sabato 30 agosto 2014

“Le muse di Kika van per pensieri” a scoppio ritardato: Pàl Szinyei Merse (1845 - 1920)


Complici gli ultimi strascichi di blandizie agostane (buttiamola di lì…), la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” non è riuscita a ripartire con puntualità. Mentre Kika ha già ripreso alla grande le sue straordinarie acrobazie di fantasia nel mondo della moda e della pittura, io sono rimasto inchiodato ai blocchi di partenza come un frolloccone di periferia.

Mi scuso con Kika per la mia scarsa professionalità (fra colleghi, non si fa così…) e conto di tornare operativo con la prossima puntata. Ma nel frattempo, osservando il dipinto preso in oggetto da Kika stavolta, mi sono venute in mente un paio di somiglianze.

Per oggi, mi limito a proporle così, senza andare ulteriormente per pensieri, rimandandovi all’intervento di Kika per sapere qualcosa di più sul dipinto "Picnic in maggio", realizzato nel 1873 dell’ungherese Pàl Szinyei Merse. Aggiungo solo a due osservazioni scherzose, riguardo alla scena ritratta, più una curiosità. La curiosità è che Pàl Szinyei Merse, oltre ad essere un valido pittore, fu anche uomo politico, eletto fra le file del parlamento magiaro, dove si prodigò a favore dell’importanza dell’educazione artistica per le giovani generazioni della sua nazione.

Le buffe osservazioni sono invece queste: la giuliva scampagnata ritratta, come giustamente Kika ha fatto notare, si presenta con una certa aura di modernità. Questo, vuoi per una sensibilità spiccata dell'autore, vuoi per il fatto che questo tipo di riunioni mondane sono sempre state simili da che mondo è mondo. I costumi sono senza dubbio quelli dell'epoca specifica in cui si svolge l'azione, ma una situazione simile sarebbe del tutto plausibile anche ai giorni nostri. Compresi alcuni “dispiegamenti di forze amicali” messe in campo. I conti, come spesso succederebbe anche oggi, non tornano: le leggiadre “prede” femminee a disposizione sono solo due, mentre i virili predatori si schierano in formazione addirittura doppia. Ecco allora che le dinamiche di socializzazione innescate sono alquanto curiose. In pole position per agguantare l'ambito traguardo amoroso sembrano essere l'impressionistico Kit Carson sdraiato a fianco della signorina in bianco, e l'Oscar Wilde “de' noantri”, tutto intento ad adulare la graziosa donzella rosso chiomata.

Ma chissà...non sempre le apparenze ci raccontano il vero. Dalle espressioni delle due ragazze, pare quasi di cogliere una ritrosia dissimulata per convenzione, una certa scocciatura velata, solo perché sono signorine a modo ed educate. Ma magari in cuor loro, sono più interessate agli altri due ometti, forse più timidi, e per il momento tagliati fuori dalla galante tenzone. Questi ultimi, dal canto loro, danno prova di un pragmatismo ammirevole: quello coi pantaloni bianchi e la giacchetta marroncina,  coricato a pancia sotto, ai tormenti del dubbio amoroso preferisce le certezze delle soddisfazioni del palato, e si dedica a tempo pieno alle leccornie portate appresso per il picnic.

Il quarto soggetto maschile, fa addirittura di più: disinteressandosi al massimo delle questioni di conquista, si dedica alla nobile arte della valutazione dello stato di raffrescamento di una promettente bottiglia di vino, immersa con sapiente preveggenza dentro i refrigeranti flutti di un vicino torrentello. La sua posizione filosofica ci si profila qui in misura lampante: l'amore, nella vita, è un'eventualità non sempre afferrabile, mentre un buon bicchiere di quello buono può diventare certezza ad ogni istante. Quasi inutile aggiungere che, fra tutti i personaggi del quadro, quello col quale più mi sono immedesimato è proprio il saggio custode della frescura enologica.


Per concludere, vengo ora alle due somiglianze. La signorina col vestito rosa e la chioma rossa, mi ha ricordato una fascinosa attrice italiana, bellezza davvero di gran classe:


L'avrete riconosciuta, è Lucrezia Lante della Rovere, nota anche per essere figlia di cotanta mamma, ossia la rutilante Marina (sempre Lante della Rovere ai tempi, e Ripa di Meana a seguire).

