mercoledì 26 maggio 2010

La mano scrive, ma la mente non se ne avvede


Con le cosiddette «epifanie del lettore» già vi ho fatto «‘na capa tanta» in innumerevoli e ripetute situazioni bloghesche, declinando di volta in volta il concetto nelle sue più strambe varianti. Quello che non mi sarei mai aspettato tuttavia, era di incappare in una «epifania dello scrivente autoindotta».
Questo strano fenomeno si concretizza quando capita di scrivere una frase della cui “fonte d’ispirazione” sapremmo dire poco o nulla.
Proprio per questo motivo, una volta che rileggiamo il periodare da noi stessi prodotto, nel caso di esito felice, possiamo gustarlo con uno stupore distaccato, quasi fosse un’idea trasposta su carta da un'altra persona. Un po’ come quando s’informicola una mano o un piede: sono sempre roba nostra, ma percettivamente paiono quasi una mano o un piede attaccati ad un altro.

Una bagatella narrativa del genere, essendo in pratica involontaria, mi è capitata casualmente ieri mattina, commentando un egregio articolo della sempre brava Farlocca.
Nel suo scritto, Farly parla di quelle persone che nella vita tendono, più o meno di preferenza, a raggiungere gli obiettivi percorrendo regolarmente la strada più tortuosa per arrivare alla meta, dimostrando in questo modo quasi una sorta di “masochistico snobismo” verso le soluzioni lineari, piane, dirette.
La sensazione mi è ben nota, essendo io stesso da annoverare nella schiera dei “percorritor di miglia per fare due passi”.
Nel commento, volevo precisare una mia impressione: è vero che coloro che sono affetti da questa “sindrome della tortuosità” vivono forse con più fatica, ma è altrettanto vero che essi, con le loro continue deviazioni dal tracciato principale, possono essere considerati anche come i motori del cambiamento.
Sia ben chiaro, è solo una mia ipotesi.
Nasce dall’idea che chi si ritrova disperso, anche suo malgrado, per sentieri inizialmente non preventivati, non solo riesce ad osservare le cose da mille angolazioni ulteriori, ma immagazzinando e comparando fra di loro un numero molto più alto di informazioni casuali ed accidentali, può avere l’occasione di combinarle in modo originale, dando vita a nuovi modi di intendere la realtà.
Per farla corta, in sostanza volevo dire a Farly che se non ci fossero quegli zig-zagatori di linee rette, chissà, forse l’umanità si ritroverebbe ancora “indietro come la coda del maiale” (…colorito eufemismo dialettale, col quale a Gillipixiland si suole indicare l’arretratezza sociale e culturale).

Ed ecco cosa mi è uscito fuori:
«…senza individui che ri-problematizzano il mondo in senso creativo, forse saremmo ancora tutti nelle caverne stravaccati su un divano di pietra, a guardare i graffiti sul muro, cercando invano di cambiare canale…».

Ora, cari amici viandanti per pensieri, giuro che non so come questa immagine mi sia venuta in mente. Voglio dire, dove l’ho pescata, proprio non lo so.
E mi scuso anche per la narcisistica autocitazione, ma credetemi che non avrei tirato in ballo tutta questa tiritera, se la frase fosse stata “mia per davvero”.
O meglio, a rigore di logica teorica, si tratta di una frase mia, certo. Non vi voglio mica pigliare per i fondelli. Ma agli effetti pratici (ed è questo il punto che volevo sottolineare), è una frase che mi son sentito nelle mani ancor prima che la mente potesse rendersi ben conto di averla concepita.

Lo so, lo so che a questo punto starete pensando alla battuta finale di una celeberrima barzelletta anni ’70. Quella di quel tale che sparandole grossissime, racconta le sue strabilianti ed inverosimili gesta di guerra ad un amico, il quale, alla fine del racconto, ribatte: «…Ooohhh, che onore essere tuo amico…posso toccarti?...», lieve buffetto su una spalla: «…Ma vaffanculo!...».
Ma vi garantisco che non c’è intenzione auto-celebrativa in tutto ciò. Volevo solo mettere in rilievo questa faccenda delle idee illuminanti, che come dicevo prima, sembrano venire da chissà quale angolo ignoto della nostra sensibilità.

Ora, l’immagine in questione non sarà poi neanche quella gran geniata, ma mi sono accorto che più la rileggevo e più l’apprezzavo, ed anche la stessa Farly ne è stata favorevolmente impressionata).
Mi sembra bella per quel cortocircuito paradossale di sensi e di tempi, che innesca. Il cavernicolo è preso in qualità di rappresentante “proto-tipico” dell’alba dell’uomo, come simbolo di un’umanità che muove i primi passi. L’«Homo Televisivus Absolutus» tiene alta invece la bandiera dell’odierna deriva nell’ottusità mentale (…senza sfumature moralizzatrici: io per primo sono gravemente “televisionario”).
Fondendo i due estremi temporali con questo buffo chiasmo, ad incrociare i rispettivi oggetti caratterizzanti di pertinenza (il divano che si antichizza goffamente pietrificandosi, il graffito statico che si modernizza accampando improbabili pretese d’immagine dinamica e mutevole…), ne esce fuori uno stridore umoristico non meglio precisato fino in fondo, che proprio in questa indeterminatezza trova il suo valore aggiunto di significati possibili.

Un’immagine, una metafora efficaci, non debbono mai essere chiare fino in fondo, ma dovrebbero sempre dire, pur lasciando ampio spazio al “non detto”.
Ed è appunto in virtù di quel “non detto” che lo stesso autore della frase “non sa dire” fino in fondo l’origine della sua pensata. Non perché egli sia un fenomeno dunque (…se la frase è uscita da me, potete star certi dell’assoluta ordinarietà mentale della fonte…), ma perché la frase gli è stata come “suggerita” da una sorta di “nume” narrativo occulto, che è potenzialmente dentro ciascuno di noi.

