martedì 30 giugno 2009

La parola immolata


«...Il rapporto della scienza con l'ignoto riprende e varia quello dei brahmani vedici con i loro molteplici dèi. L'esistenza dell'ignoto esige una continua, immensa dissipazione di energie, di vita. E il beneficio di quest'opera sacrificale, da cui discende ogni opus, è l'occasionale scoperta, dono ceduto dall'ignoto ai suoi sacerdoti. E, così come gli dèi vedici temevano che, mediante il sacrificio, i sacerdoti riuscissero davvero a diventare immortali, seguendo la via degli dèi stessi, che in origine mediante il sacrificio appunto immortali erano diventati, così l'ignoto può temere che quella profusione di offerte non sia un gesto ripetuto di omaggio ma la premessa di una sopraffazione.
Eppure la scienza, oltre che astuta e avida, è anche modesta e miope - e questo tranquillizza gli dèi che ora si celano dietro l'ignoto come nella sigla di un'associazione. La scienza vuole un solo genere di doni: vuole che siano fatti verificabili, controllabili, ripetibili. E, nella loro lunga storia, gli dèi celati nell'ignoto sanno che i doni più preziosi non appartengono a quella categoria: inverificabile, incontrollabile, irripetibile è innanzitutto la felicità.
Si riproprone qui la fatale astuzia di Prometeo: gli uomini fanno in modo di ottenere la parte grassa dell'offerta, quel nucleo di energia che però presuppone la fame e la morte. Gli dèi accettano di farsi ingannare, con un lieve cenno di sarcasmo: avranno solo i fumi del sacrificio, quei profumi incontrollabili, dispersi nell'aria, che però sono puro piacere e non presuppongono la fame e la morte...».

"La rovina di Kasch"
Roberto Calasso - 1983

Molto affascinante questa suggestione diffusa che striscia celata fra le frasi, lungo tutto il dottissimo, misteriosissimo testo di Roberto Calasso.
Una suggestione che vuole accomunate l'essenza del gesto sacrificale e quello del nominare, momento fondativo dell'atto umano del conoscere.
Nominando le cose, l'uomo le sottrae al flusso del caos primigenio nel quale sono da sempre immerse. Il possesso che in questo modo se ne trae è al tempo stesso reale ed illusorio. Così come nel sacrificio si "dissipano" energie vitali, allo stesso modo il momento conoscitivo implica un prezzo pagato che si traduce in termini di dolore imprevedibile e di perdita dell'ingenuità originaria dell'anima.
Nel flusso di pensieri evocato dalla lettura di questo arduo brano, mi è venuto da riflettere anche sulla curiosa similitudine fra questi argomenti così esoterici e la celeberrima scena iniziale del capolavoro Kubrickiano «2001: Odissea nello spazio»: il lontanissimo antenato dell'uomo che compie il suo primo passo nella dimensione "culturale" e della coscienza di sè, commettendo la prima uccisione consapevole di un proprio simile.


domenica 28 giugno 2009

Dies Iran


Come sa chi è passato almeno una volta per di qua, questo è notoriamente un blog votato all'«Inutile».
Tale peculiarità (ed ho cercato in varie occasioni di fare luce su questo aspetto) non è tanto dettata dal disinteresse riguardo le faccende serie della vita. Il qui presente Gillipixel scribacchiante è ben conscio di quanto siano ardui gli aspetti duri del vivere. Non è dunque la stolta indifferenza che guida la mia mano quando mi metto a sdigitazzare i miei fraseggi sul nulla. E' piuttosto la volontà di ritagliare una piccola oasi lontana dalle brutture del mondo.

Però nel frattempo la fuori la realtà scorre impietosa.
E fa sul serio.
E io lo so.
Purtroppo.
Così volevo applicare stasera per un attimo una sorta di sospensione dell'incredulità al contrario, dedicando un pensiero ai tragici fatti che si stanno susseguendo in questi giorni nel martoriato Iran.
Volevo farlo a modo mio però. Senza addentrarmi in argomenti specifici sul tema, rispetto ai quali non avrei competenze sufficienti. Volevo farlo semplicemente condividendo con voi una cosa che ho sempre reputato bella. Una canzone dei Dire Straits.
Poteva essere qualsiasi altra canzone, non importa. Ognuno scelga la propria, la più significativa per sè. L'importante era che fosse qualcosa di bello.
Perchè io mi ostino a pensarla a mio modo.
Sono un semo ostinato e voglio continuare ad aggrapparmi come un folle alla mia ingenuità.
Ostinato nell'assurda convinzione che forse solo attraverso un'educazione completa alla «Bellezza» l'uomo potrà elevarsi ai livelli più alti di comprensione dell'unico straccio di valore che conta in questa vitaccia schifa: l'amore che possiamo nutrire per i nostri simili, per i nostri dissimili, per gli animali, per la natura e per la realtà intera che ci circonda.




sabato 27 giugno 2009

Eleganze alluvionali


Per fortuna che di tanto in tanto mi sovviene l'antico adagio popolare "parla come mangi".
E per fortuna ancora che mi viene in mente anche qualche facezia assolutamente insignificante intorno alla quale poter scrivere due balordate, di modo che gli zebedei del lettore possano beneficiare dell'agognato sollievo, dopo aver retto stoicamente la gravità scribacchiatoria dei testicolari "5G negativi" innescati dalle mie pallosità parafilosofiche passate dalla mutua.

