domenica 22 luglio 2012

T’ho scritto «Guerra e pace» sulla fronte



Mio fratello mi ricorda spesso un buffo aneddoto riguardante un suo compagno di classe del liceo. Al ritorno dalle vacanze estive, il professore d’italiano chiedeva conto ad ogni alunno delle letture fatte durante i mesi di riposo scolastico, da scegliere fra i vari classici della letteratura consigliati alla fine del precedente anno. Quando veniva la volta di quell’amico, noto scaldabanco semiprofessionale e goliardico compagnone, egli immancabilmente rispondeva: «…Eh, prof...sa com’è, non ho combinato molto…però ho iniziato a leggere “Guerra e pace”…».

Alla fine non so se il prof. se la sia mai bevuta quella gioviale balla, oppure se chiudesse un occhio giusto per onorare la simpatia della trovata, riproposta tale e quale ad ogni ripresa di anno scolastico. Di fatto so che quel “ganassa” letterario si è poi diplomato più che dignitosamente e dopo anche laureato con profitto, quindi in conclusione la sua strada l’ha saputa percorrere anche senza la guida della grande letteratura.

Un’altra avan-spettacolare facezia che chiama in causa il capolavoro tolstojano, posso attingerla invece dai miei ricordi personali, uscita dalla bocca di un geniale fine dicitore di Gillipixiland, mio caro amico da anni. Eravamo in piena e sfaccendata combriccola estiva, occupati in uno di quei raduni tardo-pomeridiani durante i quali l’occupazione più impellente di ciascuno consiste nello sparare la vaccata più degna di nota. C’era anche questo ragazzotto un po’ più giovane di noi, un piacevole guascone esuberante, la cui vivacità tuttavia non disdegnava di tracimare talvolta in una deriva “rompigliona”. Ad un certo punto, proprio nel mezzo di un “borseggio” praticato dal giovinastro in misura particolarmente molesta (in pratica, faceva un po’ l’idiota e dava fastidio), l’altro amico gran cantore della surrealtà se ne esce con questa perla: «…Se non la pianti di rompere i coglioni, ti scrivo “Guerra e pace” sulla fronte…» (ovviamente intendendo non il solo titolo, ma l’intero testo dell’opera riscritto da cima a fondo sull’esigua superficie della cute ante-cerebrale: precisazione inutile da aggiungere, per chi come noi era avvezzo alle arguzie illuminanti del caro amichevole motteggiatore).

Quando si dice la genialità…

«Guerra e pace» ha insomma sempre rappresentato per me (e credo anche per molti altri) quell’entità letteraria ignota e vagamente vagheggiata, capace di assumere risvolti buffi e surreali proprio in virtù del suo essere opera così mastodontica, titanica, sconfinata (e non sto qui nemmeno a citare, ad esempio, le esilaranti rivisitazioni di Woody Allen, oppure certe tenerissime vignette dei Peanuts, nelle quali Snoopy si era messo in testa di far rivivere tutte le vicende di «Guerra e pace» in forma di spettacolo di burattini da lui stesso buffamente manovrati).

Ricordo anche che con un altro caro amico, compagno di tante letture comuni, ad un certo punto decidemmo di acquistare insieme i micidiali due tomi dell’immenso romanzo di Tolstoj. E ricordo in particolare come quella spedizione in libreria si tramutasse in un’occasione di ulteriori facezie e battute, sparate per celebrare un qualcosa a metà fra il nostro potenziale eroismo di lettori a confronto con la sempiterna opera russa, ed il piacere di ironizzare su tutto, da noi spesso coltivato: «…Minchia “Guerra e pace”: ma chi ce la farà mai a leggerlo…diventiamo vecchi prima…» e giù risate di non senso culturale come se piovesse.

Quei due corposi tometti hanno poi continuato a vagare in casa per diversi anni, scalando comodini, infrattandosi fra scatoloni o scaffali di libreria, senza che mi decidessi mai ad affrontare seriamente il cimento con una così gigantesca sfida di lettore. La più tenera testimonianza di questo lungo peregrinare per casa di quei due cari librozzi, sottoforma di inquiete “anime non lette”, viene dal prezzo dei due volumi, ancora siglato in valuta “prei-spreadica” sulle terga del secondo tomo: 30mila lire avevo infatti sborsato all’epoca per assicurarmi quella piccola porzione d’eternità artistica.

