martedì 31 gennaio 2012

Red Cross shooting




«...Dicono che un freddo simile non si registrava
da almeno 50 anni. Di certo, da oltre 50 anni
non si vedevano in giro "sprovvedutacci" di un
calibro così esagerato come certi giornalisti d'oggi...».

*******

Amici, portate pazienza, ma oggi mi piacerebbe produrmi in una estemporanea attività di “sparo sulla Croce Rossa”. So che trattasi di disciplina sportiva assolutamente poco nobile, anzi, alquanto disdicevole, se proprio la si vuol dire tutta. Da fonti certe, ho poi appreso che anche il Comitato Olimpico si è categoricamente rifiutato di ammetterla nel novero delle specialità agonistiche da esso contemplate. Lo “sparo sulla Croce Rossa” rappresenta quasi l’emblema dall’antisportività e della scorrettezza. Come potrebbe dunque pretendere di vedersi concesso il diritto di stazionare in ottima compagnia sotto l’ecumenica ombra dei fatidici Cinque Cerchi?

Però è altrettanto vero che questo gioco viene diffusamente praticato a livello amatoriale nelle più subdole e cavillose sedi. Il motivo di tanto seguito di praticanti è presto detto: nel farlo, ci si diverte.

La mia “Croce Rossa” odierna saranno i giornalisti. Criticarli è divenuto uno sport ormai talmente scontato, quasi superfluo e diffuso fin anche fra le più piccole società amatoriali iscritte ai campionati minori di «”Discutitori” da bar», che non ne deriva più nemmeno uno straccio, non dico di gloria, ma neanche di merito nel continuare ad insistere. Se un residuo di “motivazione-giutificazione” rimane allora, esso va ricercato in quel briciolo d’amor proprio per il senso critico che ciascuno dovrebbe pur sempre continuare a nutrire.

Ma tosto veniamo alla sparatoria del caso. Chi per sentito dire e chi per sentito vibrare (come nel mio caso), tutti avrete saputo delle scosse di terremoto che hanno colpito nei giorni scorsi l’orlo settentrionale (proprio dalle parti alte della coscia) di quella vecchia, ma a noi carissima ciofèca dello stivalone italico. Passano solo alcune manciate di attimi ed è già pronta con un collegamento in diretta sul posto la brava inviata di un telegiornale (non vi dirò qual era, ma a definirlo tale bisogna fare veramente uno sforzo di fantasia e mentire spudoratamente a se stessi...).

Quale posto? Con estremo fiuto per l' indagine e sagacia per lo “spirito informativo” supremo, viene scelto un luogo altamente consono a fornire un riflesso scientifico ed oggettivo degli strascichi emotivi succeduti all'accadimento tellurico appena verificatosi: la strada di fronte ad una scuola. La scena che si presenta denota fin da subito il clima di fedele rappresentatività dello spaccato sociale in cui è quasi d'obbligo veder inserito il protagonista dello scampato pericolo.

Da una parte, ragazzini brufolosi allo stato brado lungo la via e straboccanti testosterone da ogni poro, che si spintonano, fanno le corna a quello davanti, giocano a “paghi la mossa”, fingendo di assestare una botta al basso ventre del migliore amico, fermando tuttavia l'affondo ad un solo cm. dalla zip dei jeans altrui. Sull'altro fronte, uno stuolo di “bimbe-minkia” tutte “intamarrate” di zainetti alla moda, sobrie truccature discretamente dosate sul viso con paletta e secchiello, piercing a volontà come fossero tutte le nipotine del fabbro ferraio del circondario.

La brava inviata, interpella una ragazzina. La prima dichiarazione della simpatica brufolosotta si perde in un profluvio disarticolato di “...cioè...”, “...è scoppiato il panico...”, “...no...cioè”, “...la prof ci diceva di fare così...”, “...il bidello gridava di fare cosà...”. Ma è stato a quel punto che il colpo di genio dell'inviata si è innalzato altissimo per andare ad occupare un gradino di privilegio nell'empireo del giornalismo mondiale di tutti i tempi, suggellando “in singolar quesito” una delle più acute e profonde interviste mai soppesate in precedenza da orecchio umano. Una domanda che di colpo ha fatto apparire anche quella ragazzina, al confronto con l'intervistatrice, come una vetta eccelsa del sapere, una rappresentante indiscussa dei più alti consessi culturali.

Non potevo credere alle mie orecchie infatti, quando ho sentito, ve lo giuro, uscire dalla bocca di quella sedicente giornalista, la seguente, sesquipedale genialata: «...Che emozione hai provato?...».

Nooo...nooo!!! “...Che emozione hai provato...” nooo!!! Chiedile tutto, ma non quella cosa lì!!! Ormai è umanamente inaccettabile. Pensavo fosse ormai stato definitivamente fissato il criterio minimo di civiltà in virtù del quale, se un giornalista si azzarda ancora a chiedere ad un intervistato la moralmente “desertifica” domanda “...che emozione hai provato...”, dovrebbe essere radiato dall'albo con disonore sommo, stracciamento del notes di fronte a tutta la redazione e spezzatura della penna da parte del direttore.

Invece no. Ancora oggi, dopo tanti anni ormai, ci tocca continuare sconsolatamente a mandar giù e fare buon orecchio a cattivo prosatore, rassegnandoci a sentir dire, chissà fino a quale remoto futuro, che la gente “...in preda al panico si è riversata in strada...”, “...i feriti sono stati estratti dalle lamiere contorte...”, “...le cause del sinistro sono ancora al vaglio delle autorità competenti, che hanno anche effettuato i rilievo del caso...”.

Ah...e ovviamente “...che è stata aperta un'inchiesta per far luce sull'accaduto...”.


domenica 29 gennaio 2012

Andarperpensieri come “segnavia”



Mi sono imbattuto recentemente in un brano di un autorevole testo, fra le cui righe mi è parso d’intravedere un’argomentazione perfetta per conferire fondamenti culturali di pregio a codesto mio blog “andarperpensieroso”. Finalmente, anche questo ameno opificio di vaccate potrà dire di possedere il proprio autorevole e nobile retroterra filosofico.

Più o meno…

Chi mi legge con un po’ di assiduità, saprà benissimo che di tanto in tanto amo introdurre, ad intervallare la sequela torrenziale degli scritti “nullificanti” da me propinati a manetta, alcuni momenti di riflessione, nell’ambito dei quali m’interrogo proprio sul senso e sull’opportunità di un simile mio atteggiamento di sostanziale “disimpegno”. La domanda classica standard che rivolgo a me stesso ad ogni nuova occasione concessa a quelle parentesi di “sospensione narrativa”, immaginando che dubbi molto simili assalgano in contemporanea anche il lettore, è la seguente: ma come, con tutti i problemi che affliggono l’umanità ed il mondo, tu non trovi niente di meglio da fare che parlare di arte, di poesia, di letteratura, di piccolezze campagnole, oppure di introspezioni personali minimali, di sguardi interiori “iper-individualizzanti”, facezie assortite ed annidate a vario titolo fra gli anfratti più bizzarri del montaliano “male di vivere”?

Raramente mi occupo di attualità, di politica, di problematiche sociali, se non quando mi succede di sfiorarle, raggiungendole provenendo dai sentieri più contorti della mia gratuita deriva concettuale. Come giustificazione, ho sostenuto in diverse occasioni una mia personale tesi in merito. Il disimpegno non è necessariamente sinonimo di vacuità. Nel mio modo di affrontare gli argomenti, anche quando apparentemente sono i più futili e marginali possibili, credo di riuscire ogni volta ad introdurre scintille di stimolo culturale degne di considerazione. Ma questo è sempre stato sostenuto soprattutto da me che, non solo non sono una voce qualificata, ma nemmeno, nella fattispecie, la più chiara fonte di obiettività.

Ecco allora che, puntuale come il sorgere di un’alba di miele sopra la scogliera brulicante di amanti, sorpresi dal bagliore novello ancora tutti indaffarati nei loro “cincischievoli” ed intimi baratti di tenerezze, a mio sostegno è giunto il fulgore di un’epifania del lettore fra le più intense e profonde mai sperimentate.

Il notevolissimo “libretto” in questione s’intitola «La selvaggia chiarezza – Scritti su Heidegger» (Edizione Adelphi – 2011) e ne è autore Franco Volpi, forse il più grande, attento e sensibile traduttore italiano dell’opera del filosofo tedesco, da quanto ho appreso proprio approcciando questo testo. La parte del libro che “entra in collisione”, interferisce in qualche modo con le mie ragioni bloghesche, s’incontra quando Volpi parla della reciproca e fertile influenza intercorsa fra Martin Heideggher ed un altro altissimo pensatore teutonico, Ernst Jünger.

Entrambi i filosofi affondano le radici del proprio pensiero nel terreno delle “conquiste speculative” dovute all’opera di Nietzsche, a sua volta debitore delle basi poste precedentemente da un altro grande, Arthur Schopenhauer. In particolare, il concetto chiave è quello della “volontà di potenza” di cui la realtà è portatrice. Con la complessa costruzione concettuale che va sotto il nome sintetico di “volontà di potenza”, prima Schopenhauer (1788-1860), poi Nietzsche (1844-1900) e di seguito anche Heideggher (1889-1976) insieme a Ernst Jünger (1895-1998), indicano ciò che per loro si celerebbe dietro le ragioni più profonde dell’essenza della realtà: una forza universale cieca e sorda alle esigenze esistenziali dell’uomo, che si auto-procrastina e si autoalimenta bruciando esclusivamente delle proprie ragioni e delle proprie logiche interne.

Inoltrandoci ancor più nelle profondità di questa rarefattisma atmosfera concettuale, e tenendoci sempre a braccetto con le quattro eccelse menti summenzionate, s’incontrano nuove sorprese. Cosa ne è stato, negli ultimi secoli e poi in particolare nei decenni scorsi a noi più vicini, di questo nostro mondo sempre più sottoposto alle sferzate della “volontà di potenza”?

Finché la foglia di fico delle grandi ideologie e delle fedi di vario genere ha tenuto, l’uomo rinveniva in qualche modo in esse un rifugio, uno strumento di difesa dal senso di angoscia annichilente che può cogliere colui che si ritrovi privo di un orizzonte di “senso” in grado di fare da bussola per il proprio cammino esistenziale. Quando però anche l’elastico di quella mutanda, che già da lungo tempo denunciava la sua minacciosa mollezza, ha alla fine ceduto irreparabilmente (crollo del muro di Berlino come "lupus in fabula" più clamoroso), l’uomo si è accorto con estremo smarrimento di essere completamente nudo. Era giunto ad un passo dal baratro vertiginoso del “nulla”, dall’assoluta mancanza di significati e valori eventualmente rintracciabili nell’atto del vivere. Questo esito sconfortante la nostra cara banda di filosofi sopra citati lo chiama “nichilismo moderno”.