E detto questo, adesso sì, d’accordo: potete anche toccarmi!



domenica 23 maggio 2010

Di formichine digitali e di umanità frequenziale


A volte ho l'impressione che la vita sia questione di frequenze. Si vede che ho passato una settimana a ri-sintonizzare i canali della tele alla ricerca del “digitale purpureo”, vero?
Non a caso la vita è anche questione di metafore.
O meglio, di incasellamenti mentali.
Le attività che svolgiamo con una certa ripetitività, dalle più banali e meccaniche a quelle che maggiormente comportano l'impiego di notevoli “pacchetti” intellettivi, tendono a trasmettere la propria forma al nostro modo del momento di vedere il mondo.
Il fenomeno si può assaporare benissimo come conseguenza dell'uso del pc, ma è solo il caso più evidente. Quando mi succede di usare con una certa assiduità un certo programma, mi piglia la tendenza a vedere il mondo secondo gli schemi mentali dettati da quel programma. Vedo ad esempio le persone fluttuare dentro le cellette di excel, e se per caso si tratta di una bella figliola per strada, mi vien voglia di trascinare la sua casellina per duplicarla lungo una colonna di piacevoli rifrangenze muliebri reiterate.
Oppure mi ritrovo in luoghi brulicanti di situazioni che mi piacerebbe mandare indietro cliccando le rassicuranti e bluastre tonalità della freccettina «undo», o ancora di facce da rettificare col «timbro clone» di photoshop, di atmosfere cupe da stemperare affidandomi alla sequenza «Immagine / regolazioni / contrasto automatico».

Ma anche certi impegni più propriamente fisici, se eseguiti con una qualche ripetitività in periodi ravvicinati, sono in grado di impostare le coordinate dei nostri orizzonti filosofici, ossia di metaforizzare secondo i propri schemi il nostro modo di vedere la vita.
Questo punto tra l'altro, pur nella marginale ed animalesca mia enunciazione, ha anche qualcosa a che vedere con ciò che il filosofo francese Jacques Derrida considerava la più importante eredità ancora “fruibile” della tradizione del pensiero marxiano. Ossia la stretta “comunicanza” (portate pazienza, quando la lingua italiana non ha le parola che mi servono, io me le faccio in casa come i tortellini in brodo...) che intercorre fra dimensione materiale ed aspetti spirituali del vivere, tra il basso e l'alto dell'esistenza. In questa ottica addirittura, non ha tanto senso nemmeno parlare di «basso» e di «alto»: cervello ed intestino, i due grandi cugini del nostro corpo, hanno pari dignità nell'economia di significati del nostro radicamento nella spazio-temporalità.

Ma cosa c'entra tutto questo con le frequenze, il digitale e, come fra poco scoprirete, anche le formichine?

C'entra perché mi sono accorto stamattina che la ricerca ripetuta diverse volte negli ultimi giorni delle frequenze della nuova “fantasmagorica” offerta del digitale terrestre, ha finito per definire lievemente la mia inquadratura dei fatti della vita di questi giorni.
A forza di vedere la barretta azzurrina che scorreva lungo la banda DBT alla ricerca di nuovi canali, mi son ritrovato a considerare l'ambito esistenziale individuale di ciascuno al pari di una frequenza.
Cerco di spiegarmi meglio, se ci riesco.

Sembra incredibile la percezione di quante infinite realtà potenziali sono distribuite per il mondo, mentre a noi tocca solo la nostra contingente, circoscritta, limitata e sostanzialmente racchiusa entro confini ristretti. Se si pensa quanto dolore c'è nel mondo, quanta gioia anche, quanta tristezza, quanta malvagità, quanta dedizione, quanto sacrificio, quanta sete di bellezza più o meno placata o placabile, allora la similitudine con una certa frequenza per simboleggiare la nostra porzione minimale e riservata di vita, non appare più così fumosa.
Non importa se per caso ti chiami Obama o Berlusconi, oppure con infinita più insignificanza Gillipixel: quel che rimane è il fatto di vivere ciascuno sulla propria frequenza, che è una, individuale e particolare. Certo, sulla loro frequenza ci sono programmi più vari ed interessanti, ma ogni individuo può dire di essere sintonizzato su una frequenza che è solo sua.
Badate che non mi riferisco al mio solito refrain dell'«asocialismo». E' un dettaglio più sottile. Non c'entra il fatto di vivere vite più o meno intense, più o meno dense di avvenimenti e contatti con gli altri. Ognuno è sulla propria frequenza, nel suo “qui ed ora” che, pur sembrando crudele, poco o nulla riesce a spartire con la sofferenza di migliaia di altri individui all’altro capo del mondo, o coi successi o gli insuccessi di tanti altri.

Non vi sembra ancora abbastanza inutile ed ozioso come ragionamento? Non è abbastanza contorto e folle?
Allora sentite qui: l’impressione delle frequenze esistenziali mi si è acuita in mente subito dopo, passeggiando nel giardino ed avvistando alcuni piccoli domicili di formichine. Se le frequenze delle vite degli uomini mi erano apparse distanti pur nella loro amalgama essenziale, le frequenze del mondo delle formiche mi si sono parate dinnanzi come coordinate di un universo parallelo. Va beh, avevo promesso di spiegarmi meglio, ma mi sa che non ci sono riuscito granchè.

Ad ogni modo, mi sono soffermato ad osservare un attimo il lavorio intenso che c’era laggiù. Una vita piccola, nella sua dimensione particolare, dove forse di tanto in tanto, un formico si può anche innamorare di una formica, ho pensato. E chissà, invece delle tette grandi, magari da quelle parti vanno per la maggiore le antenne sinuose, vai a sapere…
Fatto sta che vi dirò, cari amici viandanti per pensieri, ero un po’ triste prima di aver visto quei delicati e trafficati montarozzi di granellini polverosi. Lo son rimasto anche dopo, ma con più leggerezza.



lunedì 17 maggio 2010

Guida rapida per non pensatori dilettanti


Riuscire a non pensare.
Fermare completamente il lavorio delle idee. Procedere con la leva del cambio mentale rigorosamente lasciata in folle. Interrompere il flusso energetico fra i neuroni. Allentare quasi completamente la stretta elettrica fra le sinapsi.

