martedì 27 aprile 2010

“Veeengo…” a prenderti stasera, sulla mia Torpedo blu


Qualcuno mi sa spiegare come mai, in tanti spot di automobili, serpeggia spesso in sottofondo una voce di maschiaccio viriloide iper-testosteronizzato, che risalendo praticamente dal sottosuolo all’ultra-sensuale frequenza di circa 4 o 5 herz, magnifica le strabilianti doti del mezzo pubblicizzato con tonalità ed espressioni simili a quelle solitamente riferibili ad un individuo che, con estremo rispetto parlando, sembra quasi lì lì per venire?
Per quale insondabile motivazione recondita una cosa del genere dovrebbe farmi venir voglia di comprarmi un’auto?
Con ancor più rispetto parlando, sinceramente a me la cosa lascia alquanto perplesso, per non dire che mi fa approssimativamente schifo. Non fraintendetemi però, non è mia intenzione impiantare qui chissà quale crociata moralizzatrice.
Non è questo il punto del mio disappunto.
L’obiezione che sollevo è riferita invece a due ordini di considerazioni che vado di seguito ad illustrare.
In prima istanza, mi dà da pensare, e non poco, il fatto che un tizio che mi vuole vendere un’auto me la decanti come se mi stesse aprendo le porte del paradiso. Ecchè minchia sarà mai? Si tratta pur sempre di una scatola di lamiera che consente spostamenti da un punto A ad un punto B, possibilmente con la disponibilità del ritorno da B ad A, in tutta sicurezza e comfort.
Tutto il resto è noia e non venirmela a menare più di tanto, amico! Vola basso e schiva il sasso! Stattene calmo e vai sereno: se mi serve il tuo catorcio, e se c’ho i soldi, me compro. Diversamente, non venirtene per favore in casa mia a sbavare come un segugio in calore per smollarmi l’affarone: per me puoi anche godere dieci volte di fila fino a stramazzare sull’asfalto ripentendo il mantra della tua marca estasiante, che non me ne potrebbe fregare di meno.
E’ proprio vero: quella di “consumatore”, specialmente se aggravata dalla sua condizione di spettatore televisivo, è forse la dimensione sociale più bistrattata in generale. Non esiste, nell’immaginario comune un “boccalone” più esagerato, un secchiaio di frottole più vorace e capiente. Al consumatore puoi raccontare di tutto, che gli asini hanno le ali e che le auto fanno godere.

«…Va beh…» dice, «…però se fosse la voce di una donna proposta con le medesime modalità, non avresti tutte queste fisime…».
Accettando in parte l’obiezione, la rintuzzo esponendo la seconda delle due parti in cui si dipana la mia annotazione.
Ma come, siamo tutti immersi, e sacrosantamente, in un daffare tremendo per far sì che ubriachi e gente strafatta non si metta al volante, e dopo tutta questa fatica, andiamo ora a sostituire una massa di autisti etilici e sniffo-impasticcati con un’altrettanto malsicura schiera di guidatori dal bacino tremulo?
E no, scusate un po’, cari spacciatori d’auto, questa proprio non la capisco. Lo vedete anche voi com’è difficile cacciar giù dal posto guida lo sbevazzone incallito e l’amante dei paradisi artificiali. E non facciamo in tempo a liberarci di quei tizi poco raccomandabili, che subito mi volete sbattere sul sedile un accecato d’orgasmo, un pro-veniente dal tunnel piaceri, un pelvi-vibrante col piede malfermo sulla frizione. Ma che logica c’è in tutto questo?