Oggi volevo dunque parlare di un argomento del quale non so esattamente una cippa di nulla: la moda.
Come ho già ricordato altre volte in codeste contrade bloghesche, "io mi son un" che possiede due paia di braghe da usare alternativamente per tutto l'anno, possibilmente per due o tre anni filati, sempre le stesse, più un paio di scarpe per l'inverno e uno di sandali per l'estate. Vi lascio dunque immaginare quali livelli di sfenatezza morbosa possa raggiungere il mio interesse per l'argomento moda e la conseguente mia sapienza in merito: praticamente "doppio zero".
E infatti sarà esattamente farina del mio sacco tutta la serie di spropositi che mi appresto ad enunciare.
In realtà non mi sarei nemmeno sognato di sfiorare l'argomento se non mi fosse successo di dare una distratta occhiata ai servizi dei vari tg riguardo le ultime sfilate milanesi.
Qui s'impone una parentesi per fissare un caposaldo del mio ragionamento.
Più precisamente vorrei introdurre lo stranoto detto: "non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace".
Sono convinto che questa massima vada presa in considerazione per la sua "oggettività variabile". Nel senso che essa esprime sì una verità, ma pur sempre relativa, una verità dalla trama a maglie larghe.
Esemplificando (e scusandomi pure per la rozzezza iperbolica adottata): è vero che le predilezioni personali sono un fattore decisivo ed imprescindibile per la formulazione di ogni giudizio di gusto, ma se uno mi viene a dire che ad un piatto di aragosta preferisce di gran lunga uno sformato di letame alla cacciatora, capite bene come anche in ambito estetico si possa confidare sull'esistenza di una certa qual obiettività. Dai confini labili finchè si vuole, ma pur sempre di un qualche tipo di obiettività si tratta.
Dico questo perchè anche io, pur nella mia abissale ignoranza modaiola, credo di aver avuto da sempre, riguardo alle modalità del vestire, almeno una certezza, capace di oltrepassare qualsivoglia imperativo introdotto dai gusti personali di chicchessia.
In parole povere, per quanto mi consta, ho sempre saputo che andasse sfuggita come la peste una delle peggiori calamità dell'ineleganza, ossia il fatto di "avere l'acqua in casa".
Il termine dialettale è impagabile, come sempre, ma per chi non lo avesse mai sentito, mi sto riferendo ai pantaloni lunghi che si presentano in deficit di cm. alla caviglia.
Ecco, per come la sapevo io, questo dettaglio, da parte del vastissimo range di modaioli che va dal più umile sarto per arrivare fino al creativo di eccelsa caratura, si era sempre dovuto considerare con la stessa simpatia nutrita da un vampiro per un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino, servito all'alba su di una tavola a croce.
Invece no...eh, no!!! Qui casca l'asino modaiolo.
Cosa ti vedono infatti i miei occhi rapiti per alcuni secondi da quei servizi sulle recenti sfilate cui facevo cenno prima? Una teoria di modelli fustaccioni che facevano bella mostra di sè zompettando sulla passerella, tutti con la loro buona spanna di acqua in casa. Tutti belli e alluvionati, senza eccezione alcuna, con la loro brava caviglia desnuda, eleganti come un "interdetto con la ghègna di qualcun che volò sul nid del cucùl" (cit. Andrea Mingardi, "Sfighè").
Ed è stato lì che, nella landa desolata della mia incomprensione, mi son convinto ancor di più di quanto sono campagnolo, fortissimamente campagnolo, irrecuperabilmente campagnolo.
Dalle mie parti l'acqua in casa, soprattutto negli anni passati di minor benessere diffuso, è sempre stata considerata sintomo di ristrettezze economiche o di limitazione mentale.
L'acqua in casa la doveva tollerare chi magari aveva per forza di cose "ereditato" un paio di braghe da un fratello, ed era costretto a portare quelle anche se non cadevano a pennello sul malleolo, dopo milioni di lavaggi durante i quali erano andati perduti i migliori centimetri della loro stoffa.
L'acqua in casa era poi sfoggiata puntualmente ed immancabilmente dallo scemo del villaggio. Non vi so spiegare precisamente il fenomeno, ma uno dei tanti indiscutibili dogmi campagnoli recita che ovunque ci sia un villaggio, là c'è anche sempre stato almeno uno "scemo" ufficiale, un sempliciotto sfortunato colpito da qualche tara mentale, che solitamente viene accolto dalla comunità come una sorta di mascotte di tutti. Ecco, corollario fondamentale del dogma dello scemo del villaggio è che le braghe gli sono sempre cadute regolarmente 4 o 5 dita sopra la caviglia.
Tutto questo insomma, cari lettori, per dirvi che io getto la spugna della comprensione, dichiarandomi definitivamente incapace di potermi addentrare nei sacri misteri della moda.
In passato avevo già tentato timide ribellioni estetiche, come ad esempio di fronte alla calamità del pantalone a vita bassa che, passi per il fatto di offrire ampio margine di affaccio alla fessura del salvadanaio deretanico, ha determinato anche l'incalcolabile deturpamento delle rotondità sederiali femminee. A tal proposito ero mosso proprio dalle migliori intenzioni, deciso addirittura a sporgere denuncia ufficiale presso il sommo Garante per la Culità, Tinto Brass.
Ma di fronte all'acqua in casa, mi rendo conto che tutto è inutile. Pur non applicandoli, d'ora in avanti accetterò i dettami della moda, anch'essi come dogmi, al pari di come ho sempre accettato il basilare postulato dello scemo del villaggio.
Un bel giorno, di sfuggita al tg, vedrò sfilare modelli e modelle con le mutande sulla testa, gli occhi che faranno capolino dai due buchi ignorantemente intesi dal volgo passatista come le fessure in cui un tempo andavano infilate le gambe.
E magari a chiosa dell'esibizione, verrà data la parola allo stilista in persona, che ci spiegherà come, al di là delle apparenze, il simbolismo insito nella sua scelta espressiva sarà motivato dalla volontà di non rompere definitivamente con la tradizione.
Il nuovo capo di abbigliamento andrà infatti indossato per una settimana nelle zone del corpo alle quali è sempre stato adibito dalla secolare consuetudine e solo in un secondo momento dovrà essere sfoggiato sulla testa, a significare la continuità fra i tratti istintivi e quelli razionali della personalità del vestente.
E a quel punto, a me non resterà altro che esclamare: "Minchia, che genio!!!".



mercoledì 24 giugno 2009

Adorno gillipixato 2: IO MI METIZZO, E TU?

