mercoledì 31 marzo 2010

Gilli by the polls


Cari amici viandanti per pensieri, «…a’ son stà a li vùtasión!…».
No, no, niente paura, non ho intenzione di propinarvi un’ulteriore indecifrabile puntata dialettale. Prometto di scrivervi oggi, se non proprio nell’italiano dantesco, almeno in quello del professor Vattelapesco.

Allora, ricomincio: cari amici viandanti per pensieri, sono stato alle votazioni!
Intendo ai seggi, a fare lo scrit…lo scrot…lo scrutatore.
Sebbene abbia ormai superato da un po’ la maggiore età, si trattava di un’esperienza da me affrontata solo in due occasioni, compresa quella di domenica e lunedì scorsi. Un’esperienza che son contento di aver fatto, anche se in futuro preferirei centellinarne la reiterazione, per non dire azzerarne la ripetizione.

Aveva un bello scrivere il buon Lord Chesterfield al suo figliolo, nel lontano 1774, riguardo alla convenienza del darsi più o meno da fare nelle pratiche amorose più concrete, obiettando che «…La posizione è ridicola, il piacere effimero, la fatica tanta…». Gli fosse arrivata a casa la nomina di scrutatore di seggio, avrebbe risposto al volo: «…Ehm…no grazie…penso che per stavolta mi sacrificherò standomene a casa a farmi una modesta e risibilissima chiavata!…».

«…Per me si va nel tempo latente,
per me si va ne l’eterno torpore,
per me si va tra la “burro crata” mente,
lasciate di guadagno ogni ardore,
oh voi ch’entrate!…».

Queste parole dovrebbe essere istoriate a fianco dei numeretti delle sezioni in cui, nel giro di due giorni, un manipolo di sventurati entrano per sbattere via 25 ore nette su 48 della propria vita. Dico così, precisando però subito il significato più pertinente della mia affermazione, ossia il grande senso di ammirazione e riconoscenza che tutti dovrebbero nutrire per questi poveri diavoli scrutinanti, sacrificati sull’altare del senso civico.

Come per ogni dote o caratteristica del corredo comportamentale umano, anche la sensibilità civica non fa eccezione, presentando uno squilibrio distributivo ben marcato. Sono convinto che esista una legge sperequativa misterica e sotterranea secondo la quale, per ogni individuo che eccelle in un qualche ambito, esiste il suo omologo opposto che scarseggia nel medesimo settore esistenziale.
A far sì che la legge venga applicata con rigore, ci pensa lo SBU, «Sbilanciatore Biosociale Universale», che tutto vede, tutto soprintende e tutto fa in modo che sia mal suddiviso.
Vi porto solo alcuni esempi.
Nel capitolo “conquiste erotiche”, lo SBU ha abbinato me e Mick Jagger.
Nel capitolo “pane e volpe”, Rommel venne abbinato ad un fornaio arruffone che cuoceva le ciambelle ed i buchi sempre in giorni diversi.
Per il capitolo “piaggeria giornalistica” invece, Emilio Fede è stato abbinato ad un vecchio direttore della Pravda dell’epoca d’oro Brezneviana (ovviamente, col tovarisch a fare da piatto più leggero della bilancia).
Alla fine tutto si riallinea e così si spiega anche come mai per ogni scrutatore esista in qualche parte del mondo, opposto e contrario, un astensionista.
Il che a sua volta spiega anche come il mestiere di scrutatore non si addica particolarmente a me che ho fatto della “luna dell’avvenuto” e della bandiera dell’Asocialismo il vessillo primario della mia mimetica esistenza defilata.

Insomma, a parte ‘sto sacco di menate, alla fine son stato nominato: «Scro…(…e dai!)…Scrutatore Ufficiale dei Sacri Territori di Gillipixiland». Così nel pomeriggio di sabato, mi reco lemme lemme alla vecchia Gillipixi-School, glorioso istituto scolastico che vide le mie incostanti gesta studentesche di sbarbatello mediano, per fare i preliminari di questo amplesso elettorale. E qui, già che ne avevo poco voglia, ecco profilarsi un primo piccolo scoglio: sono stato assegnato al seggio di Anti-Gillipixiland!

Si sa che per ogni paesello italico esiste il suo anti-paesello caratterialmente e spiritualmente pseudo-opposto, ma simil-contrario. Una sorta di antimateria territoriale che di solito confina esattamente con la sua materia di riferimento, entrambe prodotto di una serie di decennali attriti determinati intorno ai rispettivi fulcri di ciascuno dei due campanili.
Il motivo primigenio e scatenante della secolare tenzone si perde di solito nella notte dei tempi. Nessuno sa bene di preciso perché quelli del paesello appresso, parente-serpente del proprio, “ti devono” stare sulle palle. Forse, in origine, più o meno cinque secoli fa, una mucca sbadata, pur tenendo i quattro zoccoli ben dentro i suoi confini legittimi, si era sventatamente sporta di deretano oltre il limitar di un campo del paesello a fianco, depositando i suoi fumosi ed abbondanti prodotti sul suolo altrui.
Tutto insomma deve essere stato originato da una cagata più o meno del genere, ma da allora i due paeselli non si possono sopportare.
Lo stesso è successo fra Gillipixiland ed Anti-Gillipixiland.
Pensate che (e questa è storia vera) in occasione di un’alluvione tardo settecentesca, gli abitanti di Anti-Gillipixiland, minacciati dall’incombere acqueo che spingeva i fragili e bassi argini “limitrofanti” i due paeselli, pensarono bene di praticare delle amabili fenditure lungo le medesime barriere idrauliche, per far sfogare il flusso fangoso su Gillipixiland, rimanendo loro col culo all’asciutto, e regalando a noi l’umidore ai malleoli.
Simpatici, vero?
Potete allora ben capire in quale bel nido di antigillipixiani mi ero andato a ficcare, incastrato in quel seggio. Ma alla fine poi, da questo punto di vista, non è stata questione così grave. Sarà che ormai non ci sono più i campanilisti di una volta, ma in quelle atmosfere tipiche di Anti-Gillipixiland, mi sono trovato anche bene.

Quando sei scrutatore, il minimo che ti può capitare, per “traslazione verbale rispecchiata”, è star lì a scrutare e scrutinare. Scruti una teoria di facce per due giorni di fila e fai firme.
Firmi tutto e di tutto: registri, verbali, schede elettorali, scatole, pacchi, buste, sigilli, scatoloni, finestre, porte…se uno si cala troppo nella parte, rischia che arriva a casa per la pausa pranzo e firma pure suo nonno e tutti i maccheroni che ha nel piatto.
Le proporzioni burocratico-scartoffiacee di tutto il meccanismo votatorio sono così esagerate, antiquate, farraginose ed bizantineggianti, che un paio di mesi di quella roba lì avrebbero fatto crollare il Sacro Romano Impero con decadi e decadi di anticipo.
Vi accenno solo ad un paio di “particolari perla”.
Per completare le varie operazioni, in diversi casi serve del nastro adesivo da pacchi, quello di carta, bello largo. Beh, non ci crederete, ma nel corredo ministeriale è dato in dotazione, come succedaneo di quello adesivo, anche il nastro gommato, una sorta di striscione lungo con un lato leggermente attaccaticcio, da umettare nella vana speranza di fargli assumere l’utopistica vigoria incollatoria che mia raggiungerà. Ci scommetto che l’ultimo ad usare siffatto reperto del Paleolitico della cancelleria, fu il vecchio Franti, quella volta che attaccò le braghe di Garrone alla sedia (e tra l’altro, per la scarsità del mezzo, lo scherzo non gli riuscì nemmeno).
Altro gioiello: fra i verbali utilizzati per scrutinare, ce n’era un tipo realizzato con carta così lucida che praticamente repelleva il tratto delle matite blu e rosse appositamente fornite per marcare i voti.
Il bello è che la buona notizia è stata rimarcata con apposita segnalazione ministeriale a mezz’ora circa dall’inizio dello spoglio, con i poveri impiegati comunali che erano già andati a buttare all’aria i cassetti dell’epoca dell’ultimo Podestà, per racimolare almeno un paio di matitine con mina morbida 2HB, risicate, rosicate e mezze ciucciate da generazioni di segretari e scrivani municipali.
Ad un certo punto, dopo la millesima firma, mi si è parata dinnanzi la visione dello spirito di Goffredo di Buglione, che in sella al proprio destriero, forte della sua lungimiranza medievale, guatava sdegnato la scena e, scartando di lato con un cenno di briglia deciso, mormorava fra sé e sé: «…Qual barbarie, quale inciviltà!...».