L'altra similitudine, riguardante la signorina in bianco e capigliatura nera, mi è parsa di scorgerla  in un altro volto femminile della nostra contemporaneità:

Questa è la nota giornalista del Tg1 Manuela Lucchini. 

Si chiude così questa puntata ridotta e ritardataria della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Ricordandovi di non mancare di visitare il blog di Kika, per gustare le sue sapienti reinterpretazioni modaiole dell'abbigliamento delle due signorine ritratte, vi rimando alla prossima puntata, che spero di riuscire ad affrontare con maggior preparazione e prontezza.

giovedì 28 agosto 2014

Zefiro al quoto

Chiunque nutra passione per i rami “cosiddetti” inutili dell’albero della conoscenza (arte e filosofia in primis), sarà di certo incappato prima o poi nel classico amico scassamin…ehm…realista duro e puro. Questo tipo di caro conoscente è senza dubbio una buona persona. Ma quando provate ad esporgli il vostro entusiasmo riguardo alla bellezza di una qualche teoria  assai pindarica nella sua vertiginosa volatilità, con precisione svizzera non mancherà di propinarvi la sua classica obiezione di rito: «...Sì, tutto molto bello, ma a cosa serve?...».

Confesso che di fronte a questa osservazione, pure io che sono uno fra i massimi cultori dell'inutile, mi sono trovato varie volte spiazzato. Hai voglia a tirare in ballo la suprema superfluità della musica, l'inservibile pienezza di un bel pomeriggio trascorso a far nulla, l'inattingibile senso del sapore dei baci. Niente da fare: l'imperterrito utilitarista cocciuto parerà ogni vostro affondo, ribattendo con contro-stoccate a suon di PIL, mercato del lavoro, costo della vita, il tempo è denaro, e così via utilitaristicheggiando.

Esiste tuttavia un argomento che potrebbe sbaragliare anche il pragmatista più incallito. Si tratta di un concetto che per sua natura tende ad esprimere l'inesistenza stessa, e come tale, in teoria, dovrebbe comunicare l'inservibilità al massimo grado. Ma non è così. Questo concetto ha cambiato la storia dell'umanità e si può dire che abbia traghettato quest'ultima verso l'epoca moderna. Mi riferisco all'idea dello “zero”. Sì, proprio lui, l'ineffabile “numero-non-numero” che siamo soliti indicare con un circoletto panciuto e un po' bislungo.

Non si potrebbe forse immaginare qualcosa di meno pratico dello zero, eppure l'acquisizione del concetto di “zero” ha rappresentato una delle rivoluzioni culturali più affascinanti e significative. Senza lo zero non avremmo la matematica moderna, e di conseguenza nemmeno la scienza e tutti i suoi “sottoinsiemi”, come l'ingegneria, l'elettronica, la statistica, l'informatica, ecc.

Non è mia intenzione scrivere qui la storia dell'invenzione dello zero. Ci sono già tanti interventi più documentati del mio reperibili sul web (segnalo queste interessantissime pagine). In breve, dico solo che il concetto lo dobbiamo alla sapienza degli antichi indiani (e sembra che ci fossero arrivati in autonomia anche i Maya). Il primo matematico a codificarlo in un testo ufficiale, nel 540 d.C., fu l'indiano Brahmagupta. Attraverso gli scambi commerciali lungo la Via della seta, pian piano lo “zero” filtrò verso ovest, facendo tappa a Baghdad intorno all'anno 800. Gli arabi svilupparono lo zero in misura decisiva, con tutte le sue potenzialità innovatrici (tanto che oggi, per indicare il tipo di numerazione usata da noi tutti, non a caso ci si riferisce ai “numeri arabi”, anche se a rigore si dovrebbero chiamare “indiani”). L'opera di intermediazione intellettuale che stabilì i primi contatti fra la cultura occidentale e l'inaudito concetto di zero, si deve infine ad un matematico italiano del 1200, Leonardo Fibonacci, figlio di un mercante pisano di tessuti in costante contatto con i porti arabi del nord Africa.