Chiamatela come vi pare, ma questa è la condizione che ho spesso desiderato. E non fate gli spiritosi, sostenendo che a giudicare da quel che scrivo, la cosa del non pensare mi riesce già benissimo anche così. Il punto non è tanto quel rumore cerebrale che normalmente mi riecheggia nel cranio, dando vita ai miei sproloqui blogheschi. So benissimo che quello di per sé non ha dignità di pensiero alcuna, ma è pur sempre un ronzio di fondo. Per quanto insulsa e marginale, è pur sempre una presenza molesta.

L’ambito stato a cui mi riferisco ha invece piuttosto qualcosa a che vedere con lo svuotamento del sé auspicato dalla spiritualità orientale, quel sentirsi parte continuativa ed indifferenziata dell’essere globale, pur seguitando a giocare il proprio ruolo umano imprescindibile.

Viene spontaneo domandarsi il perché di una simile esigenza: «…Ma non ti potresti accontentare di un week-end al mare ogni tanto, come un bastardo qualsiasi?...», obietteranno i lettori più attenti e pragmatici.

Il nocciolo della faccenda credo stia nel fatto che il lavorio mentale costa fatica. Non è tuttavia solo questione di pigrizia. Certo, un po’ sarà anche quella. Ma andando ancor più a fondo nel significato del fenomeno, mi sembra di poter dire che la sensazione più fastidiosa associata al fermento del pensiero, consista in una sorta di logorio percepito dell’essere.
Quando si pensa, per quanto più o meno intensamente lo si faccia, ci si sente quasi come una montagna erosa lentamente e dilavata da innumerevoli torrenti che percorrono le sue pendici. Ci si sente un “Uno” minacciato dalla scissione in “molti”. Un mucchietto di sabbia sferzato dal vento, con la conseguente dispersione di innumerevoli granelli del sé nell’angosciante immensità degli spazi universali infiniti.
Non a caso il tipo di riposo che il sonno può garantirci non consiste primariamente in un recupero di forze fisiche, bensì sta soprattutto nello spegnimento momentaneo dell’interruttore del pensiero, magari acceso ad intervalli nella modalità di corrente alternata del sogno, che in effetti è proprio equiparabile ad una versione fantasiosa e più divertente di “non pensiero”.

Esisterà, mi sono chiesto allora, una strada per continuare a rimanere esseri senzienti e pensanti, pur prendendosi di tanto in tanto pause di sollievo da quella sensazione opprimente di deflagrazione interiore? Strada che, sia detto per inciso, se appena possibile dovrebbe escludere gioiose deviazioni di percorso su sentieri quali l’elettroshock o la lobotomia.

Insomma, detto in due parole, esisterà una “strada pigra” alla meditazione?
Sì perché, meditare con tutti i crismi, fino a svuotare la mente da ogni suo contenuto transitorio, come prevede la pratica orientale più pura, non è impresa facile. Occorrono anni di pratica e dedizione, che per un povero pigro si traducono in decenni di goffi tentativi dagli incerti esiti.

Mi sono tuttavia reso conto giusto ieri mattina che esiste un mezzo di “quasi svuotamento del pensato”, praticabile pur continuando a pensare. Basta affidarsi ad un piccolo segreto, più o meno di Pulcinella. Il piccolo trucco sta nel lasciare andare il pensiero immersi in un contesto predominato da entità non pensanti. Non a caso lo scenario che mi ha suggerito la cosa era composto dalla riva del fiume rigogliosa d’erbe piovane, una panchina, la corrente dell’acqua con relativo sciabordio, le nere scie di graziose planate d’uccellini, lo stormire dei pioppi pettinati dal vento, i “piumini” rilasciati dai medesimi in grande copia nell’aria, e soprattutto una solitudine rigorosa nel raggio di alcune centinaia di metri.

Calato in quel continuum di non pensiero diffuso e prevalente, percepivo come il mio pensare stesso si faceva meno minaccioso, meno gravido di gravità. La cosa buffa è stata che non era la prima volta che andavo al fiume e me ne stavo lì da solo. Ma solamente ieri mi è sembrato di aver capito perché quel luogo sa sempre regalarmi serenità e sollievo: perché in giro c’era solo “essere” puro, non turbato da riflessioni su di esso, eccezion fatta per le mie vacue elucubrazioni isolate, che diluite in quel mare magnum di “cosità in se stessa”, risultavano più lievi di un piumino di pioppo.


sabato 15 maggio 2010

Ultimo tanga a Gillipixiland


Qualche tempo fa vi dissi che dopo aver affrontato l’impegnativo ed entusiasmante doppio tomo di William Shirer, «Storia del Terzo Reich», per un po’ mi sarei tenuto lontano da letture particolarmente lunghe. Mantenendo infatti fede al mio tradizionale e rigorosissimo senso della coerenza, di lì a poco mi sono addentrato nei perigliosi meandri narrativi della “Recherche” proustiana (fra i quali, a dire il vero, per il momento mi sono un po’ smarrito…).
Pochi giorni or sono, per ribadire con decisione la logica stringente delle mie scelte, ho poi pensato bene di buttarmi sulla lettura di un agile “pamphlet”: «Anna Karenina» (…di Lev Tolstoj, ma cosa ve lo dico a fare?...).

A parte tutto questo, quando ti appresti ad affrontare un libro così ponderoso, speri di farlo nelle migliori condizioni di comfort possibili. E’ come per una lunga escursione in montagna: mica ti metti per il sentiero con i tacchi a spillo ed il tanga di carta vetrata, se appena c’è la maniera…
Scegliere un’edizione consona all’impegno, in questi casi non è dunque un dettaglio.
Ma con «Anna Karenina», è proprio qui che l’asino gillipixiano è miseramente cascato.

