venerdì 31 maggio 2019

Tutto gira intorno a ogni cosa


Col tempo rimesso un po' per il bello, possiamo tornare ad aprire le finestre, e insieme all’arietta gradevole, torna un super classico di stagione: la gravitazione universale “moscata”.

Non si è mai capito bene perché, ma se hanno a disposizione una stanza tiepida e luminosa, con un bel lampadario appeso al centro, stai sicuro che le mosche inizieranno a ruotarci attorno, in instancabili orbite da mini satelliti entomologici.

Così subito noi umani, giù a pensare: ma che fesse queste mosche a girare sempre in tondo così.

E poi tronfi del nostro antropocentrismo, magari saltiamo sulla bici, o saliamo in auto, oppure ci incamminiamo semplicemente, ma in ognuno di questi casi, mantenendoci sempre fedeli a un logicissimo e razionale moto rettilineo.

Ma hai visto mai che le mosche abbiano ragione?
Per risolvere il dubbio, non c'è forse un modo più semplice e immediato che osservare la realtà. O meglio, il succo della realtà.

Se lo facciamo, considerando in particolare gli estremi dell'infinitamente piccolo e quelli dell'esageratamente grande, constatiamo che in effetti nella realtà ogni cosa ruota in riferimento a qualcos'altro.

Nel minuscolo, gli atomi sono costituiti da piccoli centri detti nuclei, sferette solari in miniatura, attorno a cui girano certe particelle-satellite, dette elettroni (sbalorditivo tra l'altro pensare come il diametro dell’intero atomo sia centomila volte quello del nucleo).

Sul fronte opposto, nell'immenso, satelliti ruotano attorno a pianeti, pianeti attorno a stelle, stelle attorno a centri di galassie, e così via, forse l’universo stesso ruota attorno a un suo centro che fa da perno ad altri universi, vai a sapere…

Insomma, gli atomi sono micro sistemi solari, mentre gli smisurati complessi astronomici sono sistemi atomici spropositati, e noi, siamo ancora così sicuri di essere più furbi delle mosche?

Pensateci bene, anche nel mondo di ogni giorno tutto ruota.

Basta innamorarsi, e ruoteremo attorno a una persona; leggiamo un libro, ecco ancora che ruotiamo attorno al fascino delle pagine, della storia contenuta, della bellezza assorbita; ascoltiamo qualcuno e ruotiamo attorno alle sue parole; parliamo noi, e chi ci ascolta ruota attorno al nostro dire; mangiamo un succulento piatto, e ruotiamo attorno alla fame, alla golosità, alla pietanza stessa; e via di questo passo.

La cosa più sorprendente avviene però col tempo. Siamo tanto convinti della giustezza e ragionevolezza del procedere in linea retta, da ritenere anche il nostro “spostarci” lungo il tempo lanciato in una simile direzione.

Sembra quasi stupido porre la questione: noi, nel tempo, scorriamo diritti come fusi, non ci sono dubbi.

E se invece, anche attorno al tempo, noi ruotassimo?

È vero che, nella sostanza, indietro nel tempo non si può tornare, ma allora cosa sono quelle continue vampe di consapevolezza infantile, o di consistenza adolescenziale, che di continuo sperimentiamo e riassaporiamo, come se non fosse trascorso nemmeno un secondo dall’attimo in cui provammo certe emozioni da bambini o da ragazzi?

Com'è che basta una canzone o un ricordo intenso, per rivivere tutto pari pari?

Non sono, tutti questi, null'altro che modi diversi di ritornare allo stesso punto della nostra orbita di rotazione intorno al tempo?

La prossima volta che becco uno sciame satellitare di mosche attorno al lampadario, chiedo informazioni…

martedì 28 maggio 2019

Romanzotti in umido di maggio


Il “romanzotto” è una particolare forma di micro-romanzo di mia “invenzione”.

L'idea di base è molto semplice: ogni “romanzotto” deve essere scritto con un massimo di otto parole.

Unici benefit aggiuntivi: il titolo, naturalmente, e una descrizione del genere in cui la minuscola storia si colloca.

Quale vantaggio può dare tutto ciò? Che vi leggete dieci “romanzi” in un minuto:

Romanzotto 1
Titolo: “Nel buco nero della galassia Ciambella ”
Johnny abbandonò l'astronave. Dentro, il tempo rallentava.
(genere: crono-dramma fantascientifico)

Romanzotto 2
Titolo: “Quella sporca piattaforma contrattuale”
Mandrie nei saloon scaricavano guai sul sindacato cowboy.
(Genere: western di lotta sociale)

Romanzotto 3
Titolo: “Scoperte novità”
Col piede in fallo, la pornostar lanciava mode.
(Genere: hardidattico)

