martedì 29 novembre 2011

You rebound me, ah Cicaló!

Scusate tanto, cari amici viandanti per pensieri, ma oggi mi tocca “rimborsare”. Nel senso che mi viene da trattare ancora di Borsa. Però lo farò solo in maniera accessoria, perché il vero tema sarà un’espressione giornalistica molto frusta e ritrita, letta sin anche troppe volte in questi tempi “borsaioli”.

Lo so che in un periodo come questo, più ricco di guai in giro che di soldi nelle tasche, a lamentarsi di eventuali fastidi linguistici, si rischia di far la figura di quel vaccaro che, uscendo dalla stalla dopo 10 ore di letame spalato, andò su tutte le furie per aver pestato una cacca di cane, appena messo piedi fuori nel cortile.

Ma è più forte di me, non ci posso fare niente. Il rispetto che ho per il linguaggio, lo sapete, è supremo. Quando un modo di dire viene maltrattato, ridotto a stereotipo, biascicato e privato di qualsivoglia sapore semantico, come una “big babol” rimasta in bocca per tre giorni all’Abominevole Uomo delle Nevi, beh, mi scatta l’impeto dell’inutilità critica, il moto all’invettiva donchisciottesca, l’esigenza della lamentela all’ufficio reclami surreali.

E dire che di per sé non sarebbe nemmeno quel gran guaio linguistico. Quando vi rivelerò l’espressione, giustamente direte: tutto qui? Il fatto è che l’innesco futil-protestario nasce proprio dall’abbinamento con l’argomento Borsa. Per farla breve, non sopporto quando vedo scritto “…oggi la Borsa tenta il rimbalzo…”.

Il punto che m’infastidisce di più è che trattano le dinamiche della Borsa come se ci fosse dietro qualcosa di preventivabile con certezza. La cosa che mi causa più irritazione verbale è questo contrabbandare un fenomeno del tutto avulso dalla logica comune, come fosse la faccenda più lineare e limpida del mondo.

Ma “tenta il rimbalzo” de chè?

Per dire, ieri in mattinata presto, erano riportate due notizie all’apparenza finanziariamente micidiali. Primo: una qualche autorità dell’Olimpo danaresco, non so se fosse “Foofy’s” oppure “Grattapall & Burs”, ha annunciato che per l’Italia nel 2012 è quasi certa la recessione. Secondo: sempre da un’altra di quelle mecche borsaiole, si paventava come imminente addirittura il default a catena degli stati europei, in pratica un grosso domino della sfiga monetaria.

Cosa ti aspetteresti con simili premesse: gli indici che colano a picco come capitoni di ghisa. E infatti: Piazza Affari fa segnare un bel + 4% e passa, bello grasso. Allora io mi indigno e dico: ma la volete piantare di fare previsioni “ad minchiam” che tanto non sortiscono mai una “favam”? Fate prima, ed è molto più onesto, a dire: anche oggi aprono le borse, vediamo un po’ come minchia si mette…

Altrimenti, seguendo questo criterio, ecco che tutti potrebbero scrivere, dire, sentire o credere tutto, su tutto. Non so quante volte ho letto, all’indomani di una giornata negativa dei mercati: oggi le Borse tentano il rimbalzo, e poi sono andate peggio che andar di notte.

Mi aspetto allora, un giorno o l’altro, il resoconto di un incidente stradale: «…coinvolta solo un’auto, di grossa cilindrata, si è schiantata contro un platano, distruggendosi completamente; il conducente, uscito miracolosamente illeso, ha dichiarato: “Stavo tentando il rimbalzo!”…».

Oppure, passando vicino ad un capannello di amici, in mezzo ai quali un tizio si tiene su saldamente le braghe a due mani, sentire uno degli astanti mentre spiega a tutto il resto del gruppo: «…sapete, ha avuto la diarrea per tre giorni: sta tentando il rimbalzo!...».

O ancora, passeggiando nei pressi di un cantiere edile, udire una stentorea esclamazione “bestemmiale”, girarsi nella direzione dell’urlo e vedere un muratore che, mollato il martello a terra, sacramenta tenendosi il pollicione dolorante, con a fianco un collega premuroso a rimbrottarlo: «…te lo dicevo io di non tentare il rimbalzo!...».

martedì 22 novembre 2011

Ha da venì Borsone!


E’ incredibile come il mondo, nonostante all’apparenza si sforzi di ripartire, dopo ogni svarione storico, da basi assolutamente logiche, frutto della ponderazione razionale più accurata, sappia poi invece rivestirsi con rinnovata e periodica regolarità di vastissimi soprabiti globali di insensatezza pura.