La presenza di un ottimo presidente di seggio, anzi presidentessa, ha per fortuna fatto sì che tutto si svolgesse al meglio. Come sempre in Italia, laddove il nucleo organizzativo sociale fallisce miseramente, il valore dei singoli ci mette una pezza.
Ho visto passare davanti a me tanti visi. Visi di gente che non vedevo da anni, alcuni proprio dal tempo delle scuole medie nel cui vetusto edificio ci siamo ritrovati per l’occasione. Ex-ragazzi, ormai dalla faccia d’uomini inoltrati, sono passati in rassegna davanti alla mia faccia da mai-ragazzo, forse ex-uomo un giorno.
Sono sfilate belle signore che il tempo ha solo reso più affascinanti e giovani virgulti femminei in fiore. E ancora fiere maschere di vecchi invecchiati bene e delicati volti di poco più che ragazzini con la tessera elettorale ancora implume, timbrata adesso per la prima volta.
Una signora si è persino garbatamente lamentata della faticosa distanza della sala del seggio dall’ingresso principale della scuola: «…Non tanto per me...», ha fatto notare, «…ma per gli anziani...», facendo passare forse come particolare secondario le 81 primavere caricate sulle sue spalle.

Alla fine tutto si è chiuso bene, anche se la spada di Damocle di uno spoglio infinito ha pesato sul capo di tutti fino al momento della verifica conclusiva. Cenni di leggendarie sciagure elettorali capitate in passato ad inermi scrutatori, segretari e presidenti, puntualmente girano in proposito nei diversi seggi, e si sprecano ogni volta con abbondanza di particolari kafkiani e “fratelli coheniani”. Vaghe notizie di commissioni elettorali rimaste intrappolate in una conta parossistica e ossessiva fino alla fine dei loro giorni, per espiare la colpa dello smarrimento di una scheda. Mitologiche saghe di scrutatori suicidi con la matita copiativa, su istigazione di coriacei e tignosi rappresentanti di lista trincerati dietro la pretesa di un voto fantasma.

Ma la nostra presidente era una Giusta, nel cuore e nella mente. Ed ha veleggiato con leggerezza superba fra i meandri della casistica delle espressioni di voto più disparate immaginabili, traghettandoci alla fine nel porto sicuro della quadratura del conteggio, con buon anticipo su tutte le altre sezioni di Gillipixiland.
Così ora potrà dire con coscienza cristallina di essersi meritati quei grassi e lauti 150 euro di compenso (120 agli scrutatori), per 25 ore totali di lavoro, 14 delle quali in orario festivo.

Adesso che ci penso, questo deve essere proprio uno dei pochi casi in cui lo SBU («Sbilanciatore Biosociale Universale») fa le cose veramente alla grande: ad un componente di seggio abbina infatti sempre due, se non tre, astensionisti.
La prossima volta, mica mi presento alle urne: mi sa che è l’unico modo per prendermi una piccola, insipida rivincita su Mick Jagger.



martedì 30 marzo 2010

giovedì 25 marzo 2010

Tutti in piazza, ragazzi!!! Non è una quisquiglia: c’è B…


Non so se a voi è arrivato.
A me è arrivato.
Era un messaggino sul cellulare, inviato da un non meglio precisato tizio.
Un tale «B…».
C’era scritto di una festa, di un gran raduno in piazza…boh, non so. Diceva che ci sarebbe stata tanta gente e di non mancare assolutamente, era un’occasione unica. Nella mia misantropica attitudine a-socializzante, ho subito glissato (…«visualizza / opzioni / elimina»…), dimenticando la faccenda nel volgere di un battito di ciglia.
Ho saputo tuttavia che un mio compaesano, un tipo sempliciotto ma di buon cuore, è stato l’unico altro utente “telefoninico” di Gillipixiland ad aver ricevuto il medesimo sms.
Non è un tipo cattivo, ma si lascia sempre prendere da facili entusiasmi. Pensate che nella frenesia procurata dall’evento, si è persino scordato di mungere la vacca…
Di suo non è poi così pratico con le tecnologie, e tanto meno con l’italiano. Chissà se aveva capito proprio bene di cosa si trattava.
Ad ogni modo, ecco cosa mi ha raccontato riguardo all’episodio.
In verde, inframmezzata al testo dialettale, riporto di man in mano la traduzione del suo racconto. Ho tralasciato solo di tradurre l’unica parola non bisognosa di traslitterazione alcuna: «B…».
Giustifica
*******

Töt in piàsa, garzòn!!!
L’é mìa ‘na casàda: a’ ghè Berlüscón

L’àtar dé, a s’era a tàvla con in màn n’àla ‘d pàn, la fursén’a infilsàda in d’an gràn galòn ad naàdar, quand’an bèl mumént, tra n’a bucàda e un góz ad vén, vàda lé c’la’m riva ‘n mesaàg ins’al télefunèn.
Al dséva: «…Véa’ in piàsa saàbat c’at’aspitóm…saróm in ‘na möcia, sö par zò un milión…véa’, cu spétat?…firmà: Berlüscón…».
«…Orpo ‘dna bèsa…» a fàgh un sàlt in ‘sla scràgna, «…m’ha scrét Berlüscón: che gran faàt, che unuùr, che sùdisfàzión!!!…».

L’altro giorno, ero a tavola con in mano un’«aletta» di pane, la forchetta infilzata in una gran coscia d’anatra, quando ad un bel momento, tra un boccone ed un goccio di vino, guarda lì che mi arriva un messaggio sul telefonino. Diceva: «…Vieni in piazza sabato che ti aspettiamo…saremo in un mucchio, su per giù un milione…vieni, cosa aspetti?…firmato: B…». «…Corpo d’una biscia!…» faccio un salto sulla sedia, «…m’ha scritto B…: che gran fatto, che onore, che soddisfazione!!!…».

Am’ végn ‘na ròba adoòs ca’ p’r’un pèèr ad dé a’ stàgh gnànca in d’la pél, a’n dòrmi brìza, a’n vàd l’ùra ca’ sia saàbat, a’ smanji c’mè ‘l gusèn mès in’pèr a la roja. A’m tögh sö e a’ vaàgh fén in cìtà, a’m crómpi ‘li scarpi ‘d vaàrniìz e’l pulachèn növ, ‘ad méza vigógna e d’ùcaziòn.
Al vànardè sera, a’ faàg a’n bèl baàgn, a’m sgüür propìa bén, fèn sòta lì bàli (…mèij vésàr previdént: con Berlüscón, ’at sé mai c’me l’andrà la sùnaàda: la gnòca c’al trabàlta lö, ànsòn a’ l’ha mai cüntada…).
A’m càmbi i müdaànt e ‘m tàj infèn i’óngi di pé: oh, n’ùcaziòn a’csè l’at caàpita mìa töt i dé!!!

Mi viene una roba addosso che per un paio di giorni non sto neanche nella pelle, non dormo punto, non vedo l’ora che sia sabato, smanio come il verro “messo in paio” con la scrofa. Mi prendo su e vado fino in città, mi compro le scarpe di vernice e la giacchetta nuova, di mezza vigogna e d’occasione. Al venerdì sera, mi faccio un bel bagno, mi friziono proprio bene, fin sotto “la zona perineale” (…meglio essere previdenti: con B…, non sai mai bene come andrà la suonata: la “patata” che lui traffica, nessuno l’ha mai contata…). Mi cambio le mutande e mi taglio persino le unghie dei piedi: oh, un’occasione così non ti capita mica tutti i giorni!!!

A’riva ‘l saàbat, a’m bòija ‘lì braghi in d’al cül: fén c’lé mìa dop’mìsdè, a g’hù ‘l fögh sóta i pé. Finalmént a végn l’ùra: a’ sàlti a cavaàl d’la mé biciclàta e m’invéi ad vulàda vers’a la piàsa.
Ma quanda són lé ch’a vàd bèle i pùrtach, gh’è quèl ch’a spöza, l’am’ sa mìa c’la gran fésta. Mé m’aspitàva un gran trantran, ma ché a’n gh’è gnànca in giìr ‘n càn.
A’ daàgh n’uciàda dentr’a la butéga dal gùmèèr:«…Dèh, ‘Gisto…par caàs, a’n’è mìa cà t’è vést Berlüscón?…».
«…Mó cù diìt? Ma che Berlüscón…Chè bèn c’là vàga g’hé trì o quataàr cùpartón!...».
Al g’ha ragión ‘Gisto, ad gént n’agh né mìa, e alùra mé sbàlzi dentàr l’ùstarìa.
A’gh dégh, a’ l’ùsteèr:«…’Scultàm mé, Marién: è’l fursi ché déntàr Berlüscón?…».
«…Sèèèh, e bàza ‘l cül al nunón!…Chè c’sióm mé, Pépino e Gigión…».

Arriva il sabato, mi bollono le braghe nel deretano: finché non è pomeriggio, ho il fuoco sotto i piedi. Finalmente viene l’ora: salto sulla mia bici e mi avvio di volata verso la piazza. Ma quando son lì che intravedo già i portici, c’è qualcosa che puzza, non mi pare quella gran festa. Io mi aspettavo un gran trantran, ma qui non c’è neanche in giro un cane. Do un’occhiata dentro la bottega del gommista:«…Orsù, ‘Gisto…per caso, non è mica che hai visto B…?…». «…Ma cosa dici? Ma che B…Qui ben che vada ci sono tre o quattro copertoni!...». ‘Gisto ha ragione, di gente non ce n’è, e allora io piombo dentro l’osteria. Gli dico, all’oste:«…Ascoltami, Marién: è forse qui dentro B…?…». «…Seeeh, e bacia il deretano al nonnone!…Qui ci siamo io, Pépino e Gigione…».