Preciso che non citerò i nomi effettivi delle case editrici in questione, perché non voglio imbarcarmi in nessuna forma di pubblicità, né di spubblicità. Userò solo due nomignoli sostitutivi, con radice etimologicamente “sinonimata” e desinenza vicendevolmente scambiata, così i più fantasiosi potranno dilettarsi ad indovinare (…un po’ come succedeva con la dolce Euchessina, pensata per i bambini buoni, mentre quelli cattivi, va beh: che spingessero pure!…sempre per non fare pubblicità…).
Basterà addentrarsi in una piccola esegesi della “radice” del primo nome, ed usare la desinenza del secondo, e viceversa.

L’edizione di «Anna Karenina» che avevo in casa è della “Nettanti”. Me l’ero procurata anni fa, senza l’intenzione di leggermela subito. Con questi classiconi russi è un po’ come con le bottiglie di liquore: te li metti in casa e poi capita sempre l’occasione buona per stappare. Già all’epoca però, mi accorsi che si era trattato di un acquisto improvvido: la copia che avevo pescato era difettosa, perché appena dopo la copertina, dove uno si aspetta tutte le paginette introduttive col titolo interno, il traduttore, l’anno d’edizione, il titolo originale, ecc., c’era il vuoto. Il libro iniziava ex abrupto dall’introduzione.

La cosa mi aveva innervosito, spingendomi con ancor più fermezza a lasciar perdere temporaneamente la lettura del discreto tometto tolstojano, che è stato così ad invecchiare fra i miei libri, fino ad arrivare, come accennavo sopra, ad alcuni giorni fa, quando mi ha preso la voglia di stappare quella buona bottiglia di liquore narrativo russo.

Ogni libro ha il suo momento nella vita di un lettore, e sentivo che era venuto il momento giusto tra me ed «Anna Karenina». Non mi sbagliavo, perché fin dalle prime pagine ho assaporato subito la bellezza che gronda da quelle pagine.
Ma…c’era un grosso “ma”.
La mancanza delle pagine iniziali non era il solo difetto della mia edizione “Nettanti”.
Di man in mano che mi addentravo nella storia, mi accorgevo di un fatto a dir poco fastidioso, che rischiava di tramutare il piacere della lettura in uno stracciamento di maroni e fiotti di nervosismo come piovesse.
I caratteri di stampa erano così mal impressi ed a tratti addirittura monchi, da rendere la mia impresa di lettore una vera e propria pena. La sensazione era proprio quella menzionata prima, dell’indossare un tanga in pura carta vetrata, e nemmeno di quella a grana fine.
La cosa volendo ancor più odiosa, al di là delle parole prive di piccole porzioni di lettere o di interi caratteri, era lo scempio che la macchina tipografica aveva fatto delle virgole: in moltissimi casi erano prive del piedino, tanto da confondersi con i punti. Per cui non si capiva dove finiva il periodo, oppure in certi casi pensavi finisse due volte nel giro di pochissime sillabe, però non vedendo poi la maiuscola ci capivi ancor meno, e ci voleva la pazienza ogni volta di interpretare se si trattasse di un punto o di una virgola, o di qualche altro segno di punteggiatura.
Credetemi cari amici viandanti per pensieri, una roba da sbattere il libro contro il muro.

Così, dopo una cinquantina di pagine di questo strazio, facendo violenza alla mia parsimonia campagnola che mi avrebbe indotto a sopportare il dolore pur di non concedermi il lusso di due copie dello stesso libro in casa, me ne sono andato in libreria e mi sono accattato l’edizione “Bendatori” (interpreta la “radice” ed usa la desinenza della prima edizione fittizia).
Fin dalla prima analisi sommaria, ero ben contento della mia nuova acquisizione: qui le lettere erano ben impresse, le pagine dell’«ante-libro» c’erano tutte, ma soprattutto le virgole erano virgole e i punti erano punti, siano lodati i sacri Numi del Ciclostile!
Nemmeno a dirlo, mi sono così buttato a capofitto nella nuova edizione “Bendatori”.

C’era tuttavia una cosa piacevole che mi ricordavo dal primo abbozzo di lettura con l’altra versione: il fatto di aver colto subito di che pasta sia fatta la poetica di Tolstoj.
A dirla in “rozzese” puro, il vecchio Leone è in realtà piuttosto un raffinatissimo segugio da tartufo psicologico. Possiede una capacità straordinaria di cogliere certe sfumature sottilissime del reale, o meglio, di come la realtà si “compone” nella mente umana. E’ questa la sua magia principale: far emergere il pensato dal concreto, le idee dalle cose così come la sensibilità umana le sa intendere. Nel mondo tolstojano, non c’è soluzione di continuità fra spiritualità e materia: dalla prima scaturisce la seconda, nell’atto stesso di percepirla, non meno di quanto la seconda informi la prima, col suo straripamento di dati sensoriali.

Ci sono brani su brani di «Anna Karenina» (per quel che ne ho letto finora) che potrei citare ad esempio di questo essenziale tratto del narrato tolstojano, ma uno fra tutti, con la sua bizzarra marginalità ed insospettabilità, mi aveva colpito già dalla prima lettura sulla prima edizione frulla-pallesca.
La scena è presto detta: due dei protagonisti della vicenda, Stepan Arkadevic (fratello della Karenina) e Konstantin Levin, si recano insieme al ristorante. Ed ecco come Stepan, habitué del locale, viene accolto da un cameriere tartaro che indica alla coppia il tavolo:

«…”Per di qua, Eccellenza, s’accomodi. Qui sua Eccellenza non sarà disturbata” disse un vecchio tartaro ossequioso, slavato in viso e con le anche così carnose che le falde del suo frac non potevano stare accostate…».