O perlomeno questo è il modo in cui sembra procedere l’ampio spettacolo planetario, quando dall’esigua balconata della mia ignoranza getto di sotto svagate occhiate, sospeso come sono fra le attonite pareti dell’insipienza comune che avvolge le mie banali opinioni. I fenomeni più bislacchi si possono rimirare, poggiando i gomiti sulla ringhiera di quel punto d’osservazione tutt’altro che privilegiato.

Quand’ero piccolo, c’era il comunismo. E allora pensavo: «…boh, sarà che io sono piccolo e capisco poco, ma ‘sto comunismo, per carità, sì, certo, sarà nato con tutte le intenzioni più buone immaginabili, ma a me mi pare proprio una gran bella boiata coi fiocchi, con tutti i danni che sta portando agli uomini…».

Poi sono diventato un po’ più grande e un bel giorno il comunismo è finito. Si è cominciato ad invocare da tutte le parti il mercato più libero possibile e la grande finanza è divenuta il nuovo sfavillante pastrano posato sulle spalle del mondo. Intendiamoci, non che tali invocazioni siano terminate nemmeno oggi, ma io intanto continuavo a pensare: «…boh, sarà che io sono un po’ più grande e capisco poco, ma ‘sta “finanziarizzazione della realtà”, per carità, sì, certo, si sarà gonfiata in lungo e in largo con tutte le intenzioni più buone immaginabili, ma a me mi pare proprio una gran bella boiata coi fiocchi, con tutti i danni che sta portando agli uomini…».

La cosa più bella poi è che ogni epoca ha i suoi “espertoni”, quelli che sanno “leggere” gli andamenti planetari e ti vogliono persino far bere di averci capito qualcosa. Lo spasso più spicciolo lo si ricava dalla lettura dei giornali. La parte più esilarante è quando pretendono di seguire passo passo le oscillazioni dell’indice di borsa, come se fosse il riflesso fedele di quanto sta avvenendo, minuto per minuto, nel dibattito politico in atto, nel confronto sociale, nelle dinamiche dell’economia reale stessa.

Adesso che sono ancora un po’ più grande, ho deciso di rivelarvi tutto quello che avreste voluto sapere sulla Borsa, ma anche quelle volte che voi insistevate osando a chiedere, nessuno si era mai degnato di rispondervi. E’ inutile che ce la vengano ancora a menare con le analisi raffinate, l’auscultazione attenta dei “rumors”, l’osservazione sagace degli andamenti economici nel concreto.

Le recondite ragioni annidate dietro le dinamiche di Borsa vanno fatte piuttosto risalire ad un vetusto codicillo, già noto alla sapienza filosofico-giuridica degli antichi romani, i quali lo riassumevano sinteticamente con un’eloquente formuletta, atta a cogliere la fattispecie di talune situazioni che si vengono ad innescare nel corso del dispiegarsi ordinario delle forze in atto nell’ambito del “consorzio umano”.

Per farla breve, i meccanismi della Borsa funzionano «ad culum». La conferma del fatto che anche questo bel cappottone surreale moderno posato sulle teste di ciascuno di noi segua la regola aurea individuata dalla sagacia romana secoli or sono, è venuta da una recente indagine condotta dall’agenzia di rilievi statistici e demoscopici «Foofy’s».

Cos’hanno scoperto infatti gli esperti di «Foofy’s»? Da un rilievo su campione significativo, è stato notato che gli speculatori più influenti ed esperti, gli operatori di Borsa capaci di ottenere i più clamorosi successi, sono tutti caratterizzati da un profilo familiare simile. Di età relativamente giovane, sposati, sono solitamente corredati da uno o più marmocchi piccoli a rendere baldanzose le loro serate di felici papà dal portafoglio gonfio. L’esperienza e la professionalità di «Foofy’s» è da sempre basata sulla peculiarità del proprio metodo di studio, solitamente improntato alla più aperta inter-disciplinarietà degli strumenti di ricerca adottati.

Ecco dunque che gli acuti analisti di «Foofy’s» non hanno mancato nemmeno in questa occasione di insaporire il mero dato statistico con importanti nozioni incrociate di contorno, derivanti da altri ambiti di studio. In particolare, nel presente caso, dietro consulenza di uno dei massimi esperti a disposizione dell’agenzia per quanto riguarda le conoscenze etnografiche e sulle tradizioni dei popoli, l’esimio professor Rudebaudo Sfillibonzi, è stato riportato alla luce un antico strumento metaforico di origini vagamente Gillipixilandesi. Simile rozza allocuzione viene adottata dai rappresentanti di quell’arretrato popolo, quando sono soliti rivolgersi all’indirizzo di un qualche loro conterraneo a tutti noto per non spiccare di particolare attendibilità, né pratica, né intellettiva.