M’n’in vaàgh vèrs’a ca’, són propia delüüz…la büsàca d’la giàca la g’ava ànca ’n büüz. Mé m’a’scàrdéva c’at s’ér un galant’óm, e invéci t’sì sémpàr un gràn Berlüscón. Ad geènt, al sàva bèle, ch’a’n’in sarés mìa ‘rivàda un miliòn. Ma gnànca che in piàsa a’gh fés propia ‘nsón…
A pèdal scunsulà in’s’al mé bibciclòn, col muràl c’lé blisgà fèn sóta i cojion.
E intànt a’ pénsi, :«…Orpo ‘dna saijàta…sàrpént d’un Berlüscón!…ma vàh in’s’la Beata, tè e ‘l tù miliòn!!!…».

Me ne vado verso casa, son proprio deluso…la tasca della giacca aveva anche un buco. Io mi credevo tu fossi un galantuomo, e invece sei sempre un gran B…Di gente, lo sapevo già, che non ne sarebbe arrivata un milione. Ma neanche che in piazza non ci fosse proprio nessuno… Pedalo sconsolato sul mio biciclone, col morale ch’è sciviolato fin sotto gli attributi virili. E intanto penso:«…Corpo d’una saetta…serpente di un B…!…ma “vai sulla Beata”(*), te e il tuo milione!!!…».

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Ma il racconto ha un epilogo volendo ancor più sconsolato.
Non era bastata questa botta di frustrazione per il povero mio amico, ormai deluso dalla piazza e dalle istituzioni, che per lui era già pronta una seconda sgradevole sorpresa. Ascoltando alcune sere dopo il tg, in vista delle imminenti elezioni regionali, si sentì dire che non doveva “disperdere il voto”.
Memore di adolescenziali, altre, e ben più odiose proibizioni a disperdere sostanze a lui più familiari, decise che di politica non ne voleva più sapere. E in forma di personale vendetta privata, si decise per la pratica di uno speciale rituale laico di sua invenzione: si ritirò in solitaria quella sera nell’intimità della sua casa, per spararsi in santa pace una beata se… una serie di bicchierini di grappa, preoccupandosi di spargerne abbondanti spruzzi sulla tavola, nei momenti di massima soddisfazione etilica.

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(*) = espressione idiomatica, difficilmente traducibile alla lettera, che grosso modo sta per: “vai a quel paese”.



martedì 23 marzo 2010

Risi e Busy


Oggi volevo esporre una piccola idea, un pensiero minuscolo, ma non per questo meno pregno di quelle malsane contorsioni intellettuali a cui vi ho ormai abituato da quando scribacchionzolo in esto loco bloghesco.
La cagionevole escursione mentale mi è balzata in capo mentre scrivevo un commentino alle stupende foto patagoniche di Maffy (gustatevele con calma, meritano davvero: l’obiettivo di Maffy è sempre delicato e curioso, raffinato ed ironico al tempo stesso…).

In particolare, le ultime immagini presentate da Maffy riprendono diverse bestioline di quella lontana terra (elefanti marini e pinguini in primis), colti in pose leggermente buffe, di un’allegrezza molto probabilmente involontaria, o perlomeno preterintenzionale.
A quel punto, mi è venuto da domandarmi: ma gli animali, sono capaci di gioire? La prova assolutissimamente certa non la possediamo, perché nessuno di loro ce lo ha mai confermato, ma al 99,999 periodico per cento, possiamo sostenere che, sì, sanno provare entusiasmi e moti di esultanza interiore, che poi manifestano a loro modo anche esternamente.
Va beh, fin qui il ragionamento era anche già abbastanza ozioso. Ma ormai mi conoscete e sapete che quando si tratta di parlare di nulla non mi tiro certo indietro. Per cui, non pago, mi sono voluto addentrare ancor meglio lungo lo sdrucciolevole cammino del bizantinismo più spudorato, ed ho rinforzato l’interrogativo in siffatta guisa: d’accordo, le bestioline provano gioia, ma allora perché non ridono?
La risposta me la sono data da solo (“…me la canto e me la sòno…”), d’istinto, senza rifletterci sopra più di tanto: gli animali non ridono perché non ne hanno bisogno.

Ecco, detto così, magari il responso suona ancor più fesso del quesito. Però se vi soffermate un momento a considerare l’atto del ridere da un’angolazione opposta rispetto a quella con cui di solito lo inquadriamo, vedrete che lo scenario cambierà radicalmente.
Il riso può essere visto dunque non solo come un piacere, ma anche come una necessità.

Badate che la cosa non è banale, eh.
Oddio, non sarà neanche quella gran mela di Newton che vi ho calato sulla testa, ma nemmeno una faccenda così scontata come potrebbe sembrare.
Forse solo i «Grandi Pigri» potranno cogliere la sfumatura, ma io dico che, sotto questo aspetto, ridere può costare anche una notevole fatica. E’ un «di più», che la nostra natura ci “obbliga” ad espletare, per poter considerare completamente esaudito tutto il nostro “pacchetto gioia”.
La tesi più quotata in merito all’argomento sostiene che la facoltà di ridere rientra nel corredo esistenziale dell’uomo proprio come una delle innumerevoli espressioni della sua intelligenza di tipo superiore.
Con siffatta tesi concordo in pieno, ma in questo modo non si fa altro che tornare di nuovo a bomba (tanto per rimanere in tema di riso…), reiterando il sospetto circa quanto l’intelligenza non sia meno faticosa della facoltà di ridere.

Il riso rimane dunque un grande mistero paradossale, esplorato dagli studiosi di tutte le epoche (Pirandello, e mica ho detto “cotica”, lo assunse come tema per la propria tesi di laurea), un enigma che racchiude in sé tante componenti, le cui radici affondano tutte nella consapevolezza di sé e nella conseguente capacità di cogliere le contraddizioni della propria “condizione nel mondo”.
Dietro al riso, quando è espressione dell’umorismo più genuino (non dunque quello di qualità scadente, che abbonda sulla bocca degli stolti), si cela sempre la messa in rilievo di una stonatura sullo spartito della melodia della vita.
Il riso è quel genietto dispettoso che al tocco dell’archetto sulle sviolinanti corde del reale che c’imbambagia, fa beffardamente fuoriuscire il sonoro peto dell’illogicità, la fragorosa scoreggia del nonsenso (quando si dice una raffinata sapienza metaforizzante…).

Ridere è quindi cosa seria. Il riso è dolore vestito dalla festa, e non per niente l’abito non è il solo tratto che condivide con la domenica, giornata che sa essere uggiosa dentro, anche coi soli più abbacinanti.
E’ anche fatica, il riso, e proprio per questo gli animali, forti della propria saggezza sub-uranica, nella diretta comunicazione da essi intrattenuta con le energie telluriche più essenziali, si tengono ben lontani da sollazzi, sghignazzi e sganasciamenti assortiti.



sabato 20 marzo 2010

Lusinguato


Posso dire senza tema di smentita che fra le mie passioni più sfrenate di sempre rientrano anche le lingue.
Alt! Stop! Frena!...vi fermo subito: non state a pensare a nulla di torbido, nè di sensualussurioso-oh-oh-oh-suineggiante.
Sto parlando delle lingue come idiomi, non delle pratiche linguesche concrete, con tanto di convenevoli papillari reciproci ed affettuosi combaciamenti vicendevoli di roride superfici orali, che pure (come negarlo?) hanno il loro perchè.

Le lingue mi hanno sempre affascinato, anche se nella mia pigrizia inveterata non ho mai saputo andare in fondo alla questione più di tanto, rimanendo perennemente un cultore amatoriale della materia.
Il problema dalla traduzione da un idioma all'altro, in particolare, è la chiave di volta di tutto il fascino della faccenda. Osservare come un termine o un sintagma utilizzato in una lingua si tramuta quando passa in un'altra, con tutte le implicazioni semantiche che cozzano fra di loro, si abbracciano, vanno di pari passo o poi d'un tratto si sfuggono come schifandosi vicendevolmente. Tutto questo è magnifico. Perchè sotto quel lavorio di distillazione, se hai orecchio e cuore, puoi sentire i modi di pensare che stanno dietro ai modi diversi di parlare.

Da qualche parte una volta lessi una bella frase riguardante l'atto del tradurre. Non la ricordo letteralmente, ma in fatto di contenuti suonava più o meno così: tradurre è un gesto lodevole, indispensabile, per certi versi eroico, e tuttavia, del tutto disperato.
C'è un qualcosa di "tragico" (inteso il termine nel suo senso meno cupo e più nobilitante) nell'accostarsi di due linguaggi diversi. S'intesse quasi una sorta di nostalgia per quella quota di indicibile che mai potrà esplicitarsi nel passaggio da una parlata all'altra e viceversa.