Non vi appaiano troppo fumose e lunari queste teorie che mi sono arrabattato a sintetizzare alla bene meglio. Se l’impressione è quella, la causa va ricercata senz’altro nella mia narrazione non sufficientemente accurata. Ma lasciate che vi faccia solo alcuni esempi concreti come contro-verifica della pregnanza effettiva di quella “diagnosi della realtà”.

Per dirne solo qualcuna: ripensando a ciò che ho scritto riguardo alla “volontà di potenza”, vi dice nulla ad esempio un eventuale abbinamento mentale fra quel tema e lo strapotere mondiale dei meccanismi finanziari, che ormai stanno praticamente cancellando le volontà dei popoli e come un moloch ingordo passano ogni giorno sempre più avidamente sopra le nostre dignità di persone, sacrificandole sull’altare delle loro logiche interne, unica legge universale ad essi nota e degna di venir rispettata?

La “volontà di potenza” trova la sua espressione più determinata nello strumento della “tecnica”, la più grande sovrastruttura storica del nostro tempo, anch’essa dimensione immensa di superamento delle ragioni umane, nel nome di un logica sua interna completamente avulsa ormai dai significati di cui l’uomo avrebbe invece eventualmente sete. Quante persone fanno un lavoro del quale non comprendono alla fine il senso? Quante sentono di vivere in base a ritmi che nulla hanno a che vedere con quelli di cui semmai la propria umanità necessiterebbe? Quanti percepiscono la propria vita ed il mondo in cui sono immersi sempre più al pari di meccanismi perfettamente oliati e funzionanti (in virtù del sempre più raffinato perfezionamento “tecnico”), accorgendosi tuttavia al tempo stesso di non rappresentare, di quel meccanismo, nemmeno il minimo ingranaggio, nemmeno una piccola vite, nulla di nulla?

Questo è il nichilismo di cui i nostri cari filosofi tedeschi hanno parlato talvolta in maniera micidialmente profetica. Ma sentite ora cosa ci racconta Franco Volpi, nel libro cui facevo cenno in apertura, riguardo alle ricette ipotizzate da Jünger, in parallelo dialettico con Hiedegger, per tentare di porre degli argini alla dilagante invasione del nichilismo contemporaneo. E poi ditemi se tutto questo non vi suona curiosamente, anche se un po’ vagamente, “andarperpensieroso” (nel senso del luogo bloghesco qui presente…).

Ecco i brani epifanici più intensi:

«…Jünger prospetta […] la possibilità di un baluardo interiore – contro gli appelli delle chiese, contro la minaccia del Leviatano, contro i sistemi dell’organizzazione -, e raccomanda un atteggiamento di resistenza che permetta di conservare, nel deserto che cresce del nichilismo, qualche oasi di libertà. Queste oasi – la morte, l’eros, l’amicizia, l’arte – nelle quali può fiorire quello che Jünger chiama la “terra selvaggia” (Wildnis), custodiscono il territorio vergine dell’interiorità, in cui l’individuo, corazzandosi contro ogni attacco, riesce a mantenere l’equilibrio e a resistere al risucchio del nichilismo…».

Jünger, in sintonia con Heiddegger, individua in due precise categorie umane, “pensatori” e “poeti”, i nuovi “eroi” contemporanei, primari protagonisti attivi nella creazione di simili “oasi”:

«…Come in quest’epoca la poesia autentica si muove nelle prossimità del niente, parimenti nel campo dello spirito ogni sicurezza si fa problematica, si sgretolano le costruzioni delle filosofie barocche e il pensiero va in cerca di nuovi appigli […]. Il comune carattere sperimentale di pensiero e poesia corrisponde in modo essenziale alla situazione epocale nel nostro tempo. In questo senso Jünger è solidale con la tesi heideggeriana della “viaticità” del pensiero, del suo essere continuamente “in cammino”, per “sentieri interrotti”, del suo orientarsi come “segnavia” …».

«…In prossimità del niente…» avete letto bene, proprio così. Vi viene in mente qualcosa che sia situato più “in prossimità del niente” di questo mio blog sempre proteso, a suon di fraseggi sul nulla, alla difesa dei residui di bellezza eventualmente rintracciabili fra le pieghe del reale?

Il pensatore ed il poeta, dicono dunque Heiddegger e Jünger, ma io vi aggiungerei a questo punto anche una terza figura: il “viandante per pensieri”.

giovedì 26 gennaio 2012

Gillipix is coming out



Cari amici viandanti per pensieri, non so se ve ne siete accorti, ma la foto con cui apro l’odierno articoletto ritrae un tizio a voi molto noto. 

Come, non mi avete riconosciuto? 

Mais oui, ces’t moi, it’s me, “…a són mè…”, “...sónghè ijè...”.

Sono io: quella vecchia pellaccia di un Gillipixel, ripreso ai tempi in cui aveva appena iniziato a zampettare in autonomia. Come si evince in maniera lampante dall’immagine (quella che avvinghio con strabiliante padronanza di mezzi è una mia vicinetta di casa dell'epoca), fin da allora si palesava già in tutta la sua evidenza l’agevole propensione alla “playboyosità” a me connaturata, attitudine che avrebbe di seguito contrassegnato tutto il successivo fluire dei miei anni. Peccato che col tempo, sarebbe intervenuto un fattore linguisticamente deprivante: il “play” sarebbe decaduto, perdendosi irrimediabilmente per strada, lasciando posto solo ad un’esclusiva “boyosità”. Ma prendendola per di qui, si andrebbe a finire tutto su un altro discorso.

La cosa che mi sono sempre domandato invece è un'altra: dove sono andati a finire i noi stessi del passato? D'accordo: ogni individuo è, in teoria, un essere unico, con una sua identità definita, tratti caratteriali precisi, personalità più meno stabilita, conclusa e “conchiusa”, e così via. Eppure, ogni individuo è al tempo stesso anche una sintesi di infiniti “sé”, un essere che per ogni secondo della vita vissuta è stato di volta in volta una persona nuova, gradualmente mutata in un fisico diverso e probabilmente anche in un animo mutato, attimo dopo attimo, sommatoria umana di infinitesimali diversificazioni accumulate per impercettibile stillicidio cronologico. Se non ci va di esagerare troppo, diciamo pure per ogni minuto, o per ogni ora, o per ogni giorno. Sta di fatto che ognuno cambia incessantemente, pur rimanendo continuamente se stesso. 

Non è nient'altro che l'eterno mistero del tempo, considerato, se si vuole, da un gillipixevole punto di vista. Perché se è lecito, seppur piuttosto fantasioso ed utopico, interrogarsi su dove siano andati a finire i “noi stessi passati”, è altrettanto “sgangherevolmente” fascinoso domandarsi dove minchia se ne stiano rintanati in questo momento i noi stessi di domani. 

In un interessantissimo articolo letto recentemente sull'inserto domenicale del “Sole 24 Ore”, a firma di Carlo Rovelli, si dice che il concetto di tempo di fatto scaturisce in noi da una limitazione, da una magagna, da una circoscritta capacità operativa insita nelle umane possibilità di prendere contezza del reale, di percepire la realtà intorno. Di fatto, il tempo preso “di per sè”, considerato come entità oggettivamente isolabile nei confini del reale, nessuno è mai riuscito “vederlo” o ad indicare “dove si trovi” effettivamente. Del tempo ne possiamo parlare solo “di seconda mano”, “per sentito dire”, esclusivamente in relazione a nostre esperienze: il sole ha fatto un certo tratto di cielo e diciamo che sono passate un tot di ore; le lancette hanno coperto un data porzione di cerchio, la sabbia è calata di una precisa quantità da una vaschetta all'altra della clessidra, e concordiamo sul fatto che è trascorso un determinato lasso di tempo, e via di questo passo. Però, come dice benissimo Carlo Rovelli: «...non vediamo mai “il vero tempo”. Vediamo solo oggetti che si muovono...».

Quando lo estrapoliamo completamente da un contesto di confronto e commisurazione “esperienziale”, riguardo al tempo non sappiamo più dire la benché minima lussureggiate e stra-beata fava. Considerando  dunque questa strettissima parentela consustanziale che intercorre fra tempo (sempre a braccetto col suo cugino “spazio”) ed esperienza, giustamente fin dai tempi di Kant si cominciò a dire che il tempo e lo spazio sono categorie connaturate alle modalità specifiche di cui l'uomo dispone per poter ricevere input conoscitivi da quella fonte di dati che va sotto il nome di “realtà”. In parole povere, le nostre proprietà intellettive (da “intelligere”, “leggere dentro”...faccio un po' di ermeneutica campagnolesca...) sono impostate in modalità “spazio-temporale”, capiscono solo la lingua dello “spazio-tempo”.

Fin qui tutto bene, se ci accontentassimo di seguitare a fare il nido in ambito tardo-settecentesco, con le nostre belle parrucche bianche ben calcate sulle orecchie, ciprie a chili per coprire il fatto di essersi lavati poco, braghe al ginocchio e candide calze ad “impolpacciarci” il sembiante, e piena soddisfazione fiduciosa nutrita nei confronti del kantiano metro di misura del mondo. 

Anche Kant si era arreso alla indimostrabilità dell'esistenza del tempo osservabile “di per sé”, isolabile nella sua oggettività. Non per questo tuttavia aveva smesso di aggrapparsi a quell'intuizione di fondo in grado di farci supporre, con un ragionevole margine di sicurezza, che il tempo da qualche parte deve pur esistere, anche se noi, da umani limitati, ne possiamo appurare l'effettività soltanto deducendola “di rimbalzo”, sulla base di “indizi terzi”.

A rimestare le carte in tavola, ci ha pensato tuttavia nel corso del '900 la fisica quantistica, la branca della scienza che ci ha condotto fin oltre le soglie dell'infinitamente piccolo. Rovelli cita una tesi sbalorditiva esposta nel 1967 da un fisico americano, Bryce DeWitt, secondo il quale, e ve la dico proprio nel linguaggio gillipixico più “bovinese” di cui sono capace, quando si comincia a confrontarsi con dimensioni spaziali infinitesimali, l'esistenza del tempo non sarebbe più necessario postularla. In parole ancor più semplici: il tempo nel microcosmo non serve, non sarebbe necessario al fine di spiegare la realtà per come essa si manifesta a quelle “ridottissi - missi - missi- missime” scale. 

