a riflettere su di un concetto che da tempo mi frulla per la mente e del quale mi vado convincendo sempre più con l'esperienza.
Per apprendere la "gestualità del vivere" non è sufficiente averne una nozione esaustiva, una conoscenza raffinata, dettagliatissima e completa. Quello che serve è saper entrare nel mistero di ciascun "gesto", decifrarne il suo linguaggio più intimo, comprendere il senso di quel linguaggio nell'istante stesso in cui ci si rende conto che lo si sta parlando, mentre si capisce altresì come fino a quel momento la nostra presunta conoscenza di quella dimensione altro non era stata che un blaterare impreciso e senza costrutto.
Con "gestualità del vivere" non mi riferisco solamente ad un agire pratico legato agli atti materiali più semplici. Intendo invece un concetto che percorre trasversalmente tutte le dimensioni del "muoversi nella vita", dalla più ordinaria e fisica alla più elevata e spirituale. Anzi, mi sento di affermare che l'idea di "gestualità del vivere" potrebbe proprio essere assunta come tratto concettuale unificatore che ci aiuti a vedere la vita come un continuum fra aspetti fisici e spirituali.
La minuscola osservazione quotidiana che ha risvegliato in me lo spunto per queste riflessioni, è nata mentre mi trovavo in sella alla bici. Nella fattispecie, la questione ha riguardato l'andare in bici senza tenere le mani sul manubrio.
Non so se è una cosa che succede pure a voi. Io di andare senza mani sono capace fin da quando ero bimbo, ma immancabilmente mi succede che quando cambio bici, devo imparare da capo a fare quel gesto, calibrandolo sulle caratteristiche del nuovo "cavallo d'acciao".
Chissà se dipende dalla rigidità, variabile di volta in volta, del blocco "forcella-piantone-manubrio". Oppure dall'agio col quale la ruota ha modo di oscillare leggermente a dritta e a manca durante l'andatura. Di preciso non ho mai capito bene da cosa dipenda. Fatto sta che per ogni diversa bici mi ritrovo ad "interpretare" il relativo modo adeguato di saperci andare sopra senza poggiare le mani sul manubrio e senza possibilmente andare a finire col muso spianato al suolo.
E la cosa più bella è che ad ogni rinnovata acquisizione della nozione, provi quasi il senso di una "piccola illuminazione". Una gioia futile ma profonda. Sai che sei tornato a parlare in "andarsenzamanese", la misteriosa lingua della terra degli "Andanti Senza Mani".
Questo fenomeno, come dicevo, non si verifica solo nella dimensione pratica, fisica, più materiale, quella dimensione che implica l'apprendimento di "tecniche" concrete. In termini più complessi, è un meccanismo che investe tutti i livelli del vivere, sino ai gradi più spirituali.
In questo senso dunque la parola "gestualità" è riferita più propriamente ad un saper operare lungo l'eco di tutte le "sfere concentriche" della vita.
C'è una gestualità che va svelata per il saper cucinare. C'è una gestualità che va svelata per il sapersi porre in relazione con gli altri. C'è una gestualità che va svelata per il saper amare. C'è una gestualità che va svelata per il saper essere amici.
C'è una gestualità che va svelata per il sapere far l'amore. Questo è un punto molto sottile: fare l'amore in particolare è un linguaggio che sai di saper parlare solo nell'atto in cui ti scopri a pronunciare le sue frasi, senza capire di preciso dove erano custodite dentro di te, meravigliandoti al contempo estasiato del fatto che in te erano custodite.
Per rendere l'idea della radicalità onnicomprensiva del concetto che intendo trasmettere, cito persino un esempio iperbolico che spero non risulti volgare o grezzo (ma vi assicuro che la mia intenzione è la più remota da questo registro espressivo): c'è una gestualità che va svelata (e non sto scherzando) anche per il sapere andare di corpo.
Questo insomma è uno dei probabili sensi che si possono assegnare al fatto di vivere: saper tirare fuori da ogni frangente il linguaggio opportuno che già è depositato dentro di noi, anche se spesso ancora non ne siamo consapevoli.

venerdì 2 gennaio 2009

Elogio della femminea differenzialità

(Fotomontaggio di Gillipixel - Con opera di Rabarama)