Se capita che un qualche elemento del vivere si ritrovi più o meno adornato dei colori dell'irraggiungibilità, ecco che nell'uomo scatta automatico un senso di attrazione irrefrenabile per quella porzione di realtà. Il meccanismo non fa eccezione per quel che riguarda la lingua, nella fattispecie del punto che ho appena sottolineato.
La quota di quel quantum di ineffabile che, sul cammino della significazione mantiene lontani, seppur di pochi centimetri, due idiomi l'un l'altro stranieri, si potrebbe misurare con i medesimi centimetri che tengono separati da un amore impossibile
Oppure, questa parte di indicibile equivale all'asintotico scarto che perennemente accompagna lo spingersi verso quella sensuale fusione fisica e dell'anima, la cui meta definitiva viene spostata sempre più avanti, tipico dell'amplesso amoroso più intenso ed appassionato.

La bellezza crudele del confronto fra due lingue, sta dunque tutta lì: conoscendo un po' di entrambe, si riesce a cogliere il loro chiamarsi vicendevole, irrevocabilmente frustrato tuttavia da un senso di separazione assai simile a quello che accompagna il rapporto epistolare fra due amanti costretti a volersi bene nella lontananza irrimediabile che li separa.


Si tratta quindi pur sempre di un esercizio di bellezza e, riprendendo un passo del «Mercante di Venezia» (Atto V, scena I) di William Shakespeare, da me citato un po' gratuitamente qualche puntata fa, armato di testo originale e nel pieno spirito del mio rigoroso dilettantismo (chiedo dunque venia anticipatamente per eventuali vaccate), mi sono gingillato (o meglio: Gingillipixelato) a spulciare alcuni termini preziosi e a gustarne la profondità.
Naturalmente, quasi scordavo di dire tanto è superfluo, il passaggio da lingua a lingua privilegia sempre la parte in cui il capolavoro d'origine è collocato. Per cui ne deriva che, per il presente caso, la maggior gloria verrà tributata all'idioma inglese.

Il primo passo in italiano suonava tipo in questo modo:

Lorenzo –
La luna splende chiara. In una notte come questa, quando lieve baciava gli alberi il dolce vento senza il minimo fruscio, in una notte come questa credo che Troilo scavalcò d'Ilio le mura e sospirò l'anima verso le tende greche dove Cressida si giaceva quella notte.

Eccolo invece in inglese:

Lorenzo –
The moon shines bright. In such a night as this
When the sweet wind did gently kiss the trees
And they did make no noise, in such a night
Troilus methinks mounted the Troyan walls,
And sighed his soul towards the grecian tents
Where Cressid lay that night.

Nello spirito sopra illustrato del mio esercizio di bellezza, ho riposto il meglio dell'attenzione a rilevare i particolari inglesi, la cui immediatezza, preziosità, unicità, non potevano essere rese in italiano.
Ovvio che entrino i gioco anche giudizi del tutto personali. Come nel caso della prima frase notevole in fatto di sonorità, laddove l'inglese "...In such a night as this..." mi pare molto più evocativo del nostro "...In una notte come questa...".
E la differenza la fa lo scarto di un piccolo "...such...", che in italiano potrebbe essere forse reso con "...siffatto...", ma con scarso esito, credo.
Nel prosieguo dei versi "...In such a night..." si trasforma in una sorta di leitmotif di questa cantilena a due voci pronunziata dai due innamorati, Gessica e Lorenzo. Ma Shakespeare, che ha dalla sua la suggestione di quel minuscolo "...such...", può concedersi il lusso di sottolinearci il fatto che un gioco verbale fra amanti si sta inaugurando, semplicemente differenziando la primissima versione della formula (che è "...In such a night as this...") e ripetendola in seguito poi in forma ridotta, grazie appunto al "...such...", con l'elisione di "...as this...", ormai divenuto superfluo nel clima di familiarita ludica messo in piedi dai due dialoganti in amore.
Molto più piatto invece l'italiano, che "parte in tromba" con "...In una notte come questa..." e si mantiene monocorde su quel tono sino alla fine del piccolo cerimoniale verbale, usando cioè sempre la formula "...In una notte come questa...".
Ma il punto che più mi ha esaltato in assoluto in questo passo, risiede in quella paroluzza fantastica che ho ingrassettato al pari delle piccole frasi di cui ho appena parlato: "...methinks...".
Qui la fragilità del mio dilettantismo si fa sentire in maniera piuttosto intensa, e non so dire se si tratti di un'espressione inglese antica poi caduta in disuso, o cos'altro.

Nella mia ignoranza storico-linguistica mi azzardo tuttavia a dire che trattasi di parolina assolutamente deliziosa, una leccornia per i patiti del linguaggio. Anche e soprattutto perchè, sempre in virtù del mio discorso primario sulla bellezza crudele dell'atto del tradurre, "...methinks..." è una paroluzza assolutamente irrestituibile nella nostra lingua. Potremmo forse ipotizzare un "...me crede..."?
Sì, ma lo faremmo a costo di distorsioni inaccettabili, e anche quando, non otterremmo ancora lo scopo. Perchè se proprio proprio, allora, ancor più corretto e più distorto, dovremmo far ricorso ad un improbabile "...mecrede...", senza spazio alcuno di mezzo.
Ma tradurre vuol dire trasportare i significati contenuti nei termini di una lingua, in significati consimili espressi in un'altra lingua tramite termini esistenti: la creazione di neologismi (nel limite dell'accettabile) non è contemplata fra i compiti del traduttore.
Da una rapida ricerca sul web, leggo che trattasi di un vero e proprio verbo, usato in forme "archaic or humorous", e che sta per "it seems to me". Possiede pure una sua forma passata: "methought".
Dunque "...methinks..." sia, e "...methinks..." rimanga, incastonato e inestrapolabile dall'espressività esclusiva riservata alla sua lingua di pertinenza originale.

E ancora, proseguendo e salatando un po':

Gessica -
In una notte come questa Tisbe, mentre sfiorava con trepido passo i prati già coperti di rugiada, fuggì ad un tratto atterrita e discinta, avendo visto l'ombra del leone.

Col suo inglese:

Gessica -
In such a night
Did Tisbe fearfully o'ertrip the dew
And saw the lion's shadow ere himself,

And ran dismayed away

Il bellezzometro (= misuratore di bellezza linguistica) s'impenna qui su "...o'ertrip the dew...". Anche in questo caso, siamo di fronte ad un termine arcaico (almeno credo). Più che sfiorare, la parola inglese "...o'ertrip..." dà il senso di un "passaggio sopra", che unito all'idea della rugiada rende il tutto ancor più poeticamente irreale: sfiorare la rugiada camminando è già un'immagine intensa, ma addirittura "passarci sopra" rende l'effetto di un che di magico e portentoso.
Per non parlare poi del fascino della rugiada inglese, che ancora oggi suona come "...dew...", termine molto più lieve, che riflette meglio l'essenza soffusa di quel fuggevole fenomeno naturale, più del nostro pur bello italiano "rugiada", che, "rostrato" come un'antica nave da guerra romana dell'uncino di quella "r" iniziale, si avvinghia al suo significato rendendo meno giustizia alla fuggevolezza di quel vapore acqueo posato sulle cose notte tempo.

Ma troppo ci sarebbe da scrivere, leggendo Shakespeare in questo modo stupefatto. Concludo con un solo altro passo, contente l'ennesimo diamante linguistico.

In italiano:

Gessica –
A seguitar con te in questo gioco delle notti storiche, io, son sicura, ti subisserei, se nessuno venisse a disturbarci; attenti, ecco, sento un passo d'uomo.

In inglese:

Gessica –
I would out-night you, did nobody come;
But hark, I hear the footing of a man
.

Rimarco qui solo la stupefacente bellezza di "...out-night you...".
Come potrebbe rendere il traduttore questo piccolo capolavoro di sintesi e di completezza semantica? Forse con uno strampalato "...ti soprannotterei..."?
No, molto più semplice: il traduttore non lo rende in alcun modo, se non con una perifrasi alquanto lunga, che giustamente dichiara la sconfitta dell'atto del tradurre, le due lingue come due amanti che mai riescono a compenetrarsi anima e corpo fino in fondo, sopraffatti dall'immensità del proprio confronto amoroso.



giovedì 18 marzo 2010

L’irresistibile velleità del vello


Come tutti gli imperi minati nei gangli fondamentali del proprio complesso edificio socio-culturale, da crepe profonde e gravissime incrinature della struttura, anche la civiltà occidentale collassò per il cedimento di un insignificante mattoncino posto alla propria base.
Un minuscolo tarlo silenzioso, che la erodeva dall’interno, lasciando alla superficie l’illusione intatta dello scorrere ordinario della normalità. Una talpa sotterranea e laboriosa che passò del tutto inosservata, e al momento del palesarsi di una crisi ormai conclamata, era già stata dimenticata come un piccolo dettaglio senza peso.