Quello che mi interessa di più, è fare alcune considerazioni di meraviglia riguardo alle implicazioni fascinose dello zero. Lo zero, al pari del nulla, suo presupposto ontologico di fondo, dal punto di vista concettuale è del tutto inafferrabile. Ciascuno può provare, facendo con comodo mente locale: nemmeno se provate a cogliere l'essenza dello zero “smeningiandovi” fino a cappotarvi sulla seggiola, riuscirete a portare a termine le vostre elucubrazioni con qualcosa di più che un pugno di mosche nella mente. Lo zero ci conduce nei territori della “in-concettualità” medesima, del “non-pensabile” in persona. Il vuoto di cui lo zero è portavoce non ha senso alcuno, perché se avesse senso, sarebbe un “qualcosa” invece di un “niente”.

Lo zero è anche strettamente apparentato col concetto di punto geometrico. Per definizione, il punto è l'indicazione di una “posizione incorporea”. Il punto non ha estensione, eppure riesce a darci l'informazione riguardo ad una certa collocazione particolarissima, su tutte le infinite altre possibili nel piano bidimensionale o lungo una retta. Lo zero insomma, come il punto, “è un qualcosa che non è”. Nel meraviglioso capolavoro di Thomas Mann, “La montagna incantata”, simili vagabondaggi per pensieri vengono portati al limite estremo del paragone fra il punto e l'attimo temporale. Così come la retta geometrica, anche lo scorrere del tempo è il frutto della sommatoria di una serie infinita di elementi nulli, ossia gli inconsistenti attimi singoli della cronologia esistenziale di ciascuno. Provate infatti ad afferrare, a fermare un attimo: l'esito sarà identico a quello sortito nel tentativo di cogliere un punto, oppure lo zero stesso. Lo «zero», il «punto» e l'«adesso» sono e non sono nel medesimo tempo. Nell'atto stesso di pensarli, vi sono già sfuggiti.

“Zero” deriva  dalla parola araba “sifr” (poi passata ad indicare in generale ogni numero, col nostro termine “cifra”): significa “vuoto” e pare che i latini, per una suggestiva assonanza, denominassero per un po' di tempo lo “zero” col termine “zefiro”. Non c'entrava nulla, ma è un peccato che si sia persa questa sfumatura: lo “zero”, con la sua leggerezza e fuggevolezza impalpabili, contenuto nel nome di uno dei venti più evocativi, Zefiro, brezza che soffia da ponente, nella mitologia greca figlio di Eolo e di Aurora.

Lo zero è uno spericolato surfista che cavalca la cresta dell'onda, mantenendosi sempre sul filo dell'ineffabile ciuffo di spuma suddiviso con equanime incertezza fra il regno luminoso dei numeri positivi e quello chiaroscuro dei negativi. Non si sa se sta coi più o coi meno, è l'eterno indeciso mai presente. Lo zero è ideale al massimo, eppure ha voce in capitolo in cose praticissime come i calcoli. Sommato ad un vero numero, si fa beffe di lui, piantandolo in asso nel pieno scombussolamento dell'immutato (3 + 0 = 3). Sottratto, dà sempre lo stesso risultato, ma volendo con un sapore ancor più beffardo, vista l'inutilità forse ulteriore dell'operazione (3 - 0 = 3). Moltiplicato, si trasforma in scherzoso illusionista, in grado di far sparire la sostanza stessa assorbendola nella sua medesima nullità (3 x 0 = 0). Ma è nei panni di divisore che compie la sua magia più grande, andando a tirare in ballo uno dei suoi compagni di gioco più fantasiosi, ossia il concetto di infinito (3 / 0 = ∞).

Più si pensa allo zero, insomma, più ne saltano fuori delle belle. In teoria, non c'è forse nulla di più inutile. Ma basta pensare ai Romani, il popolo più concreto e pratico che sia esistito:  senza di “lui”per fare una moltiplicazione con numeri un po' lunghi, ma che oggi non spaventano nemmeno un bambino di quarta elementare, avevano bisogno delle dita di una legione intera di nerboruti omaccioni corazzati.

La prossima volta dunque che un caro amico affetto da utilitarismo benigno, di fronte ad un vostro trasporto di estatica inutilità, vi riproporrà la sua classica obiezione «...Sì, tutto molto bello, ma a cosa serve?...», potrete rispondergli così: «...Ssshhht...calma, calma...va tutto bene, non è successo niente...torna pure a fare i tuoi conticini con l'abaco...».


giovedì 14 agosto 2014

Buon ferrizoma e felice periagosto

«…So this is ferragost…and porca miggnòtt!!!... ».