Questa è la traduzione dell’edizione “Nettanti”, la nervosifera con virgolopenia diffusa.
Sarò strano io, ma in queste poche parole ci ho trovato un tasso di genialità altissimo. Più precisamente è stato quel particolare delle falde del frac che non potevano stare accostate a causa delle anche carnose, a regalarmi lo stupore narrativo.
Beh, ditemi che sono ancor più stonato, ma trovo questa immagine di una “evocatività” estrema. In quel minimo dettaglio mi è parso quasi di poter leggere l’intera biografia del vecchio cameriere tartaro: ci ho letto la sua infanzia di goffo bimbo spesso preso in giro dagli amichetti, la sua decisione di fare il cameriere come lavoro di ripiego per ovviare alla sua scarsa valentia fisica, oppure per il motivo esattamente opposto, ossia come rivalsa sociale nell’affrancamento dalle fatiche più basse; e poi ci ho letto ancora il successo agguantato “a metà” in quel tentativo di rivincita sociale, perché pur riuscendo a diventare cameriere, lo ha fatto senza essere in grado di scrollarsi di dosso la propria scompostezza naturale, che trova riflesso nelle sue movenze “paperesche” particolarmente evocative del servilismo caratteriale corrispettivo.

Non appena ho avuto in mano la nuova edizione “Bendatori”, mi sono naturalmente precipitato a confrontare com’era riportato il mio passo prediletto e…ecco cosa ho scoperto:

«…”Di qua, vostra eccellenza, prego, qui non vi disturberanno, vostra eccellenza” diceva un vecchio tartaro incanutito, con il bacino largo e le falde del frac aperte, che si era appiccicato loro in modo particolare…»

Aaarrrgh! Ovvove! Della pinguinesca identità caratteriale del cameriere tartaro non c’era più nemmeno la benché minima traccia. L’espressione potentissima di quelle «…anche così carnose…», vero e proprio “motore immobile” dell’impossibile congiungimento secondo le regole dell’eleganza delle falde del frac, era stata banalizzata con un insignificante «…bacino largo…». L’effetto strabiliante della frase secondo la prima versione, diviene nella seconda quello sconsolante di un bicchiere di un vino pregiato maldestramente annacquato.
Per di più quel «…che si era appiccicato loro in modo particolare…» comparso dal nulla nella seconda traduzione, mi ha fatto dubitare circa l’aleatorietà delle scelte dei traduttori: erano proprio due frasi diversissime.

Dopo esser stato parzialmente risarcito dalla seconda edizione, con la curiosa nota che informava del fatto che i tartari venivano preferiti nella mansione di camerieri anche in quanto musulmani, e come tali interdetti dalle tentazioni della vodka, non ho osato andare oltre nel confrontare altri brani, per non dovermi render conto che mi sarebbe toccato leggermi da cima a fondo il gran tomo tolstojano per due volte.

Quale morale si può chiamare in causa dunque a suggello di questa faceta avventura di lettore?
Forse solamente questa: chi lascia la mutanda vecchia per la nuova, sa dove non si scartavetra più, ma non sa quale “bolletta” si ritrova.

(ndt: “bolletta” = termine dialettale usato a Gillipixiland e dintorni, che sta ad indicare talune macchie di non meglio precisata origine, individuabili talvolta in determinate e prevedibili porzioni dei capi d’abbigliamento intimo, volgarmente detti mutande).



mercoledì 12 maggio 2010

La leggenda di Ghiandy Dick e del Capitano Gillichab


«…Tutte le famiglie felici si assomigliano;
ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo…»
Anna Karenina” Lev Tolstoj - 1877

«…Call me Ishmael…»
Moby Dick – or, The whale” Herman Melville - 1851

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Chiamatemi pure Ismaele, ma resta il fatto che uno dei luoghi narrativi più frequentati dall’uomo fin da quando ha posseduto la parola unita alla facoltà di raccontare storie, è stato senz’altro quello della sfida con l’ignoto, mescolata alla sospensione su di un senso d’attesa indefinito, fonte al contempo di attrazioni e timori contraddittori.
Avrei potuto dire da subito che uno dei luoghi narrativi più frequentati di sempre è la vita stessa, che si sarebbero risparmiate parecchie ciance. Ma allora “qui” non si chiamerebbe più “andarperpensieri”, bensì “diario di bordo di una mente lineare”.

Dalla Bibbia a Don Chisciotte, passando attraverso l’Odissea, per arrivare sino alla modernità di Melville ed Hemingway, tutte le “Storie più belle della Storia” debbono pagare un tributo più o meno grande a questo fondamentale “angolo” dei territori dell’arte del raccontare.
Si racconta, facendo leva sulla forza attrattiva di una calamita della cui esistenza non si è nemmeno certi. E non sarà forse questo anche il senso della vita stessa?

In ogni caso, a cos’è dovuto codesto mio pippone introduttivo che potrebbe essere posto a cappello di qualsiasi cosa vi volessi raccontare da qui in avanti?
Forse è dovuto semplicemente al fatto che, parafrasando un altro celeberrimo incipit della letteratura mondiale, “tutti i campagnoli felici si assomigliano, mentre ogni campagnolo dalla mente contorta è diversamente normale a modo suo”.

Venendo dunque al nocciolo del mio ben più modesto narrare, dovete sapere che anche io ho recentemente trovato la mia Moby Dick.
Non so se vi è mai capitato di aver a che fare per la prima volta con un concetto, col dato di conoscenza (anche piccolo e modesto) di una porzione di realtà, e ritrovarvelo poi fra i piedi una seconda ed una terza volta nel giro di pochissimo tempo dal momento della presa d’atto della sua esistenza.
Ecco, con la mia Moby Dick, che alla fine scoprirete chiamarsi in realtà Ghiandy Dick, le cose sono andate proprio in questo modo.
Mio fratello mi ha parlato di un uccellino che vedeva spesso nel suo giardino. Me lo ha descritto di dimensioni e fattezze molto simili a quelle di una gazza, però col manto marroncino chiaro, la testolina corredata con un delizioso caschetto variegato e le ali completate da graziose sfumature azzurrine, bianche e nere.
Gli ho naturalmente detto che non avevo la più pallida idea di come si chiamasse. Come già detto in altre occasioni, oltre che contorto mentalmente, sono anche un campagnolo da due soldi: della natura e dei suoi derivati ne so proprio poco. So solo che mi piace esservi più o meno immerso, ma conosco pochissimi nomi di piante e fauna assortita. Di questa cosa mi rammarico e non poco: è un’occasione perduta da vero fesso, lo ammetto. Mi rendo conto di avere a disposizione tutto intorno a me del più bel libro scritto con foglie, rami, pellicce e penne, e non mi sono mai preoccupato più di tanto di approfondirne a dovere la lettura.
Il punto gli è poi che non ho per nulla una mente tassonomica, mi scordo subito i nomi, anche se me li dicono.
Insomma, indovinate un po’ cosa ho fatto, da bravo campagnolo anomalo intriso di coattitudine para-intellettualoide e postmodernista, per saperne qualcosa di più su quell’uccellino: invece che nel giardino o nelle vicinanze del bosco, sono andato a cercare su google. Multimediale, Watson!