Oggi vi propino un’altra puntata di “Adorno a modo mio”. Portate pazienza, come tutte le cose (comprese le calamità naturali) anche queste finiranno.
Una precisazione (del tutto superflua): queste gillipixate tematiche non hanno nessuna pretesa di essere delle spiegazioni rigorose. Non è il mio mestiere e non ne sarei nemmeno capace. Alla fine dunque sono solo delle andate per pensieri un po’ più incasinate del solito. Ma sempre andate per pensieri sono…sarebbe a dire: mica roba seria…

***


[...]...il concetto della filosofia non coincide affatto o non coincide senz'altro con il concetto della verità, in ogni caso con il concetto della verità nel suo uso prefilosofico o extrafilosofico...
[...]...quando incominciai a occuparmi di filosofia non mi interessava affatto di trovare quella famosa verità; volevo invece essere in grado di esprimere le mie intuizioni ed esperienze più essenziali intorno al mondo...
[...]...in questo senso la filosofia è legata assai profondamente al momento dell'espressione, al momento che nella Dialettica dell'illuminismo Horkeimer ed io abbiamo definito come mimetico.

"Terminologia filosofica" Theodor W. Adorno – 1973

Il focus di questa mini-tesi è di nuovo il termine “espressione”, stavolta specificata rispetto al suo “momento mimetico”.
Mimesi (μίμήσίς) etimologicamente significa imitazione. In queste proposizioni di Adorno, credo che il termine vada ricalibrato facendolo precedere dalla ante-specificazione “tentativo di”: mimesi come “tentativo di imitazione”. Anzi, mi voglio rovinare: in qualità di assoluto estimatore amatoriale della filosofia, nonché nelle vesti di viandante per pensieri quale io sono (e come tale, totalmente semi-irresponsabile delle mie proprie parole), stavolta tiro in ballo anche il mimetismo inteso come pratica animale di occultamento fisico.
Tutte queste premesse ci parano innanzi diversi sentieri di senso.
La pre-locuzione “tentativo di” introduce la condizione essenziale dell’umiltà: il filosofo sa di trovarsi di fronte a problematiche del pensiero molto ardue, alle quali sente di dover recare un sommo rispetto.
La consapevolezza del fatto che concettualmente si sta “tentando di imitare il mondo”, implica la conseguenza che il risultato ottenuto avrà una “presa sulla realtà” pari ad un riflesso rimandato da uno specchio.
In senso «…prefilosofico o extrafilosofico…» la verità può anche essere illusoriamente posseduta nella sua interezza. Il sapere filosofico invece sa che riuscire a far presa sui riflessi della verità è già una conquista da non sottovalutare.
Inoltre, come accennavo sopra, il momento e la modalità con cui la filosofia coglie il vero, mi pare possano essere metaforizzati bene con l’atteggiamento del camaleonte (o di altra bestiola mimetica) che si armonizza con lo sfondo naturale, nel medesimo tempo coincidendo con esso pur rimanendone staccato nella sostanza.
In misura affine, la filosofia è tentativo di imitazione della bellezza del vero, tentativo che anela a fondersi con esso, nella consapevolezza di trovarsi di fronte ad un traguardo che si sposta sempre in avanti, di pari passo coi nostri progressi di avvicinamento.
Una delle sensazioni che anche nel mio piccolo talvolta ho provato di fronte a certi concetti filosofici è stata esattamente quella di essere fuso con un senso di verità, pur rimanendo viva la consapevolezza che quella verità non la stavo possedendo a tutti gli effetti, non fino in fondo, mai.

martedì 23 giugno 2009

Adorno gillipixato 1: MARIONETTE DI SENSO


L’ultima volta che ho scritto qui su, mi sono messo a citare “roba difficile”.
Non è stato tanto per fare lo snob (…o forse anche un po’, va beh) e neppure il saccente, o l’intellettualoide de’ noantri. Il punto è che trovo molto affascinante inoltrarmi fino ai confini estremi dei concetti, provando a vedere quanto in là ci si possa spingere, forzando significati e sensazioni mentali. Tutte le frasi di Adorno che ho riportato trattavano in fin dei conti proprio di questo affascinante aspetto del pensare.
Diverse voci di gentili lettrici (leggi Farly e Maffy) mi hanno tuttavia fatto notare quanto ardua fosse l’argomentazione del buon Teddy Adorno. Mi è venuta così l’idea di riprendere alcune delle “mini-tesi” contenute in quelle frasi (così come le ho estrapolate dal discorso generale di Adorno) e cercare di approfondirle un po’ a modo mio. Con la speranza di non incasinare le cose ancora di più…

***


«...la filosofia non possiede il suo oggetto, ma lo cerca. [...]...Ciò è connesso con il momento dell'espressione: essa vuole esprimere con il concetto ciò che non è propriamente concettuale.
Se la famosa frase di Wittgenstein afferma che bisogna dire solo ciò che si può esprimere chiaramente, ma sul resto si deve tacere, direi allora che il concetto di filosofia significa precisamente l'opposto, e che la filosofia è lo sforzo permanente e quanto si voglia disperato di dire ciò che a rigore non può essere detto.