Tutto cominciò con poche automobili che viaggiavano a fari spenti durante le ore diurne.
Da alcuni anni il codice prevedeva quel minimo obbligo all’accensione perpetua, più simile ad una postilla che ad una norma vera e propria. Forse utile, forse inutile.
Fosse come fosse, i fatti dicevano che si era tenuti a rispettarla, e tuttavia, ad un certo punto del lungo periodo di reflusso gastro-esistenziale che fece seguito all’acme della Abnorme Crisi Globale Universale, qualche automobilista iniziò a circolare a luci mute.
Inizialmente fu forse per una forma di negligenza circoscritta a pochi, che però tardò poco a dilagare fra gli adepti più assidui della pratica del “digrignare i volanti”. La diffusione della mala usanza recò con sé dapprima il dubbio e poi la consapevolezza del fatto che l’origine del morbo andasse più precisamente ricercata nella stanchezza e nella rassegnazione umana. Il fenomeno nacque insomma sotto le sembianze della disattenzione, ma maturò come coscienza dello svuotamento di ogni genuino desiderare.
Da qui a mutare l’atto di sbadataggine in gesto deliberato, la distanza fu più breve del passo di un criceto pigro.
Dopo un po’ di tempo, si tenevano spenti i fari per scelta, ormai. Come dichiarazione di decadenza percepita e smarrimento profondo. Come mesto proclama del ritiro dei remi della fiducia, ben issati ormai sopra la barca dello sconforto più ottuso.
Non accendere le luci di giorno divenne l’equivalente di affermare a voce fioca: «…Non ci credo più…».
L’oscurantismo circolatorio diede adito ad un’accresciuta prudenza nei guidatori. Ci si fidava di meno gli uni degli altri, molto meno, sapendo che dal fugace banco di nebbia o dalla prima curva un po’ insidiosa, poteva sbucare a tradimento il veicolo reso opaco dalla nuova consuetudine. Le velocità diminuirono allo stesso ritmo col quale calavano le vendite delle automobili. La sicurezza per le strade ne guadagnò in grande stile, ma più nessuno era attratto dal fascino della guida, adesso che nei week-end non morivano più spiaccicate almeno una ventina di persone

Alla pari di quanto accade per ogni classica valanga che si rispetti, l’iniziale pallina di neve si rimpinguò di altri piccoli dettagli quotidiani, e insignificanti se presi di per se stessi.
La negligenza del maschio medio “obiettore di fanali” prese così a dilagare anche all’interno della quotidiana gestualità domestica. Erano sempre più numerosi, ad esempio, coloro che si ostinavano a pisciare fuori dalla tazza non più per mera trascuratezza, ma per partito preso bello e buono. Il profilo stancamente appiccicato alle piastrelle sopra lo sciacquone, le spalle semi-addossate al muro, rinunciavano ad ogni velleità di buona mira, abbandonandosi alla deriva sconclusionata della propria dignità ormai schizzata per ogni dove.
L’avvilimento si trasmise per infausto e contrapposto contagio anche alle “obiettrici luminose”, che iniziarono a non più depilarsi le ascelle, rinunciando nel contempo anche alla ceretta alle gambe.
Gli uomini, di riflesso, presero ad indossare impunemente e senza il minimo pudore il calzino bianco d’ordinanza, e la lontananza fra i generi patì una sempre più vasta dilatazione, sino a sfiorare la frattura definitiva. Fu così che l’attrazione reciproca si spense quasi definitivamente e la razza umana si spinse fin sull’orlo dell’isterilimento.

Com’è noto, tuttavia, ogni specie possiede i propri stratagemmi di conservazione, e anche questo frangente non fece eccezione.
Il compito di caricarsi sulle spalle il prosieguo delle sorti dell’umanità tocco ai cultori di una strana forma di passione sensuale al limite del feticismo. Ciò che era stato motivo di emarginazione culturale e di costume, divenne in questo modo spunto per la rinascita di insperati percorsi sondabili adesso da questa forma originale di desiderio salvifico.
Le vesti dell’«homo novus» vennero infatti indossate dall’estimatore incondizionato delle femminee pelosità. La nuova eccentrica genia votata alle irsute preferenze s’impose con entusiasmi che dall’inizio dell’«Era del faro spento» sembravano definitivamente dimenticati, anche dai migliori fra i comuni mortali dai glabri orizzonti mentali. La convivenza tra le due categorie umane si fece sempre più problematica, non tanto per contrasto di caratteri, ma per l’incompatibilità delle visioni del mondo che ne derivavano.
I «Fedeli di Pelo», insieme a quella nutrita rappresentanza del genere femminile che aveva aderito con la maggior spensieratezza alla nuova tendenza estetica emancipata da strappi e lamette, pensarono bene allora di abbandonare il resto della spompata umanità ai propri calvi destini, trasferendosi in massa su di un’isoletta tropicale che fu ribattezzata “Nuova Pelosa”.

I contatti fra i due mondi s’interruppero quasi definitivamente. Solamente di tanto in tanto, facevano capolino piccoli quanto fortuiti cenni di riavvicinamento, fatti succedere dal caso più puro.
Come quel giorno in cui una giovane ed un giovane di “Nuova Pelosa” si stavano sollazzando vicendevolmente sulle dorate sabbie di una delle più incantevoli spiagge dell’isola. L’estasi della loro passione era pressoché giunta ad impennarsi sui massimi picchi della voluttà, intrisi i loro corpi ed avvinghiati nel frangersi spumoso delle ondate sul bagnasciuga, quando una zampata marina più lunga delle altre recò al loro fianco un’insolita bottiglia contenente un brandello di carta.
Non osando violare il sughero posticcio che sigillava la vitrea ambasciata, i due ragazzi si recarono immediatamente dai saggi dell’isola per consegnare loro l’insolito dono marino.
Il fato volle che pur la saggezza acerba di quegli entusiasti non riuscisse a cogliere il disperato grido di aiuto che gli abitanti del “vecchio mondo” stavano inviando loro. Stappata e capovolta la bottiglia, ne scaturì infatti un ritaglio di giornale recante il seguente titolo:

«…5 milioni di dollari – Messa all’asta la siringa che ha ucciso Jako…»

Anche i più anziani fra gli abitanti dell’isola lessero, ma non colsero il nesso dell’«esse-o-esso». Nessuno fra di loro poteva capire, perché fin dai tempi del loro antico passato, avevano conservato sempre accesi i fari della ragione.
E sempre per il medesimo motivo, vissero tutti "pelose" e contenti.



martedì 16 marzo 2010

Imperativo, morale, assoluto, categorico, ridanciano


Non so se sia solo una mia impressione o se la cosa abbia un effettivo riscontro reale.
Sta di fatto che ho come questa sensazione, da diversi anni a questa parte: sembra quasi che il mondo si sia gradualmente immerso in una dimensione da “sit comedy” in pianta stabile. Una sorta di «sindrome di Zelig» (con riferimento al programma di cabaret e non al film di Woody Allen) si è impossessata dei quotidiani scambi sociali e comunicativi fra le persone.
Io stesso, facendo un’autoanalisi al volo, mi rendo conto di esserne colpito in larga misura anche quando scrivo. Lì per lì, mentre sono intento proprio alla fase della stesura di un testo, magari non ne sono consapevole appieno. Ma osservando in seguito i miei scribacchiamenti col distacco di poi, vi leggo immancabilmente, disseminati fra le parole, sforzi innumerevoli di carpire il sorriso, lambiccamenti vari per escogitare la battuta più piaciona, arzigogoli semantici imbastiti col solo scopo di innescare la miccia al petardo del motto di spirito (e so che lo stesso meccanismo mi scatterà in automatico e senza volere anche nel presente brano…).

Mi viene allora da chiedermi: è sempre stato così, oppure nell’acuirsi di questo fenomeno ci hanno messo lo zampino l’influsso televisivo e una certa cinematografia demenziale?
Forse la ragione, come spesso accade, mette i piedi un po’ in tutte e due le scarpe.
Sinceramente non ricordo molto bene com’era quando ero piccolo o poco più tardi. Di certo i dialoghi quotidiani non si svolgevano in forma di pantomime di veglie funebri. Il buon umore ha sempre rappresentato l’atmosfera più auspicabile da intessere per tenere in piedi i rapporti interpersonali. Però mi sembra che la cosa sia stata portata un po’ agli estremi da un 25 - 30 anni a questa parte.
Forse tutto ebbe inizio con telefilm tipo il piccolo «Arnold», i «Jefferson» o simili. La forma mentale in cui questo genere di finzione filmica ci introduceva era all’apparenza innocua e completamente mimetizzata fra le pieghe di una realtà ipoteticamente più che plausibile. Ma il passo da essi compiuto nella direzione di cui sto cianciando, fu fatale.