Alla fine ho scoperto che l’uccelletto misterioso era ed è una ghiandaia. Ooohhh…stupore!!! Proprio bellina, mi sono detto, ammirandola nelle mille ed una inquadratura che la immortalavano fra le finestrelle sbocciate a iosa dopo aver digitato il suo nome.
La cosa sembrava finita lì, con solo qualche riflessione a strascico circa il fatto che era un po’ una tristezza ‘sta cosa di non averla mai vista dal vivo ma solo dal google.

Era stata comunque già una piccola soddisfazione aver svelato il mistero del nome, quando qualche mattina dopo, un sabato o una domenica, non ricordo bene, mentre reduce da una ronfata professionale sonnecchiavo sbadiglievolmente dinnanzi alla finestra che dà sul giardino, chi non ti vedo far bella mostra di sé sopra un cespugliozzo a pochi metri da casa? Ebbene sì, cari viandanti per pensieri, avreste dovuto esserci: era proprio lei!!! La cara e vecchia Ghiandy in persona, piume e becco tutti compresi nel prezzo della sorpresa.

La potevo ammirare nel suo fulgore, la distanza era favorevolissima, e nella foga dell’esaltazione ho pensato bene di fissarla nel tempo con una bella foto. Sapevo di avere pochissimo tempo, era questione di due battiti d’ala: corro di là, agguanto la macchina, ma devo mettere su il 200 mm., che come tele è ben modesto, ma è pur sempre la massima bocca da fuoco focale attualmente a mia disposizione. Smonto lo zoomino, tolgo ogni tappo stappabile, agguanto il 200 e lo imbocco sulla macchina alla velocità di 1,2 secondi netti, compreso lo scatto del bottoncino apposito, con una celerità da fare invidia al Fantozzi dei tempi d’oro impegnato nella sostituzione della stringa strappata della scarpa mattutina pre-lavorativa.
Torno alla finestra e zac! Ghiandy se n’era già andata. Ma non pensate a chissà quali distanze siderali: l’aggraziata vigliacca s’era spostata solo un poco più in là, posandosi su di un pilastrino che regge le rete di recinzione del giardino, ma giusto quel tanto da portarsi fuori portata del mio teleobiettivo non propriamente roccosiffredeo. Ho azzardato infatti ugualmente l’inquadratura, ma nel fotogramma risultava un pennuto minuscolo che non avresti saputo dire se fosse una gazza ladra in uscita premio, il primo cugino di uno storno o un piccolo merletto nel suo mantellino carbone.
Ed è stato in quel momento che è nata la mia personale leggenda di Ghiandy Dick.

Esagerato, direte voi, è stato tutto un caso, e poi chissà se la rivedrai mai più…
Che sia stato un caso, ne possiamo pure discutere, ma sul fatto di non rivederla più…mah…state a sentire ancora…

Non erano passati che pochi giorni, quando, un’altra mattina di buon ora, stavolta però lavorativa e pendolaresca, me ne andavo brut brutto come d’abitudine verso la città, alla guida della mia classica inutilitaria 313 GT. Son lì che percorro una delle strade sul limitar di Gillipixiland, quando da una folta macchia erbosa a corona di un fossato, si leva in volo una qualche creatura non meglio definita. L’esserino esegue una perfetta planata sopra il mio cofano, quasi da spericolata ed esperta scansatrice del traffico, e lambendo praticamente la sommità del parabrezza con la punta delle remiganti primarie, si porta in perfetta vista, ben inquadrata sopra lo schermo del vetro.
A questo punto c’è forse bisogno che vi venga a dire di chi si trattava? Devo proprio perdere del tempo per ribadire che era ancora lei, la vecchia Ghiandy, più in forma e più Dick che mai?

Da allora, va beh, non l’ho più avvistata.
Ma ormai l’epopea di Ghiandy Dick e del Capitano Gillichab aveva avuto inizio, ed io la considero tuttora una storia viva ed attuale.
Bada a te, scaltra Ghiandy Dick! E’ vero, non sarà di certo dall’arpione o dalla lancia ricolma di marinai vocianti che ti dovrai guardare, leggiadra puzzona impiumettata! Mi limiterò a puntarti contro l’obiettivo, se mai ti incontrerò di nuovo nel grande oceano della gillipixitudine, ma sarà pur sempre una cattura, in qualche modo.
E d’altra parte, mica potrei pretendere di più: io nemmeno ce l’ho la gamba di legno. Al massimo ti devi accontentare della mia schiena discretamente cigolante.



martedì 11 maggio 2010

The sun also tamarises



We were all happy and "Tamarro Boys"... ("...Verament, happy a pair of balls...", said little Nicola ...)

lunedì 10 maggio 2010

Quattro passi nel nulla


Cos’hanno in comune la nuova sfavillante viabilità diffusa negli ultimi decenni sui nostri territori, il tempo libero opposto alla frenesia lavorativa, e la passione per le tecnologie all’ultimo grido sempre più sfavillanti?
Certo che come incipit, questo mio bizzarro quesito non promette granché. Non so come mai, ma mi ricorda un po’ troppo da vicino quelle mitiche barzellette anni ’70 che immancabilmente iniziavano con «…ci sono un italiano, un inglese e un tedesco…».
Ma bandendo le ciance, veniamo al nocciolo dello sproloquio odierno. Credo che viabilità, gestione del tempo e mirabilia del bit, abbiano in comune la potenziale devianza verso il nulla.