Così parafrasando, mi verrebbe da accogliere l’arrivo puntuale, anche quest’anno, della “beneamata” ricorrenza. Ormai si sa che i giri di boa annuali, li patisco abbastanza. Capodanni e ferragosti sono da me graditi come un bel paio di slip a perizoma stretto, con “filo divisorio” rigorosamente guarnito in carta vetrata di grana assai grossa. Che se tanto mi dà tanto, ossia se ferragosto è il perizoma, vi lascio immaginare in cosa consistano le due metà del mese che questa giornata sta a dividere (e c’ha pure trentun giorni, ossia una chiappa più grossa dell’altra).

Nonostante tutto, questi appuntamenti di metà e fine anno rimangono importanti. Sono pur sempre delle prove. Fasi di passaggio che offrono l'occasione di esercitare un certo spirito solidale. E' come un dirsi tutti a vicenda: «…Dai, anche stavolta passiamo oltre la boa, si va per un altro giro...». Per questo, quando ho potuto, non ho mai mancato di porgere i miei auguri da bloggerista, per ciascuna di queste scadenze. Lo faccio anche stavolta, con alcune parole in aggiunta. 

Il ferragosto 2014 arriva insieme ad alcune riflessioni, derivate da un fatto accaduto quasi in prossimità di esso. Un fatto di risonanza mondiale, il tragico epilogo della vicenda umana del povero Robin Williams. Sono tanti i pensieri che un evento del genere induce a fare, tante le domande. Anche tante banalità, nel senso buono della parola, per una volta. Nell'ottica in cui, a volte, essere banali è cosa molto umana. Fra i mille luoghi comuni che anche io ho pensato in merito, salvo forse un pensiero, chissà se un po' più degno degli altri.

Perché abbiamo bisogno degli altri? Perché il mondo che noi siamo non ci basta. E' incompleto, ha l'«altrove» come sua essenza, come suo status naturale di esistenza. Bramiamo in continuazione di cibarci di “oltre”, siamo assetati di mondi ulteriori. E li possiamo trovare solo negli altri. Sia in forma diretta, sia in forma indiretta.

Esistono persone che per natura sono amplificatori di mondi. Hanno in sé mondi in abbondanza, straripano mondi. La loro interiorità è un labirinto di specchi. Venire in contatto con essa è un'esperienza che arricchisce all'inverosimile. Una volta che si affacci ad essa, il mono-mondo dei più semplici viene riverberato nel gioco strabiliante di quella incredibile ricchezza interiore riflettente.

Il tutto è a sua volta questione di rapporto fra la finitezza e l'infinità che siamo. Apparteniamo, e nel tempo stesso non apparteniamo, di continuo, a queste due dimensioni. Ciascuna è in ogni momento vera e falsa, senza per questo smettere di essere plausibile. Nessuna delle due ha un senso razionale circoscrivibile, ma sforzarsi di cullarci nell'opinione che entrambe ne abbiano tantissimo, in contemporanea, è uno dei duri mestieri in cui il vivere consiste. La prospettiva di essere finiti ci mette paura, nel momento stesso in cui temiamo anche la nostra componente senza limiti. L'eventualità di essere infiniti ci esalta, nel momento stesso in cui ci consola l'idea che per altro verso siamo limitati.

Ecco, fra le tante altre mille insondabili e irragionevoli ragioni che avranno spinto Robin Williams a scegliere per come ha scelto, credo che ci sia stata anche questa duplice componente. Lui era uno straordinario amplificatore di mondi. Aveva trascorso la vita ad amplificare mondi per gli altri, com'è insito nel mestiere e nella “missione” di tanti bravi artisti e giocolieri della fantasia. Forse da una parte si era esaurito in questo compito, esaltante e inebriante di certo, ma anche improbo, faticoso, assorbente. Forse per altro verso, dopo tanto riverberare mondi per gli altri, sentiva il disorientamento di non riuscire a vedere intorno a sé più nessuno in grado di moltiplicare significati esistenziali per lui.