Allora siamo d’accordo, vecchio rigattiere di ferraglia motorizzata: la prossima volta che mi vuoi rifilare un’auto, per favore, stai a busto bello dritto, schiarisciti la voce, parla chiaro, ma soprattutto lavati le mani!
Altrimenti, nel nome supremo del sergente Hartman, mi sentirò autorizzato a sbraitarti in faccia:
«…Ma Cristo d’un Dio…Palla di Lardo…ma cosa fai, stai venendo?...».



venerdì 23 aprile 2010

Grande Capo quattro dardi


Quante frecce avrà scagliato il glorioso «Popolo degli uomini» pellirosse nello strenuo tentativo di salvare l’onore e la purezza della propria civiltà?
Al retorico interrogativo vien da pensare, per contrapposizione, non appena si consideri come invece il nostro senso civico si svenda spesso per un numero di dardi ben più esiguo.
Quattro frecce, per la precisione.
Le quattro frecce sono divenute la pietra filosofale dell’automobilista insubordinato, la panacea che tramuta in gesto dorato qualsiasi genere di stronzata “guidatoria”.
C’è la ZTL super esclusiva per sole auto “EURO 27”, che invece di benzene e CO2, è richiesto emettano dalla marmitta essenza di mughetto con leggere nuance in sottofondo alla violetta nana del Panshir?
Chi se ne frega: attacco le quattro frecce, ed entro anche con la Fiat Duna “AFRO meno 10” di mio nonno, carburatore riadattato per l’iniezione nei cilindri di uranio impoverito.
Squilla il cellulare sulla via verso il Supremo Centro Commerciale, per una fondamentale comunicazione della moglie che deve avvisare di non prendere le mozzarelle “Vaccarèll”, poco adatte per la pizza, bensì di optare per le “Bufalòn”, molto più filanti per la più alta percentuale di latte di Yak tibetano, munto nelle notti di luna piena con Saturno nei Pesci e quella vacca che se li porta?
Nessun problema: metti le quattro frecce sullo svincolo d’ingresso alla tangenziale, in curva, e puoi fermarti comodamente a rispondere.

E’ stato nello smarrimento causato da queste surreali considerazioni che io proprio io, l’individuo forse più allergico e distante dai concetti di “moda”, “voga” o “tendenza” (chi lo ha mai capito poi dove siano mai dirette queste “tendenze”?...l’unica “tendenza” che talvolta concepisco è quella della direzione verso cui, in certe situazioni ed in certi ambienti, si possa finalmente mandare tutti affanculo…ma questo è un altro discorso…), è stato dunque meditando su queste tematiche fondamentali, che io proprio io mi sono ricordato del mio amico Analfa, lo stilista che si firma con una “X”, sottoponendo a lui la questione.

Ed il genio onirico di Analfa non ha deluso nemmeno stavolta, sfornando una sfavillante creazione che sa cogliere in pieno il nesso della problematica: il nuovissimo modello di “giacca poker”.

Si tratta di una riproposizione del classico vessillo della borghesia novecentesca, la giacca appunto come tutti noi normalmente la conosciamo, integrata tuttavia dal tocco talentuoso di Analfa: quattro frecce d’automobile, applicate ciascuna su ogni spalla e polsino, con apposito impianto elettrico per il regolare lampeggiamento.
La “giacca poker” è l’ideale per l’amministratore delegato che deve operare un delicato riassetto aziendale finalizzato alla rilancio finanziario del pacchetto d’azioni societario: si presenta al consiglio dei soci, accende le quattro frecce dalla giacca, e con tre firme licenzia qualche centinaia di dipendenti, facendo impennare il titolo in borsa (*).
Anche l’annoso problema della penuria di servizi igienici pubblici, aggravato in maniera esponenziale dopo la soppressione dei vespasiani, è brillantemente risolto dalla “giacca poker”. L’impellenza urge, la capienza tracima, la reggenza vacilla? Quattro frecce e…aaahhh, liberi di liberarsi ovunque e quantunque.

Cosa aspetti dunque «uomo del mio tempo»? D’accordo, tu «sei ancora quello della pietra e della fionda», ma non esitare un attimo di più: corri nei grandi magazzini Analfa ed assicurati subito un modello di “giacca poker” nuovo di fiamma. Perché ricorda sempre: Analfa ci tira sopra una croce!