Un aspetto ancor più affascinante a corroborare la validità dello studio in questione, viene da  un'equazione formulata a corredo della tesi da DeWitt, capace di descrivere matematicamente certi fenomeni infinitesimali facendo appunto a meno della variabile “t”. Nel “mini-micro-infinit-cosmo” in pratica i conti tornano anche senza il tempo.

Accogliendo il fluire di simili riflessioni ed abbandonandomi ad un senso di andar-per-spensieratezza assoluto, mi sono ritrovato poi a ricordare una bella storia di Isaac Asimov letta tempo addietro, che ben si riaggancia al mio assunto iniziale riguardo agli innumerevoli “sé” che ciascuno di noi si ritrova sparsi qua e là un po' lungo tutta la propria direttrice cronologica. L'azione si dipanava in un lontano futuro, ovviamente, e l'eroe di turno era l'agente di una sorta di polizia spazio-temporale che disponeva della possibilità di fare avanti ed indietro lungo il tempo, per andare a stanare in ogni epoca criminali e birbaccioni cosmici di ogni risma. 

Il passaggio che mi lasciò dentro un fascino incredibile capitò nel punto del libro in cui, dopo un bel po' che la vicenda era bella e che inoltrata, al nostro caro agente girovago dimensionale, in una delle sue scorribande nel passato effettuate per motivi di lavoro, capitava di incontrare il sé stesso che era stato tempo prima, esattamente alla data in cui era stato catapultato per la sua missione.

Questo sbalorditivo intreccio fantascientifico mi fulminò letteralmente la fantasia. Tenetevi pronti e allacciate le cinture di sicurezza, perché ciò che leggerete fra poco rischia di farvi cappottare sulla vostra sedia per il superamento del muro del suono del surrealismo. Cosa credete infatti che ci avrei fatto io, con il “me stesso passato”, se mi fosse toccato in sorte d'incontrarlo in quei termini? 

Sempre che l'incontro si fosse verificato (ma questo è talmente ovvio che quasi non andrebbe detto...) con un “me stesso passato” sufficientemente maturo e già in grado di comprendere il valore ed il senso di quanto sto per dire, ecco, io semplicemente, con quel “me stesso passato”, ci avrei fatto l'amore.

Piano nelle curve però, chiarisco una cosa. Non sto parlando di una mia repentina conversione alla tendenza omoerotica. Con tutto il rispetto per le tendenze sessuali di ciascuno, e con il massimo dispregio per qualsiasi atteggiamento omofobo immaginabile, non posso negare di essere nato eterosessuale. Mi è toccato di essere così e ne prendo serenamente atto, come andrebbe fatto verso la sessualità di ciascuno, sempre fatta salva la tutela, la salvaguardia, della libertà di tutti, “condicio sine qua non” per iniziare ogni tipo di discorso in merito.

Non è quello il punto dunque. E la motivazione nemmeno va ricercata nell'ambito della dimensione autoerotica. Niente di tutto questo. La molla del fare l'amore con un “se stesso passato” va invece ricercata tutta su di un piano “ipsoerotico”, dal latino “ipse, ipsa, ipsum” (nei tre generi maschile, femminile e neutro) che sta per  “se stesso”, il “propriamente sé”. 

Nell'autoerotismo c'è una persona sola, che scaturisce da una mente sola più un fisico solo (sempre ammesso e non concesso, che le due dimensioni siano separabili). In un ipotizzato e fanta-umanistico “ipsoerotismo”, ci sono invece due corpi e due menti che tuttavia al tempo stesso sono anche portatori delle rispettive unicità. E' la condizione perfetta del superamento della limitazione kantiana di percezione del tempo.

Due “se stessi” cronologicamente sfasabili e sfasati che si ritrovassero nell'eventualità di uno scambio d'intimità, darebbero vita alla perfezione del meccanismo amoroso. L'uno (o l'una) saprebbe perfettamente quello che l'altro (o l'altra) si aspetta di ricevere e di poter offrire. Ogni mossa sarebbe quella giusta, ogni gusto azzeccato, il tempismo rispettato al millesimo di secondo, l'intesa impeccabile.

Non “omo” dunque, l'attrazione fra omologhi; e nemmeno “auto”, dedizione fisica esclusiva ad un unico “sé”, bensì “ispso”, lo scambio sensuoso fra due “se stessi” scaturiti in romanzata e duplicata univocità da questa fantascientifica ipotesi “utopizzante”.

Si potrebbe obiettare che imboccando questo cammino, si perderebbero per strada fondamentali  valori aggiunti, quali quello del corteggiamento, ad esempio, insieme al correlato piacere della sorpresa nello “scoprire” il diverso nell'altro. L'appunto potrebbe anche essere vero, ma non del tutto. Il “se stesso passato” è infatti anche per buona parte individuo dimenticato dal “se stesso attuale”, mentre si può dire che quest'ultimo rappresenti praticamente un'incognita per il primo. Il gioco della seduzione sarebbe in questo modo salvo, con il pregio ulteriore di non contemplare quasi mai l'opzione del rifiuto (salvo casi eccezionali di estremissima auto-disistima).

In questo senso si concreta allora l'odierno outing gillipixiano: eterosessuale, se considerato sotto risvolti del reale confezionati in carta da pacchi kantiana, tutti belli incasellati nella loro spazio-temporalità d'ordinanza; “ipsosessuale” invece, se proiettato nella “asimoviana” eventualità di uno “sparigliamento” del sé in una serie di molteplici “se stessi” scaturiti dallo rimescolio dell'immenso mazzo di carte dell'apparato cronologico.

So che i più staranno a questo punto pensando: «...Eccolo là! E' andato, ci siamo giocati il Gillipix. Stavolta è proprio partito via di melone senza più speranza.. Peccato, non era neanche un tizio così antipatico, finché è durato...». 

Ma so anche che i migliori di voi, se ormai un po' vi conosco, cari amici viandanti per pensieri, tra una riflessione e l'altra di siffatto tenore, si saranno anche lasciati un momento andare, assestando bacini ed abbracci all'aria tutta intorno, nella malcelata speranza di riuscire ad abbrancare un qualche “sé” recente, rimasto per sbaglio impigliato e sospeso nelle maglie fantasiose di una spazio-temporalità adattata su misura della propria sete di fantastico.

domenica 22 gennaio 2012

Restaurant “Chez Gillipì”: nouvelle cousine mais ancien stronsè


Lamentarsi troppo dell’epoca in cui si è nati non è mai sintomo di eccessiva saggezza. Non foss’altro che per due semplici motivi.

La prima considerazione è tanto banale da creare quasi sconcerto: a ciascuno è stato assegnato il proprio tempo ed è in quello che gli tocca vivere. Potrà immaginare di compiere continue ed irrequiete capriole cosmiche, fantasmagoriche piroette trans-dimensionali, instancabili avvitamenti carpiati crono-centrifughi, ma alla fine dovrà sempre rassegnarsi a mettere il cuore in pace: dal proprio tempo non si fugge, sempre lì ci ritroviamo piazzati, e non ci sono “sacramentate” che tengano.

La seconda motivazione deriva a stretto giro di ragionamento dalla prima: siccome dal proprio tempo non si può evadere, tanto vale sfruttare al meglio le opportunità che esso ci presenta, concentrarsi su quelle, lasciando perdere il più possibile le magagne e le faccende che non funzionano tanto bene.

Fin qui tutto a posto, dunque: le esigenze della razionalità e del buonsenso sarebbero salve e noi ci sentiremmo con la coscienza in ordine. Resta però il fatto che prendere un po’ in giro il proprio tempo è anche operazione parecchio divertente e quindi, ogni tanto, non fa male piazzare un calcio in culo alla ragionevolezza e lasciarsi andare ad un sano sbeffeggiamento auto-epocale.

Una delle più perniciose propensioni involutive da un punto di vista culturale introdotte dagli anni recenti, è la malsana tendenza ad edulcorare la realtà per mezzo di una sua verbale “eufemistificazione” (Squili, se sei in ascolto, spero tu sia fiero di me per questo funambolismo semantico degno dei tuoi migliori...). Si creano di continuo bizzarri sostituti linguistici con la malsana e subdola pretesa di smussare aspetti meno gradevoli del vivere, oppure assecondando la patetica volontà di investire di complessità nobilitante talune circostanze del mondo di fatto irrimediabilmente semplici e lineari.

Ecco allora che il linearissimo “spazzino”, fino a qualche anno fa verbalmente giustificabile con chiarezza ed immediatezza degne di un teorema pitagorico (in gillipixilandese è addirittura euclideo: “spasòn”), di colpo si è tramutato nel mefitico “operatore ecologico”. La cara e vecchia scuola, fosse essa “materna”, “elementare”, “media” o “superiore”, è stata orribilmente sfigurata dal burocratese più petulante e “palazzochigico”: “primaria”, “di primo grado”, “secondaria”, “dell'infanzia”...ma va a dà via i ciàp!!!

Per non parlare del settore mangereccio. Uno degli ambiti dell'umana comunicazione più duramente colpiti dal flagello linguistico “edulcorante” è proprio quello dei menù nei ristoranti o trattorie che dir si voglia. Ormai nessun livello è più risparmiato, anzi, si registra una tendenza al regresso sempre più marcata su tutti i piani dell'italico ristorare. Ora, io non è che sono un frequentatore così assiduo di “mangiatoie” extra-domestiche, ma non ci vuole molto ad accorgersi del fenomeno. Se ci avete fatto un po' caso, è tutto un florilegio di vezzeggiativi, diminutivi, “abbellitivi”, “semi-scoreggiativi” sintattici, da farteli quasi immaginare tutti là dietro in cucina, uniti in combutta per tentare la sortita di serviti uno scarpone bollito, cercando di farti bere che si tratta di tenerissimo stracotto bovino.

E poi, al di là delle più svariate forme di “sottodimensionamento” delle parole, al fine di dotarle di una maggior “grazia pretesa”, si sprecano i possessivi o gli specificativi esaltativi della proprietà privata: “il nostro” vino, “la nostra” zuppa inglese, il brodone sapido di verdurine “della casa”, la frittatina “del casale” e così via. Mai una volta che, così, per la soddisfazione di cambiare un po', ti portano un piatto dalla casa di fronte: tutti in casa loro, ce li hanno sempre!