«…A’t sì scüs ‘me’l cül d’un pütel picén…», usa dire infatti in quelle circostanze il sapido popolano gillipixilandese. Espressione che travasata nella limpida damigiana dell’idioma manzoniano, suonerebbe più o meno: «…Sei degno di fiducia e prevedibile come il culo di un neonato …».

Ora, in che misura la lungimiranza statistica del professor Sfillibonzi ha avuto modo di dispiegarsi in questo particolare ambito d’indagine? Il suo colpo di genio è consistito proprio nell’innestare quella tradizionale sentenza con i dati derivanti dall’analisi conoscitiva condotta sul campo.

Ne è sortito un risultato strabiliante. Si è scoperto che i grandi speculatori vincenti, per addentrarsi fra liane e frasche nella giungla di azioni ed obbligazioni, basano le loro strategie su di un’attenta osservazione dell’attività “micro-sederiale” dei loro infanti. Per dirla con una sintesi veramente stringata, quando ogni giorno valutate sulle pagine dei giornali quegli eleganti ghirigori riflettenti l’andamento cronologico quotidiano dei valori in Borsa, sappiate che il medesimo grafico avreste potuto osservarlo poche ore prima sui pannolini degli affaristici pargoli.

Produzione abbondate: si compra.
Produzione ridotta: si vende.
Produzione notturna a sorpresa: si azzarda il grande colpo speculativo.
Produzione quotidiana a flussi regolari: ci si attiene a mosse moderate.

Questi, assicura il professor Sfillibonzi, sono i misteriosi e più oscuri ingranaggi che azionano il grande carillon della finanza mondiale. Dite che anche lui ci ha pigliato leggermente «ad culum»? Sarà…ma di certo non lo ha fatto né più e né meno di tutti gli altri grandi esperti mondiali di Borsa.

domenica 20 novembre 2011

Rodi et amo


Se uno vive a Gillipixiland, finisce per approfondire in maniera particolare la conoscenza del celeberrimo motto latino «odi et amo». Diciamo che, per colmo di paradosso, è un posto di cui ti puoi innamorare. Perché certe volte ti fa tanto incazzare, che piuttosto di dargli ragione, prendendo su baracca e burattini per andare a stare da un’altra parte, t’incapponisci e ci resti.

Oggi c’era ancora la nebbia. Di quelle moleste, appiccicose, come un botolo ringhioso, che ti si attacca al garretto e non molla un raggio di sole nemmeno intorno alle ore più calde del giorno.

Da un punto di vista poetico, la cosa può presentarsi sotto sembianti anche notevoli.

Ad esempio, sotto sera, inforcando la mia bici e prendendo la strada del bar per recarmi al canonico “tristy hour” domenicale, pensavo a Fellini. Sapete, la leggendaria scena di «Amarcord». Quella in cui il nonno si smarrisce nella nebbia e viene colto da una sorta di struggente trance tra il gioioso, l’arcano e l’iper-malinconico. I fenomeni naturali hanno da sempre sull’uomo un potere evocativo particolarmente intenso. La nebbia di «Amarcord» è uno dei simboli più potenti espressi da questa terra in cui vivo. Una terra talmente piana e lineare, evidente nella sua banalità estrema. Ma una terra che sembra avere incorporata nella sua essenza la poetica dei dipinti di Edward Hopper, dove l’invisibile scaturisce dall’evidenza più lampante ed inconfutabile.

Tutto questo pensavo, pedalando verso la piazza, avvolto da un tabarro di bruma. Però poi mi è venuta in mente un’altra cosa: minchia, è quasi una settimana che da queste parti c’è sta nebbia e non vediamo il cielo, neanche a mezzogiorno. E allora mi sono domandato: «…Non è che, invece di “Amarcord”, sono finito dentro “A dà via’l cül”?...».

venerdì 18 novembre 2011

Gillitedium Orsipixell

«…Careful with that axe EuGil…»
Pink Floyd - 1972 - Rivisited 2011

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Sono stato piuttosto assente, negli ultimi tempi.

No, non nel senso di una lontananza fisica da chissà chi o da chissà dove. Sono stato assente da me stesso. E nemmeno tuttora, va detto, presenzio granché in me.

Le energie narrative languono vaghe ed acquattate in qualche lontana grotta, profonda ed irraggiungibile, per il momento. La mia scrittura si gode un teporoso letargo. Si ridesterà, lo so. Da vecchia orsa fedele qual è, non mi ha mai tradito. E’ soltanto un po’ bizzosa, fa come le pare.

Di tanto in tanto arrivano momenti in cui non si vorrebbe più proferire verbo. Il capitolo del dire appare già così zeppo di tali e tante parole, che andare ad aggiungervene di nuove, risulterebbe un tedioso esercizio di stile malamente strascicato e biascicato.

Tacere. Abitare il silenzio. Ascoltare, tutt’al più. Soprattutto il proprio respiro, come musica mai eguagliata da nessun altro suono nell’universo.