Tutto questo sino a qualche giorno fa, quando, spinto non so bene da quale inusitata forza ispiratrice interiore, mi sono deciso una buona volta ad intraprendere sul serio e di buzzo buono la possente lettura del romanzo tolstojano.

Dire che si sta rivelando un’esperienza estetica di ordine superiore, è dire poco. Forse dovevano giusto passare circa vent’anni di decantazione dopo l’acquisto dei volumi, perché i tempi della mia lettura fossero maturi. Chi lo sa.

Volendo proprio azzardare una metafora gillipixiana, mi viene da dire che «Guerra e pace», dal punto di vista del lettore, si dipana con la struttura delle scatole cinesi. O ancor meglio: della matrioska, visto che si tratta di roba russa. Si procede nella lettura snocciolando vicende su vicende e mai si placa il desiderio di andare a vedere cose succede un po’ più addentro, e poi dentro ancora e così via. Cosa ancor più sorprendente: nonostante la marea di personaggi e le diramazioni a rivoli multipli delle loro vicende personali, non ci si perde praticamente mai. Il materiale narrativo è dominato con la maestria somma di un cocchiere che sa tenere a bada al tempo stesso centinaia di redini di un maestoso tiro composto da altrettanti cavalli.

A «Guerra e pace» sono estranei gli psicologismi gratuiti, le “filosofate” sovrapposte alla narrazione ed appiccicate sopra con un po’ di colla estetica. Il romanzo è ricco invece di “illuminazioni esistenziali” continue, piccoli barlumi lanciati sul senso del vivere e messi in evidenza dalla forza stessa del dipanarsi dell’azione, o dai comportamenti spiccioli dei protagonisti. In questo modo, le epifanie del lettore risultano essere innumerevoli, tanto che sarebbe impossibile farne una cernita per riportare le più significative.

Dopo qualche centinaia di pagine (perché «Guerra e pace», con la sua mole sterminata, è anche un grande riconciliatore coi tempi lunghi del vivere), si giunge a cogliere la tematica generale del romanzo, il filo conduttore di tutte le scatole cinesi fino a quel punto aperte e di quelle ancora da scoperchiare. Anticipando Marc Bloch e la storia degli Annales, «Guerra e pace» ci racconta come ciascun individuo sia mosso, o si illuda di esserlo, dal rigore ordinato della Storia corale con la “S” maiuscola, mentre di fatto sono sostanzialmente le piccole e grandi meschinità individuali, le spesso casuali ed involontarie glorie quotidiane, che ci fanno procedere.

Intorno alla 490esima pagina, sbuca fuori pure una piccola epifania programmatica ad enunciare il nucleo di questo tema generale del romanzo:

«…Intanto la vita, la vera vita degli uomini, coi suoi essenziali interessi, come la salute, la malattia, il lavoro, il riposo, con gli interessi del pensiero, della scienza, della poesia, della musica, dell’amore, dell’amicizia, dell’odio, delle passioni, procedeva come sempre, indipendentemente e al di fuori dell’intesa o dell’inimicizia politica con Napoleone Bonaparte e di tutte le possibili riforme…».

«Guerra e pace»
Lev Tolstoj1868-1869

A tener unite le due dimensioni, quella della “Storia Ufficiale” e quella della quotidianità più o meno spicciola, «Guerra e pace» è pieno zeppo di personaggi che riescono nella vita a dispetto della loro piattezza e dello scarso valore umano, e di altri che invece falliscono o riescono a fatica, nonostante i propri meriti e le notevoli qualità interiori.