Non venite dunque poi a lamentarvi con me, non ditemi che non vi avevo avvertito, se fra qualche tempo, dopo esservi comodamente seduti al vostro posto cortesemente indicato dal cameriere, magari in piacevolissima compagnia, sfogliando la carta delle portate, vi ritroverete  a leggere simili eccellenze di fatuità mentale:

- I nostri antipasti frammisti al fiorfior di salumeria:

Il salamotto grimaldelloso della Val Viappiona adiagiato in letto matrimoniale dell'ordine della giardiniera con striature cangianti di balsamo d'aceto

Cubetti maltagliati di Mortadello della casa insapiditi al sapor selvatico malsaporito

Cartevelinità al proscutello di maialetto Smugo infioccardate da sbocciolature di burro da mungitura manuale con antico metodo del tiratetta vellutativo

- I nostri primi dalla fresca riserva pastiera di Nonna Mattarella:

Maltrattati all'uovo con bordure di besciamellità agli spinaci nani cavolfiorati in rugiada di vino fatuo

Spaghettini al capel di Venere inforforiti di parmigiano-cagliaritano con arricciature d'origanetto a canne mozze

Crespellonze della casa impaludate in alluvionale contornatura  vegetale alle spontaneità di bosco

- I secondi del nostro chef Charlì Mariòn de la Place Concorde:

Piallature di salmoncello pescato al balzo con carpitura da zampa d'orso bruno, in salamoia delle isole Smargiasse e rabbuiatura di salse

Medaglioni di vitellino slattato metodo Montessori percolati in purea di primizie di campo

- La nostra carta dei dolci di Zia Adalmanza:

Tiramigiù alla giavanese rammendato con contrappunti vaniglinati al fior d'agrume

Pannicella ricotta del mastro casaro in pioggia caramellata

Cremetta del vicolo ingiallognolita con spruzzature di mentuzza dell'erba del vicino

- Gran digestivo finale della casa:

Il Purgone di Nonno Rimbambino all'essenza di petali di sturabuso inodorito con frescosità di stagione

giovedì 19 gennaio 2012

Cyrano de Gilleràc



Il raccontare attraverso “storie di finzione” si può dire forse la più antica fra le forme espressive e comunicative. Il perfetto antenato primordiale di questa propensione umana lo ritroviamo nelle forme del mito. Nel mito si riassume il nucleo di senso più puro ed originario insito nell'atto del “narrare”.

Eppure stupisce il fatto che l'essenza di questa modalità di scambio culturale, sociale, sentimentale e spirituale fra gli umani, non solo non sia mai passata di moda, ma acquisti sempre più fascino, magnetismo, profondità, anche in un’epoca come la nostra, così ricca di conquiste tecnologiche avanzatissime, satura di consapevolezza scientifica “positiva”, all’apparenza largamente acquisita ed archiviata come patrimonio assodato di verità riposte alla luce del sole della ragione.

La sete di indagine esistenziale è dunque a tal punto inestinguibile? E come mai essa ritrova un habitat a sé così confacente proprio nell’ambito della dimensione narrativa?

Il mondo dei romanzi e dei racconti ci attrae in maniera così intensa, perché in esso possiamo riconoscere tratti della nostra personalità, messi a nudo dalla sapienza del narratore in forma mai conosciuta prima così limpida e chiara. In pratica, siamo calamitati dalle “storie” perché in esse ci riconosciamo. E’ questa la “molla egocentrica” primaria che fa scattare il marchingegno.

Per di più, questo riconoscersi nelle “storie” presenta un ulteriore ingrediente di seduzione.

Nei racconti, nei romanzi, nelle opere “narrative” in genere, non riconosciamo noi stessi attraverso l’oggettivo fermo immagine di una fotografia. Non è un’asettica scheda descrittiva quella che rinviene dall’incantesimo della dimensione narrata. In virtù dello stratagemma innescato dall’autore, mentre finge di  veder vivere i suoi personaggi, ciò che invece riconosciamo in quell’ambito sono “parti della nostra personalità” sorprese dal vivo, mentre fluiscono nel tempo e compartecipano allo scorrimento esistenziale negli istanti del suo farsi.

Ho scritto “parti della nostra personalità”, perché difficilmente accade di riconoscersi totalmente in un solo personaggio compiuto. L’interiorità di ciascun individuo è faccenda molto complessa e lo stesso può dirsi dell’architettura di certe opere narrative. L’incontro di due complessità difficilmente può dunque risolversi in forme lineari. Ecco perché molto spesso l’identificazione, il moto di empatia, non rimane circoscritto ad un personaggio definito, ma si accavalla, si interseca, si contamina, nei e dei lineamenti di più personaggi di un’opera.

Non solo. A volte ci si accorge pure che certi tratti di personaggi a noi giunti dalle profondità dell’universo narrativo, si amalgamano, si contagiano nella re-invenzione reciproca, si nutrono vicendevolmente della rispettiva deformazione, per dare vita ad inedite forme di auto-identificazione.

E' stato forse percorrendo queste contorte strade, dunque, che Cyrano e Cristiano si sono inusitatamente confusi in me. Fusi insieme, nel confondersi.

Com’è arcinoto, nell’opera di Edmond Rostand, Cyrano e Cristiano incarnano una dualità virile ideale, beffardamente scissa da una sorte burlona. Da una parte Cyrano: l’animo nobile, coraggioso, libero fino agli estremi confini concessi da una personalità che mai conosce orizzonte troppo vasto da non lasciare ogni volta rinnovato adito al desiderio di spingersi oltre. Sul versante opposto, Cristiano: un individuo tutto sommato mediocre, di fatto privo di qualità interiori degne di nota, buono, ma goffo nell’animo e nei modi di fare.

Il prezioso tesoro della sensibilità di Cyrano è tuttavia imprigionato con sardonico intervento del destino nello sgraziato forziere di quel suo buffo sembiante, al quale fa da coronamento più sarcastico che mai un naso abnorme sino a rasentare il grottesco. Mentre la vacuità e l’insipienza di Cristiano possono contare su di un “abito fisico” sfavillante, su un aspetto esteriore aggraziato, elegante, su di una leggiadria virile esemplare nel corpo. Cyrano e Cristiano sembrano dunque impersonare un uomo ingiustamente scisso alla nascita in due personalità e due aspetti. Ciò che possiede l’uno, completerebbe superbamente l’altro. Ciò che manca a ciascuno li rende esseri limitati, individui esistenzialmente zoppi.

Celeberrima è la scena in cui i due provano in qualche modo a fondersi in un “unico”, recitando, sotto il balcone di Rossana, la donna da entrambi amata, versi forgiati nella penombra da Cyrano, ma declamati in piena luce da Cristiano.

Dopo aver letto le vicende di Cyrano e Cristiano alcuni anni fa, e rimeditato in merito tante volte nel corso del tempo, mi sono gradualmente reso conto di come i due personaggi, sempre in forza della magica mutevolezza trasmissibile attraverso la dimensione narrativa, si erano finalmente riconciliati in una sola persona.

Quella persona credo di essere io.

Non che la cosa presenti un tale rilievo, da venirvela a raccontare qui, oggi. Se un certo interesse può risiedere nell'esposizione di una simile esperienza personale, è rintracciabile sempre in un'ottica d'indagine riguardante il fenomeno narrativo e culturale.

Com'è che mi sono ritrovato a riconoscermi in una sorta di fusione maldefinita di Cyrano e Cristiano? Per fortuna, il fenomeno non si è verificato nelle modalità letterali che ci si sarebbe potuto aspettare. Il mio aspetto esteriore non ha niente delle deformità cyraniane e nemmeno delle eccezionalità estetiche di Cristiano. Credo di essere né troppo bello, né troppo brutto. Niente mi impedirebbe dunque di sortire in una riuscita sul piano “sociale” più che soddisfacente, magari riuscendo a sfiorare anche punte di brillante affermazione, se non di successo.

Il differenziale cyranesco si gioca invece tutto ad un livello interiore.

La goffaggine di Cristiano me la ritrovo sempre fra i piedi in questa fondamentale attitudine “anti-recitativa” che accompagna tutti i miei modi di fare con la gente. Non ho la battuta pronta, nel confronto dialettico risulto spesso deficitario, non so accompagnare il mio dire con modi accattivanti, né tanto meno convincenti. Il mio forte è ascoltare, mentre arranco nell'arte del farmi ascoltare. La mia presenza in un ambiente, in modo particolare se le persone presenti sono in discreto numero, difficilmente s'impone, è sempre flebile e delicata, scarsamente assertiva.

Ecco dunque dove tutta la mia immedesimazione nel personaggio di Cristiano principalmente si manifesta: in questa insufficiente “perizia sociale”, in questa insipienza nel rapporto con gli altri, una dimensione per me spesso fonte di difficoltà. Anche se molte volte, paradossalmente proprio in virtù di queste “eccezionalità” a loro modo preziose, le soddisfazioni risultano altrettanto copiose, spesso manifestandosi in forma di insospettabili mini-diamanti rinvenuti nella grande miniera della sensibilità umana, mia ed altrui.

E che fine ha fatto in tutto questo discorso la figura di Cyrano? Se non si nasconde dietro il mio naso (per altro di discrete dimensioni, ma non tali da far rivivere con sufficiente fedeltà l'abnorme sembiante dell'impavido spadaccino poeta), in quale altro anfratto della mia personalità è rimasto impigliato? La risposta è presto detta. Anzi, l'avete avuta sotto gli occhi ogni volta che vi siete imbattuti a leggere un mio sgangherato articoletto, un raccontino bislacco pubblicato qui sul blog, oppure uno dei miei innumerevoli e debordanti fraseggi sul nulla.

Cyrano, per quanto mi riguarda, abita nella mia scrittura. Solo in quella dimensione mi sento di possedere  propriamente ed interamente una nobiltà d'animo capace di trattare in punta di fioretto e di florilegio linguistico qualsivoglia confronto dialettico e, per estensione, sociale. Solo scrivendo posso gustare appieno di un senso di libertà sconfinata che non teme gli ostacoli frapposti dalle convenzioni e,  pur sempre nel limite delle umane possibilità, non teme nemmeno restrizioni esistenziali di sorta.