Sembravano famiglie americane normali, alle prese con problemi, guai e gioie di tutte le famiglie americane normali. Ma c’era la fregatura, anche se in pratica non ce ne accorgevamo. Loro, Arnold ed allegra brigata telefilmante anni ’80, non facevano altro che ridere. Ridevano a colazione, in mattinata e a pranzo. Ridevano per la pennichella e nel pomeriggio, ridevano a merenda, a cena e nel dopocena. Ridevano persino nel sonno. La cosa per una mezz’ora di telefilm reggeva benissimo, anzi, per lo spettatore era una pacchia totale.
Ma nessuno fra gli spettatori si soffermò mai a praticare mentalmente una piccola “proporzione temporale immaginata”. Ossia a pensare cosa sarebbe stata la giornata di ciascuno di noi nel caso che fossimo stati effettivamente condannati a questa crudelissima “pena del riso coatto” 24 ore su 24. Il divertimento si sarebbe mutato in incubo e nel giro di poche ore di questa “cura” subita, anche il più equilibrato fra i fans tv avrebbe sviluppato livelli di idiosincrasia per l’umanità tali da indurlo a correre di filato in armeria ad acquistare un fucile a pallettoni, col quale andarsi a sfogare nel primo centro commerciale aperto lungo la strada.

Confesso che queste riflessioni all’epoca non mi sfiorarono nemmeno, anche se già da allora, riguardo a quella tipologia di telefilm, un certo tipo di disagio sospettoso si affacciò semi-inconsciamente nel retrobottega della mia considerazione estetica, ai tempi ancora in piena fase di sboccio.
L’elemento che invece colsi con più definita consapevolezza qualche tempo dopo come segnale di forte stonatura, fu il protervo inserimento delle risate posticce. Dapprima, anche a quelle facevi poco caso. Ma pian piano, ponendo di volta in volta un grammo di attenzione in più a quelle sghignazzatine sotterranee e rifilate in sordina alla vigliacca, il dubbio ti si insinuava dentro, sino al punto di evolvere in un fastidio conclamato che finiva per farti sbottare fra te e te: «…Ma porca zozza, ma sarò padrone di ridere quando minchia mi pare e piace a me, senza che me lo suggerisca una risata fasulla di sottofondo?!?!?...».
Fu da quel bizzarro artificio filmico, vero e proprio dado tratto sopra il Rubicone del buon umore obbligatorio, che cominciarono a far breccia nel mio animo i primi gravi sospetti circa la pretesa di instaurare un regime di “mono-ridancianità” della vita. Una grave minaccia si profilava all’orizzonte: la dittatura del riso onni-dimensionale, pluri-direzionale e totalizzante eri lì pronta per impadronirsi della nostra quotidianità.

A dare una bella spallata per far sì che la svolta epocale si compisse in pieno, ci pensò poi tutta la sequela dei film demenziali inaugurata da “L’aereo più pazzo del mondo” prima, e “sempre più pazzo” poi, fino alle nipotine pallottole spuntate varie, con “Scream” ed “Hot shot” che ne conseguirono.
Sul fronte dei programmi televisivi impostati su di una comicità assolutizzante, l’apripista fu probabilmente “Non stop”, che a suon di Gatti di Vicolo Miracoli, Smorfie e Carli Verdoni, fu il vero precursore dell’attuale Zelig.
Si obietterà a questo punto: «…D’accordo, ma le commedie, i film divertenti e la comicità in genere, sono sempre esistiti da che mondo e mondo, e da che uomo è uomo con stampate sulla faccia un paio di labbra da poter tirare su in segno di gratificazione interiore...».
E per fortuna, rispondo io.
Ma il punto è la quota di pervasività imposta da questo tipo di riso contemporaneo. E’ un riso che non lascia spazio a nessun’altra sfumatura del sentire emozioni, occupa tutto, s’impossessa di tutta la gamma delle sensazioni riducendo la persona ad un “homo ridens” totale.

Cosa dire in conclusione? Qual è il senso di questo mio scribacchiare presente? E’ forse mia intenzione proclamare l’inizio della “Rivoluzione dei Musi Lunghi” vestendo i panni del novello Jorge da Burgos, all’insegna della proibizione del riso e dell’umorismo?
Ma assolutamente no, il cielo ce ne scampi. La realtà fa il suo corso, che noi lo si voglia o no, e probabilmente le rivoluzioni han sempre recato più danni che benefici.
Ancor meno è mia intenzione fare un’apologia dei bei tempi andati, che se sono andati, ci sarà stata la sua ragione.
La cosa che volevo dire è molto più semplice. Basterebbe ogni tanto ricordarsi che la tele, i film, il cabaret, sono una cosa, e la vita quotidiana ne è un’altra. E forse quella pletora di battute e di motti di spirito che invade la nostra giornata, ne risulterebbe ridimensionata in misura salutare, a favore anche della qualità del nostro buon umore generale.



domenica 14 marzo 2010

Inspirare, sciespirare


Fra i passatempi e i passaspazi più soddisfacenti coi quali il viandante per pensieri si può dilettare, figura sicuramente il vagabondaggio concettuale inter-epocale. Trattasi di pratica non eccessivamente agevole né immediata, in quanto necessita di tante letture diverse, le più disparate e lontane fra di loro per genere, tematiche, atmosfere, ambientazioni. E non di sole letture vive l’uomo. Urge che sbocconcelli anche visioni di film, spettacoli teatrali, visite ai musei, con ogni altra pratica culturale sempre ben accetta ed auspicata.
Serve poi memoria, intuito, sensibilità e tanto occhio, per riuscire a cogliere il momento in cui il concetto ormai familiare perché già colto in una tale opera, si ripresenti sotto mutate spoglie in un’altra composizione, quasi del tutto dissimile nel sembiante, ma assolutamente affine nell’essenza comune che li affratella.
Oppure, il fenomeno può verificarsi in virtù di un meccanismo già noto ai latini come “bottam culi puram”.
Ecco, è di preferenza entro i termini di quest’ultima modalità che il mio vagabondaggio concettuale inter-epocale si materializza.
Ma l’importante non è tanto la strada per cui si perviene alla meta. La cosa che conta è il senso di bellezza che ne deriva, la soddisfazione delle sinapsi quando le due idee si fondono nell’amplesso del pensiero con sè medesimo, sentire i neuroni che fanno Giacomo Giacomo, l’anima che si contrae nell’immateriale orgasmo della coincidenza concettuale.
Ecco dunque cosa è scaturito dall’ultima mia esperienza di questo tipo. Riporto i due brani senza dire subito di cosa si tratti.
Ecco a voi il primo, sublime fraseggiar possente che sfidando l’eternità è giunto a toccare il mio cuore:

(*) «Spesso l'aspetto esterno
fa apparire le cose men che sono
in realtà. Dall'ornamento esterno
il mondo si lasciò sempre ingannare.
Nel mondo della legge,
quale causa, per quanto sporca e trista,
non saprà oscurar la sua natura,
se perorata da un fiorito accento?
Qual dannato peccato, in religione,
non saprà rendere sacro e legittimo
un portamento serio e dignitoso
che rechi a suo sostegno i sacri testi,
nascondendo così la sua nequizia
dietro un bell'ornamento?
Al mondo non c'è vizio sì smaccato
che non possa coprir la sua magagna
con qualche segno esterno di virtù.
Quanti codardi, dal cuore malfido
simili a tanti scalini di sabbia,
ostentan tuttavia sul loro mento
barbe degne d'un Ercole,
e cipiglio di Marte, ed a frugarli
hanno il fegato bianco come il latte:
gente cui basta il fumo del coraggio
per illudersi d'apparir temuti.
E la bellezza, ad osservarla bene,
scoprirete che può comprarsi a peso,
che là compie un prodigio di natura,
dove riesce a render più leggere
tutte quelle che più ne sono cariche.
E tali son quei riccioletti d'oro
attorcigliati come serpentelli
che fanno voluttuose capriole
al vento sopra una beltà apparente,
e sono molto spesso ritenuti
essere stati in cima a un'altra testa...
e il cranio che li crebbe è in un sepolcro.
L'ornamento così altro non è
che il malfido arenile d'un oceano
pieno d'insidie, come il bello scialle
di cui si vela una bellezza indiana;
in sostanza, la falsa verità
che i nostri astuti tempi metton su
per ingannare anche i più avveduti.
Perciò tu, oro lustro e sfavillante,
duro alimento a Mida, io non ti voglio.
Né te, pallido argento,
volgar mezzano d'ogni uman baratto
io sceglierò; ma te, ruvido piombo,
che minacci piuttosto che promettere,
te, la cui pallidezza
mi commuove più d'ogni bel discorso,
te io scelgo. E che gioia me ne venga!».

Ed ecco l’altra frase, l’amante concettuale che secoli ha atteso per potersi ricongiungere con l’amato appena descritto sopra:

(**) «…La comunicazione è l’opposto della conoscenza. E’ nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. L’alternativa è un modo di fare basato su memoria e immaginazione, su un disinteresse interessato che non fugge il mondo ma lo muove…».

Ed ora è tempo di svelar l’arcano e di stupire:
(*) Il primo brano era tratto dall’atto terzo, scena seconda, di «Il mercante di Venezia», (1597 ca.), William Shakespeare, eterno bardo che non necessità di presentazioni.
(**) Il secondo breve stralcio è contenuto invece in «Contro la comunicazione», (2004), Mario Perniola, docente di Estetica all’Università Tor Vergata di Roma.