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(*) = espressioni para-economicistiche del tutto sparate a caso



martedì 20 aprile 2010

Ma poi la banda passò…


Essendo cresciuto con una determinata “climatizzazione estetica” diffusa nell’aria che respiravo (anni 70-80 e dintorni), è stato forse inevitabile che in me si sviluppasse la “sindrome dell’occasione mancata”.
Tanto per cominciare, vi fornisco un dato che di per sé già basterebbe ed avanzerebbe ad introdurre i dati fondamentali a sostegno di tutta la mia tesi.
Ricordo un’infausta mattinata delle tante mie trascorse provando a diventare grande fra le care e vecchie quattro mura delle scuole elementari, durante la quale io ed i miei imberbi compagnucci venimmo sadicamente sottoposti ad uno dei più perversi “trattamenti culturali” immaginabili per dei bambini fino ad allora ancora fiduciosi del futuro e delle sue indistinte promesse: la visione del film «L’albero di Natale».

Se avete avuto la pazienza di dare un’occhiata alla trama, non serve aggiungere altro…

Il fatto è che a quei tempi, anche l’ultimo straccio di “creativo” che si accingesse a metter mano ad una storia, sentiva dentro sé una sorta di imperativo morale narrante, che gli imponeva di farla finire male.
Oh…per carità: ne sono scaturiti anche capolavori impagabili, tipo «Un uomo da marciapiede», «Qualcuno volò sul nido del cuculo», «Il cacciatore», «L’ultima corvè».
Ma una volta letta siffatta sequela, chi di voi non concorda sul pan-pessimismo assolutizzante di quel periodo, alzi pure la mano. Sempre ammesso che ne abbia ancora una libera da gestualità apotropaiche e toccatine varie allungate in vari punti corporali strategici.
Anche i fumetti ci si mettevano. Sia che trattassero atmosfere ironiche, sia che esulassero da contenuti faceti, erano per lo più impostati secondo lo spirito del “niente vie di scampo”.
Due esempi per tutti.
Per il reparto “ridanciano”, cito il grande Alan Ford, tra le altre cose un vero e proprio inno alla irrealizzabilità di ogni desiderio.
Per il reparto “serioso” invece, riporto un personaggio minore che solo gli incalliti lettori dell’«Intrepido» ricorderanno, nel cui nome era già contenuto tutto un gioioso programma: Sorrow. Un investigatore privato che già non fosse stato sufficiente il nome, per soprammercato si presentava con le giulive sembianze di un Humphrey Bogart costantemente allietato da uno sguardo luttuoso.
E potrei infierire di questo passo, annoverando ancora «Doctor Who», «Spazio 1999», «Capitan Harlock», «Il prigioniero», «La baronessa di Carini», il Pinocchio di Comencini, Demis Roussos, il Comandante Straker e le impiegate lunari dai capelli viola di «U.F.O.», la 127 Rustica, i Santo California, «Il prigioniero», «Belfagor», «Ritratto di donna velata», oppure il «Dolce Remì» (e pensate un po’ se lo facevano amaro).
Per i più increduli che non hanno vissuto in prima persona quel “clima spensierato” (e magari a questo punto staranno pensando: «…Öööh…ma che esagerato!... »), riporto un breve stralcio delle vicende di Remì, ripreso da wikipedia, solo un rapido riassunto dell’inizio trama:
«…Il padre [di Remì] lavora come muratore a Parigi e manda i pochi soldi che guadagna alla moglie in paese, ma un brutto giorno si infortuna cadendo da un'impalcatura, rimanendo invalido al lavoro. Fa causa al padrone del cantiere spendendo tutti i soldi della famiglia nel processo, ma la perde: la famiglia è completamente rovinata ed è costretta a vendere l'unica mucca per ripagare i debiti…»
Ecco: e poi sono io che esagero…no…roba che solo a sentirne parlare, niente niente ad uno gli vien voglia di volare di filato a Casablanca a farsi trapiantare un terzo coglione per aver più superficie scaramantica da toccare!