Anatole, personaggio che fa una sporadica comparsa nel corso della narrazione, è il prototipo umano che meglio “epifanizza” questa verità:

«…Anatole non era né spiritoso, né pronto, né eloquente nella conversazione, ma aveva invece, qualità preziosa in società, una calma e una sicurezza che non veniva meno per nessuna ragione. Se un uomo, malsicuro di sé, tace in un primo incontro e mostra d’aver coscienza dell’inopportunità di quel silenzio e desiderio di trovar qualcosa da dire, tutto va male; ma Anatole taceva e dondolava una gamba, osservando allegramente la pettinatura della principessina. Si vedeva che egli poteva tacere così tranquillamente e molto a lungo. “Se qualcuno si sente a disagio per questo silenzio, parli pure, ma io non ne ho voglia”, pareva che dicesse il suo aspetto. Oltre a ciò, Anatole, nel trattare con le donne, aveva quel fare che più di tutto ispira alle donne curiosità, paura e anche amore: quel fare che mostra una sprezzante consapevolezza della propria superiorità. Pareva che dicesse loro col suo aspetto: “Vi conosco, vi conosco, perché darmi pena per voi? Certo ne sareste felici!” Forse egli non pensava così, quando s’incontrava con donne (era anzi probabile che così non pensasse, perché, in generale, pensava poco), ma tali erano il suo aspetto e il suo contegno…».

«Guerra e pace»
Lev Tolstoj1868-1869

«Guerra e pace» è anche quel portento di libro che, una volta giunti nei pressi di pagina 500, come sta succedendo a me adesso, si constata come sia possibile continuare a dire di aver praticamente appena iniziato, pur avendone ancora davanti altre 900 circa.

Tanto che a distanza di anni, grazie all’attuale mia lettura di «Guerra e pace», rivaluto volentieri la goliardia dell’allora compagno di classe di mio fratello. E in questo punto della mia vita in cui mi sto rendendo conto di stare concretizzando veramente poco, se d’ora in avanti qualcuno mi chiederà cosa sto facendo, potrò sempre rispondere: «...Eh, sai com’è, non ho combinato molto…però ho iniziato a leggere “Guerra e pace”…».

venerdì 13 luglio 2012

Il dono della ghiandaia


Pur conservando imperterrita la propria inafferrabilità fotografica, la ghiandaia continua ad incrociare i suoi sentieri di uccelletto semisilvestre con i miei passi d’inusuale campagnolo. Già vi narrai in passato dei miei infruttuosi tentativi di fermare in una foto le fattezze del leggiadro volatile.

Finora non c’è stato verso. Quella vecchia e cara gazza vestita dalla festa si rivela sempre oltremodo fuggevole all’obiettivo. E forse anche per questo, s’intensifica la mia predilezione per questo uccellino, nata per due motivi fondamentali.

Forse quello più importante sta nella rarità delle sue apparizioni. La ghiandaia deve avere un agente molto in gamba che cura per lei tutti gli aspetti delle pubbliche relazioni. Non è come sua cugina, la gazza vera e propria, oppure come il merlo, o il passerotto, o gli storni caciaroni ed onnipresenti: sono uccellini simpatici, curiosi e belli da vedere anch’essi, ma loro li puoi ammirare sempre sul palcoscenico naturale, a far bella mostra di sé in qualsiasi momento ti venga la voglia di osservarli.

Le entrate in scena della ghiandaia sono invece sempre centellinate e ben dosate. Lei ti concede al massimo un paio di minuti in tutta una stagione, suddivisi magari in cinque o sei incursioni nel giardino o su qualche albero lì in giro. La ghiandaia fa un po’ come Mina nel mondo dello spettacolo, che da un certo momento in poi per il pubblico si è tramutata in pura voce. Allo stesso modo, le comparse della ghiandaia sono talmente fugaci ed impalpabili, che ti rimangono in mente più come fossero l’eco lunga di una melodia di canzone, che non vere e proprie sensazioni visive.


La ghiandaia mi piace poi per un motivo un po’ bizzarro. Ossia perché nell’insieme della sua livrea caffelatte, spiccano questi spruzzi di colori quasi innaturali o perlomeno inusuali se si pensa a come vanno vestiti di solito i più ordinari rappresentanti della fauna seriosa delle nostre zone. E’ come un impiegato tutto vestito a puntino, o un’elegante commessa di negozio con la sua giacchetta del tailleur marroncina, che ad un certo punto gli ha preso il ghiribizzo di guarnirsi con queste leggere strisce azzurre sulle maniche, ossia sulle ali.