"Terminologia filosofica" Theodor W. Adorno - 1973

Il focus di questa mini-tesi è il termine “espressione”.
Forse per capire meglio può venire utile un parallelo con il mondo della matematica: espressione è una parola usata anche lì. E proprio la differenza fra come essa è intesa dalle due discipline può fornire utili indizi.
In matematica si presuppone che il significato connesso ad una certa espressione intrattenga con questa un rapporto biunivoco. Da una parte sta l’espressione, dall’altra il suo significato: afferri l’espressione, dai uno strappo, e in virtù di un solo filo di collegamento ti tiri dietro anche tutto il significato. Stessa storia nell’altro verso: tiri il significato e prima o poi, risalendo sempre lungo lo stesso filo, ti ritrovi in mano l’espressione di partenza.
In filosofia non è così. Lì, l’espressione e il suo significato sono messi in comunicazione da tanti possibili fili. Più l’espressione è complessa, più fili si aggiungono. Tanto che alla fine il significato lo possiamo vedere come una sorta di marionetta governata dall’espressione.
Nella terra di nessuno che si estende ben oltre i confini della “significazione” codificata dal senso comune, si aprono territori nei quali la marionetta del significato si presenta appigliata a moltissimi fili. Nel caso dei concetti più articolati e complessi, i fili della marionetta corrono il rischio di allungarsi nel vuoto, senza riuscire ad attaccarsi ad alcuna propaggine di significato.
L’appiglio per quei fili nessuno sa se esiste e dove trovarlo di preciso. Nondimeno nella natura dell’uomo è instillato questo istinto, questo “amore per la sapienza” (“φιλειν” e “σοφια”), che spinge a ricercarlo. E’ questo il punto in cui la filosofia si ritrova nella situazione in cui «...non possiede il suo oggetto, ma lo cerca…».
Per le domande il cui oggetto è situato alle distanze più remote, forse non esisterà mai risposta, perché la loro portata è tale da sfuggire agli strumenti del ragionamento umano. Ed è in questo passaggio che si racchiude l’aspetto più disperato e al contempo eroico della ricerca filosofica: l’irrefrenabile impeto a dover cercare comunque «…di dire ciò che a rigore non può essere detto…», l’insana saggezza che spinge a voler «…esprimere con il concetto ciò che non è propriamente concettuale…».

venerdì 19 giugno 2009

Di bellezza stasera m'Adorno...


Raramente ho letto altrove una sintesi suprema di siffatta bellezza. Un tentativo così felice di cercare una spiegazione della nostra continua ed imprescindibile relazione con l'insondabile mistero di ciò che possa definirsi bello, giusto e buono.

«...la filosofia non possiede il suo oggetto, ma lo cerca. [...]...Ciò è connesso con il momento dell'espressione: essa vuole esprimere con il concetto ciò che non è propriamente concettuale.
Se la famosa frase di Wittgenstein afferma che bisogna dire solo ciò che si può esprimere chiaramente, ma sul resto si deve tacere, direi allora che il concetto di filosofia significa precisamente l'opposto, e che la filosofia è lo sforzo permanente e quanto si voglia disperato di dire ciò che a rigore non può essere detto.

[...]...il concetto della filosofia non coincide affatto o non coincide senz'altro con il concetto della verità, in ogni caso con il concetto della verità nel suo uso prefilosofico o extrafilosofico...[...]...quando incominciai a occuparmi di filosofia non mi interessava affatto di trovare quella famosa verità; volevo invece essere in grado di esprimere le mie intuizioni ed esperienze più essenziali intorno al mondo...[...]...in questo senso la filosofia è legata assai profondamente al momento dell'espressione, al momento che nella Dialettica dell'illuminismo Horkeimer ed io abbiamo definito come mimetico.

[...]...Se la filosofia cerca una verità, questa non consiste primariamente nell'adeguazione di proposizioni o giudizi o pensieri a stati di fatto dati e precostituiti, ma si tratta assai di più del momento espressivo. Posso esprimermi solo in questa forma così vaga; ma è meglio esprimere un concetto in modo vago e onesto e adeguato, che in modo preciso, se la precisione significa falsità.

[...]...Vi prego caldamente di non biasimare questa mancanza di precisione, ma di cercare invece di vedere se anche voi non avete un'esigenza simile - il bisogno di dire; nel Tasso goethiano si dice che se l'uomo nel suo tormento tace, un dio gli ha concesso il dono di dire il suo dolore. Questo è ciò che ispira piuttosto la filosofia; si potrebbe quasi dire che essa vuole tradurre il dolore nel linguaggio del concetto.

[...]...La verità è sempre e senza eccezione qualcosa di eccezionalmente fragile, e lo stesso vale anche per il concetto di filosofia a cui vi ho accennato. Essa non deve per altro essere intesa come una sorta di pensiero dilettantistico, a ruota libera, variabile secondo i bisogni accidentali e individuali.

[...]...Il problema o la legge di movimento della filosofia è come questo tentativo di espressione, che attraverso i suoi mezzi, e cioè i concetti, avanza pur sempre la pretesa di una validità obiettiva, come questo tentativo di espressione possa andare al di là della mera accidentalità della notificazione di ciò da cui uno è mosso.

[...]...Che qualsiasi esperienza sia mediata dal soggetto che la compie è ovvio per tutti; ma è altrettanto vero il fatto a cui di solito gli uomini pensano meno, anche se sicuramente non è meno evidente, che ogni esperienza è anche mediata dal suo oggetto. Senza qualcosa a cui riferirsi, senza un sostrato, non ci sarebbe nessuna esperienza affatto. Il cammino della filosofia...[...]...potrebbe essere chiamato l'oggettivazione di quelle esperienze originarie.

