venerdì 30 maggio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Giovanni Boldini (1842-1931)

Dopo averlo diverse volte preso come termine di paragone per esemplificare un certo “estremismo estetizzante” sviluppato a partire dagli stilemi della corrente impressionista, oggi la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” ospita finalmente il pittore Giovanni Boldini (Ferrara, 1842 – Parigi, 1931). L’opera scelta da Kika, intitolata “L'ultimo sguardo allo specchio” (1874), ben esemplifica il linguaggio e la poetica dell’artista ferrarese.

Giovanni Boldini, dopo un periodo di formazione giovanile nella sua città natale, frequentò l'Accademia di Firenze, dove entrò in contatto con lo stimolante ambiente dei macchiaioli, affinando una particolare sensibilità verso le principali novità culturali europee. Nel 1867 compie un primo viaggio a Parigi, dove s'interessa in modo particolare all'opera di Courbet e Manet, spostandosi in seguito anche a Londra, e assorbendo qui influenze dalla ritrattistica inglese tardo settecentesca. Dopo un nuovo periodo italiano, nel 1871, Boldini ritorna a Parigi che da allora diventa la sua città d'adozione. I suoi soggetti prediletti diventeranno le scene di vita quotidiana cittadina (le folle in movimento, il teatro, il dinamismo di passanti e cavalli lungo le vie della capitale francese) e i ritratti delle signore più in vista della società mondana.
Boldini rappresenta, nel “bene” e nel “male”, un fenomeno interessante nell'ambito degli sviluppi della storia dell'arte. A questo proposito, è utile riprendere un po' il discorso fatto nella precedente puntata, riguardo al formarsi del concetto moderno di artista. Riporto di nuovo un passo della citazione presa dall'interessantissimo testo di Larry Shiner, “L'invenzione dell'arte” (2001):

“...La vera opera d'arte non mira mai a un risultato: né a stimolare le emozioni, né a insegnare una dottrina, né a migliorare i costumi. Soltanto quando le persone avranno rinunciato a ogni strumentalizzazione e sapranno esercitare «un libero, disinteressato apprezzamento della pura apparenza», allora in esse avverrà «l'inizio autentico dell'umanità»...”.

Questo era l'intento che si proponevano di perseguire gli impressionisti, sviluppando le novità del loro rivoluzionario linguaggio pittorico. Giovanni Boldini finì invece per approdare esattamente a ciò che un'opera d'arte intesa in senso moderno non dovrebbe essere. I suoi ritratti di gran dame alla moda miravano infatti principalmente al preciso risultato di stimolare emozioni pure, pressoché completamente avulse da qualsiasi considerazione profonda sul senso della vita e del mondo. 
Il gesto pittorico impressionista, passando per le setole del pennello boldiniano, si svuota di ogni pretesa conoscitiva e diventa quasi esclusivamente virtuosismo che mira ad un effetto emotivo fine a se stesso. Scrive in merito Giulio Carlo Argan (“L'arte moderna – 1770-1970” - pag. 208): «...[Giovanni Boldini] si formò a Firenze con i macchiaioli, dando prova di un talento precoce e brillante; dal '70 lavorò prima a Londra e poi a Parigi, diventando in breve il ritrattista alla moda, pieno di estro e di eleganza, ma incapace di vedere nell'arte degli impressionisti, di cui fu amico, più che una tecnica “moderna”, al servizio di  un virtuosismo grafico-cromatico sorprendente e affascinante, certo, per la sua spregiudicatezza, ma mirante infine a riannodare la nuova pittura ad una storia che non era la sua, e cioè al Settecento di Watteau, di Fragonard, del Tiepolo e del Guardi...».
La figura di Giovanni Boldini (al pari di quelle di altri artisti suoi contemporanei, come ad esempio lo scultore francese Gustave Rodin, o il pittore svizzero Arnold Böcklin) introduce un certo tipo di “ambiguità culturale” connessa all'idea di “artista-personaggio”. Dice ancora Argan (pag. 256): «...L'artista-personaggio ha una sua ragion d'essere: incarna la vocazione artistica, che la ricca borghesia industriale è sicura di possedere, ma di dovere suo malgrado sacrificare all'imperativo categorico degli affari. Gli artisti di chiara fama si dichiarano generalmente avversi alla borghesia capitalista, non già per ragioni ideologiche, ma perché la loro anima bella è turbata dal materialismo degli affari; senonché è proprio la borghesia che li vuole antiborghesi, un po' perché ha il senso di colpa, un po' perché trova comodo delegare agli artisti le cose dello “spirito” di cui non ha davvero tempo di occuparsi...». 