Capite dunque bene che dopo una cura formativa del genere, una povera mente in via di consolidamento non poteva venirne fuori con un animo propriamente speranzoso. Era già un risultato buono se si convinceva che la vita è tutta una sequenza di occasioni perdute. E gli andava ancora di lusso.
Ed è un po’ in questo modo che credo di esserne uscito io
Tanto che a volte, fra le pieghe del tempo che cammina, mi pare addirittura che tutto ciò sia quasi passato lievemente in second’ordine. Ma poi succedono piccoli episodi che mi fanno da pro-memoria rispetto alle mie radici affondate in quel lontano e sfiducioso humus estetico-educativo.

Come la deliziosa debacle fotografica che pochi giorni orsono ho dovuto mandar giù senza masticare.
Il fatterello ha avuto luogo sull’argine di Gillipixiland. E’ stato lo scorso lunedì dell’Angelo. Approfittando di una delle poche giornate assolate ed un po’ tiepide dopo eoni di gelo e cieli scorbutici come l’umore di Martin Scortese (cit. radiofonica da «Sei Uno Zero», con Lillo e Greg), ho inforcato la fidata Gillibike e imbracciando la macchina fotografica, mi sono inoltrato alla volta delle plaghe naturalistiche del circondario (va beh: fra quei quattro campi spelacchiati…).
Si stava bene, la brezza soffiava alle spalle e pedalavo contento, con l’mp3 che mi ispirava direttamente nei timpani l’inquadratura più bella, lo scorcio di verde più smeraldino, l’infilata di pioppi più scapigliati dal vento, il reticolo di canali irrigui più mondrianeggiante (nel senso di Piet Mondrian).
Avevo già messo nel carniere una decina di scatti succulenti, quando, per la barba di Sardanapalo, incappo in un fastidioso imprevisto: smeeeooowww...batterie a terra, macchina fotografica knock out.
Poco male, penso. Il paesaggio me lo gusto uguale e poi è più appassionante così: lasciare che la bellezza viva per quei pochi attimi, nella fuggevole essenza che le è propria, senza l’illusoria pretesa di volerla fermare in fotogrammi ingannevoli nella loro staticità iniqua e falsificatoria.
Insomma, lo sapete anche voi: un po’ tutte quelle balle che ci si auto-racconta per parare i colpi della sfiga, cercando di illudere se stessi che si tratti invece di inverosimili botte di culo travestite male.
Ma non avevo fatto in tempo a pedalare ancora un paio di kilometri, beandomi della mia innocenza iconoclasta riconquistata, quando con implacabile puntualità la “bilancia degli eventi” ha pensato bene di spingere nuovamente bene a fondo uno dei suoi piatti, assumendo le sembianze di un elegantissimo falchetto che volteggiava ad ali spiegate pochi metri sopra la mia testa.
Nella mia fedele borsinina a tracolla, ho potuto a quel punto sentire il teleobiettivo che ululava con dolore neorealista e la macchina fotografica che schiumava pixel di rabbia, nella sua impotenza energetica momentanea. Non ci potrei giurare, ma mi è persino parso che il falchetto, accomiatandosi da me con una planata di classe che lo portava al largo, verso una delle tante anse del fiume, si attardasse un attimo ripiegando la punta di un’ala sulla metà dell’altra, in quello che doveva essere un garbato piccolo gesto dell’ombrello forse in uso negli ambienti ornitologici più raffinati.
A quel punto non mi è rimasto altro che girare la bici ed avviarmi col teleobiettivo fra le gambe verso casa, “feeling the Seventy pool”. Ritrovandomi poi a sbuffare sui pedali con un gagliardo vento contrario che sembrava sussurrarmi all’orecchio: «…Gli anni ’70 sono come gli esami: non finiscono mai!...».

Cosa dire ancora per concludere, cari amici viandanti per pensieri?
Solo un’ultima, lieve considerazione.
Sull’onda della celeberrima frase di Albert Camus, «Se il mondo fosse chiaro, l'arte non esisterebbe», molto più modestamente io vi saluto constatando con “buffarda” leggerezza, che «Se la vita avesse un senso logico, non esisterebbero i tifosi di calcio».
Parola di interista pre-bersellinita (*).