E dire che quest’anno l’ho avvistata in tante occasioni, la cara Ghiandy. Anche più del solito: era in solitaria a volte, e in certi casi anche in accoppiata. Alcune volte in posizione favorevolissima per una foto: ma ovviamente non avevo mai la macchina sottomano. Che se poi corro in casa a munirmi di obiettivo, quando esco di nuovo, mi ha già bell’e salutato per la prossima canzone.

Sarà stato forse allora per rimarcare ulteriormente la mia inattendibilità fotografica, che uno dei giorni scorsi, la ghiandaia ha deposto per me un piccolo dono, sotto la pianta della magnolia. Visto che non ce la fai a beccarmi con l’obiettivo, si sarà detta fra sé e sé, ti lascio almeno questo ricordo. Una piuma piccina, scelta proprio fra quelle con le striature azzurre.



Ovviamente, tutta la sovrastruttura semi-romanzata è frutto di un’aggiunta di sceneggiatura gillipixiana. Ma è stato a suo modo un ritrovamento commovente, per me. La conferma di come la natura possa renderci familiari con questi micro-esercizi di gentilezza, se solo ci prendiamo la briga ogni tanto di stare in ascolto dei suoi piccoli cenni.

E mentre rimiravo ancora un po’ fra le dita la piccola, preziosa pepita faunistica che mi era capitato di rinvenire, alla fine sono stato colto da un pensiero leggermente più prosaico. Non sarà che la ghiandaia mi è cara perché anche lei, con quegli accenni velati di nerazzurro sulle ali, in fondo in fondo ha un cuore nostalgico da interista idealista?

lunedì 9 luglio 2012

La notizia che avreste voluto leggere: “Nemesi meteorologica”




Oggi inauguro una piccola nuova rubrica: “La notizia che avreste voluto leggere”. Di volta in volta, creerò uno pseudo-articolo di giornale rigorosamente falso, con tanto di titolo, sottotitolo e svolgimento del tutto fasulli, che raccontano un fatto mai avvenuto, ma che a mio avviso in molti avrebbero tanto sperato si verificasse.

Non so se come rubrica avrà un seguito, ma intanto per oggi comincia con un clamoroso scoop.

*******

- Nemesi meteorologica - 
Per un pelo Caronte non scivola dal traghetto

Sfuggiti per miracolo al linciaggio i petulanti nipotini di Caronte e Minosse

Se la sono vista brutta, nel primo pomeriggio di alcuni giorni fa, gli ideatori dei mitologici nomignoli affibbiati da inizio estate ai vari anticicloni africani. Si tratta di due oscuri tecnici di un’agenzia di previsioni meteorologiche. Per salvaguardarne ulteriormente l’incolumità, non riveleremo l’identità dei due tecnici, né il luogo in cui si sono svolti i fatti (una grande città del centro-nord). A stanare i fantasiosi meteo-dicitori, sono stati alcuni operai, intenti ad effettuare lavori di rifacimento di un tratto della linea del gas che corre proprio sotto il marciapiede prospiciente l’edificio in cui l’agenzia meteorologica ha sede.

Erano da poco passate le tredici e trenta. La canicola imperversava senza pietà e gli operai avevano appena ripreso il loro turno pomeridiano, armeggiando in un bagno di sudore nella profonda buca scavata per raggiungere un raccordo nodale delle tubature. All’improvviso, dalle finestre al piano terra dell’istituto di previsioni, lasciate incautamente aperte, si è cominciato ad udire uno strano e concitato scambio di battute: «…Conte Ugolino…», «…No! Farinata degli Uberti…», «…ma no, allora è meglio Pape Satan!...», «…eh sì, ma così “Aleppe” rimane fuori: “Aleppe” dove lo mettiamo allora?!?!?!...».