Romanzotto 4
Titolo: “Cronaca di ottici amanti”
Facendo l'amore con gli sguardi, lacrimavano luce.
(Genere: sentimental-visionario)

Romanzotto 5
Titolo: “Se il futuro ci sorprenderà…”
Coglievamo petali dal fiore degli anni. Api immaginifiche.
(Genere: entomologico-sentimental-botanico)

Romanzotto 6
Titolo: “Scornarsi coi proverbi”
La moglie ubriaca spillava amanti dalla botte piena.
(Genere: tanto va la commedia al lardo…)

Romanzotto 7
Titolo: “Il passato è futuribile”
Rivivendo l’incubo, dagli scavi archeologici affioravano smartphone.
(Genere: anti-utopia passatista)

Romanzotto 8
Titolo: “Triste, grottesco e finale”
L'idiozia, gettando plastica, morì plastificata. Albeggiavano dinosauri.
(Genere: catastrofico definitivo)

Romanzotto 9
Titolo: “Labirinto voyeurista”
Guardando dal buco della serratura, si vide nudo!
(Genere: thriller surreale)

Romanzotto 10
Titolo: “Disperante speranza”
Il nulla nella radura deserta si faceva adulto.
(Genere: esistenzialista estremo)



Ma te?...Mah!...


Moltiplicare fra loro due numeri, in matematica, vuol dire sommare il primo tante volte, quante ce ne indica il secondo (o viceversa).

Ad esempio: 48 x 27 si può sostanzialmente trovare scrivendo una fila di 48 + 48 lunga ventisette volte.

Sembra un modo ben astruso di considerare la moltiplicazione, eppure è così che la intendevano certi popoli antichi, tra i quali, fra gli altri, anche i Romani.

Non possedevano infatti la nozione di scrittura delle cifre in base alla posizione, sviluppata invece, “a parte”, dalla matematica indiana e poi portata in occidente attraverso la mediazione degli arabi.

In numeri romani III vuol dire 3, dove ogni stanghetta verticale indica 1, con ciascun 1 in questa cifra che vale quanto gli altri.

Nel sistema che abbiamo imparato noi fin dalle elementari, invece, se scrivo 111, innanzitutto vuol dire centoundici, ma poi ogni 1 ha un valore diverso dall’altro. Il primo, da destra, vale 100; il secondo, 10; il terzo, 1.

Con la posizione, ogni numero cambia significato: questo consente già di dominare cifre molto più grandi, che non usando una scrittura e una concezione dei numeri indifferenti al posto occupato.

Questa idea, unita all’introduzione del concetto dello “zero” (anch'esso sconosciuto ai Romani), fornì alla mente umana un “panorama” dei numeri in cui calcolare, molto più potente di prima.

Data la conoscenza delle tabelline, moltiplicare due cifre, allora, se prima era una lenta aggiunta di “strati”, diventa come infilare quelle due cifre (anche grosse) in una centrifuga che gira molto veloce e le risputa unite nel risultato finale.

Dietro questa idea, non c'è solo una conquista matematica, ma anche un diverso modo di guardare al mondo, e a se stessi nel mondo: una trama filosofica di fondo più raffinata.

Quel “centrifugare” fra loro i numeri, probabilmente non sarebbe stato concepito dagli antichi indiani se non avessero sviluppato prima una forma di consapevolezza di se stessi, contenente già i tratti intesi ancora oggi.

Gli indiani, forse fra i primi nella storia, presero coscienza di un “io” e di un “sé”, che pur contenuti nella stessa persona, sono anche due entità distinte.

Ogni individuo è una persona unica, ma può e sa pensare a se stesso come “guardandosi dal di fuori”, come personaggio di uno scenario in cui egli si vede calato, protagonista di un racconto, nel quale può anticipare mosse, prevedere scenari, ipotizzare possibili sviluppi, e così via.

Questa capacità di riuscire a “raccontarsi a se stesso”, attore e spettatore insieme, non è sempre stata in possesso dell’uomo.

L’ha scoperta.

Così come ha scoperto la moltiplicazione.
La cosa bella che imparenta le due idee, emerge da una particolare eccezione contenuta nell’atto del moltiplicare.

Quando calcoliamo 1 x 1, mettiamo in relazione due unità, ma il risultato ottenuto è ancora una unità sola.

Così accade nella nostra coscienza, che sa sdoppiarsi in auto-osservazione di sé, pur dando sempre come risultato l'unicità dell'individuo che siamo.

1 x 1 = 1

È forse questa la scrittura più significativa per cogliere la dualità condensata in individuo, nella quale consistiamo.

[Lo spunto per questa “forse” macchinosa riflessione mi è venuto dalla lettura di un misteriosissimo, criptico, ma affascinantissimo libro: “L’ardore” (2010), di Roberto Calasso (Adelphi)].


venerdì 24 maggio 2019

Quel pezzo di me che il mondo mi deve, ma forse preferirei si tenesse...