La lettura mi si attaglia meglio, ora come ora. A distanza di 24 anni da quando lo acquistai, mi sono letto «On the road» di Jack Kerouac. E’ stata una soddisfazione, a suo modo. Aver recuperato un libro che davo ormai per perduto irrimediabilmente. Mi ha regalato fascino, di quello buono e nobile, e sono contento di averlo affrontato ben lontano dalle allucinate utopie post-adolescenziali, che pure in qualche maniera avevano contagiato anche uno spirito pigro come il mio. Quel girovagare per l’America senza un cent in saccoccia, l’ho potuto assaporare allora con un distacco più salutare. I personaggi mi sono apparsi nel pieno fulgore della loro candida “fessitudine”, anche se non per questo meno poetici.

L’operazione “recupero libri dati disperatamente per archiviati” prosegue ora con «L’educazione sentimentale» di Flaubert. Qui il compito si è fatto vieppiù ostico ed oneroso. Ma nessuna “pallevolezza” libresca può spaventare, quando il rallentamento del battito esistenziale ci culla. Avvinghiati alle pagine con il solo respiro a testimoniare la nostra presenza, siamo pronti per accogliere la bellezza raccontata in ogni epoca.

Cos’altro può rimanere da fare? Forse solo affidarsi alle parole del poeta:

«Basta pensar di sentire
per sentir di pensare.
Il mio cuore fa sorridere
il mio cuore che piange.
Dopo star fermo e muovermi
dopo restare e andare,
sarò colui che arriverà
per essere chi vuol partire…

Vivere è non riuscire.»

Basta pensar di sentire
Fernando Pessoa - 1932

Ma, prima di salutarvi, dite un po’: si vede così tanto che da due o tre giorni mi sto instillando massicce dosi di «Live at Pompei» dei Pink Floyd?

(Notare: intorno al minuto 4 e 40 secondi del video, quando Nick Mason nella foga dionisiaca delle sue "baraondevoli" rullate, spacca la bacchetta e lestamente ne ripesca una di ricambio da sotto: questa sì che si chiama epica del rock'n roll pura, minchia!!!)

martedì 15 novembre 2011

Avventure indo-chimeriche


Come sapete, qualche tempo fa la mia cara mezza chimera Farlocca Farlocchissima, nonché Farly the Farliest, ha deciso di chiudere il suo blog. Da allora i suoi racconti mi mancano tanto. Però quando uno è blogger dentro, lo rimane sempre. Infatti Farly continua ad annotare le cose che le succedono intorno, condite con discrete dosi di ironia e disincanto.

Nello stesso modo, la forma mentis di chi ha colto veramente la filosofia di Alan Ford almeno una volta, rimane per sempre affascinata da quella profonda visione della vita. Se hai “capito” Alan Ford, non dovrai più temere disillusioni di sorta, perché sai già che il mondo è sgangherato nell’anima e non c’è tanto da aspettarsi da lui: quello che viene è tutto di guadagnato, ma non bisogna farci conto più di tanto anzitempo. Alan Ford insegna insomma che non conta quanto strano tu possa sentirti: la vita ti anticiperà sempre di un passo sul cammino della stramberia.

Dette queste cose, sono lieto di ospitare un racconto della cara Farly, riguardante uno strano episodio che le è successo alcuni giorni fa. E’ scritto di suo pugno, state ad ascoltare:

«…A volte mi capita di imbattermi in situazioni che mi fanno dire: "però! vivo proprio in un paese efficiente io!!". Ora procedo ad illustrarne una.

Devo fare il visto per l'india. In un momento direi di pura follia, ho accettato di recarmi ad una conferenza ad Hyderabad (detta la sylicon valley indiana) che inizia il 2 gennaio 2012. Per spendere poco ho preso un volo che parte il 30 dicembre e mi depositerà ad Hyderabad il 31 (forse) alle 3 del pomeriggio. Una scelta idiota la mia, ma nessuno avrebbe mai pensato ad aprile 2011 che a dicembre del medesimo anno avrei potuto godere di un capodanno strepitoso. Ma lasciamo perdere il destino beffardo e procediamo in tema.

Sollecitata dai colleghi indiani mi informo sulle procedure di visto. Apro il sito dell'ambasciata indiana e scopro che devo compilare un modulo online, stamparlo, firmarlo, procurarmi due foto uguali tra loro di formato imprecisato, munirmi di passaporto ed eventuale altra documentazione (tipo lettera di invito alla conferenza) e poi portare il tutto all'ufficio visti.

Con una certa fatica capisco che l'ufficio è aperto ai comuni mortali dalle 14:00 alle 15:30 dal lunedì al venerdì, ovviamente se non è festa, il che significa le feste italiane
più quelle indiane. Ergo: l'ufficio visti non è quasi mai aperto.