Incuriosito, uno degli operai, dopo aver posato un attimo il piccone, si è issato leggermente verso il davanzale sospetto, poggiando un piede sul rilievo di una modanatura dell’edificio, sino ad affacciarsi di nascosto sulla stanza da cui provenivano le voci. Ha potuto così osservare distintamente la sconfortante scena: brandendo in mano ciascuno una copia della Divina commedia, i due impiegati dell’istituto stavano tirando a fine orario di lavoro, cercando di escogitare nuovi molesti soprannomi letterari con i quali battezzare le prossime ondate di calore estivo, previste nelle prossime settimane in arrivo sulla penisola.

Il caso ha voluto che l’operaio non fosse completamente digiuno di nozioni dantesche. Per lui sono state così sufficienti un paio di occhiate ed alcune altre frasi ancora, per capire il “misfatto” che si stava compiendo nell’ufficio. Avvisati immediatamente gli altri quattro colleghi, l’operaio ha avuto modo di contagiare anche questi ultimi con una impellente dotazione di “testicoli di bragia”.

La squadra di manutenzione gas al completo a quel punto si è appostata vicino al portone dello stabile, in attesa dell’uscita dei due mattacchioni pronipoti del colonnello Bernacca. Quando questi si sono affacciati sulla soglia, per gli accaldati lavoratori, passare dagli insulti all’inseguimento è stato un attimo. Brandendo picconi e badili, hanno incalzato i malcapitati meteorologi per diverse centinaia di metri, levando al cielo grida sconnesse, delle quali, facendo riferimento a quanto riportato da diversi testimoni, siamo in grado di riferire solo alcuni spezzoni: «…Caronte ‘n par de…», «…Ma va in mona: tì, Minòse e’l tò anticiclón de l’ostrega!…», «…Scipione u’ fetuso, no l’Affricano, minchia!!!…» e simili invettive dialettalmente variegate, dettaglio questo che la dice lunga sulle proporzioni interregionali del fastidio percepito riguardo a questa moda burlona di sottolineare l’afa estiva.

Per fortuna dei due impiegati del meteo, il potenziale linciaggio è stato smorzato praticamente sul nascere da una squadra di vigili urbani che si trovava a pattugliare la zona. Nelle fasi più concitate del parapiglia, mentre si abbassava d’istinto per evitare l’impatto con un badile scagliato a mezz’aria da un componente particolarmente furente della turba operaia, ad uno dei beffardi chiosatori climatici è scivolato di tasca un fogliettino con annotata una lunga lista di soprannomi meteo che spaziavano con ancor minore ritegno nel puro repertorio “para-favolistico” psichedelico: Ventolo, Eolo, Nuvolo, Ghiàcciolo, Foscolo, Nebbiolo, Frescone, e così via. I due sciagurati meditavano di ammorbare l’Italia intera ancora per mesi, sfornando un nuovo nomignolo ad ogni soffio di vento o mutar di nuvola, rimarcando senza scrupolo estetico alcuno lo scorrere completo di tutte e quattro le stagioni: l’abbiamo scampata bella.

Il gruppo di operai ha invece potuto far ritorno ai propri scavi, mentre il loro passaggio veniva coronato da due ali plaudenti di folla.

giovedì 5 luglio 2012

Revisionismo e cicale



L’ho già detto altre volte: ad essere campagnoli svagati, ci sono anche i suoi piccoli vantaggi. Non solo ti stupisci di continuo di piccoli fenomeni floro-faunistici che ti ritrovi ad osservare di tanto in tanto, ma per di più, forte della tua speciale insipienza naturalistica, puoi azzardare interpretazioni del tutto infondate e nondimeno feconde di divaganti vagabondaggi per pensieri.

Questi bozzoletti entomologici rinsecchiti li avevo già notati sporadicamente qua e là anche in altre occasioni. Ma mai prima mi era capitato di poterli apprezzare in questa sorta di congelato inno corale transumantico, producendosi in questa manifestazione non manifesta, in questa processione senza progresso, una marcia cristallizzata nel tempo capace di promanare un senso indefinito di ritualità sospesa.