Questo è un classico della mia vita: vado in un posto pubblico, ho bisogno di andare in bagno; quando ho fatto, mi appresto a lavarmi le mani e zac…non c'è modo di vedersi in faccia.

Lo specchio è appeso sempre troppo in basso, oppure il mio muso è appeso troppo in alto, (dipende dalle opinioni), così che regolarmente il mondo mi ruba la testa e io, se fosse possibile, ogni volta la rivorrei indietro.

O forse no…

Sono nato alto, o perlomeno abbastanza oltre la media. Ma giuro che dentro di me, mi sono sempre sentito di statura normale, e da una vita faccio i conti con gomitate sbattute dove credevo ci fosse l’aria, ingobbimenti forzati, file troppo anguste di sedili al cinema o in corriera, water che mi sembrano turche, e così via.

La gente crede che essere alti sia bello, è opinione comune che dia dei vantaggi.

D'accordo, non dico di no, ha i suoi aspetti interessanti, con vari risvolti positivi, e tutto sommato sono contento dei miei centimetri in più, ma fa anche molto strano portarsi sempre in giro quel piccoletto interiore che vorrebbe esprimersi su raggi d'azione più normolinei, e invece è costretto a rimaner imprigionato in una “spilungonità” imprescindibile.

Non so se in ogni alto si nasconda un bassetto che desidererebbe sbocciare come tale, ma io personalmente mi sono sempre sentito così.

L’effetto elefante in cristalleria mi è molto familiare, almeno dai tempi delle scuole elementari, da quando cioè il mantra del “ma come sei alto” cominciò a fare da ritornello comune alle mie giornate.

Magari, mi sarebbe piaciuto tante volte dare più carezze a persone, animali o cose, ma credo che mi abbiano spesso frenato i due badili appesi ai polsi, al posto delle mani.

Mi sarebbe piaciuto entrare in punta di piedi in molte circostanze del vivere, ma le cassette da uva che mi ritrovavo alle caviglie consentivano tutt’al più una goffa comparsa sulla scena.

Chissà…forse è anche per questo che ha finito per piacermi così tanto questa faccenda dello scrivere.
Quando scrivo, posso probabilmente  sprigionare il piccoletto che mi scalpita dentro.

Può piroettare con eleganza fra spazi risicati, fare un dribbling intorno a ostacoli nei quali, dal vero, mi incastrerei come un salmone fra zampe d’orso, può sgusciare con modi aggraziati in un mondo di movenze commisurate, laddove andrei a sbattere a ogni metro con tonfi disgraziati.

In generale, una certa tensione fra interiorità e mondo esterno può essere dunque faticosa, ma anche portatrice di fecondi slanci liberatori.

Credo che sia un sentimento comune, questo differenziale percepito, fra una condizione “di dentro” desiderata e una “di fuori” in qualche modo, per forza di cose accettata.

Ma questa tensione può essere volta in positivo, proprio in forma di un “tendere a”, se si riesce a farne motivo di ricerca di una propria strada espressiva, riequilibratrice della bilancia sui cui piatti posano aspirazioni e contingenze di fatto.

E la mia via è forse giusto la scrittura.

Quando scrivo posso sedermi sul quel water di misura mai conosciuto nella realtà, e lì finalmente riesco a dire tutto ciò che su quelli veri non ero riuscito a esprimere.

E il primo che si azzarda a dire che sono per l’appunto soltanto stronzate…

giovedì 23 maggio 2019

Cosa ne è di ciò che fu


Bruno Munari (1907-1998) ha fatto la storia del design italiano.

Oltre che grande artista, è stato un attivissimo promotore culturale e inesauribile miniera di idee, nonché studioso attento del mondo dei bambini, osservato dal punto di vista della creatività.

Da uomo saggio qual era, Munari per i bambini lavorò molto, ma cercò anche di imparare da loro.

In un suo libro, lessi una cosa che non ho mai scordato.

Si confrontava spesso con l'espressività “artistica” dei più piccoli, e consigliava a maestre ed educatori di buttare i disegni dei bimbi o le altre loro creazioni, una volta che l’esperienza della loro realizzazione si era compiuta e completata in tutte le fasi.

I bambini non si sarebbero così fissati sui risultati ottenuti, rivolgendo invece la loro attenzione al percorso di conoscenza che stavano facendo.

Non discuto qui della validità pedagogica di questa idea. Non sono un esperto di nulla, tanto meno di metodi educativi, dunque non saprei valutare nel merito specifico.

Da piccolo ero gelosissimo dei miei disegni e scarabocchi, per cui non avrei cuore a gettare una roba fatta da un bimbo nemmeno con un mitra puntato alla schiena.