[...]...penso che di fronte all'enorme preponderanza del mondo reificato, il mezzo con cui possiamo sfuggire all'apparenza che questo mondo sclerotizzato, prefabbricato ci impone, consista effettivamente[...]...,vorrei quasi dire, nel fatto che noi conserviamo un momento di ingenuità. Si dà così questo paradosso che la filosofia, che è in primo luogo l'esigenza di considerare il fenomeno senza ingenuità, d'altro lato è anche l'esigenza dell'ingenuità, nel senso che non ci si lascia gabbare, non si prende per buono quello che il mondo dice, ma si insiste, si tiene fermo a quello che si è visto coi propri occhi, vorrei quasi dire con l'ostinazione del bambino.

[...]...la filosofia, in quanto espressione nel senso che ho indicato prima, rappresenta nello stesso pensiero ciò che non è concetto, che non è un principio di ordine, di organizzazione logica. In questo senso la filosofia - ed è ciò che la distingue costitutivamente dalla scienza - ha effettivamente una sorta di affinità con l'arte...».


"Terminologia filosofica" Theodor W. Adorno - 1973

giovedì 18 giugno 2009

Piccoli mulini a profumo


Ci sarà tempo ancora di andar per pensieri in maniera altisonante, para-intellettuale e trombonescamente magniloquente (ed il Cielo sa quanto mi piaccia farlo).
Ci saranno altre occasioni per disquisire andando a parare fra i meandri di una complessità labirintica dalla quale si stenta a volersi distaccare.
Per stasera volevo solo occuparmi di un piccolo fatto senza senso che mi è successo, un dettaglio minimo della mia giornata.
Non sempre è obbligatorio affibiare un significato ad ogni cosa. Anzi, forse molto spesso è proprio questo uno dei guai principali: siamo così preoccupati di interpretare gli eventi che ci accadono, che quasi non troviamo più il tempo di viverli. Semplicemente, linearmente, armonicamente viverli, e niente altro.
Ero dunque impegnato in chiacchiere con una persona cara, ed assorto nell'andirivieni dei ragionamenti facevo quello che si fa a volte in simili circostanze: piccoli gesti senza finalità alcuna, cincischiate manuali che sono un esatto sintomo del piacere nella conversazione.
Il caso ha voluto che nel raggio delle mie escursioni gesticolatorie ci fosse un grazioso e grande cespuglio in fiore. Non chiedetemi di precisare che specie di pianta fosse: ho già dato prova diverse volte anche qui della mia insipenza botanica, nonostante un sostanziale amore di fondo che provo per tutta la vegetalità in genere.
Fatto sta che, nella insensatezza distratta del mio gesticolar-discorrendo, mi son messo a cogliere un fiorellino. Sempre più intento al senso delle chiacchiere che al mio agire, sono passato quindi ad osservare quella minuzia fatta petali.
Mi sono ricordato allora di aver già osservato da vicino altre volte questi fiorellini e del piacere estetico che mi avevano già regalato. E pian piano la mia concentrazione si è spostata dal dialogo alle considerazioni su quella piccola armonia di forme naturali.
«Un piccolo mulino» ho pensato, «e...buffo: chissà per quale legge genetico-adattativa ambientale la natura nel suo corso avrà stabilito che le pale di questi mulinelli dovevano essere sei», continuavo nelle mie elucubrazioni "a fiore in palmo".
Ma a volte, a voler osservare troppo l'ago va a finire che ci si scorda del pagliaio. Così, ho rivolto lo sguardo all'insieme ramifogliato del grande arbusto, per amplificare il piacere nell'osservazione di quella piccola esa-meraviglia.
Ed è stato lì che «Accipicchia!!!» avrei voluto esclamare fra me e me, ma di fatto «Minchia!!!» mi sono detto molto più semplicemente: sulle otto migliaia di fiorellini che vestivano il manto fogliaceo della bella pianta, vigliacco se ce n'era un altro con sei petali. Tutti, ma prorpio tutti gli altri 7999 piccoli mulinelli profumati sfoggiavano solo 5 piccole pale! Ed io, con un gesto del tutto casuale, pescando distrattamente in mezzo a quella moltitudine, avevo pescato proprio l'unica eccezione.
Ecco, ve lo avevo preannunciato che vi avrei parlato di un fatto minimo e senza senso. Ma il suo mancato senso non toglie all'episodio medesimo il piacere indefinito provato nel prendervi parte.
Se proprio devo dirla tutta, nel frangente non mi sono fatto mancare nemmeno mini-escursioni letterarie, riportando per assonanza alla mente i mulini a vento sfidati dall'allampanato cavaliere della Mancha.
E stavo poi quasi per cadere irreparabilmente nella mia consueta concettuosità, riflettendo sulla bellezza delle eccezioni e per contro su certa ottusità diffusa che si ostina invece a volerci imporre la norma come solo territorio estetico da preferirsi.
Ma come promesso, oggi c'era spazio solo per un fatto da niente, senza significato. Niente pensieri, niente concetti: per oggi solo le piccole sei pale di un mulino a profumo.


sabato 13 giugno 2009

Viva Riga!!! (…Lettonia?...)


