giovedì 30 ottobre 2008

Il Giudizio Universale non passa per le case…e nemmeno per le auto

Quanto scrivo oggi fa un po’ a pugni con la mia pigrizia a prevalente propensione domestica. Per cui considerate che le cose dette riesco ad osservarle molto più intellettualmente di quanto non le senta emozionalmente.

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Qualche tempo fa, ad un certo punto del mio cammino di studio, incappai in un concetto che mi piacque parecchio. Aveva a che fare con il senso moderno della privacy, introdotto nel corso dell’800, insieme alla conseguente prospettiva attraverso la quale da allora in avanti si prese a considerare lo spazio pubblico, collettivo, nelle città e nelle società occidentali.

Oggi a noi pare quasi un dato naturale che lo spazio domestico e tutto il resto della “extra-domesticità” siano due dimensioni del tutto scisse e distinte.

Da una parte c’è il “dietro la porta di casa”, dall’altra la “terra di nessuno” dello spazio pubblico. Il primo è carico di valori, di affetti, di preziosità emozionali, di “vicinanza”; il secondo è estraneo, ostile, distante. Per il primo abbiamo mille riguardi, riponiamo in esso gran parte della nostra progettualità di vita (per lo meno in misura ideale), è uno spazio denso di significati, uno spazio in cui fermarsi. L’esterno è invece uno spazio di transito, da attraversare alla svelta, con noncuranza, uno spazio da considerare “in negativo” rispetto a quello domestico, uno spazio in fondo nemmeno tanto degno di rispetto. Paradossalmente, se ci fate caso, soprattutto in ordine ai rapporti umani, l’esterno è lo spazio dell’introversione, mentre l’interno è uno spazio confidenziale, di apertura, estroverso.

Sto estremizzando i concetti per far capire cosa intendo, ma ovviamente andrebbero fatti tanti distinguo. Bisognerebbe infatti anche dire che naturalmente, e per fortuna, non è vero che i nostri spazi pubblici sono solamente luoghi per i quali si possa avere sempre un’esclusiva mancanza di rispetto, e per contro gli spazi domestici non sono i soli in cui si possano provare emozioni positive.

Tuttavia il succo del discorso è questo. Come sempre non è mai questione di bianco e di nero nettamente distinti, ma rimane il fatto che, per fare un esempio stupido, la maggior parte della gente si fa molti meno scrupoli a gettare una cartaccia per strada, che non a sporcare nel proprio salotto o in corridoio.

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Ma dov’è che tutta questa mescolanza di caratterizzazioni spaziali, affettive e sociali ritrova una sua dimensione amplificata (“patologicamente” amplificata, oserei quasi dire)? Io credo che questo avvenga nel microcosmo dell’automobile. Nell’ottica di quanto detto sopra, quando ciascuno di noi viene calato nel ruolo di automobilista, subisce una “iper-domesticizzazione ferocizzante”. Tutto il peggio degli aspetti “più deteriori” della domesticità, quando sei al volante vengono a galla in misura prepotente.

Innanzitutto il confronto tra interno ed esterno è immediato e molto più evidente. Sei dentro al tuo abitacolo confortevole, multi-accessoriato (climatizzazione, autoradio stereo, ammennicoli per l’orientamento satellitare) e soprattutto trasparente. Fuori ti scorrono i più desolanti spettacoli del paesaggio: tangenziali, autostrade, che in termini di carica paesaggistica estraniante sono pari forse solo ai quartieri artigianali, nei quali puoi comunque imbatterti. E poi ancora casermoni di periferia, ipermercati, fabbriche, opifici, falansteri (…beh, adesso non facciamoci prendere la mano…). È vero che puoi incappare anche in cose ed edifici piacevoli, ma se fate bene i conti, su un percorso medio, diciamo di 30 km., potete quasi stare certi che il “bilancio estetico” sarà con ogni probabilità in rosso. Oltre al confronto con elementi esterni deficitari rispetto al comfort dell’abitacolo, c’è il confronto con altri essere umani in condizioni di “inferiorità”: gente a piedi sotto la pioggia o grondante sotto la canicola, gente in bici che va piano rispetto alle potenzialità motorie dell’automobile, gente non protetta dalla placenta di lamiera e cristalli, ma in balia di rapporti sociali, mendicanti, scippatori e sondaggisti .

In secondo luogo c’è la velocità, che è la condizione peggiore per poter “ascoltare” il paesaggio: vai a novanta, cento, centodieci, centocinquanta, cosa te ne può importare delle cose che ti scorrono intorno, che complice quella rapidità assumono l’evanescenza dei fotogrammi di un film? La velocità fa poi rima con aggressività ed il senso di competizione si spreca: non vuoi stare dietro, ti incolli alla targa di chi ti precede e se non puoi superare friggi sul sedile, ma se sei tu ad essere tampinato da un superatore molesto, lo maledici in cuor tuo per la sua alterigia e perché non ti lascia andare in pace alla velocità che ritieni adatta a te.

In questo quadro, il piccolo spazio dell’automobile diventa fortemente privato ed ostile a tutto ciò che è esterno.

Ecco, era questa l’analogia che mi sembrava di aver colto fra due aspetti della realtà, andando oggi per pensieri. Mi congedo per questa volta con un’epifania musicale che mi sembra degna di chiudere il discorso (sono solo alcuni stralci, non è il testo completo della canzone):


“…Nelle case non c'è niente di buono
appena una porta si chiude dietro a un uomo
succede qualcosa di strano, non c'è niente da fare
è fatale, quell'uomo comincia ad ammuffire.
Basta una chiave che chiuda la porta d'ingresso
che non sei già più come prima
e ti senti depresso.
La chiave tremenda, appena si gira la chiave
siamo dentro a una stanza:
si mangia, si dorme, si beve.