Transeat.

Mi procuro ogni cosa, tra cui un numero elevato di foto identiche tra loro in diversi formati (piccole, medie, grandi) nonché l'application form in cui, in inglese, ti chiedono notizie su di te e famiglia fino a due generazioni prima dell'attuale e mi reco in loco. L'ambasciata è a via 20 settembre, vicino al quirinale, zona prestigiosa ed elegante. Dicevo arrivo davanti e c'è una fila che dall'interno arriva fin sul marciapiede. Chiedo: "è qui per i visti?", avutane conferma, mi metto in fila. Sono le 13:40. Si chiacchiera tra i presenti, c'è un po' di tutto, chi va per lavoro, chi (e qualcuno mi spieghi) ha deciso di lasciare l'Italia ed emigrare in India, altri vanno per vacanza. Tutti in mano abbiamo plichi più o meno spessi. Va detto che alle 15 mi attende una riunione importante, ma in fondo si tratta di lasciare quattro pezzi di carta, quanto ci vorrà mai?

La fila si comincia a muovere e si dirige verso un sottoscala scrostato, si scende e ci accoglie un signore in giacca e cravatta, tutto spiegazzato, dai vestiti alla faccia, con incluso riportino sulla pelata retto da alcune badilate di brillantina e baffetti d'ordinanza. Il gentiluomo non spiccica una parola di italiano e parla inglese con un fortissimo accento indiano, prende le carte di ciascuno e serissimo, con accento forte, dice "take these pictures and apply them to the application form" (fa una pause) "then bring it back to me". Ora prego il lettore di immaginare i presenti, siamo a Roma, non a Cambridge, la frase più educata che sento è "ma che cazzo m'ha detto questo?". I pochi che hanno capito spiegano.

Si procede dunque ad incollare la foto e a riportare il tutto al signore che, sempre educatissimo da un numeretto e timbra tutto aggiungendo: "now you go there" (indica l'altra stanza) "and wait for the call from the counter", come ovvio l'aria si satura di "machecazzom'hadettoquesto" che vengono rapidamente tradotti al volo dagli anglofoni avvezzi all'accento indiano.

Con una certa tranquillita', a questo punto, vado di là e entro nella sala d'attesa dell'ospedale di alan ford. Nella stanza c'è assolutamente di tutto, freak assortiti con treccine e dread, suorine di madre teresa, signore con filo di perle e canetto accucciato accanto (il canetto recita la parte di Geremia-sotto-il-mucchio-di-malati, cfr Alan Ford o chiedete a Gillypixel che lo sa), signore in jeans e filo di perle con marito ecanetto entrambi accucciati accanto e il demente di turno che ha deciso di cambiare vita ed emigrare in India che mi sta facendo la cronaca dei sui precedenti viaggi indiani. A quel punto ho guardato il numeretto del counter, 341, ho guardato il mio, 416, dopo 30 minuti il numeretto del counter è ancora 341 ed il mio sempre 416. Sono andata via, tornerò un altro giorno prendendomi tutto il pomeriggio libero.

E poi ditemi che l'Italia non è un paese efficiente!...»

Qui finisce il racconto di Farly. Siccome mi ha chiamato in causa come appassionato fumettistico, ringraziandola tanto, aggiungo una piccola spiegazione per i non esperti “Alanfordiani”.

Geremia Lettiga è uno dei personaggi più bizzarri del glorioso fumetto firmato Magnus & Bunker. Si tratta di un vecchietto rinsecchito, a suo dire afflitto da tutte le malattie conosciute dalla scienza medica. Non si è mai capito se sia l’ipocondria fatta persona, oppure se i suoi malanni siano reali. Fatto sta che ad ogni apparizione, la sua tipica zucca pelata viene sempre accompagnata dall’immancabile fumetto di lamentele circa i suoi infiniti acciacchi. In un numero delle avventure del Gruppo T.N.T. (non ricordo bene quale, vado un po’ a memoria…), per Geremia si presenta un’occasione coi fiocchi, il sogno di ogni ipocondriaco: una bella visita generale all’ospedale della mutua. Dopo alcuni giorni, non avendone più notizie, qualche collega del Gruppo T.N.T. (forse Alan e Bob Rock…), si recano all’ospedale per sapere cosa sia successo.