Le cicale, più che farsi vedere, di solito si sentono. Nel bene e nel male, sono il simbolo dell’afa estiva, forse ancor più del sole a picco e delle ascelle sinfoniche. Basta pensare un attimo all’innegabile contributo reso alla cinematografia da questo grattugiante insetto. Quando un regista vuole conferire efficacia ad una scena calata in un torrido pomeriggio estivo, non può fare niente di meglio che metterci come sottofondo un coro di cicale frinenti a manetta.


Le cicale di rado le vedi, insomma, ma l’altro giorno, per caso ne ho vista una. Friniva da par suo proprio accanto ad uno di questi piccoli sarcofagi vuoti d’avorio luminescente. Avendo modo di confrontare forme e dimensioni della sagoma inanimata con quelle dell’insetto vivo e vibrante, con estrema volpitudine campagnolesca ho desunto che quei vacui mini-scafandri sparsi un po’ per tutto il giardino, altro non erano se non i panni vecchi abbandonati da altrettanti esemplari di cicala.

Come dicevo, il fatto curioso è che, anche se il volume sonoro dell’afoso frinire non mi pare aumentato di decibel in misura particolarmente significativa, quest’anno di smoking di cicala dismessi ce ne sono in giro a bizzeffe: lungo i rami degli alberi, abbarbicati alle foglie, appiccicati alle losanghe della rete metallica. E ancor più curioso è questo loro essere disposti in una sorta di corteo inanimato che ha un po’ del misterioso e un po’ del poetico insieme. Fa impressione poi notare come la sagoma riproduca nei minimi dettagli il calco perfetto della bestiolina, come fosse uno stampo industrialmente progettato per sfornare alla perfezione ogni particolare morfologico.


Proprio mentre ero intento a lasciarmi cullare in siffatto modo dalla risacca dei pensieri, ecco che un molesto andirivieni pizzicante inizia a palesarsi nella periferia dei miei malleoli, sino a giungere fra i sobborghi degli stinchi. Lo stuzzicante fastidio era dovuto all’intraprendenza di alcune formichine scassaminchia che avevano scambiato le mie gambe per un territorio di conquista destinato a placare, in modo noto solo a quelle testoline antennate, il loro insaziabile spirito imprenditoriale.

A quel punto, non ho potuto fare a meno di ripensare alla celeberrima favoletta della formica e della cicala, e a come probabilmente la morale da essa tradizionalmente desunta, sia frutto di un’errata assunzione del punto di vista più consono dal quale considerare tutta la storia.

Antropomorfizzati, ossia calati pari pari in un parallelo diretto coi valori umani, gli atteggiamenti dei due insetti rispondo alla perfezione ai requisiti della favola: la formica è innegabilmente un esempio di laboriosità, mentre la cicala è una perdigiorno senza uguali, da biasimare a tutto spiano.

Ma se lasciamo che gli uomini rimangano uomini, e gli insetti facciano la loro parte da insetti, la suonata cambia di tono non poco. Cosa me ne sbatte a me se l’indefessa formichina si affanna tutto il giorno a far su i suoi mini-montarozzi di terra, ad accumulare briciole e riempire i forzieri di provviste? Per quel che mi compete, son stato un’oretta in giardino e mentre le cicale mi hanno offerto quell’insondabile spettacolo di scenografica surrealtà, accompagnandolo con l’ideale colonna sonora da loro stesse confezionata, le formiche non hanno saputo far altro che darmi fastidio col loro irritante tramestio di zampette inferto fra un pelo e l’altro dei miei sguarniti garretti.

In una ideale quanto improbabile scala di valori, dovrò a questo punto preferire sempre la formica? Quanto meno, mi sorgono ingenti dubbi in merito. Il che mi fa pensare anche ad un insegnamento più vasto, che si può trarre da questa modesta avventura campagnolesca, ribaltando un po’ la classica morale favolistica. Il preconcetto idealizzante non di rado porta ad osservare i fatti della vita da una prospettiva fallace. Mentre la verifica esistenziale diretta può farci valutare in misura forse più eccentrica, ma presumibilmente più veritiera, i meccanismi della realtà.