Nelle case non c'è niente di buono
appena una porta si chiude dietro a un uomo
quell'uomo è pesante e passa di moda sul posto
incomincia a marcire, a puzzare molto presto.
Nelle case non c'è niente di buono
c'è tutto che puzza di chiuso e di cesso:
si fa il bagno, ci si lava i denti
ma puzziamo lo stesso.

C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza
perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.

C'è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l'unica salvezza
c'è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada, nella piazza
perché il giudizio universale
non passa per le case
e gli angeli non danno appuntamenti
e anche nelle case più spaziose
non c'è spazio per verifiche e confronti.


Perché il giudizio universale
non passa per le case
le case dove noi ci nascondiamo
bisogna ritornare nella strada
nella strada per conoscere chi siamo.

…perché il giudizio universale
non passa per le case
in casa non si sentono le trombe
in casa ti allontani dalla vita
dalla lotta, dal dolore, dalle bombe…”


C’è solo la strada

Giorgio Gaber (1974)

martedì 28 ottobre 2008

Pannolini elettorali iù-ès-éi

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Si sa che la bocca di un candidato alle elezioni è meno affidabile del sedere di un neonato, ma certe volte il pannolino del buon senso si riempie così tanto che la puzza non si può più sopportare.

Sostiene il candidato repubblicano alla presidenza americana John McCain che gli elettori non dovrebbero votare il candidato democratico Barack Obama perché un’amministrazione guidata da quest’ultimo significherebbe anche forti influenze statali sull’economia.

Ora, se fossi votante USA, di fronte a questa suggestiva trovata di strategia elettorale, mi verrebbe da sbottare in siffatta guisa:

“…Eh no…macché…e verrò a votare per te, allora…così mi garantisci ancora un bel po’ di anni di gioiosa amministrazione all’insegna del “Dio Mercato Libero e Bello”, fondato sull’unica, rassicurante e suprema regola della “saponetta caduta a terra”, codificata anni or sono dal grande economista Jack Ninetygrades.

E dopo un soave periodo in cui l’umanità tutta si ritroverà ancora in balia dei geniali manager delle superbanche creative (che invece di passare più tempo a casa a fare all’amore con le mogli e a portare i bambini ai giardinetti, continueranno a sacrificarsi per noi 18 ore al giorno in ufficio, guadagnando milioni di dollari all’anno dei quali non potranno spendere nemmeno una minima parte campassero 10 secoli), alla fine saremo ripiombati in una bella e scintillante crisi mondiale nuova di zecca, accorgendoci giusto in quel momento che, non dico un ferreo statalismo in stile sovietico, ma almeno qualche straccio di regola ci si poteva sprecare a buttarla su fin dall’inizio…

Aho…ah còso…Ah Màkkàine…but go to take it in the cool!...”.

lunedì 27 ottobre 2008

Bagliori di micio

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Si sente ripetere spesso che la nostra è per eccellenza l’epoca dell’immagine, anzi mi sembra di averlo ripetuto già anch’io in questa mia sede bloggarola, ma confesso che dopo averci meditato un po’, stavolta non mi è riuscito di buttare giù uno straccio di incipit migliore.
Reti tv a bizzeffe, cinema con effetti strabilianti, valanghe di riviste, giornali, libri illustrati come se piovessero, cartelloni pubblicitari fissi o animati in un’infinità di strade delle nostre città, per non parlare di internet…Insomma (parafrasando quel poliziotto che in “Seven”, nella scena in biblioteca, rispondeva al rimprovero di Morgan Freeman circa il suo scarso interesse per la cultura), siamo talmente invasi dalle immagini “…che ci escono dal b… del c….” (”…dal bordo del colletto…”…e cosa avevate capito?!?!?!).
In questo sterminato panorama iconico a sofisticazione crescente, capace di sfornare immagini sempre più incantevoli, complesse, coinvolgenti, suggestive (basti pensare alla bellezza raggiunta oggi dai film d’animazione), stupisce come mantengano ancora intatto il loro fascino secolare due tipi di visione che sono il manifesto stesso della semplicità: un micio intento nelle sue più comuni azioni micesche (lavarsi, dormire, fare una corsetta di gioia, giocare col gomitolo, insomma, le cose normali che fa un micio normale) e le lingue di un bel fuoco, soprattutto se incastonate in un riverberante focolare, ma anche nel caso della fiamma di un piacevole bivacco all’aperto.
Qualcuno mi rimprovererà di forzare eccessivamente la mano della significazione, ma il mio mestiere è andare per pensieri, che sian di tutti giorni o sconosciuti…oppps, sorry, mi ero battistizzato un attimo…dicevo, corro anche il rischio della forzatura concettuale, ma nella inossidabilità estetica di questi due piccoli spettacoli naturali (il micio e il fuoco) mi sembra di vederci un promemoria ecologico per noi umani sempre più intenti ad artificializzare fino agli estremi il mondo che ci circonda.
Il micio e il fuoco ci ricordano che non potremo mai negare il fondo di Natura che è in noi, e questo substrato ancestrale sembra proprio che lo vadano a pescare nei recessi più remoti della nostra anima, quando con il loro magnetismo estetico ci assorbono lo sguardo che non può fare a meno di lasciarsi catturare dalle movenze sinuose del simpatico felinetto o dai guizzi abbacinanti delle ignee code a svolazzo.
Nello spettacolo ipnotico offerto da un micio “pellicevol-morbidato” o dalla “calorbianchevolezza” di un fuoco scoppiettante, risiede una sorta di piccolo monolito kubrickiano (d’accordo, molto meno “numinoso” e ben più domestico), un “umile natural denominatore” che ha attraversato tutti i tempi a fianco dell’uomo per continuare a rammentargli come la sua Anima sia fatta anche e soprattutto di Terra.
Così, per concludere: un consiglio a coloro che magari stanno meditando sull’eventualità di abbonarsi a qualche canale tv a pagamento: magari, lasciate perdere, e se ve lo potete permettere, fatevi un bel camino in salotto oppure prendetevi in casa un dolce micetto.