La scena che si presenta all’interno del “nosocomio” rimane leggendariamente stampigliata nella memoria di tutti i fans di Alan Ford (Magnus & Bunker sapevano sfiorare vette d’ironia e sarcasmo veramente spietate): la “sala d’aspetto” è ingombra di un laocoontico groviglio di corpi ammonticchiati, che vengono spalati da un nerboruto “infermiere” a bordo di una ruspa, per fare un po’ di posto. Altri “addetti sanitari”, dal sembiante più simile a quello di boia in pensione, traghettano altrettanti poveri degenti su vecchie carrette di legno. Dopo alcune grottesche ricerche, finalemente Alan e Bob rinvengono il buon Geremia sotto la catasta di “pazienti”, che “pazientemente” era ancora in coda per la sua agognata visita. Credo però che, al contrario della cara Farly, Geremia non sia più tornato indietro qualche giorno dopo.

venerdì 11 novembre 2011

Incipienze zensa senzo


Oggi volevo scrivere un articoletto dedicato agli incipit.
Sarei partito con l’analizzare la bellezza del “principiare” in sé e tutta la carica di energia fascinosa contenuta in tale prerogativa umana.

Principiare a fare l’amore, oppure principiare una storia d’amore. Principiare il primo giorno di scuola. Principiare un’amicizia. Principiare un succulento pranzo, principiare uno spumeggiante boccale di birra. Principiare a farsi una se…una serena pedalata in bici.

Non c’è bisogno di andare oltre nell’elenco per evocare la piacevolezza e la preziosità di simili momenti. Più che piacevolezza, sarebbe meglio dire la condensazione calamitante di ignoto in essi racchiusa. Ogni “principio” è densissimo di tutte le promesse di cui lo vogliamo caricare. E’ per questo motivo che forse ci sta così caro, tanto che, viene da dire, se la vita fosse fatta di soli inizi, probabilmente tutti i problemi ed i crucci umani evaporerebbero via come neve al forno.

Per intenderci su quello che voglio dire, ha molto più sapore di inizio un venerdì sera, che un lunedì mattina. Non dimentichiamo nemmeno che quelle fasi della storia dell’umanità durante le quali nell'aria si è percepito fortemente diffuso un forte sentore di “principiamento”, sono state quasi immancabilmente anche le epoche più positive, ricche di prospettive, epoche dal respiro lungo, cariche di futuro, intensamente saporose di domani.

Cito solo due esempi esaltanti. Uno nel “macroperiodo”: il Rinascimento. L’altro nel “microperiodo”: gli anni ’60. Per capire il concetto in negativo, basta far mente locale ai nostri giorni, così bigi e privi di domani nel sentire comune, giorni durante i quali può anche capitare l’assurdo di vedere condensata la svolta del destino di intere nazioni nel fugace lasso di un fine settimana (la velata allusione a tre monti oppure ad uno, è puramente casuale…).

E’ noto poi come il principiare di un libro, l’albeggiare di un racconto o di un qualsiasi altro modo di affabulazione narrativa, racchiuda in sé non solo un’importanza artistica e poetica fondamentale, ma rappresenti anche uno dei passaggi più densi di magia di tutta una composizione che si stia prendendo in esame. Come vi dicevo, oggi volevo parlare di questo argomento e, partendo da due esempi di incipit leggendari, mi sarebbe piaciuto crearne poi di seguito alcuni miei sperimentali.

Tutto questo volevo fare, ma il fatto è che mi sento piuttosto inaridito.

Anzi, infra-inaridito.

Per cui, mi spiace, riesco a rispettare solo metà del programma, citando i due incipit famosi, ma per la restante parte dei miei buoni propositi, mi limiterò a lasciarmi trasportare dal flusso di una terapica idiozia, creando inizi di racconto demenziali, o perlomeno scritti il più possibile senza pensare, buttando giù frasi che badino più alla sonorità e al ritmo, che non a possibili significati effettivi.

Ho già fatto alcune prove e, vi assicuro, è rilassante. Ve lo consiglio, fate una prova. Non c’è altro da fare che picchiettare sulla tastiera inseguendo una frase strampalata, coniando anche parole inesistenti, se necessario. Dirò di più: apparentemente sembra un’inezia, ma non è poi un’operazione mentale così facile da svolgere. L’urgenza del significare in modo logico, rischia di attirare la mente come dentro a una voragine e alla fine, se accade ciò, il risultato è pressoché insignificante.

Se dopo, alla lettura, traspare una parvenza di significato palesemente voluto, significa che non ci si è lasciati andare nel modo giusto.

Quello che intendo io invece è una sorta di divertissement zen-narrativo, che quasi esige la rinuncia alla ricerca di un senso compiuto, a meno che non si sia in grado di scrivere robe di questo tenore (e non sto nemmeno a dirvi di cosa si tratta, per non fare un insulto alla vostra sapienza letteraria):

«…Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato…».

«…Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio…»

Se invece s’imbrocca per bene la via dello scribacchiare con incoscienza, l’esito che ci si ritrova sulla pagina risulterà di un’insulsaggine pura e preziosa, perché il “plusvalore” non è da ricercare nel prodotto, bensì nel momento creativo stesso.