Per quanto riguarda strade e strutture affini, al servizio degli spostamenti veicolari, mi riferisco ovviamente a quelle zone dello Stivale nelle quali negli ultimi tempi le amministrazioni ai vari livelli, più hanno investito in termini di energie e denaro, rimpinzando le prime periferie e le campagne suburbane di tangenziali, rotonde, bretelle, svincoli, sovra e sottopassi, et similia. Sarà una mia impressione, sicuramente deformata della lente del ricordo infantile, che spesso indora più del dovuto le proporzioni delle realtà percepite, ma mi sembra di poter dire che prima, con quelle quattro stradacce che ci ritrovavamo, le mete avevano un proprio valore qualitativo più marcato e dotato di un’identità propria netta e ben spiccata. Adesso invece, pur super-instradati come siamo, si ha sempre la velata impressione di fondo che non ci sia più una beata minchia di posto decente dove andare a parare.
La cosa si spiega a mio avviso su diversi livelli. Da una parte, non solo gli obiettivi degli spostamenti si sono parecchio banalizzati, ma hanno subito anche quella febbrile tendenza all’addensamento, che ha portato ad impiantare certe cattedrali nel deserto come multisale pluri-accessoriate, iper-ultra-super-extra centri commerciali o mastodontici divertimentifici tripli concentrati, vere e proprie idrovore risucchianti significati urbanistici, a spese di tutto il circondario impoverito nelle sue funzioni ed identità territoriali.
Inoltre, alla banalizzazione delle mete contribuisce forse anche la loro eccessiva ridondanza: troppe cose, troppe funzioni, troppa offerta diversificata e moltiplicata in troppi pochi metri quadrati, tanto da trasformare gli avventori in una schiera di novelli “Tantali”, vessati dall’affanno di riuscire ad afferrare tutto l’appetibile a disposizione, ma scornati dal ritrovarsi con in mano il pugno di mosche di un inevitabile rintronamento ipersensoriale.

Lo stesso spirito metaforicamente tendente ad incensare le strade, per poi, con rispetto parlando, “immerdare” senza ritegno le loro mete di pertinenza, cominciai a subodorarlo già dagli anni ’80, proprio riguardo al secondo tema cui facevo cenno sopra: la passione tecnologica.
All’epoca, raggiunse il suo pieno fulgore la moda dello stereo. Ricordo certi miei amici “Altamente Fedeli” che erano capaci di farti una capa tanta con amplificatori, equalizzatori, woofer, subwooofer, tweeter, midrange e compagnia stereofonica bella. Gente che mangiava Technics, respirava Marantz, beveva Bose, digeriva JBL, sognava Revox e seguiva solo il vangelo secondo Bang & Olufsen.
Ma poi, una volta che ti invitavano a casa loro per stupirti con la meraviglia delle fantasmagorie sonore in grado di scaturire dalle loro casse, ti propinavano le musiche più “escrementizie” immaginabili.
Quella stereofonicità esasperata si poneva insomma come precursore degli odierni serpentoni tangenziali e rotondeggianti: la strada da percorrere aveva più dignità della meta da raggiungere. Con una nuova e perversa riedizione di lusinghe volpinesche e machiavellicheggianti, era il mezzo a giustificare se stesso, dato che il fine non era più in grado di farlo.
Nella stessa maniera, quanta gente conosco oggi che possiede telefoni cellulari o pc coi quali potrebbe benissimo coordinare un lancio dello Shuttle Columbia, e invece al massimo esagera a scrivere una stiracchiata paginetta di word ogni tanto, oppure si guarda un video su Youtube mentre passeggia per strada, invece di prestare la dovuta attenzione alla gnocca transeunte.

Il discorso potrebbe finire qui, cari amici viandanti per pensieri, e ce ne sarebbe d’avanzo. Se non fosse che mi par quasi d’udire in sottofondo le vostre proteste garbate: «…Ma come: ci avevi promesso tre articoli e adesso pretendi di cavartela con due? Che fine ha fatto il capitolo “tempo libero opposto alla frenesia lavorativa”? Noi si è pagato il biglietto e non ci garba tanto fare il prendi due e sborsi per tre…».

D’accordo, d’accordo, ma anche questa pratica è presto sbrigata: alzi la mano chi non si è mai ritrovato a fare un lavoro di merda, trascorrendoci sopra settimane sostanziate della stessa medesima materia, solo per accorgersi nel week-end che non vedeva l’ora tornasse il lunedì, perché se fogna doveva essere, che lo fosse almeno in modo onesto e limpido…
E allora, che cosa ve lo dico a fare?

Così, alla fine, vi avevo avvertito o no? Tutto si conclude nella migliore delle tradizioni: l’inglese, avesse preso la parola su questi problemi, sarebbe stato snob e presuntuoso; il tedesco avrebbe sfoggiato il suo smalto migliore da saputello dalla mente ordinata und disciplinaten; mentre voi vi siete dovuti accontentare dell’italiano, che come previsto si è distinto da buon brontolone, nostalgico, obnubilato dall'Età dell'Oro ed un tantinello scoreggione.



domenica 2 maggio 2010

Carezze fuggevoli


La bellezza non ha causa:
Esiste.
Inseguila e sparisce.
Non inseguirla e rimane.

Sai afferrare le crespe
Del prato, quando il vento
Vi avvolge le sue dita?
Iddio provvederà
Perché non ti riesca.

Emily Dickinson - 1862



sabato 1 maggio 2010

La gioia sotto sera


Ci sono un paio di pensieri da me “ascoltati” recentemente, che mi hanno regalato attimi di gioia, anche se con la letizia forse avevano effettivamente poco a che fare.

Questo fenomeno mi capita spesso.
Tante cose che procurano gioia alla maggior parte della gente, con puntualità quasi svizzera lasciano invece me alquanto indifferente. Robe che invece passano per lo più inosservate da chiunque, mi causano fitte di felicità non meglio determinabili.