(questo scrittino è dedicato alla mia cara amica R.B. in terra di Albione, perché lo spunto mi è venuto da una paio di battute scambiate con lei su icq, perché è professoressa emerita di gattomania e poi perché ieri ha compiuto gli anni…e così, scusandomi per il ritardo: tanti auguri R.B.!)

domenica 26 ottobre 2008

Senso dell’arte e della pittura: un particolare linguaggio al servizio della conoscenza

(Foto di Gillipixel)


In tempo di idee magre, non si butta via niente, un po' come con il maiale. Così, beccatevi questo pipponcino culturale che ho scritto per tutti altri scopi, ma che pensandoci su mi è sembrato degno di poter fare anche qui sul mio blogghetto la sua porca figura (tanto per ribadire le modalità suine dell'operazione)...potrebbero seguire altre puntate, e questa è una minaccia in piena regola...

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Se dovessimo indicare l’essenza, il significato, l’obiettivo supremo che l’arte si pone, il movente più profondo che ha spinto nei secoli l’uomo ad esprimersi attraverso le forme artistiche, potremmo dire che l’arte (e l’arte figurativa in particolare) è uno strumento di indagine del senso della vita ed un tentativo di approfondire la comprensione della realtà.

Cosa distingue l’arte figurativa da altre dimensioni della conoscenza umana (filosofia, scienza, letteratura, ecc.)?

Il suo linguaggio particolare.

Nel caso della pittura, questo linguaggio usa come parole proprie le linee, le figure e i colori.

Servendosi di queste parole, la pittura esplora e può afferrare significati della vita e della realtà, e del rapporto fra vita e realtà, raggiungibili solo attraverso gli strumenti del suo linguaggio.

La filosofia, la scienza, la letteratura, ecc. non possono dire quello che l’arte figurativa dice, e in particolare quello che dice la pittura.

In questo senso, in quanto a complessità e a profondità conoscitiva, un quadro o un affresco di uno dei grandi autori che hanno segnato le tappe fondamentali della storia dell’arte possono essere benissimo assimilati ai più articolati dei discorsi filosofici, oppure alle più ardue teorie scientifiche, oppure ancora alle pagine più intense di romanzieri e poeti illustri.

Per chiarire meglio il concetto estremizzandolo, si può aggiungere che il tentativo di tradurre i significati dell’arte (nel nostro caso della pittura) nel linguaggio delle parole vere e proprie (che è alla fine il mestiere del commentatore, del critico d’arte), pur essendo un’operazione indispensabile, è al tempo stesso un’operazione che rimarrà alla fine una battaglia parzialmente perduta.

Quello che la pittura ha da dire, ce lo può dire solo essa stessa, quando le stiamo di fronte dal vivo. La stessa riproduzione fotografica perde lungo la strada molti dei significati dell’originale, e le parole della critica sono un utilissimo cammino parallelo a quei significati, ma non potranno mai dire esattamente ciò che il quadro dice con le sue parole fatte di linee, figure e colori.

«Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe», affermava lo scrittore francese Albert Camus.

L’espressione artistica nasce dunque nel momento in cui l’uomo sente tutti i limiti dei linguaggi codificati (com’è il parlare proprio del senso comune) ed avverte la necessità di indagare il senso del mondo e della vita raccontandoli con linguaggi nuovi (poesia, pittura, scultura, letteratura) che sappiano dire cose esprimibili solo nella loro particolare dimensione comunicativa.

sabato 25 ottobre 2008

Mai che ti ascolto, Gianpieruro...

(Foto di Gillipixel)

E se te lo sapevo che scrivere un blog mi dava tutto questo tormento, e col cavolo…eco…che te lo scrivevo…E lo sa il diavolo se lo facevo. Mai una volta che ho l’umiltà di dare retta al mio caro amico Gianpieruro Disodio…

Non ti impegnare - mi diceva lui che è esperto di alchimie - non sei avvezzo all’uso prolungato ed intensivo della mente…

Che uno comincia così per ischerzo, come orso quando dantescamente scherza…e s’amor me ne sferza / io mi vendicherei di più di mille…ah, ma no, ma questo non c’entra…

Dicevo, uno all’inizio scrive due cose al mese, proprio quando gli viene l’idea della domenica, ma per il resto può continuare tranquillo a tenere il pensiero in frigor come ha sempre fatto. Invece poi magari si accorge che per sbaglio gli è venuta un’idea anche di lunedì, e la mette giù e così ci prende gusto anche gli altri giorni della settimana. Che poi il segreto del bloggarolo è tutto lì: basta che stia un po’ con gli occhi aperti e che osservi semplicemente le cose che gli succedono intorno. E se poi è bravo, anche da un fatto banale, ci trova fuori l’idea illuminante.

Ma ormai sono diversi giorni che non mi si illumina niente di niente: osservo i colleghi di lavoro e loro cosa fanno? Toh, stanno lì vicini alla mia scrivania e lavorano…

Giro per strada, le macchine, il traffico, la gente intorno, quella a piedi e quella in bici, cosa fanno? Intasano banalmente, puzzano banalmente, rumoreggiano banalmente, sfrecciano banalmente, smadonnano banalmente, camminano banalmente svagati…tutto qui…vigliacchi se si lasciano osservare dal punto di vista originale del geniale bloggarolo.