Si tratta di una sperimentazione che ricorda vagamente la “metasemantica” di Fosco Maraini.

La bellezza della cosa consiste nel fare il surf sulla cresta dell’onda dell’incoscienza, accarezzando quel labile confine che distingue il territorio del significare da quello del tradurre i concetti in suoni. Non bisogna andare troppo a fondo, altrimenti ci si inzuppa il costume di eccessiva significazione, finendo per essere trascinati sotto da una serietà fuori luogo. Ma nel contempo, non si deve prendere troppo slancio dall’energia “nonsensuale” delle ondate, per non finire miseramente spiaggiati sulla dura rena della superficialità fine a se stessa.

Più che metasemantica, facciamo dunque che questa mia si chiami “un quarto di semantica”.

Ecco cosa sono riuscito a strizzare dalle mie meningi fradice di vaccate:

«…Rigurgitando quotazioni lodevoli di sfavorita insulsaggine, mi apprestavo a sviscerare il gibboso nodo, quando incipientemente mi cadde un fuco fra i piedi…».

«…Era seduta ai piedi di un morobombo e non sapeva se ridere o mettersi a sgomentare i passanti…».

«…Con un piede ancora nel mondo e un faduzio già fra le scapole, Bèpi Birthday iniziò quella serata da una prospettiva indubbiamente singolare…».

«…Se in quel tardo pomeriggio riviodario, il fudiboio fosse rimasto al suo posto, tutta questa storia non avrebbe avuto inizio…».

«…Saper diffodare le gabende della giva era sempre stata una delle qualità più riboriose di Frido Svialzi. Ma ben presto si sarebbe accorto che non tutti i fiolzi rispavano di luce propria…».

Ecco, anche per oggi, in fatto di boiate, mi pare di avere dato a sufficienza. Ciao amici, ci risentiamo quando ho sul serio qualcosa da dire. Spero.

domenica 6 novembre 2011

Zanzarieri, oggi e domani


«..."If you sleep with dogs, you will wake up with fleas",
ovvero “Chi va con il blog impara a bloggheggiare…”».
Antico adagio gillipixilandese del sud Minnesota – XXI sec. d.C.

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Non avevo mai osservato così tanto gli insetti come da quando mi sono messo a tenere questo mio blog andarperpensieroso. Magari qualcuno se lo ricorda: vi ho parlato di api, zanzare, bombi e non ricordo più se di altro ancora. Persino di cimici, ultimamente.

Sembra insomma di poterne dedurre che la fame di argomenti sviluppa fortemente la tendenza all’attenzione per i dettagli. Ci sarà chi preferirebbe forse dire “…la propensione per i voli pindarici esageratamente pipponeschi…”. Ma lasciamo agli spiriti più caustici il sacrosanto gusto di malignare e vediamo insieme com’è andata la mia ultima “strabiliante” avventura vissuta insieme ad una zanzara.

Per chi nasce a Gillipixiland la zanzara è una presenza di potente impatto metaforico. Anche se poi se ne andrà ad abitare in un altro luogo, lontanissimo, l’imprinting esistenziale ricevuto dalla microscopica bestiola lo accompagnerà per sempre. Non si scordano facilmente gli stati d’animo susseguiti a certe “svegliatacce” notturne nel cuore estivo delle ore più piccole, cavato fuori da un sonno già turbolento di suo, ma che ti aveva perlomeno preservato dalla consapevolezza di essere immerso in una sauna di sudore, e catapultato ex abrupto in una battaglia ad un nemico invisibilmente noto, pur ricevendo tu stesso la maggior parte degli schiaffi assestati da te medesimo.

La coordinate della geografia del buio in estate a Gillipixiland sono dettate dal ronzio e dalle punture di zanzare. E’ un’impalpabilità troppo incombente per non diventare alla fine parte del proprio paesaggio, sia fisico che mentale.

Per tutti questi e per tanti altri motivi, alla mia attenzione di bloghista incallito e per di più esistenzialmente marchiato da annosi presupposti zanzarieri, non poteva passare inosservato un infinitesimo episodio di qualche giorno fa, protagonisti me ed una zanzara, proprio. Parlare di zanzara al singolare è giusto prerogativa di questi periodi dell’anno, un po’ di transizione meteo-ambientale. Nelle fasi stagionali del loro pieno fulgore, col caldo e l’umidità nei quali sguazzano giulive, non puoi riferirti a questi insetti se non sotto forma di stormi, plotoni aerei, battaglioni ronzanti.