Scrive inoltre Umberto Eco a pagina 111 della sua opera “Apocalittici e integrati” (già citata in questa rubrichetta): «...il quadro di Boldini rappresenta il tipico caso di inserzione di stilemi colti in un contesto incapace di conglobarli...».

Come si può vedere dunque, l'opera di Boldini assume una sua importanza per aver introdotto, seppur indirettamente, diverse “questioni artistico-filosofiche” che sono poi nel tempo divenute sempre più evidenti nello scenario contemporaneo del “consumo estetico di massa”. Se l'arte non può porsi come “esperienza totale” della nostra vita, si tramuta allora forse in poco più di un angusta stanzetta in cui poter riporre e lenire aspirazioni frustrate, frammiste all'ansiosa coscienza dettata dal vivere un'esistenza che non desideriamo? L'esperienza estetica rappresenta allora soltanto una riserva dell'animo, una parentesi esistenziale, in cui siamo liberi di assaporare un'emotività fine a se stessa, in forma di risarcimento delle altre dimensioni meno esaltanti del nostro quotidiano?

Sono questi gli interrogativi che, anche grazie a Giovanni Boldini, possono sorgere spontanei nel corso di una personale riflessione, magari mentre ci si ritrova ultimi di una coda di tremilaseicentoventidue persone, snodata di fronte all'ingresso del rinomato museo, oppure della sede in cui è allestita la grande mostra temporanea di capolavori del celeberrimo autore.
Ed eccoci giunti al consueto esperimento di indagine fisiognomica, applicato nella fattispecie al personaggio ritratto nel quadro di Boldini. Il volto della signorina boldiniana mi ha evocato due bellezze vintage del cinema di casa nostra, che in qualche modo, per la storia artistica personale e per come si sono andate a depositare sotto forma di personaggi nell'immaginario comune, vagamente si sintonizzano con la leggerezza dello spirito del “boldinismo”.
 
Questa è Isabella Biagini, apprezzata icona sexy di qualche lustro fa, ma anche cabarettista versatile e brava imitatrice.
 
Abbiamo qui invece il volto arcinoto di Sandra Milo, che tra le altre cose è stata persino “icona felliniana” in due importanti pellicole del maestro riminese, ossia “8½” (1963) e “Giulietta degli spiriti” (1965), che le valse un “Nastro d'argento” come miglior attrice non protagonista nel 1966.

Si conclude così questa puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”. E adesso faccio un salto da Kika, per vedere come ha “riboldinizzato” l'odierno soggetto dal punto di vista dell'abbigliamento, col suo tocco kikesco inconfondibile.

venerdì 23 maggio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Władysław Czachórski (1850-1911)

Eccoci ad una nuova puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Oggi Kika ha scelto l'opera di un autore polacco attivo fra fine '800 e primissimi anni del '900. Ci troviamo dunque a bazzicare anche stavolta nel “territorio cronologico” di piena influenza impressionista. Il nome del pittore è Władysław Czachórski (1850-1911). In particolare, il quadro indicato da Kika venne realizzato nel 1888, e s'intitola “Preparativi per il ballo”.

Władysław Czachórski si formò principalmente alla scuola di disegno di Varsavia, ed ebbe modo in seguito di affinare le proprie conoscenze espressive nell'ambiente tedesco, studiando prima a Dresda e poi a Monaco. Come ogni buon artista della sua generazione, assorbì le preminenti influenze francesi ed anche italiane, in occasione di viaggi effettuati in queste due fecondissime terre d'arte.

In Władysław Czachórski, ancor più che l'influenza impressionista (anche se non si può prescindere in ogni caso da essa), è possibile a mio avviso cogliere una certa forma di eleganza compositiva ed un'attenzione per la resa delle superfici ritratte, che ricordano molto la “sensibilità materiale” di un grande predecessore, Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867). Possiamo aggiungere che l'esperienza creativa di Czachórski si caratterizza per la ricerca di un certo realismo “fine a se stesso” e a tratti, per certe sfumature che ricordano molto l'universo estetico di Giovanni Boldini (1842-1931).
Come nel caso di tutti i precedenti artisti cosiddetti “minori”, affrontati da questa rubrica, al di là di questi pochi cenni, risulta difficile imbastire un discorso critico di un certo spessore. Oltre a dire che rimane sempre valida la differenziazione fra “precursori” e “testimoni”, con Władysław Czachórski annoverato senza dubbio nel gruppo di questi ultimi, stanti le mie limitate capacità di esperto della domenica, non riesco ad aggiungere molto altro. 