*******

E per concludere, siccome a sciespirare c’ho preso gusto, vogliate gradire anche questa citazione bonus, sempre dal «Mercante». Non c’entra nulla con i temi suddetti, ma siccome i medesimi possono aver anche indotto un filo di scoramento nel lettore, serva questa coda poetica da zuccherino per aggiustarsi in bocca.

Lorenzo –
La luna splende chiara questa notte. Fu certo in una notte come questa, quando il vento baciava dolcemente gli alberi senza il minimo fruscio, fu certo in una notte come questa che Troilo scavalcò d'Ilio le mura ad esalare l'anima in sospiri verso le greche tende dove la sua Cressida si giaceva.

Gessica -
In una notte come questa Tisbe, mentre sfiorava con trepido passo i prati già coperti di rugiada, fuggì ad un tratto atterrita e discinta, avendo visto l'ombra del leone.

Lorenzo -
Didone, in una notte come questa stette alla riva del selvaggio mare, e, con un ramo di salice in mano, disperata gridò all'amor suo di tornare a Cartagine.

Gessica -
Medea, in una notte come questa, colse l'erbe stregate che dovevan ridar la giovinezza al suo suocero Esone.

Lorenzo -
In una notte come questa Gessica fuggì furtiva dal ricco giudeo per correr via da Venezia a Belmonte insieme ad uno squattrinato amante.

Gessica -
A lei, in una notte come questa, giurava amore il giovane Lorenzo, e le rapiva l'anima con molti voti e nessuno sincero.

Lorenzo -
E pure in una notte come questa la bella Gessica, piccola strega, calunniava il suo amore, d'infedeltà e lui la perdonava.

Gessica –
A seguitar con te in questo gioco delle notti storiche, io, son sicura, ti subisserei, se nessuno venisse a disturbarci; attenti, ecco, sento un passo d'uomo.

giovedì 11 marzo 2010

Mappe d’uomini e donne (but far, far away from “The Philippi”…)


Quando mi trovo in un posto frequentato da parecchie persone, mi viene quasi spontaneo crearmi una mappa delle “rilevanze umane”, definibili altresì come “punti focali della bellezza”. Si tratta di una planimetria mentale mutevole e semovente, composta dagli individui presenti in quell’ambiente che, per una loro peculiarità fisica o spirituale, risultano notevoli ai miei occhi.
Sia che lo stazionamento nel luogo di turno si protragga per diverso tempo, sia che si tratti di pochi attimi, l’atto di posare un momento lo sguardo su uno di questi punti focali, reca conforto, è una boccata di positività energetica.

Pare che la geografia non riscuota più tanto rispetto ultimamente, soprattutto come materia scolastica. E pare succeda nella candida illusione che in un’epoca ormai coperta per bene dal tettuccio satellitare della capanna dello zio Tom Tom, ogni questione di “orientamento” possa considerarsi superflua e superata. Peccato che venga trascurato spesso un piccolo particolare: ossia che la geografia, ancor prima di una questione spaziale, è tema di ampia pertinenza dell’immaginario e, per estensione, della progettualità dell’uomo.
Fra gli antichi ricordi di scuola conservati fra una sinapsi e l’altra, rispolvero una frase che mi colpì intensamente all’epoca in cui me la ritrovai nera su bianco sulle pagine di un libro di cui ormai mi sfugge sfortunatamente il titolo. La frase recitava più o meno così: «…La carta geografica costituisce sempre una metafora dei rapporti di potere in gioco in una data società…».
Ecco, depurando la debita quota di tara che un simile concetto deve rendere ad una certa influenza barbonesca da Treviri (leggi “il vecchio Carletto Marx”), è innegabile l’indubbio fascino intellettuale che deriva da questo ragionamento.
La geografia è fatta soprattutto di interpretazione qualitativa di un territorio, esprime il mondo così come lo si vuole vedere e non ne è mai una fotografia fedele ed oggettiva. Di più: l’istinto di formare mappe di ogni genere è insito nell’animo umano, forse con la stessa pervicacia con la quale vi sono insiti l’istinto di giocare e di tendere alla gioia.
Da questo punto di vista, ogni nostra giornata può essere considerata come una sequenza di momenti che ci vedono impegnati a creare mappe.
Creiamo mappe dei nostri luoghi di frequentazione quotidiana, anche se ne conosciamo gli spazi talmente bene che ci potremmo camminare ad occhi chiusi. Perché una mappa è un insieme di valori cangianti, una distribuzione di punti nei quali si focalizzano energie esistenziali, che a seconda di quanto dobbiamo o ci aspettiamo di fare in un determinato giorno, assumono significati differenti e fanno maturare aspettative ogni volta variabili.
Creiamo mappe dei nostri spostamenti esterni, prevedendo, pianificando, considerando ostacoli e elementi di facilitazioni dei percorsi che ci prefiggiamo di coprire.
Creiamo mappe del nostro tempo presente, quantificandolo e qualificandolo nella mente, per ottimizzarlo e farlo fruttare al meglio.
Creiamo mappe del nostro tempo passato, perché andiamo di continuo a ripescare episodi già vissuti, simili a quelli che stiamo vivendo, per orientarci in un continuo aggiustamento di rotta che cerca di alimentarsi dal differenziale di polarità “ieri-oggi”.

Insomma, non ci muoviamo praticamente mai senza aver abbozzato una mappa, pur anche per grandi linee. Comprese mappe all’apparenza meno utili di quelle che ho citato finora. Come la mappa delle “rilevanze umane”, o “punti focali della bellezza”, che citavo all’inizio. Questa mappa mi viene quasi spontaneo crearmela sul posto di lavoro. Ne sono capoluoghi e “centri abitati affettivi” i tanti personaggi nei quali mi imbatto quotidianamente: là il sorriso di una persona che conosco solo a livello di saluto, ma all’incontro sa sempre essere radiosa; qui la presenza aggraziata dietro la scrivania posta a qualche metro dalla mia; là il profilo di un volto familiare, una fronte, delle ciglia, un naso, una chioma fluente che gradualmente si è imparato a vedere come parti integranti del disegno di una certa parte della giornata; qui la voce nota e rassicurante di un collega che risuona confortevole nella sua rituale e consueta sonorità.
Sono anche questi piccoli dettagli che ti fanno sentire parte del territorio umano in cui ti riconosci. E sapere di poterli ritrovare puntuali sulla mappa delle tue giornate rende queste ultime meno disorientanti, le colora dei punti cardinali del valore umano in cui ciascuno ha bisogno di muoversi.

lunedì 8 marzo 2010

Siamo messi male…ma conserviamo intatte le nostre proprietà organolettiche


Tempo fa, avevo già scritto qualcosa riguardo all’iper-salivazione indotta negli italiani dalla pletora di programmi televisivi (Linea Verde, Mela Verde, Eat Parade, la Prova del cuoco, Sereno Variabile, il Sabato del villaggio, ecc. ecc.) dedicati fra le altre cose ai piatti tipici della nostra patria cucina, alle ricette, a prodotti e specialità alimentari infinite di ogni regione, città, paese, località, bivio di strade del benamato Bel Paese.
Allora misi in rilievo come l’Italia, se non proprio sul lavoro, si potrebbe semmai considerare una repubblica fondata sull’acquolina in bocca (con tutti i risvolti consumistico-belluini annessi e connessi alla considerazione).
Va aggiunto tuttavia che queste trasmissioni tv, oltre che cagione senza requie di spremiture papillari forzate, sono anche fucine nazionali di linguistiche acrobazie finalizzate alla gratuità più vertiginosa.

In particolare, da diverso tempo, la mia attenzione si è focalizzata più volte su di un’espressione ricorrente. Non so se ci avete fatto caso. Quando in questi programmi culinari si affronta l’argomento principe, ossia tutto ciò che in qualche modo ha a che fare con l’ingollare, l’ingurgitare, il tracannare, e in particolare, se tali azioni sono viste in riferimento ad altri processi “esterni”, trasformativi o conservativi degli alimenti, gira che ti rigira alla fine salta sempre fuori la formuletta magica: il prodotto «…conserva intatte le sue proprietà organolettiche…».
Si parla di un procedimento per congelare l’insalata con certi criteri? Niente paura: con questo metodo il nostro prodotto «…conserva intatte le sue proprietà organolettiche…».
Perché i nostri antenati, tanti secoli fa, presero a conservare il tipico formaggio “Martorino Pelusòn” sotto un manto di tre metri di fieno e fiori di lavanda? Elementare, Watson: avevano capito che in questo modo la beneamata rondella casearia «…conserva intatte le sue proprietà organolettiche…».

Già da un po’ l’espressione, a forza di sentirla sbandierare “in tutte le salse”, aveva iniziato a starmi discretamente sulle scatole, ma ieri è stata usata in un contesto che ne ha sancito l’odiosità definitiva. Si parlava di birre ed ho scoperto che la deliziosa bevanda bionda non va versata inclinando il bicchiere, come anche il più umile imbecille capisce di dover fare per evitare l’accumulo della schiuma. No, no, niente affatto, il boccale va tenuto ben ritto e la schiuma va fatta formare in abbondanza, perché, immaginate un po’, in questo modo il prodotto «…conserva intatte le sue proprietà organolettiche…».