Le bruttine mi sono sempre piaciute di più.
Non le brutte, no. Neanche il termine "bruttina" rende tanto l'idea, non è preciso ed è ingeneroso. Che poi, pure quando si dice "brutto" a qualcuno, si compie un atto di odiosa presunzione, perchè comporta l'arrogarsi un diritto di giudicare che forse non compete a nessuno.
E non voglio nemmeno sembrare indelicato toccando temi piuttosto sottili. Sentirsi fisicamente "inadeguati" a volte è un grosso problema, con implicazioni psicologiche serie, e non voglio minimamente che si pensi che sto trattando questo argomento con leggerezza o con ironie fuori luogo.
Non bruttine dunque. Ma non so, non saprei usare una parola più adatta.
Allora, facciamo così: fate conto che non ho ancora scritto nulla, e ricomincio.
Le donne particolari mi sono sempre piaciute di più.
Quelle incasellate negli stereotipi alla moda, quelle catalogate nelle loro fattezze dai canoni ufficiali, mi sembrano proprio le meno interessanti, le meno attraenti e più banali che si possano immaginare.
Le top model ad esempio, le strabellone da copertina, non mi piacciono per nulla ("...seeeehhhh...", sento già in sottofondo il coro di scherno beffardo del goliardico mio lettore...).
Non so come farmi capire meglio. E' chiaro che su una Naomi Campbell (o chi per lei) non ci sputerei su. Mica c'ho scritto "Jo Condor" (...mitico carosello dei bei tempi...).
Ma quello che voglio dire è che, se ci pensate un attimo, non c'è nulla di più odioso di farsi dire quello che ci deve piacere. Perchè è un po' questo ciò che accade con tutto il gran trabiccolo mediatico: ti dicono loro quello che ti deve piacere.
E per di più, quello che ci deve piacere deve essere pure tutto bello standardizzato e uniformato su quattro ingredienti quattro, e fatteli bastare, zitto e mosca. E 90-60-90, e il nasino all'insù, e il vitino da vespa, e tutte 'ste menate.
La cosa, nella migliore delle ipotesi, mi lascia perplesso. Nei casi più eclatanti, mi fa pure incazzare. Ma come? In questo modo mi sento trattato come un idiota. Lo saprò ben io quello che mi piace, o no?
Quando una donna mi piace e mi attrae, questo succede grazie ad una sua particolarità, e non perchè è la copia fatta con lo stampino di un modello voluto da altri.
A parte il fatto che non succederà mai e poi mai, nemmeno per sbaglio, che un essere femminile anche vagamente somigliante ad una modella si possa avvicinare a me a meno della distanza di 500 km., non è questo il punto.
Il punto è che la bellezza di una donna sta in quello che di unico lei ti può dare. Possono essere anche i fianchi un po' forti, o una leggera pinguedine, il modo di fare un certo gesto, di sorridere, oppure una qualche asimmetria affascinante del viso, un naso un po' più lungo e dalla foggia particolare, e così via. Non saprei dire ora cosa può essere: si tratta sempre di un'alchimia delicata fra mille fattori, fisici e spirituali.
Ma in ciascuna, ciò che fa la differenza è quel "quid" che la rende unica, e non quel "quod" che la uniforma (...tanto per bistrattare un po' il latino a mio uso e consumo...).
La differenza è simile a quella che passa fra una vacanza organizzata in un villaggio turistico, con ogni tuo minuto di soggiorno prestudiato, preconfezionato e "pre-divertito", ed invece un viaggio alla ventura nel quale ti fai tu il tuo itinerario, scegli tu le stradine e gli angoli della città che più ti affascinano, ti attraggono, ti chiamano a sè.
Va beh, ci sentiamo ragazzi...stavolta sono andato per pensieri un po' contorti, ma ormai mi conoscete e ci siete abituati... Ciao.

Ah, e non state in pensiero: nemmeno stasera Naomi Campbell mi ha chiamato per invitarmi a cena....

giovedì 1 gennaio 2009

Al veglione con gnomi, fatine e bestioline

(Foto e fotomontaggio di...chi?...cosa?...dove?...stavolta io non ne so niente, eh...)

Anche stavolta è passato. E non è stato poi così grave.
Una compagnia carina, cibo buono e momenti piacevoli con alcuni amici storici, quelli coi quali hai in comune mille ricordi e potresti stare ore a far chiacchiere e battute senza mai stancarti.

E' arrivata pure la neve, a dare una spruzzata di poesia. E stamattina mi sono accorto che la nottata intorno a casa era stata anche di altri. Lungo il tronco del vecchio cigliegione, piegato dal ricordo di un autunno così piovoso da renderlo fragilissimo nelle sue radici smarrite fra gli zuppi meandri del terreno, erano scesi gnomi, fatine, micini e bestioline misteriche assortite.
Devono aver zompettato in giardino, fatto la loro festa zig-zagando e frusc-strusciando fra rami e fiocchi bianchi. Dalla posizione di quattro piedini allineati e dalla forma delle impronte dietro, mi pare di aver arguito che forse anche Ugo lo gnometto ha fatto l'amore con la fatina Deretana. Con lei Ugo ci stava provando dalla notte in cui re Artù organizzò, nella foresta degli zampironi volanti, la gran sagra del cinghiale in pinzimonio. Quella notte tutti si erano amati, persino il mago Merlino aveva fatto l'amore (ma sempre rigorosamente con se stesso, come suo magico costume). Sono contento per Ugo.

L'ultimo dell'anno. Già. "...Anche stavolta è passato. E non è stato poi così grave...", ho detto sopra...ma a rilegger quel che ho scritto dopo, adesso non ne sono più così tanto sicuro.