Ma come, mi auto-indigno: io sono l’impavido bloggarolo senza macchia e senza paura, e allora com’è che non mi viene la folgorante Idea da diffondere in rete, vedendo quella cacca di cane sul marciapiede, e invece devo molto più modestamente constatare che mi è già andata di lusso se non l’ho pestata?

Invece sbircio tutti i miei blog preferiti, quelli che ho elencato qui vicino, e vedo sfavillii di idee, trovate, scritti interessanti. Non andrà mica a finire che mi consumo nell’ansia da competizione?

E pensare che ci sono due cose che non ho mai sopportato per niente: quando sento dire che dobbiamo essere competitivi e quando proclamano che è auspicabile un aumento dei consumi. Che la sola cosa che mi si consuma a sentire questi ragionamenti sono i coglioni, che entrano in competizione fra loro per chi gira più veloce.

Boh, non so, lo vedo brutto il mio futuro di bloggarolo…io rimango in attesa di nuove idee, e nel frattempo rigiro un po’ il dito nella sabbia, che non si sa mai.

mercoledì 22 ottobre 2008

Ceci n’est pas une piPPe

(Foto di Gillipixel)


A se stesso

Giacomo Leopardi

Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.


Bella la Poesia, vero? Già…molto meno dell’ora legale però, che non mi è mai stata un granché simpatica, soprattutto in questi giorni che è in procinto di tirare gli ultimi, obbligando ad alzarsi praticamente ancora nel cuore della notte.

Direte che sembra un discorso da ubriachi. Sì, e allora, del cammello in una grondaia o dell’ombrello e la macchina da cucire, ne vogliamo parlare?

Ad ogni modo, “questa non è una pippa”, e così beccatevi la rubiconda rivisitazione dell’immortale componimento giacominico, rivoltato come un pedalino canzonatorio con il lato più puzzolente girato verso il molesto slittamento temporale.


All’ora legale stessa

Gilli Pixel

Or poserai per qualche mese,
stantia ora legal. Perì
la Crescita
estrema,
ch'eterna tu ti credesti. Perì. Ben sento,
in noi di vuoto Sviluppo,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per l’inverno. Assai
frangesti i corbelli. Non val cosa nessuna
gli sfasamenti tuoi, né di sospiri è degna
la sveglia. Amaro, dessert e caffè
la vita, altro mai nulla; e pausa pranzo è il mondo.
T'acqueta omai. Fai disperare
le ultime volte. Al gener nostro il fato
non donò che il dormire. Omai disprezzo
te, la finanza creativa, il brutto
poter che, utilitario, a comun levatacce impera,
e l'infinita vanità del Prodotto Interno Lordo.

domenica 19 ottobre 2008

Are you ready for the blues?

(Foto di Gillipixel)

E' bello quando la "surrealtà" si insinua fra le pieghe della realtà. Anche se si concretizza in piccole faccende banali, questo fatto ti regala sempre un sorriso dal gusto particolare.
Scena: ristorantino in riva al fiume, gente allegra che mangia e beve di gusto, e blues-band indemioniata che gigoneggia alla grande fra i classiconi venuti su direttamente mescolati con le nebbie del delta del Mississippi. Tanto per dire il clima che c'è nel locale: sono bravi musicisti, ma non disdegnano, fra un brano e l'altro, di levarsi uno stivale, versarci dentro un bel goccio di prosecco e scolarselo direttamente dalla coriacea fonte.
In un contesto simile, cosa fai? Non bevi? Eh...non mi sarebbe sembrato rispettoso. Avrò mille difetti, ma non sono uno che non sa "stare in società". Allora, bevi. Ma così vien voglia di fare pipì presto. E così mi ritrovo nel bagno. Insomma, chiamarlo bagno è fare un torto radicale al concetto di eufemismo.
Uno stanzone semibuio e ringelidito per aver scordato da tempo il significato del vocabolo "serramenti". Piastrelle di infima categoria fino a mezza parete, e da metà in su intonacatura scrostata e macilenta, un mix micidiale che, non so come mai, mi fa venire in mente l'ambientazione finale di "Full metal jacket", quel capannone semidemolito in cui il cecchino Viet dà un sacco di filo da torcere al soldato Joker e compagnia. "Espletatore" alla turca, una specificazione che ha smesso di avere accezione positiva dalla volta in cui venne usata per l'omonima marcia di Mozart. Porte del cesso stile saloon del far west, talmente prive di serratura e di privacy che solo per questo ci potrebbe scappare la denuncia dei gestori per violazione dei diritti umani.
E ancora: bagnato e mezze pozze di liquidi di incerta natura un po' tutto per terra.
E poi, in questo quadro idilliaco, lui: il Genio. Un tizio che da dentro ad uno dei cessi, con la porta aperta, chiede ad un altro che fuori si faceva i fatti suoi al lavandino, e mi sembrava manco conoscesse: "Oh, ma non si riesce a tirare l'acqua?".
No, non so se mi spiego: in quell'eccellenza di condizioni igieniche, lui, cosa ti va a pensare: a tirare l'acqua. Ma a dirlo così, non rende l'idea: avreste dovuto sentirlo con quale passione si votava alla causa, insistendo con lo sconosciuto, deciso a non lasciare quella reggia di un cesso senza aver tirato l'acqua. Sottilizzava pure su dettagli tecnico-sanitari, lamentando la cedevolezza del pulsante per il flusso dell'acqua e altre finezze simili.
E dopo qualche minuto buono di questo sfiduciato parlamentare sulle possibilità di arrivare in fondo alla missione, all'ennesima invocazione circa l'inefficenza idraulica del Sistema proferita dal missionario dello sciaquone, giunge cristallina, lapidaria e perfetta nella sua quadratura estetica, la sentenza sublime del consigliere al lavandino: "Boh, niente...arrenditi!"

sabato 18 ottobre 2008

Un giorno che ero pigro...