Forse in conseguenza di tutto ciò, questo straordinario moltiplicatore di mondi aveva smarrito la capacità, o la volontà, o la forza, di continuare a credere vere e false nel contempo la propria finitezza e la propria infinità. Non è più riuscito a trovare un equilibrio, un giusto bilanciamento tra l'immensità che era e la limitatezza che altrettanto lo caratterizzava. Aveva smarrito il codice che regala l'illusione di poter decrittare l'indecifrabile paradosso principale in cui la vita consiste.

So che tutto questo c'entra poco col ferragosto in genere. Ma mi pareva che c'entrasse col ferragosto 2014. Auguri a tutti voi, cari amici viandanti per pensieri. Trascorrete una bella giornata di festa e serenità. Possibilmente senza l'impiccio di quel famoso scartavetrante perizoma.

giovedì 7 agosto 2014

Felino, troppo felino

Ogni volta che vedo un gatto in un film, mi prende una specie di inquietudine, di disagio. Dico film per dire qualsiasi tipo di rappresentazione umana che preveda una recitazione. E dico disagio in senso blando, per carità. Si tratta di più che altro di un lieve senso di estraniamento. Non per la presenza del micio in sé. Anzi, come ho già scritto in tante occasioni, i gatti sono fra i miei beniamini prediletti, nel mondo animale. Dunque è sempre un piacere vederli ritratti in qualsiasi forma e modalità espressiva.

Non avevo mai compreso bene la natura di questo disagio, fino a quando una breve scena di un documentario non mi ha illuminato. L'argomento trattato c'entrava molto poco coi gatti e la breve sequenza era estemporanea, tanto per rendere un po' di “atmosfera”. Il commento della voce fuori campo era sospeso, mentre per alcuni attimi si vedeva questo miciotto ben pasciuto “trascorrere” bello placido lungo un muro di cemento grezzo, e sopra di lui, contro la parete, la scritta “letteratura tedesca”, in tedesco, o qualcosa di simile (doveva trattarsi di un edificio universitario oppure era la sede di qualche altro istituto culturale). Il gatto si è fermato e per una manciata di momenti che sembravano eterni ha guardato verso la telecamera, in quella sospensione di tempo che solo i gatti sanno creare.

E' stato lì che ho capito. 

Il gatto è l'essere “anti-recitativo” per eccellenza. Ogni opera di finzione filmica umana, prevede l'ideazione preventiva di uno schema di azioni prefigurate, secondo un disegno di cause ed effetti ben preciso: ad un certo punto l'attore farà questo; poi dirà questa cosa; poi ancora si muoverà in quella direzione; prenderà in mano quell'oggetto; si produrrà nella tale espressione del volto; compirà un ulteriore gesto, e così via “copioneggiando”.

Ora, l'essenza del gatto è nella maniera più assoluta estranea a questa logica. La dimensione “causa-effetto” è ciò che di più lontano si possa pensare dalla sua natura. L'inserimento di un gatto nel contesto recitativo, per quanto venga fatto con tutto il rispetto possibile verso la sensibilità della bestiola, risulterà dunque sempre come una forzatura della realtà. Perché per il gatto non ci può essere una realtà parallela recitata: il gatto si muove solo nella sua realtà, che segue proprio regole logiche interne, non piegabili a nessun altro schema di scorrimento delle cose. 

Chi ha avuto un minimo a che fare con propri mici di casa, capisce benissimo cosa intendo. Quante interminabili istanti li avrete dovuti attendere, mentre sostavano sulla soglia di una porta, impedendovi di chiuderla o di aprirla, rapiti da una qualche remotissima loro riflessione felina. Oppure, quante volte avrete preparato una bella cuccia confortevole, e loro, con regolarità svizzera, sono andati a scovare il posto più impensato per i loro sacrosanti sonnellini.

Ma si badi bene, il punto non è che il micio fa solo ciò che vuole lui. Il punto è che questa indecifrabile bestiola si pone al di là del concetto stesso di volere o non volere qualcosa. L'«intenzionalità», così com'è da noi concepita, è una dimensione del tutto estranea all'essere del gatto. Certo, anche i gatti sembrano seguire in qualche modo taluni loro schemi che li guidano nelle scelte legate al percorso della propria vita spicciola. E pur tuttavia, lo fanno sempre con quell'aria di nobiltà interiore, quel senso di sovranità assoluta sull'essere, che, essendo così estranei ad ogni umano modo di rapportarsi con la realtà, non riusciremo mai bene a comprendere fino in fondo.