Sto leggendo tuttavia in questi giorni un bellissimo libro intitolato “L'invenzione dell'arte” (2001), scritto da Larry Shiner, professore di filosofia, storia e arti visive alla University of Illinois. Con Władysław Czachórski, c'entra relativamente poco. Ma in un senso generalissimo, ha a che fare anche con lui. Argomento base di tutto il testo è la formazione del moderno concetto di arte. Forse ne abbiamo poca consapevolezza infatti, oppure ce lo scordiamo spesso, ma il significato dell'arte così come lo concepiamo con sguardo moderno, è un'acquisizione culturale relativamente recente, raggiunta appieno solamente col  periodo dell'illuminismo e subito a ruota con la sensibilità introdotta in “epoca Romantica”.

Riassumere qui l'articolatissimo discorso del testo del professor Shiner sarebbe una “follia sintetica”, ma mi piaceva ad ogni modo richiamare questo concetto, magari anche solo in forma di invito per ulteriori approfondimenti personali. E soprattutto, voglio citare un bel passaggio del libro. La concezione moderna del “senso” dell'arte, è frutto di una secolare sommatoria di innumerevoli concause sociali, di costume, politiche, filosofiche, e così via. Ma si possono individuare due pensatori che per primi hanno iniziato a codificare la nuova sensibilità artistica. Uno fu Immanuel Kant, l'altro Friedrich Schiller. Proprio della “inaugurazione” di questo concetto moderno da parte di Schiller, tratta il brano tratto dal libro del professor Shiner, che riporto con piacere:

“...Nell'autentica opera d'arte è già presente un'armonia composta da libertà e necessità, da dovere e inclinazione, da «tendenza spirituale» e «tendenza sensuale», in un'unione che Schiller chiamò «gioco». Nell'opera d'arte come gioco, l'artista-genio dà corpo alla verità trascendente della vita, ma questa verità non corrisponde a uno specifico contenuto: essa risiede soltanto nella forma dell'opera. «In un'opera d'arte veramente bella il contenuto non deve costituire nulla, la forma invece tutto: perché solamente mediante la forma si agisce sulla totalità dell'uomo [...] e soltanto dalla forma è da attendersi vera libertà estetica». La vera opera d'arte non mira mai a un risultato: né a stimolare le emozioni, né a insegnare una dottrina, né a migliorare i costumi. Soltanto quando le persone avranno rinunciato a ogni strumentalizzazione e sapranno esercita-re «un libero, disinteressato apprezzamento della pura apparenza», allora in esse avverrà «l'inizio autentico dell'umanità»...”. 

Tutto questo per dire che se  Władysław Czachórski si fosse trovato ad operare solamente un secolo prima, non lo avrebbe certamente fatto in questa ottica. L'idea dell'arte fine a se stessa (l'arte per l'arte), dell'indipendenza creativa dell'artista, della sua massima libertà soggetta solo ai vincoli dell'ispirazione e al genio della propria sensibilità, sono infatti tutti punti di vista acquisiti di pari passo con l'ingresso nelle dimensioni più moderne del pensiero “occidentale”. Per necessità di spazio, è un argomento che risulta forzatamente tronco in questa sede, ma, come già detta, vi assicuro che merita un approfondimento.
Sperando di non aver menato troppo il can per l'aia artistica, ma di avervi fornito invece alcune utili suggestioni culturali, passo ora alla mia consueta missione di detective fisiognomico. Stavolta il compito era un po' ostico, essendo il soggetto in questione ritratto di profilo. Ma un buon indagatore di tratti somatici non si ferma di fronte a nessun ostacolo. Poi, magari, sostiene delle boiate...ma fermarsi, non si ferma mai.

Ecco allora la mia prima ipotesi. 
E' la brava giornalista e scrittrice Benedetta Tobagi, figlia di un altrettanto valoroso protagonista del mondo della carta stampata, Walter Tobagi, vittima nel pieno degli anni di piombo della cieca ferocia del terrorismo.