E’ stato lì che ho deciso di eleggere la benamata espressione del menga ad emblema supremo della vacuità comunicativa che contraddistingue “cotale luminosa et preclara nostra epoca de’ sta minchia”. Perché sarà anche vero ciò che han detto della birra, (seppur indimostrabile, essendo per definizione le proprietà organolettiche di un cibo connesse precipuamente alla sensibilità individuale), ma vigliacco se da oggi in poi verserò mai più un goccio di Pils, di Weisen o di doppio malto senza aver quasi coricato il bicchiere.
Questa martoriante presa per il culo comunicativa si fa odiosa quando raggiunge simili vette di superficialità espressiva modaiola. La comunicazione si muta in un’elegante veste all’ultimissima moda, il luccichio dei cui lustrini viene utilizzato per abbagliare la vista, in modo da non lasciar trasparire l’effettiva assenza sottostante di contenuti effettivi. Sotto il vestito, il re non solo è nudo, ma addirittura nullo.
La comunicazione diventa l’involucro di una scatola ormai vuota di conoscenza vera; è ridotta insomma ad una succulenta padella di pollo alla diavola sfrigolante, che una volta alzato il coperchio, si rivela diabolicamente orfana del pollo.
La cosa più sconsolante è constatare come tantissime delle cose che escono fuori dalla perfida scatoletta televisiva, si presentino con questa caratteristica: sono cioè portatrici di una futilità che monoliticamente «…conserva intatte le sue proprietà organolettiche…».

Per divertimento intellettuale, ho immaginato allora come si potrebbe riciclare ottimamente l’espressione incriminata nei più svariati frangenti comunicativi quotidiani.
Mettiamo il caso di un brutto incidente stradale. Immaginiamolo però spettacolare, ma senza gravi conseguenze, perché se l’esempio vuol essere divertente, non può mica finire male. In questo caso è dunque un interdetto di un guidatore che sfrecciando a velocità folle, si sfascia contro un platano. Possibili commenti da bar in versione “comunicativa”: «…ha sfidato la propria incoscienza: sapeva che rischiava lo schianto, ma non aveva tenuto in debito conto che il platano ha sempre il cattivo vizio di “conservare intatte le sue proprietà organolettiche…”…».
Altra applicazione della frase. Il capo ufficio vi stressa, vi assilla, fa il despota a suon di decisioni calate dall’alto, senza tenere in minimo conto i saggi suggerimenti di chi il lavoro lo affronta ai livelli inferiori, ma nel vivo dello suo svolgersi, laddove si colgono con più chiarezza le sfumature ed i meccanismi genuini dell’attività. Commento dell’umile operaio, dopo l’ennesimo flop nei risultati della ditta: «…noi ci abbiamo provato a parlare col dirigente, ma niente da fare, lui “conserva intatte le sue proprietà organolettiche…”…».

Insomma, giusto per rimanere in tema di birra: meditate, gente, meditate. Comunicare e sapere son due cose ben diverse. Chi padroneggia bene la comunicazione, può anche permettersi il lusso di non sapere pressoché una siderale fava di nulla, ma sa mettervelo in quel posto convincendovi anche di aver «…conservato intatte le vostre proprietà organolettiche…».


giovedì 4 marzo 2010

L'uomo di carta


Do loro
dolore
e doloro.

Una mano
nell’umano
non è dato dare.

Prole di parole
solo sono.

martedì 2 marzo 2010

Sfogo d’un mattino di fine inverno

Sottotitolo: «Italia vaffanculo!»
(Testo: Mortacci, Porcacci – Musica: Zozzacci)


Questa mattina, mi son svegliato…e ho trovato l’invasor…
Ah, no…quella era un’altra storia.
In realtà è da mo’ che siamo invasi. Invasi da noi stessi. L’Italia è una nazione auto-invasa che si dà incessantemente mazzate sulle orchidee, con la malintesa illusione di stare praticando una dilettevole pratica autoerotica.
Su questo tema, non vi posso venir a raccontare novità, cari amici viandanti per pensieri che con me condividete lo zozzo privilegio di vestire tutti i giorni i panni della italiotità.
Essere italiani è un fastidio che bisogna sopportare, così siamo nati e così dobbiam procedere rassegnati. Lo sapete benissimo quanto me, come funziona. Ogni santo giorno della minchia che il cielo manda in terra, ci si infarcisce le orecchie di notizie sempre più balorde: corruzione a crescita esponenziale, malaffare come se piovesse, arroganza, superficialità, zero rispetto per tutto e per tutti.
Uno ascolta e manda giù. E Pensa: va beh, ma non è tutto così, ci sono ancora le persone per bene, per fortuna (e sarà anche vero, non lo metto in dubbio).
Uno ascolta e manda giù (ci sono ancora le persone per bene: ohm!!!)…ascolta e manda giù (ci sono ancora le persone per bene: ohm!!!)…ascolta e manda giù (ci sono ancora le persone per bene: ohm!!!)…
Finché un bel giorno, sente una notizia, non importa se sia più o meno grave. Magari ne aveva sentite duemila ben più terribili fino a lì. Però quel che conta è che si tratti della notizia stercoraria giusta al momento giusto, quella briciola di letame che mancava per arrivare all’orlo, quel rospo in eccedenza venuto a dare il “tana libera tutti” alla banda di zompanti batraci ingurgitati fino a quel punto.
La notizia che ho sentito io era grave (ma mi è successo altre volte che fosse sufficiente anche molto meno). In pratica, ho sentito che ci sono dei tizi balordissimi ed innominabili che stanno approfittando delle disastrose condizioni in cui versano Lambro e Po sversati di lordure, per disfarsi di altro materiale inquinante, nella speranza di passare inosservati e quindi impuniti, in base al loro perverso teorema secondo cui schifo sommato a schifo non farebbe molta differenza.

E tanto m’è bastato per dare il via al profluvio interiore dello sfogo nazionale: «…Ma vai in malora, Italia bastarda!!! Bel Paese un paio di palle: ormai sei poco più d’una carogna imputridita, cosparsa di lugubri vermi e malconci avvoltoi che si contendono in squallida lotta la tua misera carcassa.
Vai a fondo, barcone bucato!!! E’ giusto così, “Non val cosa alcuna / I moti tuoi, né di sospiri è degna la / Terra” fetida tua. Non fosti mai una nazione degna di questo nome, men che meno uno Stato, se non magari intendendoti come participio passato: sei solo un qualcosa che forse una volta è stato, ma che di certo ora non è più.
Baldraccon de’ Baldracconi! Italia, sei più fottuta di una puttana all’ora di chiusura (cit. “Dead man”, Jim Jarmusch – 1995)…».

In questo modo, guidando e mirando verso la città, il mantra auto-flagellante mi si gonfiava dentro il petto sempre più, vedendo quella fiumana di bastardi sulle loro scatolette di latta, a mia volta bastardo anch’io nella mia scatoletta, tutti in coda a sgomitare per un sorpasso inutile ma potenzialmente mortale, senza rispetto, senza ritegno, senza capire il senso di quel che si sta facendo, per ritrovarsi tutti ancor più bastardi e insensati alla prima grande rotatoria alle porte della città: chi aveva rischiato l’osso del collo per arrivare prima, e ora si trovava un solo micragnoso metro davanti a chi invece era stato prudente.
Un millimetro c’è mancato che tirassi giù il finestrino, inveendo alla volta di uno di questi incoscienti con l’offesa più grave che sul momento mi passava per la testa: «Brutto figlio d’italiana!!!».
Capita poi che quando si apre il barile del letame, ci vanno appresso anche tutte le ruggini accumulate e lasciate in sospeso, è così ho pure pensato che ce la meritiamo tutta la schifezza della canzone del Pincipe e del Pupo, è l’esatto specchio del nostro abbruttimento attuale. Così, parafrasando quei sommi versi d’animale, ho concluso fra me e me con questo inno devastante: «Sì, stasera son qui a ragliare come un mulo: Italia amore mio, ma vaffanculo!»

Poi d’un tratto mi son destato: era stato solo un brutto sogno. Ad occhi aperti, ma pur sempre un brutto sogno. E per fortuna che non sono andato nel fosso, anzi, al momento del risveglio ho fatto giusto in tempo a constatare che tutto era tornato a scorrere normale.
Infatti guidavo, riascoltavo i miei pensieri, e rimandavo giù (…ci sono ancora le persone per bene: ohm!!!) e alla seconda grossa rotatoria per entrare in città, vedo che un interdetto era andato a cozzare con la sua scatoletta proprio contro una gazzella dei Carabinieri. La cosa più divertente era che i Carabinieri avevano ragione, e la speranza più ghiotta era che al tapino, a quel grande italiano, non solo ritrassero la patente, ma che gliela ficcassero pure soavemente su per il buco del c…amino.