E' nella disgraziata grazia della scrittura che rimane impigliata la mia aspirazione ad elevarmi, a salire più in alto, ad affermare la mia interiorità più bella, a librarmi in cielo vestito di una personalità compiuta ed elegante. E' nella piacevole e dorata “prigionia” della scrittura che si condensa tutta l'ambivalente identificazione che mi pare di scorgere con la contraddittoria dualità Cyrano-Cristiano. Solamente coi piedi ben saldi su quel piedistallo dalle fondamenta poggiate sopra sillabe e proposizioni, podio ideale limitante ma ad un tempo foriero di potenzialità infinite, riesco a sferrare stoccate e fendenti che non conoscono rivali, colpi leggeri, quanto possono essere i pochi milligrammi di una manciata di pixel, e pur sempre pesanti dell'intensità di cui soltanto un'anima nuda sa essere capace.

domenica 15 gennaio 2012

Codazzo emotivo



Ogni opera frutto della creatività umana che sia indirizzata alla diffusione di particolari contenuti e significati, attraverso l’utilizzo dei canali espressivi più diversi, può essere vista anche come un “dispositivo” atto ad innescare emozioni. La propensione è di volta in volta variamente graduata, a seconda della maggiore o minore “intenzionalità artistica” insita nell’opera. Di fatto tuttavia una ricerca dell’emozione suscitata è sempre presente.

L'ho presa su un po' alla larga e concettuosa, ma nella sostanza ho detto una roba abbastanza scontata. Quando l'uomo si mette in comunicazione coi propri simili servendosi di un linguaggio, qualunque esso sia, non può fare a meno di metterci dentro un pizzico di emotività, pur anche minimo, ma sempre imprescindibile. Anche nel congegnare il più asettico dei saggi scientifici, tanto per fare un esempio estremo, l'autore si premura di escogitare un'architettura espositiva che possa giungere al lettore in maniera piana e lineare, che non s'incagli contro il limite della sua disponibilità a comprendere, ecc.

Non sono di certo il più indicato a discettare di temi simili, ma anche solo ripensando alla mia modesta esperienza scolastica, mi sento di dire che addirittura la matematica può rivelarsi fonte di emozioni molto intense. E non mi riferisco solo alla fifa di beccarsi un 4 in pagella. La bellezza nella costruzione logica di certi teoremi di geometria, me la ricordo ancora oggi molto favorevolmente, con entusiasmo analogo serbato all'epoca alle migliori poesie.

Lo stesso “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, il capolavoro dei capolavori per quel che concerne la ricerca di un'oggettività assoluta nell'ambito delle potenzialità del linguaggio stesso, rimane pur sempre uno scritto capace di trasmettere un rimarchevole coinvolgimento estetico, in forza della propria eleganza compositiva e strutturale.

Figuriamoci cosa succede poi quando abbiamo a che fare con opere nate direttamente con l'intento di stuzzicare, in misura pressoché pura, le riserve emotive del destinatario. Come nel caso di tanti film, per esempio.

Fin qui insomma non vi ho detto granché di nuovo. Una cosa curiosa però, da me appurata qualche sera fa in modo più lampante di quanto mi fossi mai reso conto prima, è che può anche succedere di essere presi dentro una “scia emotiva a strascico”, per così dire. Capita magari di vedere un film in grado di emozionare in modo notevole e subito a seguire di immergersi fra i flutti evocativi di un'altra pellicola, per poi passare ancora appena dopo alle suggestioni di un libro, tanto che alla fine ci si ritrova scombussolati in un piacevole smarrimento entro il quale si stenta ad assegnare a ciascun territorio emotivo esplorato la paternità effettiva.

La serata l'avevo iniziata con un film di “pancia pura”, intitolato «Nella rete del serial killer». Stando ai criteri da me medesimo definiti alcune puntate fa, si è trattato di un film “onesto”, se si eccettuano alcune sbavature di gusto e qualche pecca nella risoluzione finale della trama. Il suo obiettivo principale era suscitare tensione nello spettatore, inquietudine, paura ed amenità simili. Non sarà certo un capolavoro del genere (solo pensando ad Hitchcock o a Kubrick, ogni paragone crolla miseramente), ma di fatto un buon prodotto di artigianato filmico sì, lo possiamo considerare tale. In ogni caso, quel che importa nell'economia del presente discorso è che di adrenalina se ne manda giù durante la visione, indubbiamente.

Il serial killer in questione è un pazzoide che impianta tutto un marchingegno online, in modo da trasmettere al mondo intero l'agonia delle sue vittime via web. Non solo. Fa anche in modo che i metodi di uccisione di volta in volta messi in atto, tutti basati sul criterio di un incremento graduale del supplizio inflitto, risultino accelerati in proporzione al numero di persone connesse al suo perverso sito. Già di per sé l'idea è sufficientemente malvagia e degna di una mente diabolica fortemente malata. Se poi ci si aggiunge il fatto che narrativamente è giostrata abbastanza bene (pur con alcune magagne qua e là, come detto), è del tutto giustificato dire che alla fine ci si ritrova ad osservare i titoli di coda con una buona dose di farcitura emotiva in corpo.

Ora, sono certo che nessuno di voi ne avrà mai sentito parlare, perché mi sto inventando la cosa esattamente in questo momento, ma dovete sapere che esiste un'unità di misura della “farcitura emotiva”. Si tratta del “dreammone”, quantificabile nella ragione di un lascito emotivo depositato nell'animo equivalente all'esito postumo di un sogno di media intensità. Se ci fate caso, al di là della “idiotezza” del mio metaforizzare, dopo aver goduto della lettura di un libro o di un film particolarmente coinvolgenti, ci si sente come reduci da un sogno. Ed è vera anche la controprova: se un sogno non ci ha regalato emozioni degne di nota, svanisce al risveglio, così come la storia di un libro o di un film, quando si richiudono le pagine, si esce dalla sala o si spegne la tele.

Questo film, «Nella rete del serial killer», di “dreammoni”me ne aveva lasciati dentro parecchi. Me ne sono reso conto quando, non pago della scorpacciata emotiva, ho voluto nicchiare ancora un po' prima di recarmi a letto, ed ho fatto partire il dvd di uno stupendo cartone animato del maestro giapponese Hayao Miyazaki: «La città incantata». Le opere di Miyazaki mi lasciano sempre leggermente perplesso, stranito, ma assolutamente mai indifferente. Di lui avevo già visto «Il castello errante di Howl». Innanzitutto, la ricercatezza surreale delle storie è la prima cosa che colpisce, e poi s'impone la bellezza delle immagini. Nel film in questione, «La città incantata», la storia è più bizzarra ed evocativa che mai e addentrandosi nelle vicende, ci si accorge che il tema conduttore s'impernia fondamentalmente attorno alle paure infantili. Non che sia palesemente dichiarato, ma lo si subodora, te lo senti filtrare per la pelle.

Qui viene il punto curioso del mio scrivere di oggi. Mentre mi calavo nelle nuove atmosfere di Miyazaki, sentivo che il substrato di “dreammoni” depositato fra le pieghe della mia sensibilità dalla visione di «Nella rete del serial killer», continuava a lavorare sotterraneo, macinava ancora “quanti” emotivi. Le sensazioni risultanti erano parecchio originali: una sommatoria non meglio definita di spunti emotivi, uno smarrimento fra contraddittorie sensazioni, che tuttavia, non so in virtù di quali insolite alchimie, sembravano compensarsi a vicenda, amalgamarsi con profitto, distribuirsi con ordine fra i ranghi della mia capacità ricettiva delle gradazioni dell'animo. Le paure infantili erano rinfocolate dal soffio potente delle terrorizzanti situazioni adulte visionate nel primo film. L'irrazionale, il tremendo, il terrificante, il terrorizzante, si saldavano armonicamente all'ignoto, all'inesplorato ed al senso calamitante che con regolarità accompagna queste due ultime dimensioni. La poetica della seconda opera, insomma, si nutriva del sottofondo sensazionale depositato dalla prima, innalzando in me questo strano edificio di reazioni interiori.

E non era mica finita lì. Quando ho sentito risuonare internamente il tipico richiamo biologico all'odor di legno norvegese, «...it's time for bed...» (questa la capiranno solo i beatlesiani più incalliti...), è proprio lì che mi sono recato: a letto, appunto. Ma non c'è sonno che si possa chiamare tale, per me, se non è preceduto dalla lettura di alcune pagine. Ho allora inforcato il tometto che va per la maggiore in questo periodo sul mio comodino, «Tutti i racconti western» di Elmore Leonard, per arrivare ad accorgermi che il lavorio di sensazioni in me continuava imperterrito, con code ancora ben evidenti.

Non c'è nulla di meno trasognato, di più realistico, di queste asciutte vicende della gloriosa frontiera americana. Eppure, contagiate dalla scia di significati lasciata dalle altre due opere, le atmosfere che dalle righe mi giungevano alle pupille riverberavano echi di terrori atavici, rifrangenze di rimbombi surreali, indefinitezze identitarie disorientanti. Cos'era successo? Gli input emotivi di tre diverse suggestioni più o meno “artistiche” erano entrati in risonanza fra di loro nel mio animo, dando vita ad un reciproco incrementarsi a vicenda.

Poi finalmente, con vostro estremo sollievo, ho spento la luce, mi son girato sul fianco prediletto e ho imboccato la strada della “ronfa”, già bello e che pronto per il mondo dei sogni, farcito com'ero di “dreammoni”, tal quale un panzerotto ripieno di mozzarella thriller, pomodoro favolistico e origano western.

lunedì 9 gennaio 2012

Un pomeriggio gualdrapputo


 
Chi passa abbastanza spesso da queste parti e perde qualche minuto a leggere, avrà ormai capito che ho un “forte” debole per il linguaggio turgido e rigoglioso, ridondante, straboccante, anche se volendo, e sforzandomi un po’, saprei scrivere in maniera più asciutta e stringata.

Non a caso, sono convinto che questo sia anche un po’ il principale “pregio-difetto” della mia prosa. Può piacere o fare schifo, ma è così che mi viene naturale e spontaneo scrivere. Ho discettato spesso intorno all’atto dello scrivere per come lo reputo io, ossia uno strumento fenomenale a disposizione di ciascuno per elevarsi a vette di libertà inaudita. Se tale è quindi l’unico obiettivo del mio scrivere, non avrebbe senso farlo altrimenti da come maggiormente mi aggrada. Addirittura, e vi sarete accorti anche di questo, quando non trovo le parole che ritengo adatte al concetto, all’emozione, alla sfumatura di realtà giusta da trasmettere al lettore, vuoi per carenza del vocabolario italico, vuoi, il più delle volte, per ignoranza personale, mi forgio da me stesso strampalati termini ritagliati su misura.