La seconda, ed ultima, alternativa fisiognomica di oggi è forse ancor più sottile e vaga. Ma nondimeno ve la presento:
Si tratta stavolta di una imprenditrice divenuta protagonista anche della scena politica, pur rimanendo un volto non famosissimo: Maria Luisa Todini.

E per concludere, un confronto con foto in cui compaiono entrambe le nostre “protagoniste moderne”, Tobagi a sinistra e Todini a destra.
Con questo anche per oggi è tutto, cari amici viandanti per pensieri. E adesso vado proprio a vedere cosa ci ha riservato la brava Kika in questa occasione, con la sua sfida nella ricerca di una reinterpretazione in termini di moda, per la protagonista del quadro di  Władysław Czachórski.

venerdì 16 maggio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Winslow Homer (1836-1910)

Oggi, per la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”, ci occupiamo di un pittore molto interessante, pur non essendo notissimo. Parliamo dell'americano Winslow Homer (Boston, Massachusetts, 1836 – Prout's Neck, Maine, 1910), e in particolare dell'opera scelta da Kika per l'occasione, intitolata “The butterfly girl”, olio su tela del 1878, conservato nelle sale del “New Britain Museum of American Art” di New Britain, Connecticut.

Osservando le opere di Winslow Homer s'impone immediatamente all'occhio il dato del “dinamismo” connaturato alla sua espressività. D'accordo, “dinamismo” vuol dire tutto e niente. Ciò che intendo con questo termine è una certa qual “energia interna all'immagine”, così come abbiamo imparato a conoscerla, con sguardo moderno, dopo l'avvento in particolare della fotografia, ma poi, volendo portare il ragionamento alle sue estreme conseguenze, anche del cinema e della televisione (qui intesi come i nipotini di “nonna fotografia”, ancora ben là da venire nella loro forma matura, ai tempi di Homer).


Non a caso, nel corso della sua esperienza creativa, questo autore americano affiancò sempre all'attività di pittore in senso più tradizionale, anche quella di litografo (da giovane aveva studiato i segreti di tale tecnica proprio nella città natale, Boston) e di illustratore per la carta stampata, collaborando dal 1857 con la rivista «Ballou's Pictorial» (sempre a Boston) e poi, dopo il suo trasferimento a New York (nel 1859), con la più blasonata «Harper's Weekly». Proprio come inviato di questa rivista, Homer fu testimone in prima persona della guerra di secessione americana, che dal 1862 ritrasse attraverso scene di vita militare divenute famose per un vasto pubblico di lettori in tutta la nazione. Nel 1867, trascorse un anno a Parigi, dove si avvicinò alla sensibilità impressionista («...Tu quoque, Winslow Homer...»), mentre dal 1881, visse per un paio d'anni in un paesino costiero inglese, Tynemouth, dove poté approfondire il suo amore per il mare, che rimane uno fra i suoi soggetti prediletti, affinando anche la padronanza della tecnica dell'acquerello.


Il “retroterra figurativo” (se così possiamo dire) di Homer appare dunque prevalentemente impostato secondo un taglio giornalistico, fotografico e documentaristico. Questa sua natura di “artista-reporter” rappresenta forse il tratto più caratteristico della sua ricerca estetica e si riflette pienamente negli esiti del suo linguaggio. Volendo azzardare anche stavolta un paragone letterario, possiamo assimilare i tratti espressivi di Winslow Homer alla freschezza, all'immediatezza, alla stringatezza, all'essenzialità lapidaria della prosa di Ernest Hemingway (1899-1961). 
Oltre che dalla analoga esperienza giovanile nel mondo del giornalismo, i due artisti sono accomunati da una grande passione per il mistero delle forze naturali, che nelle loro opere sono quasi sempre trattate come interlocutore esistenziale imprescindibile. E, pur essendo sicuramente una coincidenza priva di un nesso significativo, è curioso venire a sapere come anche lo stesso Winslow Homer, dal 1884 in avanti, alla ricerca di ispirazione e soggetti per le proprie opere, prese a frequentare taluni scenari marini della Florida e dei Caraibi (in particolare le Bahamas e Cuba), molto cari anche al grande scrittore di «Il vecchio e il mare».