Lungo la strada che ogni mattina mi sbarbo a piedi dalla macchina all’ufficio, c’è un marciapiede nuovo. Ti accoglie il piede con la sua bella piastrellatura regolare, del tipo un po’ più elegante dunque di quelli normalmente ammantati in bitumaccio asfaltoso.
Quasi un favo zeppo di miele per quei vecchi orsi dei graffitari cittadini.
Infatti, dal giorno che le mie suole hanno preso a posarsi sull’opus certum di questo camminamento, l’ho sempre visto corredato della sua bella scritta d’ordinanza fatta a bomboletta spray.
Ora, il testo per esteso della frase non ve lo posso riportare qui. Sapete com’è: non ho attivato l’avviso dei contenuti per adulti in questo blog e non mi pare il caso di scialare con cotanto marchingegno telematico per una sola volta che sfioro concetti anche solo vagamente “de’ ppproibbito”.
Tanto l’avete capito: è la scritta più classica delle scritte, il biglietto da visita dei più inclusivi cessi delle stazioni, la pietra filosofale del buzzurrismo maschile italico. Usualmente formata da tre paroluzze, nei suoi contenuti si può ravvisare il più sincero auspicio di lunga esistenza invocata per l’acronimo di una non meglio specificata «Federazione Italiana Giochi Amatoriali».
Ecco, in linea di principio non ho niente da eccepire sui contenuti di tale proposizione. Anzi.
Alzi la mano chi non vorrebbe che la “summenzionata con perifrasi” vivesse per sempre e vieppiù, florida e leggiadra in ogni dove.
Avanzerei tuttavia un paio di eccezioni. Una di metodo e una di stile.

In termini procedurali, trovo che imbrattare a destra e a manca ogni superficie urbana sia usanza alquanto squallida. Lo so, lo so: datemi pure del parruccone vetero-borghese e retrogrado, rincarate la dose rammentandomi che senza questa peculiare tendenza creativa non avremmo avuto modo di apprezzare la genialità di grandi artisti del calibro di Keith Hering e Basquiat.
Mi direte pure per soprammercato che certe periferie urbane si presentano in uno stato di desolazione tale che qualsiasi scarabocchio su di esse tratteggiato, anche il più modesto, è come una boccata fresca d’aria estetica pura dentro una fogna visiva, è l’olezzo delicato di una margherita posata su un letamaio.
Tutto vero.
Ma avete presente quando una faccenda vi dà fastidio anche se in teoria ogni elemento per comprenderne le ragioni più profonde è pienamente a vostra disposizione? Succede, dai.
E poi c’è in effetti una ragione più articolata: a mio parere ogni elemento architettonico ed urbano dovrebbe essere concepito con una sua autonoma forza “iconografica” tale da riuscire a distinguersi ed imporsi con mezzi estetici propri, per così dire. Ogni scritta sovrapposta, ogni immagine appiccicata sopra (in primis dunque tutto il ciarpame pubblicitario odierno), decretano la sconfitta della forza comunicativa del paesaggio urbano, al pari di ciò che può accadere ad un poeta costretto a spiegare i significati delle proprie composizioni.
E’ anche vero che una “scritta pirata” appiccicata su di un elemento architettonico già di per sé brutto, innesca un cortocircuito di contraddizioni che invita alla riflessione, ma nella sostanza questo atto rimane sempre la sovrapposizione di una “sconfitta visuale” sopra una sconfitta già acclarata.

In termini di stile invece eccepirei il fatto che il messaggio trasmesso con quella scritta è troppo scontato, è la più genuina banalità fatta parola. Dire «…Viva la “summenzionata con perifrasi”…» è come dire «…Viva la pasta asciutta…», «…Viva il vino buono…», «…Viva il rock’n roll…», «…Viva la pizza…».
Anzi, si tratta di una tautologia bella e buona, perché è esattamente come dire «…Viva la vita…» stessa.

Perché dunque, riguardo a questo tema, sprecare parole, elettricità, memoria sul server di blogspot e soprattutto margini di pazienza e di sopportazione residua negli zebedei già rigonfi del lettore?

Diciamo che nella fattispecie, il fattore degno di innescare un’«andata per pensieri» è stato fornito proprio dalla banalità e dall’ordinarietà della ritrita frasetta. Per sottolineare come anche intorno alla più infima forma di espressività umana, ci si possa divertire ad indagare retroscena mentali e scenari esistenziali ipotetici fra i più disparati, ci si possa “sherlockholmesizzare” per gioco, dilettandosi a lasciarsi condurre, senza opporre resistenze razionalizzanti di sorta, laddove le nostre più strampalate idee ci invitano a vagare.