Ho avuto una conferma della mia predilezione per le parole rigonfie, sensuose e, spesso e volentieri, inventate, giusto qualche pomeriggio addietro. Col favore di queste giornate d’inverno mal camuffato, miti come la languida mammellona pendula di una burrosa matrona, quest’anno ho anticipato a dismisura la mia prima uscita stagionale sull’argine, per una passeggiata in bici di chilometraggio discreto. Rasentando della mia gommosa duplice presenza il verde impellicciamento posto a guarnire le pendici del manufatto fluviale, vellicavo dunque col pedale quei quattro ciuffi d’erbetta ante-smeraldina. Sotto le carezze pur sempre brinose di un venticello traverso, sbadigliavano quei riccioli erbosi il proprio stupore per l’ingannevole risveglio primevo così presto giunto, pacatamente protestando essi ciuffetti, nel medesimo tempo, alla volta dello sbilanciamento stagionale, a suon di battiti di loro ciglia, qua e là ancora giallognolamente chiazzate di cisposità vegetali.

Il frizzore eucaliptico dell’aria frigorifera tutt’attorno, filtrando pungente per lo spalancato accesso alle nari arrese, mi pneumava con vigoria l’antro polmonare, fatto per l’occasione caverna vasta di polari echi respiratori, immensi ed ultra-umani. Al tocco occasionale di un qualche polpastrello indagatore, la muscolatura delle cosce dichiarava intero il proprio sofferto godimento, tratto con avidità suggendo nutrimento cinetico direttamente dalle circolari movenze imposte con ineluttabile logica dalla legge pedalatoria. Addirittura, complici le sferzate di tramontana ibernizzante, nel mezzo esatto del cammin di nostro corpo, mi ritrovai per una rimpicciolita virilità oscura, che la diritta confidenza con le usate dimensioni era smarrita.

Mi trovavo grosso modo ancora allacciato a quella serica divagazione mentale, interpostasi ad un certo punto lungo il flessuoso nastro a fiocco del mio tempo, quando lo sguardo mi cade sul piccolo ricovero equino che s’incontra ad una certa altezza dell’escursione biciclica sull’argine. Quattro o cinque animali, reduci a loro volta da una salubre trottata, si beavano placidi sotto le attenzioni ristoratici delle due signore gerenti dell’animalesco albergo in questione. Un paio di quelle eleganti bestie si sottoponevano di buon grado alle sapienti ed amorevoli strigliate delle padrone, mentre gli altri individui della ridotta mandria attendevano pazientemente il proprio turno, guatando tutto in giro e spargendo qua e là le tipiche loro occhiate boscose, mentre rilasciavano dai possenti corpi una fumiggine aromatica d’intenso afrore cavallesco, le ampie froge interamente spalancate ad accogliere il mondo in respirata foggia.

E’ stato in quell’attimo preciso che l’epifania verbale ha preso possesso di me, commischiandosi quale linfa semantica al liquore più intimo del mio essere linguistico. Affondando nella piena palude della mia suprema insipienza ippica, mi sono messo a recitare internamente una sorta di tiritera composta da termini arcani semi-travisati, uditi in chissà quale piega della lontananza d’un tempo ormai svaporato con lo scolorimento degli anni. «…Quello è senza dubbio un roano, l’altro uno stallone bajo, e ancora là, ecco la maestosa giumenta dalla rilucente livrea morellata…» pensavo con vigore, sicuramente centrando meno la realtà che se avessi assegnato alle medesime bestie tonalità a pois e gradazioni cromatiche psichedeliche.

Ma poi ancora, notando alcuni dei cavalli in attesa della razione di coccole pomeridiana, mansuetamente supini alla protezione offerta lungo tutto il dorso da un qualche rustico panno, ecco che sono stato illuminato dal termine cruciale: «…Gualdrapputo!...». Esattamente lì, e in nessun altro anfratto linguistico diverso da lì, risiedeva il senso più fondamentale della cavallità trasudante dagli eleganti corpi: nell’essere essi profondamente ed intensamente “gualdrapputi”!!!

«…Gualdrapputo!...» mi sono messo allora a dire sottovoce a tutti gli oggetti, cose più o meno animate, che incontravo seguitando il mio pedalare. «…Gualdrapputo!...» dicevo al boschetto di pioppi, «…gualdrapputo!...» al misterioso casolare abbandonato in golena, «…gualdrapputo!...» al fatato sottobosco di felci ospite ad ogni ora del radente incanto di una luce che immancabilmente pare provenire da un “nessun dove” solare o lunare. «…E gualdrapputa anche a te!...» piccola lepre delle familiari steppe, che sempre fuggi in lontananza, ma mai riesci a sottrarti alla tua ineluttabile “gualdrapputitudine”.

La parola mi usciva pastosa dalla bocca, come un bacio tumido e salivoso concesso ed al contempo carpito all’atmosfera tutta con coinvolgimento e fervore estremi, assaporando in modo particolare il rugiadoso aroma di quella doppia “ppu”, sputata di gusto contro il nucleo pieno dell’inutilità concettuale più limpida.

«…Gualdrapputo, gualdrapputo, gualdrapputo!...» non mi stancavo di reiterare quel mio mantra rurale di pura invenzione. E non ho smesso fino a quando, rientrando a casa e constatando l’ulteriore riduzione dimensionale cagionata dai più intimi intirizzimenti termici, non mi sono sentito sufficientemente fiero della mia spropositata stoltezza esistenziale.


domenica 8 gennaio 2012

Ala ad ala con gli asini (Seconda parte)


«...And if a double-decker bus
Crashes into us
To die by your side
Is such a heavenly way to die
And if a ten-ton truck
Kills the both of us
To die by your side
Well, the pleasure - the privilege is mine...».
There is a light that never goes out” – The Smiths - 1986

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Si parlava dunque la scorsa volta della potenziale “presa per il culo” celata dietro certe creazioni cinematografiche, massime nel caso di film narranti “grosse palle”. Una conferma puntuale riguardo al fenomeno l’ho avuta alcune sere fa, alla visione del secondo episodio della saga Bruce Willisiana raggruppabile sotto il generico sottotitolo di “Die Hard” (o “Die Harder”, non importa). Si tratta di una pellicola vecchiotta, ma non l’avevo mai vista prima (col senno di poi, mi viene da aggiungere: e meno male…). Il titolo preciso è “58 minuti per morire - Die Harder”. Ero curioso di addentrarmi in questo secondo capitolo della storia, perché conoscevo già il primo, “Trappola di cristallo”, un film questo che una volta visto, se avessi avuto lì davanti il regista, mi sarebbe venuto da dirgli: «…Minchia, sei un grande: mi hai fatto credere per un paio d’ore che gli asini volano. E anche se, svanito l’ultimo fotogramma, rimango pur sempre convinto che non volino, è stato bello lasciarsi raccontare da te che lo possano fare…».

Di tutt’altro tono, le frasi che vorresti dire al regista della seconda puntata della “serie”, “58 minuti per morire - Die Harder”. Un tono talmente sopra le righe che, per amor di moderazione e di ripulsa verso lo sproloquio, è meglio lasciarlo appunto dove si trova: sopra le righe. E dire che le premesse per una bellissima storia di asini volanti, nella prima mezz’oretta di film, ci sarebbero tutte. Un drappello di birbaccioni internazionali, tutti fuorusciti più o meno malvagiamente dai ranghi di un qualche esercito regolare, mette in scacco nel periodo natalizio l’aeroporto civile di Washington (o era New York? Anche qui, non importa…), proprio mentre il “Brussone Willis” nazionale è lì in attesa della mogliettina in arrivo su un volo proveniente dall’altro capo degli States, ingrifato come pochi, tra l’altro, per via dell’astinenza arretrata di coccole e “smici-mici” accumulata sotto le lenzuola. E poi, ciliegina sulla torta, proprio per non farci mancare nulla, una minacciosa bufera di neve sta pure imperversando su tutta la regione circostante.

I birbaccioni fanno sul serio: isolano le comunicazioni tra aeroporto e velivoli in arrivo, assumendo essi stessi il monopolio radio, per fare il bello e il cattivo tempo sull’andamento del traffico aereo. L’obiettivo immediato è far atterrare con modalità a loro favorevoli, un non meglio precisato generale ribelle sudamericano, custodito dalle autorità e in transito per Washington (o era New York?...), sotto scorta a sua volta dell’esercito (quello dei buoni però). L’obiettivo globale dei birbaccioni (da quello che ne ho capito io…) è sovvertire l’ordine costituito, assumere il potere nel mondo, imponendo un regime dittatoriale dei “migliori”, che faccia finalmente piazza pulita degli scoreggiatori anonimi e del terribile flagello degli attaccatori di cicche sotto i tavolini dei bar (queste due ultime facezie sono ovviamente “licenze idiotiche” mie…).

Come dicevo già, gli ingredienti ideali per farne scaturire un eccelso film di grosse palle ci sono tutti, ma non dovranno passare ancora troppe scene, perché ci si accorga di come tutta la baracca della trama si metta a scricchiolare in modo pauroso, fino ad implodere nel fragoroso collasso di una vaccata senza eguali. Una prima avvisaglia clamorosa si ha quando il generale in arrivo sul suo jet sotto scorta militare, decide la sortita per dirottare di persona l’aero che lo trasporta. Un simile passaggio della trama non sarebbe stato un ostacolo per un regista “gran pallonaro” esperto. Ma questo qui invece ti imbastisce una sequenza che, se non temessi di peccare di lesa maestà artistica, definirei degna di Totò e Peppino.

Quando il senso del comico invade il senso del “pallonaresco”, per quel film è la fine. Cosa combina in sostanza il terribile generale? Dopo aver eliminato, strozzandolo, il militare addetto alla sua custodia, ingaggia una colluttazione coi piloti in cabina di pilotaggio, con tanto di spari e tutto. Li fa fuori tutti e due, ovviamente, perché, minino che si richieda ad un generale sudamericano ribelle, sa perfettamente cavarsela con una cloche d’aereo fra le mani. E’ a questo punto tuttavia che casca l’asino volante del regista. Non pago, vuole strafare, gioca l’asso di briscola della gran palla siderale e ne paga subito le conseguenze farsesche. Durante lo scontro a fuoco, infatti, su uno dei parabrezza (non so se sull’aereo si chiamano così…) si è formata una vistosa falla, causata proprio da un proiettile.