Il tratto distintivo fondamentale del linguaggio pittorico di Winslow Homer, che con un'espressione un po' fatta in casa mi piace definire come “realismo misterico”, rappresentò un fondamentale punto di riferimento e fonte d'ispirazione per vari pittori americani del '900. In particolare, se ne può cogliere il chiaro influsso nella poetica di Edward Hopper.

Il fatto che questo autore sia entrato e rimasto nell'immaginario del pubblico americano con una certa sua ben marcata impronta iconografica, ci viene confermato poi anche dalla seguente simpatica declinazione di una sua opera (“L'avviso della nebbia”) verso divertenti sfumature pop, che per la loro evidenza non richiedono nemmeno una spiegazione:
Prima di passare agli esiti della mia indagine da detective fisiognomico, introduco ancora una piccola suggestione. Anch'essa ci viene riservata da un “chiasmo” pittorico-letterario, in tema con l'autore che trattiamo oggi e con la sua passione per il mare come soggetto di ricerca creativa. E' capitato, del tutto fortuitamente, che la scelta del quadro fatta da Kika per l'occasione, in quanto a tematiche e riverberi artistici, si sia andata a sovrapporre per puro caso con le vicende di un bellissimo libro che sto leggendo proprio in questi giorni. Non vi svelo subito il titolo, ma vi riporto un brano molto in sintonia. 

Scena: spiaggia affacciata sull'immensità di un mare (probabilmente l'oceano) che ribolle di onde vigorose. Un pittore col suo cavalletto ancorato a terra con quattro sassi, per evitare che il forte vento da nord lo spazzi via, è immerso con tutto il proprio essere nell'impresa di dipingere l'infinità d'acqua che si ritrova davanti. Una misteriosa donna con un mantello viola si avvicina alle sue spalle:

«...L'uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Le setole del pennello lasciano dietro di sé l'ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga, riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c'è solo acqua. E sulla tela, niente. Niente che si possa vedere. Soffia come sempre il vento da nord e la donna si stringe nel suo mantello viola.
- Plasson, sono giorni e giorni che lavorate quaggiù. Cosa vi portate in giro a fare tutti quei colori se non avete il coraggio di usarli?
Questo sembra risvegliarlo. Questo l'ha colpito. Si gira a osservare il volto della donna. E quando parla non è per rispondere. 
- Vi prego, non muovetevi -, dice.
Poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all'altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell'acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l'ombra di un sapore che la costringe a pensare, “acqua di mare, quest'uomo dipinge il mare con il mare” - ed è un pensiero che dà i brividi...».
Se per caso questo enigmatico passo vi ha incuriosito e v'interessa approfondire le peripezie del bizzarro pittore Plassom alle prese col tentativo di fermare il mare sulla tela, non dovete fare altro che procurarvi una copia del meraviglioso «Oceano mare» (1993) di Alessandro Baricco, e continuare la lettura. Qui m'interessava solo segnalare una felice corrispondenza, di quelle che talvolta capitano lasciando aperto l'ascolto in modalità “contaminante”, verso tutte le forme d'arte.
Non bastasse questo, mentre me ne stavo a soppesare soprappensiero la mia vecchia edizione “Super Pocket” di “Oceano mare” (acquistata in edicola nel 1996, ma rimasta nella libreria fino a pochi giorni fa), mi accorgo di una scrittina trasversale, istoriata in quarta di copertina, che mi ragguaglia su titolo ed autore del quadro utilizzato come illustrazione principale e...meraviglia: ma non è vero che si tratta proprio del vecchio Winslow Homer, con un particolare del suo “A summer night”?

Eccoci infine al volto famoso della nostra modernità, che mi è parso di poter equiparare alla volitiva espressione della “Butterfly girl” di Winslow Homer. 
Anche se è un po' che non si vede “in giro” (ma che fine ha fatto?), l'avrete riconosciuta: si tratta di Samantha De Grenet, affascinante modella, conduttrice tv e soubrette (tanto per rispolverare un termine un po' vintage).

Siccome queste somiglianze sono come le ciliegie, correndo il rischio di forzare un po' la mano, mi sono concesso anche stavolta lo sfizio di tentarne una seconda.
Questo è un volto noto piuttosto nuovo, salito agli onori della cronaca molto di recente: a beneficio di chi non fosse un avvezzo frequentatore di arene televisive “Ballaròiche” o “Annozereggianti”, ricordo che si tratta della giovane politica Maria Elena Boschi.