Per questo il micio filmato in quella scena di documentario mi è apparso rivelatore: perché gli era concesso di essere se stesso. La telecamera può solo adeguarsi al gatto: viceversa, è impossibile. E sempre per tutti questi motivi, ogni volta che vedo la bellissima scena finale di «Colazione da Tiffany», non posso fare a meno di commuovermi, ma anche di sorridere per la buffa atmosfera involontaria annessa. Perché, per quanto mansueto e ubbidiente fosse il bravo miciotto rosso impiegato per quei celeberrimi fotogrammi, mentre se ne sta “compresso” sotto la pioggia nell'ultimo intensissimo abbraccio fra Audrey Hepburn e George Peppard, nessuno al mondo sarebbe riuscito a togliergli dal muso quella inequivocabile espressione che sembra dire: «...Ma che minchia stanno facendo, 'sti due qua? E soprattutto: cosa vogliono da me?!?!?...».

venerdì 1 agosto 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Charles Chaplin (1825-1891)

Oggi la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” si occupa di un poco noto omonimo di altro personaggio illustre. Kika ha scelto infatti per l’occasione un delizioso dipinto intitolato “Le bolle di sapone”, realizzato da Charles Chaplin (Les Andelys, 1825 – Parigi, 1891). Come si potrà dedurre con facilità, questo artista non ha niente a che fare col celeberrimo Charlot, col quale condivide soltanto il nome e, pur essendo nato e vissuto in Francia, anche le origini inglesi. 

Riguardo a  Charles Chaplin pittore, di per sé, non ci sarebbe moltissimo da dire. E' senz'altro uno di quegli autori che si pongono nel flusso della tradizione, tanto che ancora in pieno Ottocento, la sua espressività si rifaceva agli stilemi propri del periodo rococò, con riferimento in particolare alle delicatezze tecniche di autori quali Jean-Baptiste Chardin (1699-1779) e Jean-Étienne Liotard (1702-1789).

Mi piacerebbe allora affrontare un discorso che, pur prendendo le mosse dall'opera di Charles Chaplin, spazia poi verso orizzonti un po' più generali. L'arte, fra gli strumenti culturali, è quello che per eccellenza invita a porsi delle domande, siano esse dirette, o “trasversali” rispetto alle tematiche evocate di volta in volta dalle varie opere. Nel caso di  Charles Chaplin, partiamo dalla definizione di “art pompier”, che spesso viene tirata in ballo per pittori del suo genere.

Curiosa la storia di questo termine, non molto lusinghiero a dire la verità, riferito «...originariamente ai pittori e agli scultori neoclassici francesi, per allusione agli elmi con cui solevano rappresentare i personaggi del mondo classico, paragonati scherzosamente ai caschi dei pompieri. In seguito è passato a indicare in senso lato gli ammessi ai Salons, in contrapposizione agli “indipendenti” ai “ribelli”, e dunque l'arte ufficiale e accademica della seconda metà del sec. XIX contro l'avanguardia rappresentata dagli impressionisti, la pittura di storia, convenzionale e solenne, contro l'innovazione e la sperimentazione. I pompier prediligevano [...] la piacevolezza delle immagini, la precisione dei dettagli, l'esecuzione accurata, elementi che insieme alla celebrazione dei valori collettivi condivisi […] o l'ossequio a mode imperanti come l'esotismo, assicuravano loro il consenso del pubblico, della critica, dei collezionisti e delle istituzioni...» (“L'Universale – La Grande Enciclopedia Tematica” - Vol. 9 “Arte” - Rizzoli, 2003).

Vista questa importante premessa, vengo alla riflessione indiretta che mi è stata suggerita dai quadri dell'autore di oggi. Ogni volta che Kika sceglie uno di questi artisti poco famosi e poi passo in rassegna velocemente le sue opere per farmi un'idea, mi viene sempre da pensare: «...Però...sarà anche un artista minore, ma non è male...non mi dispiacciono proprio i suoi quadri...». Non solo: quando un paio di puntate fa ho provato a fare un “parallelo cronologico” fra alcune opere del semi-sconosciuto Jules-Joseph Lefebvre (1836-1912) e altre del celeberrimo Paul Cézanne (1839-1906), le mie considerazioni si sono “aggravate”. Al primissimo impatto, avrei senza dubbio ammesso di gradire molto di più i dipinti di  Lefebvre.