Ora, se c’è un ignorante supremo in materie aeronautiche o fluidodinamiche, quello sono esattamente io. Tuttavia, dal poco che so, mi risulta che un velivolo di quel tipo, pensato per volare negli strati più alti dell’atmosfera, una volta compromessa la pressurizzazione interna, comincia ad avere serissimi problemi a rimanere su. E forse questo, in un’ottica prettamente “pallonaresca”, sarebbe stato anche un ostacolo oltrepassabile. Ma la perla “boiosa” più eclatante deve ancora venire: infatti, non solo il generale porta a terra l’aereo, in quelle condizioni così critiche, dando prova della stessa padronanza del mezzo che avrebbe sfoderato in sella al triciclo di suo nonno, ma si pappa pure tutto il resto del viaggio con un esagerato botto d’aria che gli sfiata impietoso contro la faccia e tutto il busto, “venticello” che filtra dal mastodontico foro sul parabrezza.

Caro amico regista, anche a volersi appellare al buon nome della migliore tradizione “pallonara”, ti confesso che questo mi è sembrato esageratamente troppo. E il fatto è che non era nemmeno tutto. Una volta posati i carrelli al suolo, ci si accorge, non solo che al generale non è venuta una paresi carpiata con triplo avvitamento del volto all’indietro (grado di complicazione sanitaria 8½), come sarebbe successo a qualsiasi altro comune mortale. Non solo se la cava spazzolandosi dalle maniche della giacca qualche fiocco di neve birbantello e un po’ di brina birichina, tornando così subito in perfetta forma e abbondantemente disponibile ad affrontare nuove e sempre più esaltanti “birbaccionate”. Non bastano insomma queste tremende sbandate nel periglioso territorio dello “svaccamento” più totale. Per sommo sgangheramento nel più disastroso naufragio“pallonaresco”, si scopre pure che il generale, fino a quel momento rimasto un po’ in penombra, è interpretato da Franco Nero!!!

Confesso che a quel punto la tentazione di cambiare canale o di andarmene addirittura a letto di filato, è stata molto forte. Però ho resistito, pensando: «…Ti voglio dare un’altra possibilità, regista. Vai così, fammi sognare ancora!...». Ma lui no, testardo. Non ancora contento di quella sesquipedale castroneria, ci si è messo proprio d’impegno per fare deflagrare definitivamente il benché minimo senso del pudore e del rispetto per l’intelligenza del suo pubblico. E lo ha fatto andando a minare alla base, con potenti cariche di “dinamite del risibile”, proprio il fulcro della storia.

Uno dei passaggi cruciali e più avvincenti della trama stava appunto nell’idea di “isolamento radio” degli aerei in attesa di atterraggio. I birbaccioni, dal canto loro, sono dei tecnici delle comunicazioni coi controfiocchi e mettono in serissima difficoltà tutti gli addetti della torre di controllo, persino i più esperti, con anni e anni di servizio sul groppone. Questa era una buona carta narrativa e infatti ci tiene ben in sospeso per una mezz’ora iniziale di film. A questo si aggiunge poi anche un onesto colpo di scena, quando il più anziano ed esperto tecnico dell’aeroporto, dopo non pochi rovelli mentali e facendo ricorso a tutte le sue più estreme risorse di vecchia volpe delle onde radio, escogita una contromossa micidiale che ribalta la situazione: ora sono i birbaccioni a cadere nell’illusione di ingannare gli aerei in volo, mentre la torre di controllo può parlare, non udita dai dirottatori, con tutti i piloti.

Adesso, non so se dalla mia esposizione raffazzonata si è capito qualcosa, ma non preoccupatevi, perché anche questo importa relativamente poco. Quel che importa invece ve lo dico subito e senza perdere altro tempo. In tutto questo sofisticato valzer di mosse e contromosse tecnologiche raffinatissime, roba da 3 lauree più master al “Massachusetts Institute of Technology”, cosa non si viene a scoprire di lì a poco? Si viene a scoprire che a bordo dell’aereo su cui viaggia la mogliettina del “Brussone” nazionale, C’E’ UN TELEFONO!!!! E per di più, un cronista rompiglione lo utilizza persino per impiantare una diretta tv e raccontare a mezza America cosa sta succedendo.

Lì non ho più resistito e mi sono visto costretto a bollare quel film come definitivamente balordo, sin nelle profondità più intime del suo midollo di celluloide. Una controprova inconfutabile al mio giudizio l’ho avuta quando mi sono accorto che il più grande moto di stupore e di suspense riservato da quel film, era in fin dei conti consistito nell’insolito ticchettio riecheggiante ad un certo punto della visione dalla superficie del pavimento della mia camera: era il suono delle mie palle, cadute miseramente a terra per eccesso di sconforto estetico. Alla fine, per curiosità e con non poca fatica, ho voluto vederlo finire, il film. Ma tutto il resto della storia non ha portato altro che una misera conferma alla mia ormai sancita convinzione. Una slavina di stupidità, ingrossatasi via via al ritmo di un’escalation imbarazzante, fino ad andarsi ad infrangere fragorosamente contro l’invettiva nei riguardi del regista, che immagino sia scaturita spontaneamente dalle labbra di qualsiasi spettatore con ancora un minimo di amor proprio in corpo: «…Ma vai a prendere per il culo qualcun altro!...».

sabato 7 gennaio 2012

Il cinema ala ad ala con gli asini (Prima parte)


«...The hours to the sunrise creep, but I don't care
There is no hope for any sleep if you're not here
In another city, in another bed you're sleeping
So won't you come and visit me when I'm dreaming...»
Bedroom eyes” – Dum dum girls - 2011

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 Come a tante altre persone nel mondo, anche a me piace un sacco il cinema. Non mi reputo un esperto e nemmeno potrei pretendere di esserlo. Semplicemente, trovo bello annoverare anche questo interesse fra le mie passioni, perché ritengo che possa offrire, non solo uno stupendo modo di trascorrere il tempo (e fosse tutto qui, si ridurrebbe a poca cosa), ma soprattutto importanti opportunità di crescita culturale, di ampliamento degli orizzonti mentali, di raffinamento della proprio saggezza affettiva e spirituale.

Detto questo, se per caso mi domandaste quale genere di film preferisco, risponderei che non lo so. La classificazione entro un qualche genere, certo, ha la sua importanza. Ma la reputo questione del tutto accessoria ad un altro tipo di catalogazione, ben più decisiva. L’unica suddivisione che mi sta a cuore veramente è infatti quella che stabilisce se si tratti di un film bello o di un film brutto. So che detta così, potrà apparire una di quelle solite frasette sibilline e un po’ stupide, sparate lì tanto per il gusto di lasciare il lettore stupefatto dal quel sotterraneo sentore all’aroma di “dico tutto e niente”.

Un minimo di motivazione ve la devo, dunque. A mio parere, ci troviamo di fronte ad un film bello, quando, nell’intenzionalità e negli esiti dell’operato dei suoi artefici (dall’ultimo umile battitore di ciak, su su, sino al regista o alla stella di turno), sussistono questi tre requisiti: passione nel racconto, onestà intellettuale nel raccontare e relative competenze narrative e tecniche proporzionate alla complessità di quanto s’intende raccontare. Se queste tre componenti, o anche solo una o due di esse, non sono riscontrabili nella pellicola, oppure sono presenti in misura scarsa o con notevoli lacune, ecco che si può cominciare a parlare di film brutto, nelle più svariate gradazioni del termine.

Ecco allora com’è possibile spiegare la superabilità del discorso dei generi. Ed ecco introdotta anche una significativa postilla al medesimo discorso: possiamo trovare film belli in tutti i generi, ma soprattutto a tutti i livelli qualitativi considerati. Ovviamente, va sempre salvaguardata la valutazione del “grado assoluto di artisticità”. Una commediola spensierata e intrisa di disimpegno totale, non può essere paragonata, in quanto a grado di bellezza, ad un capolavoro di qualche maestro della cinematografia. Ciò non toglie tuttavia, che possiamo giudicare entrambe le pellicole, ciascuna secondo le “proporzioni estetiche” che le competono, a proprio modo “bella”.

In questo senso, non trovo nulla di scandaloso nel dire, ad esempio, che “Trappola in alto mare” (con quel gran caciottaro di Steven Seagal) e “Film bianco” di Krzysztof  Kieslowski, sono entrambi film belli. Ferma restando, e lo ripeto senza mai stancarmi, l’imprescindibile distinzione che ci ricorda come il primo sia di fatto un filmetto ed invece il secondo un capolavoro. Tutto sta nel non perdere mai di vista il bilancio fra “pretese” ed “esiti”. “Film bianco” si propone di dar vita ad un’indagine esistenziale e poetica di particolare spessore, e riesce perfettamente nell’intento. La pellicola con Seagal vuole invece molto semplicemente far passare allo spettatore due ore di divertimento, infarcite di onesti colpi di scena e suspence, il tutto intessuto intorno alla nobilissima arte del raccontare grosse palle, ma con intelligenza e non senza una discreta dose di ironia. Anche questo film sa tener fede al proprio “capitolato d’appalto”, ed è proprio in questa ottica (e solo in questa ottica), che possiamo definire entrambi i film belli e capaci di arrecare, pur nei diversi gradi di complessità cui si è fatto cenno, una forma di “godimento estetico” per lo spettatore.

Badate bene, non ho usato l’espressione “arte del raccontare grosse palle” in senso dispregiativo o snobistico. Tutt’altro. Parlavo invece molto seriamente. Su questa capacità si gioca infatti tutta la potenziale portata di bellezza derivabile dalla visione di quell’infinita serie di film d’azione, che in estrema sintesi potremmo classificare sotto la voce “americanate”. Raccontare grosse palle, soprattutto in quell’ambito, è davvero un’arte. Quando il regista di una di queste pellicole viene a raccontarmi che gli asini volano, non me la prendo pregiudizialmente, proprio per nulla. Anzi: se riesce a farlo in modo elegante, intelligente, arguto, se sa architettare una storia affascinante al punto da farmi arrivare vicino all’illusione di poter credere anche enormità simili, non posso che esserne contento e felicitarmi con lui, ringraziarlo addirittura per il regalo che mi ha confezionato con la sua sapienza artigiana di narratore.