Ed ora possiamo andare tutti a gustarci le deliziose sorprese che sicuramente ci avrà riservato anche oggi la bravissima Kika, nel ri-abbigliare da par suo la farfallesca signorina di Winslow Homer.

domenica 11 maggio 2014

Il sorriso di Carly Simon

Quando si profilano momenti prolungati di aridità narrativa (un po’ come in questo periodo), sento che mi manca molto scrivere. Il punto è che c’è poco da fare. O meglio, si può provare a buttare giù qualche frase così, tanto per tenersi a galla. Ma la vera forma scrittoria, l’inventiva, la freschezza delle parole che sgorgano vivaci dalle dita…beh, tutto quello è ben altra roba.

Ho immaginato di andare a chiedere consiglio a qualcuno. Più precisamente, ai miei beniamini letterari di sempre. Tutti gli scrittori hanno dovuto combattere prima o poi con l'ottusità della pagina bianca. Chi meglio di loro dunque poteva offrirmi qualche suggerimento al proposito? 

In pratica, ho preso in mano a caso alcuni dei miei libri più amati, li ho sfogliati e ci ho guardato dentro per vedere se era possibile rinvenire qualche traccia, qualche frase illuminante. Non sempre le risposte che ho avuto sono risultate coerenti con l'argomento che mi assilla. Anzi, ho trovato più che altro passaggi che non trattano affatto di problemi relativi allo scrivere o all'ispirazione. Non sempre la scrittura è un'operazione coerente. Non ci sono e, per fortuna, non ci possono essere ricette per riempire una pagina bianca in modo degno, ma la letteratura è un universo di riverberi, in cui una parola detta si mette in risonanza con tutte le altre e col senso generale della vita. 

Ecco cosa aveva da dirmi Emily Dickinson, con una sua bella poesia del 1862: 

«...Io vivo nella Possibilità,
Una casa più bella della prosa,
Di finestre più adorna
e più superba nelle sue porte.

Ha stanze simili a cedri
Impenetrabili allo sguardo
E per tetto la volta
Perenne del cielo.

L'allietano visite dolcissime
E la mia vita è questa:
Allargare le esili mani
Per accogliervi il Paradiso...»

Uno dei testi fondamentali della secolare sapienza indiana, la “Bhagavadgītā”, mi ha invece ricordato:

«...Rinunciando mentalmente ad ogni azione, l'anima incarnata, padrona di sé, sta felice nella fortezza delle nove porte senza “agire” né “fare agire”...».

Con un grande sbalzo temporale, mi sono poi ritrovato fra i “roaring twenties” del “Grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald, pronto ad ammonirmi:

«...Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente. “Quando ti viene voglia di criticare qualcuno” mi disse “ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuti i privilegi che hai avuto tu”...».

Ancora scartabellando fra gli scaffali della libreria, mi è capitato in mano “L'idiota” di Dostoevskij. Anche lui aveva una cosa importante da rimarcare:

«...Il difetto di originalità dappertutto, nel mondo intero, e da tempo immemorabile, fu sempre considerato come il primo requisito e la miglior raccomandazione dell'uomo attivo, fattivo, pratico...[...]... Gli inventori e i geni, quasi sempre, all'inizio della loro carriera (e molto spesso anche alla fine), non furono tenuti dalla società se non in conto di sciocchi...»

Dentro a “Il profumo” di Patrick Süskind (1985), ho rispolverato questa perla mai dimenticata:

«...si sa di uomini che cercano la solitudine: penitenti, falliti, santi o profeti. Si ritirano di preferenza nel deserto, dove vivono di locuste e di miele selvatico...[...]... Lo fanno per essere più vicini a Dio. Si mortificano con l'isolamento, e se ne servono per far penitenza...[...]... Nulla di tutto questo valeva per Grenouille. Dio non gli passava neanche per la testa. Non faceva penitenza e non si aspettava illuminazioni dall'alto. Si era isolato dagli uomini soltanto per il proprio particolare piacere, soltanto per essere vicino a se stesso. Era immerso nella propria esistenza, non più distratta da altre cose, e lo trovava splendido. Giaceva nella tomba di roccia come il cadavere di se stesso, respirando appena, quel tanto per far battere il suo cuore...e tuttavia viveva in modo così intenso e sfrenato, come mai un uomo di mondo aveva vissuto nel mondo...».