(Foto di Gillipixel)

Oggi sono andato per pensieri, ma la pigrizia non me ne ha lasciato cogliere. Volevo però dire qualcosa lo stesso, e così lascio la parola ad un tale che ne sapeva:

Sulla Fama
John Keats

E' divorato dalla febbre l'uomo che non sa guardare
I suoi giorni mortali con giusta serenità:
Strazia le pagine tutte del libro della vita,
E il suo nome bello deruba della sua verginità.
E' come se la rosa da sola si cogliesse,
O palpasse la prugna matura la sua eterea lanuggine,
Come se una naiade, credendosi un elfo importuno,
La sua grotta oscurasse di nera fanghiglia.
Ma sul rovo lascia se stessa intatta la rosa,
Che la bacino i venti e se ne cibino le api;
E la sua veste bruna indossa ancora la prugna matura,
Come il lago indisturbato ha il suo spazio di cristallo:
Perchè mai dovrebbe allora l'uomo, cercando favori, porre il mondo in croce
E sciupare così la sua salvezza, solo per un'illusione feroce?

venerdì 17 ottobre 2008

Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore…

(Foto di Gillipixel)


“…Sole sul tetto dei palazzi in costruzione,
sole che batte sul campo di pallone

e terra e polvere che tira vento e poi magari piove…”

La leva calcistica della classe ‘68

Francesco De Gregori (Titanic, 1982)


Son giorni che tira aria di forte stonatura. O meglio, fischia sulle reni più dritta del solito, che per tirare, già tirava da tempo.

Fa specie continuare a rimanere immersi belli e giulivi nella sarabanda consumistica, mentre sotto i piedi si sente un rimbombo minaccioso e dietro le spalle riecheggiano scricchiolii che fanno correre brividi gelidi lungo la schiena.

Il mondo del consumo esasperato offre il fianco da sempre alle critiche più facili. È altrettanto vero che in questo sistema ci siamo cresciuti e ci siamo stati anche bene, spesso adagiandoci sulle blandizie della consuetudine. Dunque ci sarebbe poco da fare i criticoni, ma certe distorsioni non le possiamo mica nascondere alla maniera del domestico sciattone che occulta la polvere. Abbiamo pur sempre una coscienza critica che forse sa fare qualcosa di meglio di un vecchio tappeto spelacchiato.

Sembra una regola storica ineluttabile, sembra che ogni tipo di organizzazione umana complessa non possa fare a meno di riscoprirsi alla fine fondata su contraddizioni terribili. Ci abbiamo provato in tutte le salse, ogni volta con le migliori intenzioni: consigli di tribù modello Isola di Pasqua, monarchia, comunismo e consumismo, liberalismo, dittature illuminate e dittature buie, impero, repubblica, libero mercato e protezionismo, autarchia, oligarchia, democrazia, teocrazia, aristocrazia, salutami tua zia…

Ma niente: tutte le volte il “non senso” s’insinua, prima pian piano, subdolo, nelle pieghe del discorso e nel sospetto di quei pochi più diffidenti (o dissidenti), poi sempre più deciso prende piede, e facendosi clamoroso cola da tutte le parti, deborda, tracima, e alla fine c’è un tanfo di paradosso che anche volendo non si può fare finta di non sentirlo.

Sia ben chiaro: teniamoci pur ben stretta la nostra cara e vecchia democrazia, che è il colabrodo con meno buchi finora escogitato per tenere insieme il consorzio umano…

…Ma, insomma, tutta ‘sta menata per dire cosa?…per parlare di un clima surreal-contradittorio che stiamo vivendo, prendendo spunto da due piccole impressioni-riflessioni scaturite in questi giorni da due episodi, uno tratto dalla macro-storia che stiamo vivendo come mondo in generale, e l’altro capitato invece nella mia micro-storia quotidiana.

La prima cosa è l’affermazione di Berlusconi, secondo la quale “se un aiuto dello Stato all’economia sarebbe stato peccato in passato, oggi è un imperativo categorico”. Ecco, se ci fate caso, filosoficamente parlando, questa frase è una perla di incoerenza e di distorsione discorsiva. Con la specificazione “filosoficamente parlando” mi riferisco all’uso della razionalità comune al pensiero occidentale dai vecchi tempi in cui il buon Aristotele la codificò. Il principio di non contraddizione, di causa-effetto, e tutte quelle robe lì, insomma. Concordo sul fatto che siano faccende pallose, e che la fantasia, l’immaginazione e il sogno sono alternative ben più piacevoli. Ma quando uno parla in un contesto normale, si presuppone che usi proprio quei ferri vecchi aristotelici e non gli sfavillanti strumenti del mago di Oz.

Cosa succede invece nella frase del Berlüsca? Beh, è tutto uno sfavillio di razionalità creativa, anzi un fuoco di fila di contraddizioni ad andata e ritorno: la prima parte del discorso fa zoppicare la seconda e viceversa di rimbalzo.

Se in passato l’intervento dello Stato fosse stato un po’ più praticato per dare qualche straccio di regola a quel favoloso mondo del libero mercato e della selvaggia iniziativa privata, non pensa il nostro luminoso premier che forse non ci saremmo trovati ad un passo dal collasso di tutta la baracca, come in questi giorni è successo? E se oggi questo intervento è da lui stesso auspicato, non pensa che forse quel modello del mercato libero e sfenato non era poi quella gran meraviglia che ci voleva egli stesso fare credere? Non so, quando fa così, mi fa venire in mente Fonzie quando non riusciva a dire “ho sbagliato”, e piuttosto di niente biascicava un incerto “ho sbglt…gghhhzzz….”. Boh, sarà…ma se questa è una delle menti più illuminate del nostro capitalismo, il Cielo ci scampi dai più rintronati.