Quello che infatti non vi ho ancora detto finora, è che la scritta specifica sul mio marciapiede quotidiano presenta una piccola particolarità. Non dice «…Viva la Federazione Italiana Giochi Amatoriali…», come si è comunemente abituati a vederla istoriata. Il suo enunciato suona invece così: «Viva Federazione Italiana Giochi Amatoriali».
Ecco, sempre più che d’accordo con coloro che mi rimproverano di non aver proprio nulla da pensare, ma fatto sta che questa elisione dell’articolo mi ha sempre suscitato un piccolo moto di curiosità sin dal primo giorno che ho calpestato quel marciapiede sfiorando con le suole quella verità senza tempo.
Come mai il graffitaro ignoto ha deciso di fare a meno dell’articolo “la”?
Un’ipotesi è che nel corso della redazione del testo, il nostro “banal uomo da marciapiede” sia stato messo sul chi vive dall’avvicinarsi di qualcuno, magari proprio una pattuglia dei vigili urbani. Ma ad una più attenta analisi dello scenario congetturato, si profilano all’orizzonte elementi di contraddizione palesi: se così fossero andate le cose, non sarebbe stato più plausibile ritrovare, la mattina seguente, una scritta del tipo «…Viva la F…», oppure, al massimo (…via, voglio sprecarmi), un quasi autosufficiente «…Viva la Fi…»?
E anche volendo concedere all’artista un accredito di stima sovradosato, questa pista sembra proprio non reggere ad una verifica più serrata. Hai voglia infatti a dare tutto il fiato possibile alla sua levatura intellettuale, ma di fatto non ce lo vedevo in possesso di una proprietà del linguaggio tale da consentirgli il lusso di concepire una rapida disamina al volo dei pro e dei contro semantici in gioco, scegliendo poi in pochi secondi la migliore sintesi che avrebbe salvato la “capra significativa” ed i “cavoli espressivi”.
Perché allora il risparmio sillabico è stato introdotto a metà frase e non alla fine?
L’altra supposizione alla quale mi sono appigliato è stata allora che il nostro creativo fosse originario dell’est Europa. E qui mi si è aperto tutto un altro reparto nello scenario della mia «andata per pensieri». Se questa seconda traccia era valida, perché il nipotino del Suprematismo non aveva optato magari per l’alfabeto cirillico? Perché non aveva scritto qualcosa come «…віва Фіга…», oppure, semi-occidentalizzando, «…Ievviva patatovna…»?
Così, in modo ancor più sconclusionato, mi sono risposto che doveva trattarsi di un caso di felice integrazione del creativo straniero nel nostro paese. Non è stato per banalità, non per leggerezza che ha voluto scrivere la sempiterna frasetta su quel marciapiedi.
No, no: per lui istoriare sul suolo bianco-rosso-verde quelle otto lettere ha significato unire la propria voce al più popolare degli inni nazionali italioti. Certo, elidendo l’articolo, ci ha tenuto ha sottolineare le proprie origine, che, ovvio, nessuno può mai dimenticare. Ma quello che ha voluto proclamare è stato: «…Che viva dunque, sì!!! Sono qui anche io e piace tanto pure a me!!! Mi piace nello stesso modo in cui piace a voi!!! Mi piace nella vostra lingua!!!...».





mercoledì 10 giugno 2009

I have my books and my poetry to protect me

Quando la poesia sa allungare la propria carezza attraverso il tempo...



martedì 9 giugno 2009

Sulla porta a soffietto del mondo


L’asociale è quel tizio che, pur essendo convinto esattamente del contrario, ha un notevole bisogno degli altri.
In qualità di assuntore abituale di sostanze asocial-facenti, questo frammento di vero mi è balenato in mente verso un fine mattinata di un qualche sabato fa.
Stavo praticando uno dei miei sport preferiti: disteso sul letto, la finestra aperta che respirava brezza fresca filtrata solo dalla sottile membrana della tenda, sleggiucchiavo mentre l’arietta carezzevole mi calzava i piedi come un paio d’infradito di vento.
Capita a volte, se certe questioni non ti sono ben chiare, di imbatterti in una metafora (“…Toh!...una metafora…”) e grazie ad essa sembra quasi di averci capito qualcosa in più.
Spesso si tratta di piccoli frammenti di realtà nei quali ti ritrovi tuffato. Non fai in tempo a sentire lo splash metaforico e già sei lì a domandarti se si tratti più di suggestione o cosa, oppure se i significati che leggiamo in queste “comunicazioni di servizio” della quotidianità posseggano una loro effettiva fondatezza di senso.
Poi però dici: «…E va beh, chi se ne frega, l’«andarperpensieri» è attività onlus senza finalità commerciali, e per di più praticabile gratuitamente…tanto vale sguazzarci due minuti…».

Cosa c’entra insomma l’asocialità con l’aria sui piedi?
Mah…so che adesso non vi fiderete, però io dico che c’entra.
Ero lì infatti in bilico su un punto molto interessante del mio libro, quando ho cominciato a sentire quella sensazione a metà fra il freschino un pelo di troppo inoltrato, ed una sua piacevolezza residua non del tutto disdegnabile (tenete conto che era una di quelle mattinate seguenti agli ultimi acquazzoni).
Dopo una strenua ed eroica lotta contro la mia pigrizia di lungo corso che mi incollava al letto, ma soprattutto contro il sommo senso di indecisione che mi impediva di stabilire con gordiana “sfessatura del nodo” se quella fosse una situazione di temperatura gradevole oppure no, mi sono alzato ed ho accostato i vetri della finestra, abbassando anche un po’ la serranda.
E’ stato a quel punto che la metafora mi ha folgorato: così come mi ero sentito in stato vigile di frizzante “epidermicità” con la finestra aperta, provavo ora un remoto e sfumato senso di asfissia prossemica coi vetri accostati. Ho capito così che quella brezza era il collante figurato della mia dimensione sociale ideale: nel mio essere non c’è posto né per la socialità di senso compiuto a finestre spalancate, ma nemmeno per l’asocialità dura e pura ad imposte serrate. La mia essenza narra un me stesso sempre attestato sulla soglia di un rapporto con gli altri lieve ed ondeggiante come un soffio di vento.
La finestra la devo lasciare socchiusa, per avere la conferma costante che gli altri sono sempre là, nella consapevolezza di un profondo bisogno di sentirli. Ma la tenda nel mezzo va lasciata distesa a filtrare l’irruenza dell’aura di coloro che non sono me.
E sapere che studiare i giusti contrappesi nell’equilibrio sottile fra aria interna e atmosfera naturale, fra penombra nella mia stanza e luce del sole, in fondo non è altro che studiare come la vita possa essere vissuta.
Per non provare troppo freddo, quando la brezza spira molto intensa.
Per non sentirsi soffocare, quando quell’ossigeno umano si fa troppo rarefatto.

domenica 7 giugno 2009

Piccolo mondo antico...FOGAZZAROOO!!!