E proprio sulle difficoltà dello scrivere, ancora, un bel brano di Osvaldo Soriano, intitolato proprio “Paura di scrittore”, spulciato fuori dai suoi “Racconti degli anni felici – 1974-1996”:

«...Tu che ora ti trovi in difficoltà, ricordi la calma tesa di Calvino...[...]...in Rapidità (una delle “Lezioni americane”), egli definisce il racconto...[...]: “La novella è un cavallo: un mezzo di trasporto, con una sua andatura, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere, ma la velocità di cui si parla è una velocità mentale. I difetti del narratore maldestro enumerati da Boccaccio sono soprattutto offese al ritmo; oltre a difetti di stile, perché non usa le espressioni appropriate ai personaggi e alle azioni, cioè a ben vedere, anche nella proprietà stilistica si tratta di prontezza di adattamento, agilità dell'espressione e del pensiero”. Ora siediti a scrivere. Insisti, finché il cavallo non avrà preso un trotto regolare e armonioso. Dopo viene il galoppo...».

Ma il suggerimento più bello, è stato l'ultimo scovato. L'ho rinvenuto su di un bellissimo libro di Kurt Vonnegut, “Ghiaccio-nove”(1963). Suona esattamente così:

«...Uno dei tanti beoni
Addormentati nel parco
E un cacciator di leoni
Nella giungla al varco
E un dentista cinese
E una regina inglese -
Tutti quanti incastrati
Nel medesimo arnese
Bello, bello, molto bello
Bello, bello, molto bello -
Tanta gente differente
Nel medesimo orpello...».

Perché i libri sanno sempre raccontarti le cose giuste, ti parlano di quello che vuoi, nel momento opportuno. I libri si presentano felicemente inattesi, come il sorriso di Carly Simon.

venerdì 9 maggio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Charles Sprague Pearce (1851-1914)

Passata la festa (e scrupolosamente gabbato lo santo), ritorna la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Oggi Kika è andata a scovare un altro autore non molto noto, l’americano Charles Sprague Pearce (Boston, 1851 – Auvers-sur-Oise, 1914), e in particolare ha preso in esame una sua opera intitolata “Cogliendo denti di leone” (“Gathering dandelions”), del 1881.

Nato da facoltosa famiglia bostoniana, Charles Sprague Pearce ebbe modo di crescere in un ambiente molto stimolante dal punto di vista culturale e creativo. Suo padre era un mercante d'arte di successo specializzato in opere orientali, soprattutto cinesi, mentre il suo omonimo nonno, Charles Sprague, viene annoverato fra i poeti americani d'inizio '800 di una certa notorietà.

L'esperienza artistica di Charles Sprague Pearce si sviluppò prevalentemente in Francia, dove dal 1873 il pittore andò a vivere. Vi sembra forse di avere già sentito questa storia da qualche parte? Non è un caso: molti fra gli artisti di fine '800, e diversi anche di quelli da noi incontrati nelle precedenti puntate, andavano a formarsi a Parigi, a quell'epoca fulcro dell'avanguardia creativa mondiale, se così possiamo dire. Nell'ateleir del maestro Léon Bonnat, Charles Sprague Pearce ricevette un'impostazione improntata allo spirito accademico. Sviluppò successivamente un personale interesse verso una certa tendenza esotica, molto in voga in quegli anni, alimentata anche da suoi viaggi e soggiorni in Egitto e in Algeria.

L'espressività di  Charles Sprague Pearce, pur presentando aspetti d'impatto emotivo assai evidente, è pienamente allineata con la tradizione (qui, e poi ancora qui, potete ammirare due belle carrellate di sue opere). Nei suoi quadri si leggono chiaramente le influenze di Millet e Corot, per fare solamente due nomi eclatanti.

Al di là dei pochi dati d'interesse critico da menzionare a proposito di questo artista, stavolta sono particolarmente a corto di idee. Allora mi permetto soltanto una paio di piccole aggiunte, prima di passare direttamente ad esporre i risultati delle mie indagini fisiognomiche effettuate per l'occasione. Il tema di Kika per questa settimana è rappresentato dai denti di leone, simpatici fiorellini dalla cangiante foggia giallo-piuminata. M'è sovvenuto di aver scritto, ormai un po' di tempo fa, un articoletto riguardante proprio questi umili ma eleganti esponenti del mondo floreale. Nel caso vi andasse di visitare quel mio antico scritto, ve lo segnalo volentieri. 