Ma nei mesi in cui il caldo volge al mite preannunciando il freddo, le poche sporadiche zanzare sopravvissute in qualche anfratto teporoso degli edifici, perdono insieme alle forze anche la loro identità comunitaria, finendo per fare i conti con la propria individualità nuda. Nel giro di poche settimane insomma, la zanzara copre in un certo senso un percorso ideologico molto simile a quello per il quale l’umanità ha dovuto travagliare più di un secolo, passando da convinzioni di stampo socialistico d’origine vagamente marxiana, ad una più cruda consapevolezza individualistica neoliberista, riecheggiante severi insegnamenti darwiniani.

Naturale che questo mutamento di consapevolezza sociale dell’insetto si rifletta specularmente anche sulla psicologia del suo acerrimo nemico esistenziale, ossia l’uomo. E’ stato infatti più con atteggiamento di comprensione, e non tanto con l’usuale agguerrita volontà “spiaccicatoria” adottata normalmente nel pieno dei periodi di conflitto “zanzo-umano”, che ho notato qualche giorno fa una piccola superstite “ronzosa”, poggiata sul vetro della finestra. Certo, l’istinto bellico non era in me affievolito al punto di rinunciare definitivamente ad una qualche offensiva, ma devo dire che mi frenava parecchio una certa titubanza.

Un senso di rispetto e di onore mi aveva colto di fronte a quella che sicuramente, nei periodi estivi, era stata una fiera rappresentante delle truppe zanzariere vietcong più eroiche, magari protagonista di gloriose incursioni vampiresche. Sprezzante del pericolo e complice lo smutandamento extra-giudiziale agostano, si era forse distinta in incursioni al limite del suicida, a pochi centimetri da minacciosi anfratti “chiappali” o anche avventurandosi sull’ingannevole altipiano ritmico di pance infidamente scoperte, sotto la costante minaccia di rimanere asfissiata da folate di gas nervini, oppure di cadere vittima di disastrosi schiacciamenti dovuti a repentini ribaltamenti geo-politici cagionati dal più subdolo pancia-sottismo.

La mia volontà di liberare la stanza dalla sua presenza era in ogni modo ferma e decisa, perché anche i suoi lamenti da vittima del neoliberismo autunnale, se ben assestati vicino all’orecchio, rimangono pur sempre una rottura di scatole notevole anche di questa stagione. Ma di fatto non sapevo quale strategia adottare, che non fosse eccessivamente crudele e definitiva.

Senza sapere bene cosa stavo facendo, allora, ho avvicinato la mano al minuscolo corpicino alato, pinzando l’aria fra pollice ed indice. E’ stato lì che il piccolo episodio magico si è verificato. Azzeccandoci nel raggio di una probabilità degli eventi pari ad “uno su un biliardo” (quella altrimenti nota alle scienze statistiche della nuova scuola “raffreddata”, con l’aneddoto dell’ubriaco collassato sul panno verde con ancora la stecca in mano…), la piccola eroica guerriera è rimasta appigliata per una sola zampetta fra le mie dita.

Forse non c’è propensione della fantasia più potente di quella che ci invita costantemente ad antropomorfizzare la realtà, ma in sostanza c’è voluto un milllisecondo perché l’insetto abbarbicato fra le mie dita apparisse ai miei occhi come il corpicino di un umano disperatamente aggrappato ad un dirupo. Di preciso si reggeva con la “mano” sinistra. Ha dato solamente due minuscole “bracciate” di destro all’indietro, un po’ come una sorta di surreale nuotatore a stile dorso, ma poi si è fermata buona buona, sempre lì appesa con inusuale atteggiamento di pazienza.

Io non ci credo ai segni. O meglio, di preciso non so nemmeno bene se crederci o no, ma di fatto, quando l’eccezionalità di un evento si concretizza con la naturalezza più scontata immaginabile, un lampo di fiducia mi percorre dal cuore alla pancia. Con tutta la delicatezza che sono riuscito a tirar fuori da me stesso, ho quindi trattenuto lievissimamente la zanzaretta fra le dita, ho aperto la finestra, rilasciandola poi con gentilezza. Nell’intercapedine del doppio vetro, lei si è andata a posare su un montante metallico. Ho spalancato anche la seconda cortina vetraria e con un soffio impercettibile l’ho indirizzata a riguadagnare la meritata libertà, mescolandosi alla brezza serale incipiente.

Di certo non avrò allungato di tanto il suo “bisbiglioso” avvenire, ma mi sono sentito contento di avere evitato a quella dignitosa guerriera la fine ingloriosa dello spiattellamento contro la subdola superficie vitrea, simbolo supremo degli enigmi esistenziali entomologici.

Anche se sono quasi certo che, allontanandosi nell’azzurro e massaggiandosi lentamente la manina un po’ acciaccata con cui era rimasta appesa allo strapiombo delle mie dita, avrà sicuramente borbottato fra di sé: «…Zzzttt, zzzbbbrrrr, zzztttt…ma porcazza zozza! Azzzidendi agli umani mollaccioni e pacifizzzti…».