Del suggerimento di Munari, mi piace però la riflessione che può far fare, riguardo alla vita in generale.

Cosa rimane di quanto abbiamo fatto e di ciò che siamo stati?

O forse è meglio domandarsi: cos'è bene che rimanga?

Di sicuro (o almeno così a me sembra), è bene che non rimangano degli “idoli” congelati nel passato.

Col tempo, i conti li dobbiamo sempre fare, che ci piaccia o no.

Ostinarsi nel rimanere attaccati a ciò che non è più, e soprattutto non può più essere, è come gettare l'ancora e pretendere che si fissi a una nuvola.

Del passato però rimane una parte più evanescente, ma più profonda.

Non sono importanti i ricordi ormai rinsecchiti di cose fatte o vissute. Ciò che più conta è “come siamo stati” nel vivere certi attimi.

Che persona ero quando vivevo certe gioie, o anche certi dispiaceri? In che forma personale mi inserivo nel flusso del tempo?

In altre parole, a che punto mi trovavo del mio cammino di conoscenza del mondo?

Le cose fatte in sé, le situazioni esatte, la magia dell’attimo, anche se a volte ne rimangono tracce concrete, non potranno più tornare.

È inutile volersi struggere per quello, a meno che non si tenga così tanto al classico pugno di mosche stretto in mano.

Rimane invece sempre “chi eravamo” quando vivevamo quelle cose. Il camminare è stato più importante delle tappe fatte. E quel camminare di allora va inserito con giustezza di proporzioni in quello che seguitiamo a fare oggi.

In questo senso, accogliendo l'insegnamento di Bruno Munari, possiamo serenamente gettare i disegni del nostro passato, ma conservare con profitto la nostra “essenza personale” dei tempi in cui li disegnammo.

Può essere anche una buona ricetta per attenuare le vampe della nostalgia, o del rimpianto, sempre umanamente molto propense a riaccendersi.

E per trattare lo scottante materiale del nostro passato senza ustionarci le dita (rischio altrettanto alto).

mercoledì 22 maggio 2019

Le mini avventure di una virgola girata


Una piccola virgola era nata con la codina girata verso destra, anziché a sinistra come tutte le altre virgole.

Subito si era messa a fare quello per cui ogni virgola si sente portata: entrare nei discorsi e dirigere le parole.

La sua curiosa sagoma creava però smarrimento sulle labbra di chi parlava e nelle penne di chi scriveva.

Il modo tutto particolare che aveva, di mettere in sospeso per un attimo la frase, non risultava così netto come quello degli altri milioni di “virgole dritte” in circolazione su ogni pagina e dentro ogni ragionamento.

La piccola “virgola storta” aveva un maniera tutta sua di assecondare il flusso della frase. Creava un breve stacco gentile, semi-scorrevole, che lasciava spazio alla grazia del dubbio e della scelta fra alternative.

Ma l’epoca in cui la piccola “virgola storta” era capitata, era un’epoca assetata di certezze granitiche, di verità indiscutibili, di sentenze certe e definitive.

Così, con la sua indole modesta e possibilista, la piccola “virgola storta” si rassegnò a mettersi un po' da parte.

Non si azzardava più a entrare nei discorsi, perché fra le parole era ormai mal tollerata, incompresa, se non addirittura dileggiata come una stramberia ortografica o un'eccentricità oziosa.

Si ritrovò allora a passare il tempo in compagnia di altri “scarti grammaticali” simili a lei.

Faceva colazione con gli apostrofi scacciati dai “qual è”.

Giocava a briscola con gli accenti sbagliati su “stà”, “quì”, “fà”.

Andava in visita al capezzale degli infelici “piuttosto che” usati bislaccamente nel senso di “oppure”, coricati doloranti in un letto di sudore, nel delirio ripetuto di una ossessiva dichiarazione: “…noi significhiamo <<anziché>>, non significhiamo <<oppure>>…”.

Ma alla piccola “virgola storta” capitava di pensare: “…Che cosa ci faccio qui, io? Questi sono tutti cari amici, ma loro sono errori, sono vittime dell’ignoranza, di menti superficiali e facilone!...Io invece sono una singolarità, sento che posso dire qualcosa di buono!...”.

Allora, non si sa bene come, le venne subito dopo una curiosa idea: “…E se provassi a posarmi fra le parole non ancora nate di uno scrittore in pieno blocco da pagina bianca?...”.

Così fece.

Cercò il primo scrittore disponibile completamente paralizzato di fronte al timor panico che incute il foglio di carta del tutto vergine, privo di qualsiasi segno inchiostrato, e si tuffò a pesce su quel “biancore” di espressività potenziale, ma ancora inespressa per intero.

Lì successe un piccolo portento inaspettato.
Non appena posò la sua codina sulla pagina dello scrittore in blocco, la “virgola storta” divenne tutta bianca, come la carta.