E' un periodo che ho un po' le idee confuse...

mercoledì 3 giugno 2009

...'zzo ridi?!?!?




In questa sciacquatura di società
condannata ai sorrisi forzati
io rivendico il mio diritto alla tristezza.

Solo così posso sperare
di aspirare
a minimi ritagli di serenità.

lunedì 1 giugno 2009

La Spargnaclata

Ad un campagnolo di recente generazione come me, capita di essere affetto da imperizia botanica di ritorno, nonchè di manifestare "ignurantia ruralis" diffusa.
Come ho già avuto modo di dire altre volte infatti, non conosco molto i nomi delle piante, dei fiori e delle varie espressioni vegetali del campagnolame disperso che mi circonda.
E' un fatto del quale andare poco fieri, se non fosse che mi sono accorto di un piccolo lato positivo della cosa.
Tale insipienza naturalistica mi consente di mantenere una bella riserva di stupore capace di esprimersi in periodiche, piacevoli sorprese.
Stamattina lavoricchiavo in giardino ed ho avuto modo di osservare con più attenzione del solito una pianta che è lì da parecchio tempo ormai. Con queste mini-epifanie vegetali capita proprio così: hai sotto il naso per anni l'elemento del tuo stupore, ma l'incontro fra esso e la tua attenzione avviene a sorpresa, quando meno te lo aspetti e meno ci pensi su.
Guarda caso la pianticella suddetta sfoggia proprio in questi giorni il suo spettacolo di fioritura. Ora, è vero che io sono miope, ma non completamte attalpato. Voglio dire, me n'ero già accorto anche prima di quei fiori di un rosso intenso, ma è stato solo portandomi più vicino ai rami che ho potuto cogliere un piccolo dettaglio fascinoso.
Le diverse fasi della fioritura erano tutte presenti all'unisono sulla pianta. Era come se quell'amica fronzuta avesse voluto prodursi in una lezione di botanica appositamente impartita per campagnoli ritardati come me, tenendo lunghi i tempi della sua manifestazione sbocciatoria. Un corso di recupero "ex-cathedra vegetalis" per asini naturalistici, fornito presentando in una panoramica riassuntiva tutti i passaggi del suo infioramento.
A questo punto potrebbe magari saltare fuori il nipotino di Linneo di turno a dileggiarmi come un vecchio bacucco ("...buuuhhh, sémoooo!!!..."), sostenendo che questo fatto è arcinoto e succede con tante altre piante. E va beh, che sia così o cosà, io non lo sapevo. Magari lo potevo immaginare, ma non ci avevo mai fatto caso in modo così preciso. Sono un campagnolo sgangherato e distratto, l'ho già ribadito.

Il dettaglio che più mi ha smosso la fantasia è che mi è parso di individuare quattro fasi principali. Tutte pregne di un'aura sensuale molto intensa, quasi un erotismo vegetale, oserei dire. D'altra parte, non a caso, fiori, petali, stami, sepali, pollini e pistillame vario sono esattamente il repertorio sexy del mondo della flora.


Il primo passaggio è tutto riassunto in un piccolo bozzolo di marzapane ceramico. Si sente sotto la forza vitale che spinge. La lucidità della superficie aggiunge un tocco di eleganza preziosa, che illumina il bocciolo come una parte nobile rispetto al resto della vegetazione circostante. La superficie liscia e scivolosa dona un ulteriore indizio di fisicità potenziale.


Qui tutte le promesse del precedente momento esplodono nel loro vigore. L'imminenza del fiore rimane sospesa nell'ambigua incertezza che sottilmente separa il senso di un suo spontaneo aprirsi da quello dell'essere violato. La pianta fa l'amore con l'aria.


Questa è pura danza liberata dall'ampia gonna di un'elegantissima tanguera che fruscia fra i rami i suoi passi seducenti. C'è anche qualcosa della sensuosa malia del foulard estratto a sorpresa dal cappello del prestigiatore. Il residuo di bocciolo che fa capolino in basso è al tempo stesso i fianchi voluttuosi della ballerina di Tango e il cilindro del mago.


Ora il fiore ha raggiunto l'eleganza della nobildonna di grandissima classe. Nessuno sforzo per piacere è più richiesto. Il tributo alla sua bellezza è semplicemente dovuto per naturalità di cose. La sua forza estetica s'impone con ineluttabilità, esige l'accordo ammirato che non si può non concedere a ciascuno degli altri fenomeni compiuti della natura.

Come dicevo, non conosco di preciso il nome di questa pianta. Mi pare che sia della famiglia dei melograni. Ma mi parrebbe piuttosto goffo a questo punto cercare di documentarmi con precisione in merito. Nello spirito genuino del campagnolo mediamente ignaro, mi sembra molto più onesto creare un nome apposito per l'occasione.
C'è un buffo verbo nel mio dialetto, che come molti verbi dialettali è usato per uno spettro fenomenologico assai ristretto e specifico: spargnaclare.
Una prugna matura che cade a terra, si spargnacla.
Un malloppo di cigliegioni rubati e messi di fretta nella maglietta rimborsata a mo' di sacchetto di fortuna, si spagnaclano se sei costretto a scappare via di corsa quando di colpo il contadino salta fuori e ti corre dietro con la doppietta caricata a sale grosso.
Spargnaclare in italiano sarebbe una sorta di spiaccicare, ma in dialetto implica un maggior sfregamento, un attrito più denso fra gli elementi in gioco.
Ecco perchè, per rendere conto della natura voluttuosa e sensuale di questa pianta, con particolare riguardo al passaggio in cui il suo bocciolo di marzapane si spargnacla per aprirsi in un bellissimo fiore, mi piace chiamarla la Spargnaclata.

E così sia.