Il secondo episodio, legato al mio più modesto tran tran giornaliero, è molto meno frutto di analisi razionale e mosso in misura più generosa dall’impatto emozionale. È successo ieri: scorticavo il solito incartamento plastificato dell’inserto settimanale di un noto quotidiano, quando dal malefico involto di cellophane e locandine pubblicitarie salta fuori una mestissima simil-chiavetta di automobile…Noooooooooooooo…Nooooooooooooooooo…non provavo una tristezza simile dall’ultima volta che mi sono rivisto la scena della tombola nel “Cacciatore” di Michael Cimino. Chi lo sa, magari solo poco tempo fa, in un normale frangente consumistico ordinario dei tempi andati, la cosa non mi avrebbe fatto così impressione. Ma ora che siamo andati proprio ad un passo dal vedere il crollo totale, il tutto è suonato fortemente surreale. Già mi vedevo, sabato mattina, recarmi prono alla concessionaria ad infilare la mia triste chiavetta per sapere se ho vinto l’auto in palio…

Nooooooooooooooooo…Noooooooooooooooo…presto, un film di Bergman per tirarmi su di morale!!!

martedì 14 ottobre 2008

Vado sotto il tavolo

Volevo proseguire il mio breve viaggio nel mondo dei "gregari dell'espessione alla moda" rendendo omaggio questa sera ad una frase per la quale il commento "che due coglioni" rende conto solamente di una realtà del tutto sottostimata. Per questa espressione, e le sue lievi varianti, s'impone come minimo una triplice testicolarità di platino, tale e tanta è la molestia che riesce a sprigionare.
"Dobbiamo sederci intorno ad un tavolo..."...minchia!!!...giuro che non la posso più sentire questa cosa...sedetevi su una panchina, sedetevi nel teepee di Toro Seduto, sedetevi lungo un fosso, ma vi prego, non sedetevi più intorno ad un tavolo.
Se non per pudore linguistico, fatelo almeno per coscienza ambientale: ormai, con tutti i tavoli delle trattative che sono stati aperti, la penisola è tutta una distesa di superficie lignea, che al confronto, Cantù ai tempi d'oro dei suoi mobilifici era una piccola compagnia di amici che giocava coi bastoncini dello Shangai.

lunedì 13 ottobre 2008

But if you go carrying pictures of chairman Mao…

Può succedere che le opere d’arte, tanto più se pregevoli e complesse, diano adito ad interpretazioni non previste nemmeno dall’autore. Ma a volte il fenomeno sembra accadere anche con le parole stesse, che possono imboccare percorsi di senso forse in origine non presenti neanche fra i pensieri di chi le ha pronunciate o scritte.

Qualche tempo fa (non ricordo se son passati mesi o anni, ma poco importa), sentii da qualche parte una dichiarazione rilasciata dal mitico cantante e bassista dei Police, Gordon Matthew Sumner…ecchiccazz’è!?!?! ...esclameranno i più impazienti… sì dai, il buon vecchio Sting volevo dire.

“Il rock è una musica reazionaria”, disse in sostanza quel gran trapano di un pungiglione biondo. Non capii bene dove voleva andare a parare, ma quella frase mi è sempre rimasta in mente. Cercando un po’ sul web ho trovato qualche spiegazione, nel senso che il rock imporrebbe una sorta di “tirannia del banale” con conseguente ottundimento generalizzato delle coscienze.

Può darsi che il buon “Sting…ary Smith” (…solo i cultori di Trinità avranno potuto cogliere questo demenziale calembour) non avesse tutti i torti. Ma recentemente sono tornato a riflettere sulla questione e mi sono dato un’interpretazione mia.

La considerazione è nata dal gironzolare per strada con le orecchie farcite di mp3. Cosa succede ad esempio mentre sei fermo al semaforo per strada, aspettando di attraversare al passaggio pedonale, e magari ti parte direttamente nel cranio “Break on through” (rigorosamente “to the other side”, s’intende…)? Le auto sfrecciano sulla zebra, la mente vola lontana cavalcando lo sguardo là sotto, perso nel flusso del serpentone motorizzato, e il pensiero si fa aggressivo, aggrappato alle vibrazioni taglienti delle note. In men che non si dica, il cervello è un impasto estetico di melodia neuronale e ragionamenti rivoluzionari, e quasi non ti sei reso conto come:

“…You know the day destroys the night…ma cosa fa tutta ‘sta massa di stronzi dentro quelle scatolette di lamiera, ma andate a casa…night divides the day…guarda quello lì: 40mila euro di macchina, un anno e fischia di lavoro per mettere il culo dentro un pezzo di lamiera…tried to run tried to hide…”.

Nel frattempo però si crea un distacco netto fra bellezza interna provata musicalmente e desolazione (o perlomeno pochezza) esterna percepita visivamente. La differenza è troppo ampia e chiunque abbia un minino di senso estetico (tanto più che le canzoni se le sceglie lui) opta senza pensarci un secondo per quell’ideale mondo interno parallelo. E se prima di pigiare il play aveva anche una minima intenzione di agire sul mondo là fuori per tentare di migliorarlo, alla fine della canzone si è accorto che ormai la rivoluzione l’ha combattuta e vinta nella sua mente, e non gliene può fregare ormai poco più di niente di andarsi a sbattere per cambiare una realtà definitivamente bollata come deludente ed inadeguata.

Ecco dunque come la frase di Sting si è riformulata nella mia percezione bislacca: il rock è una musica reazionaria perché, con la sua energetica aggressività, la rivoluzione te la fa combattere tutta nella tua testa.