Dopo un breve attimo di grande stupore misto a paura, la piccola “virgola storta” si mise a ridere di gusto.

Ci si trovava infatti benissimo, tutta bianca sulla pagina bianca: non si era mai sentita così in forma e interamente espressiva, prima di allora.

Un grande coraggio la attraversò tutta, dalla sua capoccia a puntino fino all'estremità della coda diversamente direzionata.

Sospinta dal rinnovato ardire, trovò la forza per decidersi a fare ritorno sulle normali pagine dei libri scritti, o fra i suoni dei discorsi della gente.

Lì, non vista, portava un nuovo vento di gentilezza fra le parole.

I parlanti, gli scriventi, i leggenti, non capivano perché, ma da quando la “virgola storta” in versione albina si era intrufolata non vista fra di loro, si sentivano più sereni, più distesi, usavano il linguaggio con un piacere e una soddisfazione quasi dimenticati.

La piccola “virgola storta” fu così molto felice della sua nuova vita in incognita e di tanto intanto tornava a trovare i suoi amici errori ortografici.

Lì, faceva ogni volta il pieno di quel buon umore che solo fra le cose sbagliate si può trovare in forme così pure e innocenti.

Poi si rituffava di nuovo in pagine e discorsi, per continuare a svolgere il suo prezioso ruolo di mediatrice invisibile e ambasciatrice di fertili incertezze.

sabato 18 maggio 2019

Giro-tonto per tutti e per nessuno


Tutti desiderano essere desiderati
Ognuno desidera desiderare altri
Chiunque ha desiderio di desideri in sé
Nessuno ama essere odiato
Tutti odiano non essere amati
Tutti amano sentirsi dire sei bravo
Nessuno vuole sentirsi dire sei brutto, incapace, inutile
Potendo, molti preferiscono perlopiù non sentirsi dire nulla
Tutti vogliono vincere
Pochi capiscono che al mondo è molto importante chi perde
Tutti sono fragili
Molti fanno finta di no
Alcuni sono forti perché sanno di essere anche fragili
Ciascuno cerca la compagnia
Nessuno vuole sentirsi solo
Tutti ogni tanto vogliono stare soli continuando a sentirsi come in compagnia
Chiunque gode a godere
Quasi tutti godono a far godere
Molti godono ad essere goduti
Nessuno vuole mai piangere
Ciascuno preferisce sempre sorridere
Tutti in generale stanno meglio seri
A chiunque piace fare l'amore
Nessuno vorrebbe aspettare che l'amore venga fatto
Tutti puzzano di quando in quando e di dove in dove
Il problema di ciascuno son le volte che il quando non conosce il dove
Chiunque preferirebbe odorare di buono sempre, o al limite di niente
Tutti scoreggiano di gran gusto
Molti non si sono ancora riconciliati con l’idea
Pochi sanno di non sapere
Molti credono di conoscere
Ognuno, più sa e più soffre, però con la coscienza distesa
Nessuno vorrebbe soffrire, ma si ritrova con la coscienza accartocciata
Molti non riescono a guardarsi dentro, per la paura insostenibile
Tanti continuano a guardarsi fuori e intorno
Alcuni si osservano dentro e vedono un gran vuoto
Qualcuno comprende che provare a colmare quel vuoto è un’avventura affascinante, e ne vale la pena
Tanti pretendono di sapere
Nessuno sa veramente qualcosa
Tutti non sanno nulla
Tutti vorrebbero essere nessuno, ogni tanto
Ciascuno è obbligato a essere qualcuno, quasi sempre
Io non so niente e ringraziando il cielo non sono nessuno
O almeno così molte volte mi piace sperare


Io sono in me


Lo confesso.
A volte in libreria mi piace scegliere libri dal titolo molto astruso, giusto per darmi un tono da gran intellettuale “sbraga-verze”, sfilando poi fra gli scaffali col mio tometto in mano, ostentato solennemente con enigmatico ghigno neo-brežneviano dell’ultima ora.

Un po' lo faccio anche per il gusto di vedere la faccia che farà il tizio alla cassa.

Ma stavolta credevo di aver proprio esagerato.

La mia scelta infatti è caduta su “IL CROLLO DELLA MENTE BICAMERALE E L’ORIGINE DELLA COSCIENZA”, un saggio di antropologia psicologica (se così possiamo dire), scritto nel 1976 da JULIAN JAYNES (1920-1997).

Quando ho cominciato le prime pagine tuttavia, mi sono reso conto di non aver esagerato per niente.

A dispetto infatti del titolo in apparenza contorto e oscuro, il testo si rivela molto lineare, argomentato con sapienza espositiva, e in grado di tener alto l’interesse del lettore (forse con qualche calo d'intensità e rallentamenti solo nelle parti in cui si addentra fra prove storiche e documentali delle proprie tesi).