Allo stesso modo, tante cose che fanno ridere la maggior parte della gente, quasi puntualmente a me non fanno molto ridere.
Il cinema è un rivelatore perfetto di questa faccenda.
Una volta ero al cinema, a vedere un film di Woody Allen.
Quella di Woody è una delle comicità che prediligo, perché sa essere alta e bassa nel contempo, riuscendo a coprire tutto lo “spettro umoristico” che va dalla gag fisica alla battuta più penetrante. Woody può provocare sia la “risata grassa”, sia lo “stupore del privilegio” di trovarsi di fronte all’invenzione di un genio umoristico puro.
Quella volta il film in questione era «Misterioso omicidio a Manhattan». Per circa mezz’ora di pellicola, il pubblico si era profuso in risate grasse su scene che invece per me erano più appropriatamente meritevoli di uno stupore privilegiato. Il fatto curioso capitò tuttavia su una gag che probabilmente travalicava entrambi gli estremi della vis comica Alleniana, sfiorando quella dimensione dell’assurdità ironica che affonda le proprie radici nel meglio della tradizione culturale yiddish: un misto di paradossalità “non-sensuale” e candido disincanto dell’anima.
In questa scena, Woody e Diane Keaton, improvvisati detective dilettanti, sono in un ascensore e lui la deve reggere sulle spalle per darle modo di rovistare nel controsoffitto, alla ricerca di non ricordo bene quale oggetto, cruciale nella loro rabberciata indagine. E’ lì che Woody, dopo alcuni lunghi attimi di “reggenza” problematica di quel “dolce” femmineo peso, con voce sotto sforzo se ne esce con questo gioiello: «…Mi sta passando tutta la mia vita davanti agli occhi…nella parte più brutta guido un'auto usata…».
Ero l’unico che rideva in tutta la sala. E più vedevo che nessuno rideva, più io ridevo, constatando con gaudio quale tipo particolarmente speciale di essere stonato io fossi.

Con la gioia per me funziona uguale. Mi danno gioia certi dettagli concettuali inusitati, certe sfumature mentali secondarie, certi pensieri mimetizzati, che magari ad altri suscitano solo lievi note di perplessità.
Come le idee di cui vi parlavo in apertura, appunto.

Le prima riguarda il mondo filosofico di Jacques Derrida, uno dei pensatori moderni che più ha indagato intorno al senso della parola scritta.
Nella fase ormai più matura della sua lunga riflessione filosofica (anni ’80 e ’90), il pensatore francese formulò una specie di profezia a proposito dei destini che sarebbero toccati in sorte alla scrittura, nel confronto con la rivoluzione tecnologica delle comunicazioni che allora si andava innescando (internet, telefonia mobile, and so on…).
Contrariamente a quanto la maggior parte dei “tecnici” si sentiva di poter preconizzare allora (ossia il graduale immiserimento prevedibile nella considerazione di valore della scrittura, a favore di altri canali espressivi quali l’immagine, il filmato, la voce, ecc…), Derrida sosteneva che la cara e vecchia parola scritta avrebbe invece conosciuto una nuova esplosione qualitativa e quantitativa, una sua primavera di bellezza rinnovata, proprio grazie ai nuovi strumenti tecnologici.
E non c’è bisogno di stare a spiegare quanto egli avesse ragione, parlando io proprio dal “pulpito” di un blog, ossia una delle conferme più evidenti attraverso le quali quella previsione si è avverata.
Ad un’analisi superficiale, tanti cosiddetti esperti mass-mediologi avevano forse immaginato che uno strumento come la parola scritta, proprio per la sua “antichissima datazione”, sarebbe stato superato tecnologicamente a sinistra da forme di espressività umana meno legate ad una “ritualità pratica lenta”.
La scrittura comporta aspetti di lentezza comunicativa che in apparenza stridono con la pretesa velocizzante dei nuovi mezzi. Ma il suo segreto sta proprio in quei tempi dilatati che le sono connaturati. La scrittura, con un piede nella fanciullezza dell’umanità e l’altro nella sua l’adolescenza, nasce dalla necessità di domare il pensiero, di fissarlo in punti saldi e governabili.
Di riflesso, solo la lettura, “sua cugina”, offre l’opportunità di un assorbimento intimo e personalizzato delle idee, perché consente tempi di “suzione concettuale” maggiormente commisurati alle esigenze ponderanti del pensiero.
Per Derrida insomma, lo sviluppo di certe idee sarebbe stato impensabile senza la disponibilità di poterle fissare sulla carta con la scrittura.

Per questo internet è stato e continuerà ad essere una deflagrazione iper-proliferante di roba scritta, vero e proprio nuovo regno di quella dicotomia con il «logocentrismo», che secondo Derrida traccia le direttrici primarie di tutta la cultura occidentale.
Sempre per il medesimo ordine di motivi, i telefoni cellulari si sono buffamente tramutati in macchine da scrivere portatili, implodendo anch’essi sotto i colpi di quella ipertrofica brama comunicativa che solo attraverso il contatto con i messaggi sms sembra poter essere placata.

Lo so che ora, ancor più di quella platea woodyalleniana silente intorno al mio ridere isolato, starete pensando: «…Questa roba ti procura gioia?...Ma minchia, sei messo proprio male…».
Ebbene sì, ma questo è niente rispetto alla seconda idea causa di un altro mio attacco di gioia recente, della quale vi volevo riferire, e che è forse ancor più volatile ed inafferrabile nei suoi aspetti gaudiosi.
Me l’ha regalata Carlo Fruttero, ospite della trasmissione di Fabio Fazio non tanti giorni fa, dicendo che uno degli obiettivi più nobilitanti da lui raggiunti nel corso della sua lunga e straordinaria vita di uomo di cultura, è stato essersi liberato dalle opinioni.

Tendere alla libertà da qualsivoglia opinione! Non vi sembra un programma di vita meraviglioso?