Cosa c'è che non funziona, dunque? Dove sta il nodo critico di tutto il discorso? A mio avviso, il punto cruciale risiede proprio nell'indole “pompieresca” che questi cosiddetti artisti minori (se non tutti, perlomeno molti di quelli visti) presentano come loro fattore comune. Propensione che si può riassumere bene nel loro comune tratto della ricerca del “consenso”. Qui si nasconde il loro apparente punto di forza, che ce li fa apparire subito “graditi al palato”. Se davanti agli occhi mi viene messa una levigata fanciulla tutta spumeggiante nel suo serico incarnato, atteggiata ad indulgere fra le mollezze di un suggerito interludio erotico (con pecoreccia malizia, vien quasi da domandarsi: in quale nido preferirà posarsi l'uccellino?), è chiaro che non avrò dubbi nel preferirla, ad un primo impatto, allo spigoloso e corpacciuto bagnante proposto da Cézanne.
"Ragazza con un nido" (1889) - Charles Chaplin
"Bagnante" (1885) - Paul Cézanne

Dove sta allora il problema? Perché non dovremmo gustarci in santa pace le donnine di Chaplin, dichiarandoci appagati dall'innegabile trastullo per gli occhi che ci concedono?
"Dopo il ballo in maschera" - Charles Chaplin
"Fantasticherie" - Charles Chaplin
"Dopo il ballo" - Charles Chaplin

Queste domande mi hanno fatto tornare alla mente un classico dell'indagine “socio-estetica”, da me già altre volte citato. Mi riferisco al bellissimo testo “Apocalittici e integrati” (1964) di Umberto Eco. Fra gli ultimi paragrafi del libro, ce n'è uno in particolare che s'intitola “Strategia del desiderio”. Con una leggera forzatura del discorso (tenendo conto soprattutto delle diversità fra le epoche), m'è parso di cogliere in questo capitoletto del libro di Eco, alcuni interessanti paralleli con l'opera del nostro artista odierno e di tutti i “pompieri” in generale.

“Strategia del desiderio” è il titolo di un testo scritto nel 1963 da Ernest Dichter, che Eco prende appunto in esame nel suo scritto. Dichter è stato uno dei precursori dello studio del moderno concetto di marketing, fondatore nel 1946, a Croton-on-Hudson (New York), dell'Istituto per le Ricerche Motivazionali. Gli studi di Dichter posero l'attenzione sull'innegabilità di tanti fenomeni psicologici divenuti in seguito a tutti assai familiari per l'evidenza pervasiva con cui li cogliamo ormai nella vita quotidiana planetaria. L'uomo è senza dubbio un “essere desiderante” e Dichter fu tra i primi a comprendere come il desiderio umano possa essere gestito e guidato sulla base di una serie di regole e strumenti, deducibili in pratica con precisione scientifica dall'attività sperimentale.

Sembrerebbe tutto bello, tutto lineare, come nei dipinti di Chaplin. Ma Umberto Eco ci mette in guardia riguardo ad alcune “sfumature” del discorso: «...la ricerca motivazionale è uno strumento, e come tale è neutro, tutto dipende da come lo si usa...[Dichter]...ha applicato la sua strategia del desiderio alla vendita di dentifrici, alle campagne per l'igiene, al miglioramento delle relazioni tra le razze e allo smussamento delle tensioni tra padronato e sindacati. [...] la sua decisione sarebbe giustificabile sul piano più freddamente realistico (ciascuno fa il suo mestiere), se Dichter non tendesse invece a elaborare, da tutto ciò, una filosofia. Una filosofia semplice e ottimista: la vita è tensione, mutamento, acquisizione di nuove possibilità di benessere psicologico e materiale. Dunque occorre stimolare e dirigere i desideri dei nostri simili per portarli a realizzare ciò che inconsciamente desiderano. Dice Dichter: se l'acquistare una nuova automobile, anche se quella vecchia funziona ancora, arricchisce la mia esperienza, serve ad affermare la mia personalità, aumenta la mia dose di felicità, perché non devo farlo? E perché non deve esserci qualcuno che mi spinge a farlo? Il ragionamento è impeccabile...[...] Ma ora chiedete a Dichter di specificare un po' meglio cosa intenda per esperienze “buone” e “positive”, quale senso concreto dia al termine “felicità”, in altre parole quali fini precisi egli ponga a quella sua visione dello sviluppo continuo; poiché se questi fini non sono chiari, non vi sarà neppure la possibilità di distinguere una esperienza buona da un'altra esperienza buona, e dire quale sia la migliore; e il bere caffè invece di tè, l'acquistare una saponetta piuttosto che un'altra avranno lo stesso senso che amare, piuttosto che odiare, i portoricani, e viceversa. Ora, salvo un generico liberalismo e un egualitarismo alquanto formale, Dichter rivela a questo punto la sua carenza ideologica. E in sintesi, lascia capire che gli mancano due qualità, purtroppo fondamentali: la capacità di giudicare in termini storico-economici i fenomeni su cui indaga e la capacità di mettere in discussione le premesse di tutto il suo discorso...».