E non potrebbe essere altrimenti, perché Jaynes (insegnante all'università di Princeton dal 1966 al 1990) si occupa di una della più umane fra le peculiarità dell’uomo. Anzi, forse proprio di quella in virtù della quale possiamo effettivamente definirci umani: la coscienza di sé.

Cosa vuol dire avere consapevolezza di se stessi come individui? Come si è formata, storicamente e psicologicamente, tale consapevolezza?

Padroneggiare una concezione definita di sé, significa possedere quella capacità di auto-osservarsi, quasi come se si avesse di fronte un altro soggetto.

Quando considero me stesso, è come se imbastissi un racconto interiore, nel quale narratore, soggetto descritto e ascoltatore, coincidono tutti con la medesima persona: io.

Ho coscienza di me, quando, per così dire, divento “terzo a me stesso”.

Questa non è una prerogativa presente nell’uomo da sempre, ma una conquista evolutiva della mente (dell’animo?), acquisita con gradualità molto lenta, nei millenni.

L’uomo si distingue dall’animale soprattutto per la capacità di scegliere.

La scelta a sua volta non può avvenire senza coscienza di sé, senza sapersi guardare in un contesto di alternative possibili, ossia senza saper inquadrare se stessi in quel racconto dal triplice “narratore-protagonista-ascoltatore”, tutti condensati in un unico “io”.

Se è vero, come ormai è accettato sia vero in base all’evoluzionismo, che le nostre origini hanno radici animali, ci dev'essere stato allora un passaggio dalla pura istintualità, a un superiore grado di capacità di scegliere con consapevolezza.

Jaynes ipotizza che il nostro primordiale status di animali gregari, ci inducesse a una originaria condizione “esistenziale-decisionale” basata sulla introiezione di una volontà collettiva del branco di appartenenza.

I nostri antenati primitivi non sapevano ancora agire per libera scelta consapevole, ma in qualche modo si uniformavano agli imperativi del gruppo, assunti come direttive interiorizzate, ai fini della sopravvivenza.

Questa condizione di “automatismo mentale”, secondo il cuore della teoria di Jaynes, si specificò e “specializzò” in una sorta di doppia “compartimentazione interiore”, supportata anche da prove anatomiche e fisiologiche riguardanti la conformazione del cervello (da cui l’espressione “mente bicamerale”).

Per dirla in termini molto semplificatori, nella mente dell’uomo preistorico funzionavano due reparti: uno impartiva i “comandi”, mentre il secondo li eseguiva.

In questo quadro, la consapevolezza di sé era ancora molto nebulosa, se non praticamente inesistente.

Il cammino verso la coscienza individuale fu lunghissimo, e straordinari indizi del precedente stato “bicamerale” si trovano nella mentalità dell’uomo omerico (Iliade e Odissea), o in diverse epopee poetiche ed eroiche di altre civiltà (ad esempio anche nella Bibbia, o nella tradizione babilonese).

Il “sentire le voci” degli dei, o di un Dio, non consisteva dunque solamente in un'espressione metaforica-figurata, ma faceva parte dell'esperienza comune effettiva di quell'umanità “pre-consapevole”.

A questo punto, va precisata una cosa: Jaynes non è certo uno che si fa pregare a “spararle grosse”. Nel senso che le sue ipotesi sono molto cariche di fascino, anche se la comunità scientifica non le ha sempre accolte propriamente “a braccia aperte”.

Però la cosa fondamentale, alla fine, è che questo libro sprizza onestà intellettuale da ogni sillaba.

Jaynes non accampa pretese di rifilare verità stabilite, ma argomenta ogni volta in modo molto puntuale quelle che in ogni caso propone sempre come ipotesi.

Alla fine ne risulta un racconto storico, antropologico e psicologico, appassionante, intelligente e molto stimolante sul piano culturale, che contempla, non da ultime, anche interessantissime considerazioni sulla funzione e sul senso del linguaggio, nell'ambito di questa affascinante avventura di conquista della coscienza.

giovedì 16 maggio 2019

Trasecolar, ascoltando in loop CANZONE D’AMORE delle ORME, ottantasette volte di fila


Sciabolate a scarica, a infrangere a raffica, il gran collo di bottiglia dello champagne spaziotemporale, mentre l'immensità degli altri è solo uno scherzo da carezzare in superficie, che se ti sorprendi in ammirata contemplazione, ti risucchiano all’interno infiniti abissi d’irraggiungibili bellezze interiori altrui, e la vita è la più potente delle droghe, dà terribili assuefazioni, astinenze da crisi, smarrimenti ansiogeni sulla piazza dello spaccio emotivo, sino a non voler altro più che abitare in una canzone sola, soltanto in quella, intanto che una rullata di Michi Dei Rossi vale almeno tre secoli di letteratura, di sicuro il tre, quattro e cinquecento, e aver capito già tutto a nove anni, che esistere è troppo sconvolgente per essere vero, e solo in una canzone, certe volte, diventa sopportabile, perché gli anni 70 sono una malattia radiosa da cui è impossibile guarire, una nostalgia di “mai stato”, incontenibile dall’universo stesso…

martedì 7 maggio 2019

Librarsi


Nel capolavoro di Wim Wenders “Il cielo sopra Berlino”, per certi tratti del film si sentono i pensieri delle persone, invece delle parole dette a voce alta.