Le note dolenti si cominciano invece ad orecchiare quando il film pretende sì di raccontarmi che gli asini volano, ma lo fa affidandosi a mezzi così strampalati, così beffardamente maldestri, così scopertamente stupidi, da sortire alla fine in un racconto raffazzonato, privo della benché minima dignità, sfilacciato, fiacco, goffamente incoerente, bolso come l’ultimo e più scarso ronzino della scuderia. Ecco, è esattamente in questi casi che, non solo riconosco, ovviamente, la lampante bruttezza del film, non solo provo irritazione, fastidio e repulsione per l’opera in questione, ma addirittura (se mi si passa un termine tecnico correntemente in uso nel vocabolario dei più autorevoli critici cinematografici) mi sento preso bellamente per il culo.

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(…constatando che il presente articoletto mi si sta allungando oltremodo, ho deciso di chiudere qui l’intervento di oggi e di rimandarvi ad una seconda puntata. Grazie per l’attenzione and…see you later Alligator…)
 

mercoledì 4 gennaio 2012

Di quella pira l’orrendondello



Per imparare a capire il proprio corpo, o per cercare di addentrarsi almeno un po’ nei suoi misteri, ritengo possa essere non del tutto privo di utilità, riuscire ad approfondire i concetti della Geografia. E anche se sulle prime potrà non apparire così lampante ed immediato, esattamente per il medesimo motivo, né più né meno, dopo un po’ di anni mi sto accorgendo di essermi riconciliato con la lettura di Pirandello. Agguanterete forse una pagliuzza di comprensione in più riguardo a queste mie affermazioni, se aggiungo che solo adesso mi rendo anche conto di come questa riappacificazione  col maestro siciliano si sia andata dipanando, sotterranea nel tempo, in parallelo alla riconciliazione con la lettura del mio corpo.

Che cosa c’entra la geografia? Che cosa c’entra il corpo? Ma soprattutto, per dirla appunto con estrema coerenza linguistica, che minchia c’entra Pirandello? Se avete due minuti di tempo e due quintali di pazienza, proverò a spiegarmi meglio.

Tutto ebbe inizio diversi anni fa, non ricordo bene se durante una vacanza estiva, fra un giugno ed un settembre del liceo, oppure in un altro momento del mio cammino di studioso in corso di fioritura. Quello che ricordo di certo è che ero uno sbarbatello brufoloso, allampanato più di un lampione in stile liberty, con un fisico secco come il deserto del Tartari e di gran lunga più leggero del peso della mia anima. C’erano forse in ballo le mitiche letture per le vacanze, croce e delizia di ogni studente. Fatto sta che un bel giorno mi ritrovai fra le mani «Uno, nessuno e centomila».

Ora, per l’adolescenza ci siamo passati tutti. Ciascuno conosce perfettamente le mille battaglie psicologiche che tocca ingaggiare con la percezione della propria fisicità, in quel periodo della vita (per fortuna, in molti aspetti anche parecchio esaltanti ed affascinanti, queste “battaglie”, va detto…). Si sa benissimo insomma che se il senso di inadeguatezza fisica fosse convertibile in valuta pregiata, in pochissimi mancherebbero di diventare ricchi sfondati fin già da ragazzini (si ritengano esclusi dalla presente considerazione Ken, Barbie e Big Jim, se per caso fossero incappati nella lettura del presente scritto…). Voglio dire: è proprio a quell’età che il corpo si impone in maniera evidente ed impetuosa al nostro senso di auto-considerazione, e nove volte su dieci la faccenda non è mai fonte di grandi consolazioni.

Prendi un siffatto scenario esistenziale, sbattici dentro «Uno, nessuno e centomila», e avresti fatto meno danno a gettare una granata in una polveriera. Non dico che ne derivasse esattamente una tragedia. Ma abbastanza devastante, nel mio caso, sì: lo fu. Pur rendendomi conto fin da allora di trovarmi di fronte ad un capolavoro narrativo, della storia pirandelliana mi “sconvolse” soprattutto l’atteggiamento spietatamente introspettivo del protagonista, che prendeva le mosse giusto da un’indagine intorno alle proprie semi-impercettibili anomalie fisiche.

Un giorno scopriva su di sé un insospettato neo, prima di quel momento mai preso in considerazione. Il giorno dopo notava una beffarda asimmetria, intromettersi nel confronto fra due arti, o fra due parti del corpo, normalmente reputabili come perfetta replica l’uno dell’altro. Un’altra volta ancora, toccandosi in altre zone, sbugiardava l’inaspettata ed inusuale conformazione di un osso sottostante, sbalorditiva e spiazzante sorpresa rispetto a come se l’era invece sempre morfologicamente immaginata lui. Naturalmente, non sono certo della fedeltà letterale di queste citazioni, visto il lunghissimo tempo trascorso dalla lettura: valgano tuttavia come richiamo del clima narrativo da me assorbito all’epoca durante la conturbante lettura.

Quello che ricordo perfettamente è che dovetti interrompere quella lettura “per eccesso di tormento”. Solo nel prosieguo dell'iter di studi, acquisii la consapevolezza di come quella prima fase del romanzo, nelle intenzioni poetiche di Pirandello, altro non fosse che un minimo prodromo a successive e ben più complesse contorsioni identitarie, nella cui rete il protagonista sarebbe rimasto impastoiato. Per me quelle poche pagine bastavano così, ed avanzavano pure. Complice un malefico gioco di specchi, cominciai ad accorgermi ad esempio che uno dei profili del mio volto era notevolmente diverso dall'altro. Da lì prese il via una spietata spedizione esplorativa dei territori del mio corpo, che progressivamente si andava costellando della posa di una miriade di bandierine di insoddisfazione, piantate di volta in volta in un nuovo piccolo difetto, o presunto tale, che andavo scoprendo su di me.

Fortuna che la vita è proprio un puzzle (questa la potete scrivere sul muro del cesso all'autogrill, la prossima volta che fate un giro in autostrada: vi concedo il copyright...). Le tesserine ti vengono consegnate a casaccio, spesso sono quelle che meno ti servono, e per di più ti arrivano nel momento sbagliato. Magari la tesserina che ti occorrerebbe disperatamente in un determinato punto dell'esistenza, ti arriva solamente molto più tardi, dopo che sei rimasto  anni a credere che quel buco nella figura ci dovesse essere per forza, che era giusto e naturale così.

Una piccola tesserina a me venne consegnata diversi anni dopo, sempre in ambito scolastico, sebbene più avanzato, stavolta. Sto parlando, come anticipato, di una nuova consapevolezza geografica. Non dico che allora, questa nozione mi fosse immediatamente di aiuto nel cammino di riconsiderazione del rapporto col mio corpo. In mezzo e successivamente c'è stata un'altra infinità di passaggi, di esperienze, di crescite dal punto di vista culturale, spirituale, umano.

Adesso però mi sento di dirlo: potrà suonare ridicolo, ma anche quel modo più raffinato e complesso di concepire la geografia, ebbe un suo arcano senso in tutto il processo di auto-raffinazione operato sul bilancio soppesato fra la mia interiorità e la mia esteriorità. La definizione cruciale per me fu la seguente: «...una carta geografica è la metafora dei rapporti di potere in atto nella porzione di territorio rappresentato...». Anche qui cito a memoria, quindi la precisione letterale va un po a farsi benedire, ma quello che m'interessa è il senso del concetto, il suo midollo. Depuro addirittura la frase della sua seconda parte, nella quale i più smaliziati non avranno faticato a cogliere sfumature d'impronta smaccatamente marxista. Questo risvolto non m'interessa, in sede delle presenti elucubrazioni.

Il passo fondamentale, quello che più mi sta a cuore, è invece questo: «...una carta geografica è una metafora...». Nessuno è talmente ingenuo e sprovveduto da credere che una carta geografica rechi con sé pretese di corrispondenza realistica rispetto alle cose concrete rappresentate. Tutti bene o male sappiamo che si tratta di una idealizzazione, di un'astrazione.

Ma dicendo che è una metafora, si dice molto, ma molto di più. Mappare una carta non significa soltanto riportare oggetti, semplicemente e quantitativamente scalati in piccolo. Si frappone invece il valore aggiunto dell'interpretazione, o forse meglio, dell'interpretabilità. Tutto si gioca nel “taglio” che il cartografo sceglie di assegnare alla sua rappresentazione, “taglio” nel quale è già insita la volontà di raccontarci certi aspetti del mondo, trascurandone magari tanti altri.

Col corpo succede qualcosa di affine. Esso si presta preferibilmente ad una lettura “aperta”, non riduttiva. Non è una pedissequa riproduzione in scala dei valori della nostra personalità, rispettosa soltanto di banali rapporti topologici, preoccupata di riportare le giuste relazioni fra aree, angoli, lunghezze, e nulla più. Il corpo è la nostra carta geografica e come tale è metafora del nostro essere. Le sue specificazioni materiali raccontano molto di più di quello che un'immediata e superficiale presa d'atto della nostra fisicità può volerci dare ad intendere. Nell'ottica di questa contorta ma fascinosa significazione, ciascun corpo ed ogni parte di esso sono belli, in quanto metafora di una propria complessità sottostante. E' proprio nella sua “difettosità”, nel suo sottrarsi alle regolarizzazioni dettate dall'astrazione, che si cela la sua forza metaforica, l'energia in grado di dare adito a significati ulteriori, oltre a quelli strettamente quantitativi.

In virtù di tutte queste considerazioni, a distanza di anni sono tornato a leggere Pirandello con serenità e passione, ad apprezzare da matti la sua prosa costruita come una raffinatissima architettura, a lasciare che le sue tematiche, del tutto incapaci di concedere il benché minimo sconto alle più crude evidenze della vita, compenetrino la mia sensibilità e diventino parte del mio corredo culturale.

Non ce l'ho più con lui per avermi assestato all'epoca quella mazzata esistenziale nel fiore della mia giovinezza. Si trattò soltanto del momento sbagliato di ricevere quella tesserina, tutto qui. Ma prima o dopo dovevo riceverla e col senno di poi, posso dire: meglio averla ricevuta da una mente eccelsa come quella di Pirandello, che magari in altri modi più ordinari.

E sempre nell'ambito di tutta questa sequela di riflessioni, ecco infine spiegato come mai, anche con tutti i suoi difetti, magagne, inestetismi ed asimmetrie, anzi forse proprio in forza di essi, trovo che, dopo un così lungo cammino interiore, oggi a suo modo il mio corpo, rifulgendo nel pieno di tutta la sua possanza metaforica ai miei occhi comprensibile soltanto ora, sia bellissimo.