L'opera di Sprague Pearce mi ha altresì suggerito una similitudine poetica. Forse risulterà un po' azzardata e i più pignoli storceranno il naso, ma in qualche modo, passando in rassegna velocemente i quadri di questo autore statunitense, mi è venuta spontanea alla mente la figura di un artista suo connazionale, più vecchio di lui di circa una generazione: Walt Whitman (1819-1892). Voglio riportare questo brano tratto dal capolavoro di Whitman, “Foglie d'erba” (1855), che, non so come mai, mi è parso particolarmente in sintonia con la “vis estetica” del nostro pittore di oggi:

«...Che cos'è l'erba? mi chiese un bambino, 
portandomene a piene mani; 
Come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che cosa sia. 

Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione, 
fatto col verde tessuto della speranza. 

O forse è il fazzoletto del Signore, 
Un ricordo profumato lasciato cadere di proposito, 
Con la cifra del proprietario in un angolo sicché 
possiamo vederla e domandarci di Chi può essere

O forse l'erba stessa è un bambino, il bimbo generato 
dalla vegetazione. 

O un geroglifico uniforme 
Che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in strette fasce di terra, 
Fra bianchi e gente di colore, 
Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, 
gente comune, io do loro la stessa cosa e li accolgo 
nello stesso modo. 

E ora mi appare come la bella capigliatura delle tombe. 

Ti userò con gentilezza, erba ricciuta, 
Forse traspiri dal petto di giovani uomini, 
Che avrei potuto amare, se li avessi conosciuti, 
Forse provieni da vecchi, o da figli ghermiti appena fuori dai ventri materni, 
Ed ecco, sei tu il ventre materno. 

Quest'erba è troppo scura per uscire dal bianco capo delle nonne, 
Più scura della barba scolorita dei vecchi, 
E' scura per spuntare dal roseo palato delle bocche. 

Oh nonostante tutto io sento il parlottio di tante lingue, 
E comprendo che non esce dalle bocche per nulla. 

Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle fanciulle, 
Gli accenni ai vecchi e alle madri, ai rampolli ghermiti ai loro ventri. 

Che cosa pensate sia avvenuto dei giovani e dei vecchi? E che cosa pensate sia avvenuto delle madri e dei figli? 

Vivono e stanno bene in qualche luogo, 
Il più minuscolo germoglio ci dimostra che in realtà non vi è morte, 
E che se mai c'è stata conduceva alla vita, e non aspetta il termine per arrestarla, 
E che cessò nell'istante in cui la vita apparve. 

Tutto continua e tutto si estende, niente si annienta, 
E il morire è diverso da ciò che tutti suppongono, e ben più fortunato...».
Ed eccoci ai volti noti da me stanati. Devo dire che si è trattato di una ricerca interessante. C'era la sfida ulteriore di dover partire da un soggetto ritratto di profilo. Ho trovato questo viso della ragazza intenta a raccogliere i denti di leone, altamente evocativo. Sicuramente mi ha suggerito anche volti di ragazze o donne “comuni”, in cui mi sono imbattuto di persona chissà quando e chissà dove. 

La prima ipotesi cade sul viso di un'attrice comica, nota per essere apparsa in numerose fiction televisive ed anche egregia protagonista del teatro italiano:
E' la simpatica Maria Amelia Monti.

La seconda similitudine che mi è parso di intravedere fa invece riferimento ad una grande e sfortunata cantante, famosa soprattutto a partire dagli anni '70, per le sue interpretazioni al tempo stesso potenti e ricche di sensibilità:
Non c'è quasi bisogno di dirlo, si tratta della bravissima, indimenticabile, Mia Martini.  

Chiudo poi con una terza proposta di somiglianza, che è al contempo una lieve ciurlata nel manico, e vi spiego subito il perché:
Bella forza, mi si farà osservare, questa è la sorella di Mia Martini, niente meno che la Loredanona Bertè nazionale...eh va beh, lo so che son trucchetti da detective fisiognomico di bassa lega, ma a me pareva che ci stesse bene e così l'ho aggiunta.

Si conclude qui anche questa puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”...e adesso faccio subito un salto da Kika, per scoprire le sorprese modaiol-artistiche che ci ha riservato per l'occasione...