Succede per la presenza di due angeli, Damiel e Cassiel, capaci di ascoltare ciò che scorre nelle menti degli altri personaggi umani ordinari.

Questa scelta narrativa lascia un po' spiazzati, ma se ci si pensa è molto più “naturale” dei normali dialoghi.

Perché anche nella realtà in effetti (eccettuata la presenza degli angeli, sulla quale non ci si può pronunciare), quando siamo in presenza di altri, la parte di cose pensate da ciascuno rimane sempre molto più grande rispetto ai pensieri che emergono in superficie cavalcando le parole.

Questa cosa mi viene spesso in mente quando entro in una libreria. È un luogo in cui i pensieri della gente mulinano nell’aria in fretta e gioiosi.

I libri sono generatori di pensieri, estrattori di riflessioni, casse di risonanza di impressioni interiori.

Lo fanno in due modi (forse tre).

Quando leggiamo, ripetiamo in pratica le parole scritte con la voce silenziosa della mente. Non si tratta però di una pedissequa ripetizione “a pappagallo” del pensiero dello scrittore o delle immagini da lui proposte.

Leggendo rielaboriamo già, interpretiamo, amalgamiamo in un nuovo impasto quelle lettere e sillabe che sembrano risalire dalle pagine come suffumigi mentali, molto efficaci nel liberare le vie respiratorie di un senso dell’altrove immaginato.

Il secondo modo in cui i libri creano pensiero, è quando solleviamo un attimo lo sguardo dalle righe appena lette, e tutta quella ventata meditativa ed emotiva ricevuta, continua a scompigliarci il ciuffo delle idee e delle rielaborazioni personali.

I libri sanno poi suscitare una terza via “all'insinuazione mentale”.

Semplicemente rimanendo chiusi e in bella mostra davanti a noi, magari con la possibilità di poterli soppesare, toccarne le copertine, sbirciare al volo qualche frase.

Già solamente facendo questo, stando lì in bella mostra, producono tantissime aspettative (soprattutto se a ronzarci attorno sono degli appassionati lettori-ape, golosi di pagine come i gialloneri insetti a pungiglione di fronte a un vasto campo fiorito).

Tutte queste belle sensazioni in libreria si amplificano rispecchiandosi all’infinito fra uno scaffale e l’altro.

Dalle scansie, sale caldo un vapore buono di pensiero, un profumo di bellezza invisibile, che finisce per confondersi con quello della carta.

Ed è bello stare lì, immergersi in tutto quel lavorio mentale potenzialmente nascosto nelle migliaia di pagine chiuse, e anche in quello prodotto da tutti gli altri avventori presenti, nel loro desiderio di lanciare un sentiero nuovo fra voglia di sapere e future letture.

E quando vai alla cassa col libro alla fine scelto, e il commesso chiede: “…Vuole un sacchetto?...”, a me viene sempre quasi naturale rispondere di no.

Non tanto per quei pochi centesimi risparmiati (anche).

Ma per poter gustare il piacere, una volta uscito, di spargere tutta quella messe di infinito pensiero possibile, custodito fra le pagine, anche per le strade e in ogni angolo della città.

sabato 4 maggio 2019

Questo è un lavoro per Slogan-Man!


Il firmamento dei supereroi ospita un nuovo sfolgorante protagonista.

Il suo nome è…Slogan-Man!

Dopo anni e anni spesi da mezzo mondo a difendersi dalla minaccia “comunista”, Slogan-Man ha capito che si fa molto prima a mandare in malora il mondo stesso, assecondando la montate marea “luogo-comunista”.

In questo modo, i birbaccioni di tutte le risme, perennemente presi essi stessi dalla spasmodica bramosia di devastazione globale, si placheranno da soli con una semplice riflessione: “…Ma cosa mi arrabatto come un fesso a distruggere il mondo, se già lo stanno facendo benissimo gli uomini di loro spontanea iniziativa?...”.

L’inedito equilibrio supereroico è frutto del rinnovo del contratto di lavoro stipulato fra le maestranze dei “Super Forzuti Associati” e il “Sindacato Birbaccioni Riuniti”.