E dopo aver assaporato lo sfavillio esistenzialista di Break on through, la martellante visionarietà di In bloom, il furente sarcasmo autolesionista di God save the Queen, la cinica eleganza di Personal Jesus, a chi mai rimane la voglia di prendere in mano una falce ed un martello arrugginiti?

venerdì 10 ottobre 2008

Non sono tuo fratello...

Come diceva Nino Manfredi nel capolavoro di Luigi Zampa “Anni Ruggenti” (1962):
“…A chi li sòrdi? A noi!!! A chi le caverne? A loro!!!…Ammazza che saccoccia!!!...”

Se mai questa crisi mondiale potrà insegnarci qualcosa, speriamo lo faccia nella direzione di una maggiore umiltà, di un ravvedimento generalizzato, di una rinnovata coscienza della finitezza e dei limiti umani. Speriamo torni ad imporsi un senso diffuso di responsabilità sociale, impostato sui valori dimenticati della solidarietà, dell’altruismo…della fratellanza….
Però, per favore, stavolta lasciamo perdere l’esempio dei fratelli Lehman…

domenica 5 ottobre 2008

I software dell'anima

(Foto di Gillipixel)

Alcuni giorni fa mi è capitato di vedere su Raitre una bella trasmissione dedicata a Lucio Battisti, un omaggio alla sua carriera, con tanti stralci delle sue stupende canzoni e altri filmati interessanti. Uno di questi spezzoni era tratto da una trasmissione tv del 1969, Speciale per voi, condotta da Renzo Arbore. Lucio era ospite fisso del programma e proponeva dal vivo i suoi brani ad una platea di ragazzi presenti in studio.
Mi ha fatto riflettere ed anche “intellettualmente incazzare” un episodio che capitò proprio in quella trasmissione, testimonianza di certo “bovinismo” ideologico caratteristico fra le altre cose di quell’epoca, che pur rappresentò un fondamentale passaggio storico per lo svecchiamento del mondo. Fra una canzone e l’altra, era previsto uno scambio di opinioni fra Lucio e i ragazzi: questi ad un certo punto gli contestarono il “disimpegno” delle sue canzoni, il disinteresse dimostrato nei confronti di temi sociali e politici ai quali invece i giovani dell’epoca stavano dedicando si può dire tutta la propria esistenza di allora.
La risposta di Lucio non fu molto chiara, non rispose con le argomentazioni profonde ed articolate che certamente avrebbe saputo trovare, ma si limitò a dire un paio di cose sull’importanza del saper cogliere le emozioni genuine trasmesse dalle canzoni, tagliando poi il discorso con atteggiamento un po’ stizzito, come colui che giustamente sta pensando: “…ragazzi miei, se non ci arrivate da soli ascoltando la mia musica, è proprio inutile che mi ci metta io a spiegarvelo…”.
Vi sembrerà strano, ma questa cosa vista alla tele mi ha fatto ripensare ad alcuni ragazzini delle medie o dei primi anni delle superiori ai quali ho dato qualche ripetizione di matematica. Di fronte ai passaggi più impervi presentati dalla materia, la domanda che scattava esattamente con precisione matematica era sempre la solita: “…Ma a cosa serve?...Cosa me ne faccio, un giorno che avrò un lavoro, che dovrò pensare ad una famiglia, cosa me ne faccio delle equazioni di secondo grado o del teorema di Ruffini?...”
E ripensando alle argomentazioni frammentarie che sul momento mi è venuto istintivo portare ai miei “allievi”, ho capito meglio lo spirito della risposta di Battisti ai giovani contestatori. Anche la mia reazione è sempre stata infatti epidermica ed emotiva: “…se non ci arrivi da solo, ogni motivazione che ti posso dare, sarà inutile…”. Ricordavo ad esempio come io, alla loro età, a scuola ero attratto proprio dalle materie ufficialmente bollate fra le più “inutili”: filosofia, latino, storia dell’arte. Non mi sono mai chiesto “a cosa serve?”.
Mi affascinava la sfida con il Pensiero di per sé, e anzi, forse gli unici momenti di disappunto e sconforto li provavo quelle volte che ero costretto ad ammettere la mia sconfitta intellettuale di fronte a battaglie con argomenti di studio troppo ardui. Mi dava fastidio invece questo “utilitarismo meschino” dimostrato dai ragazzi, e il fastidio ha sempre prevaricato la mia capacità del momento di argomentare meglio le mie ragioni.
Se però dovessi cercare di spiegare la faccenda, utilizzerei una similitudine informatica. Ciascuno di noi ha in dotazione un hardware, che è fatto di cervello e cuore, tanto per semplificare. Neuroni, sinapsi, capacità di emozionarsi e di sognare, sono patrimonio di ogni essere umano. D’accordo, c’è chi ha ancora un pentium 2, chi ha solo 512 di ram, ma bene o male ogni persona ha in sé talenti, piccoli ambiti di genialità, sprazzi di originalità, che possono essere espressi meglio proprio con le caratteristiche del “personal computer” insito nella sua personalità.
Che cosa sono allora il latino, le canzoni di Battisti, le equazioni, la critica della ragion pura e lo studio dei significati della cappella Sistina? Sono i software da installare sul nostro pc personale. La mente e il cuore seguono percorsi, meccanismi, modalità di fondo che sono familiari al pensare e al sentire di ogni uomo.
Nel latino, nelle canzoni di Battisti, nelle equazioni, nella critica della ragion pura e nello studio dei significati della cappella Sistina, questi percorsi li possiamo trovare. E una volta installati correttamente in noi, sono sempre lì a disposizione del nostro cervello e del nostro cuore: potranno caricare ed elaborare ogni tipo di “file”, dai problemi lavorativi alle gioie e alle difficoltà familiari, fino alle più vaste tematiche di carattere sociale e politico.
Per questo “I giardini di marzo” è ancora oggi un software sul quale il linguaggio binario di tanti cuori e di tante menti può ancora trovare percorsi interessantissimi, mentre “Contessa” di Paolo Pietrangeli (brano portato dai ragazzi sessantottini come esempio di canzone “impegnata”) è ormai solo un “file” di testimonianza di un’epoca o poco più.