Conclude Umberto Eco, con toni un po' sessantotteschi, ma che fanno riflettere molto ancora oggi: «...Nella misura in cui i mezzi di produzione non mi appartengono, ed io ne sono o l'oggetto o lo strumento di persuasione - e nella misura in cui non sottopongo questo rapporto a una critica costante - sarà sempre il potere a persuadere me, non io a persuadere il potere. Così le strutture, entro le quali funziona la strategia del desiderio, le tolgono la qualifica di tecnica neutrale usata per la felicità di tutti. È uno strumento di potere. E poiché le pagine di Dichter non sono state sfiorate da questo sospetto, il suo libro diventa una sorta di utopia negativa, la descrizione di un agghiacciante paesaggio industriale abitato da automi felici e irresponsabili. Davvero un libro che non ci lascerà dormire...».

Possono sembrare discorsi ormai offuscati dalla pesante nebbia di un'obsolescenza ideologica “d'antan”, ma a mio avviso non è così. Se questi concetti ci appaiono per caso superati, è proprio perché l'assuefazione causata da tutti gli aspetti denunciati da Eco ha ormai preso il sopravvento nel sentire diffuso. Un solo, semplice, ma evidentissimo esempio, credo riesca a porre in fulminea ed immediata comunicazione tra di loro, una serie di idee suggerite in “negativo” dal nostro autore odierno, e gli aspetti sottolineati dalle parole di Eco. Pensiamo alle televisioni commerciali, che è poi come dire, visto l'andazzo ormai generalizzato, praticamente tutto il modo attuale di fare tv (con qualche risicato lembo superstite di comunicazione ancora intesa come servizio pubblico). Cosa deve prevalere come motore trainante di queste tv per forza di cose, per la natura interna stessa dell'impresa a cui danno vita? La persuasione, la cattura del consenso. I “messaggi” trasmessi devono essere trattati alla stregua di merci da far desiderare, con buona pace del giudizio critico o di eventuali intenti formativi di carattere culturale, estetico e così via.

Ma il ragionamento si farebbe troppo lungo (e già lo è stato a sufficienza). Mi accontento di aver seminato qui e là qualche spunto, sperando di non aver fatto a mia volta troppa confusione.
Per quel che riguarda invece la mia odierna indagine fisiognomica, sono riuscito a rintracciare due volti plausibili da abbinare alla leggiadra soffiatrice di bolle chapliniana. Uno di questi volti l'ho già  utilizzato in un'altra occasione. Chiedo venia per la ripetizione, ma mi sembrava che cadesse a puntino anche per il presente caso.

Ecco la prima soffiatrice di bolle rivisitata ai giorni nostri:
Si tratta di una simpatica attrice nostrana, Cecilia Dazzi, protagonista di alcune commedie e di diverse serie televisive (la ricordo ad esempio in una puntata del poliziesco cult “L'ispettore Coliandro”).

Questo è invece il volto già sfruttato un'altra volta. Anche se siamo ancora lontani dal Natale, lo riciclo un po' alla maniera di un regalo:
E' ancora una volta l'affascinante volto dell'attrice statunitense Mary Louise Parker, fra le protagoniste del film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” (1991).

E anche per oggi è tutto, cari amici viandanti per pensieri. Ora la parola passa a Kika e alle sue magie modiaole: vediamo come ha saputo riabbigliare la signorina delle bolle, con il suo classico e inconfondibile tocco kikesco.