“…Perché dobbiamo continuare a darci mazzate fra noi pluri-dotati?...” si sono detti, scocciati e in riunione congiunta, i difensori dell’universo e gli aspiranti distruttori del medesimo, “…facciamo che si azzuffino gli ometti ordinari fra di loro, e per una volta godiamoci lo spettacolo…”.

Nasce così la sfavillante figura di Slogan-man, il supereroe dalla parlantina supersonica, che sfreccia da un angolo all'altro del pianeta, distribuendo spiazzanti luoghi comuni, banalità abissali e semplicismo idiotizzante puro, distillato a 95 gradi (scartando la coda, ma soprattutto la testa, e mantenendo soltanto i ragionamenti di pancia).

Come ogni supereroe, anche Slogan-Man vive una sua vita da persona qualunque; è un normale vicino della porta accanto, nella cittadina di Commonplace, ubicata ai margini della contea di Banality.

Sotto le mentite spoglie dell’innocuo Johnny Slogan, esercita la professione di fisioterapista specializzato nel trattamento delle slogature.

Ha una segretaria, Abigaille Nerchiorini, procace oriunda dalle focose italiche origini, che considera il suo capo ufficio, Johnny Slogan, un rammollito, ma sogna di esser posseduta da Slogan-Man, mentre questi le sussurra all'orecchio il peggio delle più ritrite “frasi fatte” erotiche d’infima lega, tratte dal repertorio porno dozzinale ai massimi gradi.

Come da miglior tradizione supereroica, Abigaille non capirà mai che Johnny Slogan e Slogan-Man sono lo stesso uomo.

Una delle più mirabolanti avventure di Slogan-Man verrà sempre ricordata con il leggendario titolo di “Slogan-Man e la saggezza smerdatrice”.

Volava un giorno Slogan-Man sopra un vastissimo latifondo, dove schiere di potenti trattori erano alle prese con un’intensa fase di lavorazione del terreno.

Abbassando la quota di sorvolo per assestarsi a portata di udito, ecco allora il nostro eroe sprigionare nell’etere una raffica delle sue micidiali ovvietà: “…Ahi dura terra! Perché non ti arasti? Lavoratori, ribellatevi alla vigliacca dittatura della zolla: sta troppo in basso…come si permette di ostentare tale arroganza?...Forza dunque, che si proclami subito una manifestazione contro l'ostinata tendenza del terreno a rimanere così pervicacemente appianato rasoterra!...”.

Subito si dispiega un solenne corteo, con striscioni e alte grida: “…Abbasso la zolla, a noi non sta bene, s’innalzi la terra, per patir meno pene!...”.

Si gustava Slogan-Man questo suo capolavoro, quando stando sempre in quota, scorse da lontano il convegno annuale dei produttori di purghe.

Piomba anche lì sui convenuti ignari, a seminare grandi manciate di discordia banalizzante: “…Opponetevi allo strapotere del cervello, che ridicolizza il povero intestino, facendogli fare tutto il lavoro sporco e continue figure da stronzo…”.

All’udir la stravagante verità, come folgorata da subitanea coscienza di sé, ecco l'affollata marea dei lassativi fabbricatori, riversarsi nelle strade, inscenando lo sciopero generale dell’intestino contro la protervia del cervello.

“…Fannullone d’un cervello, a noi lo sforzo e a te tutto il bello, è un’ingiustizia lavorare da mulo, se poi finisce tutto nel…”.

Sotto lo sguardo di Slogan-Man, ancora svolazzante e soddisfatto nel cielo, il corteo degli intestini scioperanti incrocia allora quello dei ribelli alla zolla.

Ne nasce un parapiglia per questioni di precedenza, ma subito i sostenitori dello sciopero intestino, non sostenendo più il peso della loro protesta, sono costretti a correre a braghe calate nei campi, contro cui protestavano gli altri, e a liberare sul terreno tutte le maleodoranti istanze della propria rivendicazione.

Con grande stupore generale, la soddisfazione si diffonde a quel punto fra tutti e due gli schieramenti.

Il suolo è stato finalmente innalzato di qualche centimetro (va beh, non si tratta propriamente di terra, ma vuoi mettere i vantaggi aggiuntivi della concimazione?), mentre i sostenitori delle ragioni intestinali per una volta sono contenti dell’operato del loro “protetto”, a favore di una nobile causa.

E intanto, in cima a un moderno monte Olimpo, dove i supereroi e i loro ex nemici cattivoni hanno fissato il proprio nuovo quartier generale condiviso, le risate grasse si sprecano, a una sapida battuta, buttata lì da Slogan-Man: “…Che  stupidi a sbatterci per tanto tempo, con raggi gamma, forza bruta, petardi nucleari e razzi fotonici puzzolenti…pensare che era invece così semplice, bastavano quattro fregnacce ben confezionate, e il gioco è fatto!...”.