giovedì 2 ottobre 2008

Sono un fallito coi fiocchi

(Foto di Gillipixel)

Sono belli e strani quei libri che risuonano di altri libri. Quei libri che parlano con devozione di altri libri. Che esprimono l'affetto che non si può non provare per loro illustri consimili. Quando li leggi ti sembra di passare da una stanza all'altra di un edificio che non finisce mai di riservarti sorprese e promesse di bellezza a venire. Tutto sommato, credo che il motivo ultimo e più importante del mio amore per i libri stia nel fatto che riescono sempre a farmi stare bene. D'accordo, c'è pure il divertimento, il passatempo, la sete di conoscenza.
Anche una punta di snobismo, ce la posso mettere. Oppure ancora le mille opportunità che la lettura offre di difendersi dalla timidezza provata verso la vita cosiddetta reale. Ma alla fine, anche se la frase è alquanto ritrita, la cosa che conta penso sia questa: leggere è un linimento per l'anima. Ricordo di aver sentito una frase di Giulio Andreotti a riguardo. Diceva di non aver mai passato in tutte le sue giornate guai o problemi così grandi da non poter essere accantonati per un po' con la lettura serale di qualche buona pagina. E se lo dice lui, c'è da crederci. Ecco allora, se un bel libro è tutta questa roba, i bei libri che
parlano di altri bei libri sono "il sabato del villaggio" del lettore.
Ti dicono che la lettura non si fermerà all'ultima pagina di quello scritto che hai in mano, ma è invece tutta una catena esalante di bellezza, un riverbero di emozioni che si mettono in risonanza vicendevolmente, un pregustare nuovi attimi futuri di armonia con il tutto, che scaturiranno ancora una volta con inspiegato stupore dall'apparente banalità di pochi sghiribizzi neri segnati sulla pagina.
L'ultimo bel libro che parla di altri libri nel quale sono piacevolmente incappato è "Leggere Lolita a Teheran", di Azar Nafisi (già citato qui qualche giorno fa). A dire il vero, non ne ho ancora terminato la lettura e intorno a pagina 100 mi era pure venuta una mezza voglia di abbandonarlo. Ultimamente ho lasciato a metà la lettura di troppi libri. E' vero che questa è una prerogativa leggittima del lettore, come afferma Daniel Pennac. Ma quando ti succede, e con una certa frequenza per di più, ti rimane sempre in bocca un gusto spiacevole. A volte non è tanto la scarsa qualità del libro a far decidere per l'abbandono.
E' più la mancanza di pazienza del lettore, la sua poca attitudine del momento a prestare ascolto nel modo dovuto alla voce narrante. E per fortuna, devo dire, che stavolta ho tenuto duro con il libro di Anazar Nafisi. Mi sarei perso ad esempio il godimento estetico procurato dal seguente passo, che deflagra di intensità narrativa sulla "...definizione [...] che Lambert Strether, il protagonista degli Ambasciatori di James, usa per descrivere se stesso alla sua amica del cuore, Maria Gostrey: "Io sono un fallito coi fiocchi." [...] e vuoi sapere lei come risponde? "Grazie al cielo. Per questo la stimo tanto! Qualunque altra cosa al giorno d'oggi sarebbe orribile. Si guardi attorno, guardi la gente di successo. Vorrebbe essere uno di loro, onestamente? Del resto", continuò, "guardi me". Per un attimo i loro occhi si incontrarono. "Capisco", rispose Strether. "Anche lei si tiene fuori". "
"La superiorità che lei scorge in me" convenne Miss Gotrey "annuncia la mia futilità. Se sapesse," sospirò "i sogni di gioventù! Ma sono le nostre realtà ad averci avvicinato. Siamo compagni d'arme sconfitti".
Un giorno [...] scriverò un saggio intitolato Falliti coi fiocchi. Parlerò dell'importanza di figure femminili nella letteratura, soprattutto moderna. Penso a questo tipo di personaggio come a qualcosa di vicino alla tragedia - che a volte tende al comico, a volte al patetico, oppure entrambi. Mi verrebbe in mente Don Chisciotte, ma il personaggio al quale penso è più moderno, e soprattutto è figlio di un'epoca ambigua, dove la sconfitta a suo modo è un successo. Vediamo, Pnin* è calzante e anche Herzog**, e forse Gatsby***, ma forse no - dopotutto, lui la sconfitta non la sceglie. Parecchi tra i personaggi preferiti di James e Bellow rientrano in questa categoria. Sono persone che scelgono consapevolmente la sconfitta, pur di conservare la propria integrità. Sono elitari, non semplici snob; hanno punti di riferimento molto alti. James, credo, si sentiva uno di loro, per via dei suoi romanzi che la gente non capiva, e per la tenacia con cui insisteva a scrivere nel modo che secondo lui era quello giusto..."
...

Cosa aggiungere di più? Solamente che forse l'avevo sempre intuito, ma fino ad ora non potevo dichiararlo a chiare lettere, ed adesso, grazie ad Henry James e ad Azar Nafisi, me lo posso dire in faccia con gran soddisfazione: io sono un fallito coi fiocchi!

* = "Pnin", Vladimir Nabokov (1957)
** = "Herzog", Saul Bellow (1964)
*** = "The great Gatsby", Francis Scott Fitzgerald (1925)