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(*) = rara tipologia di interista che non riconosce nessuna formazione dell’Inter posteriore a quella allenata da Eugenio Borsellini, vincitrice del campionato 1979-80:
Bordon, Baresi, Oriali, Pasinato, Mozzini, Bini, Caso, Marini, Altobelli, Beccalossi, Muraro. Riserve: Ambu, Canuti, Cipollini, Occhipinti, Pancheri.



sabato 17 aprile 2010

Petali di cenere


Oggi la cenere della Terra del Ghiaccio aleggiava sopra noi.
Niente avrebbe dovuto volare, ma i petali del cigliegione si sono sparsi per tutto il giardino, come una nevicata fuori stagione di piccoli fiocchi in vellutino bianco.
Sarà stato per la concomitanza di questi eventi, che mi è capitato di leggere una cosa del genere, in una giornata così:

«...Ma il quoziente di dolore di un individuo non è già abbastanza terribile senza amplificazioni romanzesche, senza dare alle cose un'intensità che nella vita è effimera e certe volte addidirittura invisibile?
Non per tutti.
Per poche, pochissime persone quest'amplificazione, uscendo e sviluppandosi in modo incerto dal nulla, costituisce la loro unica sicurezza, e il non vissuto, la supposizione, impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più...».

Il fantasma esce di scena” – Philip Roth, 2007


venerdì 16 aprile 2010

Raimondo e le rose rosse


L’arte e la vita appartengono a due dimensioni diverse?
Datemi pure del fesso idealista o del miope ignorante, ma io sostengo di sì: arte e vita sono due faccende molto diverse.
Questo significa forse che l’arte non parla della vita?
Ma nemmeno per sogno. Probabilmente nessun’altra forma dell’espressività umana sa parlare della vita più intensamente e più appassionatamente di quanto non sappia fare l’arte.
Non c’è dunque contraddizione in tutto questo?
Assolutamente sì, ed è così che “deve” essere!
Ci dobbiamo allora arrendere di fronte all’illogicità della cosa?
Niente affatto: quanto sopra dimostra solamente che se non si è pronti ad accettare tale incoerenza essenziale, si può rinunciare fin da subito a comprendere il senso dell’arte (e forse anche della vita stessa…).

L’arte può esprimere al meglio tutte le sue potenzialità di indagine circa i “meccanismi esistenziali”, solo a patto di depurarsi fin da subito dalle componenti più “realistiche” della vita vissuta.
Vi sto forse prendendo per il culo?
Idem come sopra: ma neanche per idea!
L’arte introduce ad una dimensione che sta a metà strada fra le atmosfere del gioco ed una certa “sacralità profana”, non scevra tuttavia da possibilità di sfociare in talune sfumature pertinenti ad una religiosità tutta propria. L’arte consiste in uno “stato di sospensione del vero” innescato nel tentativo di cogliere il nucleo più intimo della “Paradossalità”, e vive di sue regole autonome.
La pretesa di far rientrare fra i territori artistici la vita reale “dura e pura”, quella “effettiva” (della quale la politica è somma espressione), risulta altrettanto ideologicamente stonato quanto l’insano gesto di quegli ultras che tradiscono l’aggressività sublimata e ritualizzata attraverso l’agonismo calcistico, tramutandola in mazzate concrete.

Per tutti questi illogici e disordinati motivi, venire a sapere di un commento (*) simile riguardo la scomparsa di Raimondo Vianello: "Un altro grande marchettaro di Silvio che se ne va, dopo il buon Mike", mi ha arrecato la stessa tristezza cagionata da quel sindaco veneto leghista (**), che ha emesso l’ordinanza di far togliere le rose rosse dalle aiuole del suo paese, perché non in sintonia con lo speranzoso colore ufficiale del proprio partito.

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(*) = Del commento, che si trovava sul blog di Attila, ho saputo dal blog di Yoss

(*) (*) = Della notizia del genio legaiolo ho saputo sul blog di Galatea



mercoledì 14 aprile 2010

Per una vertebra l’odalisca perse la cappa


L’altro giorno, mi gustavo l’immersione nella lettura di uno degli ultimi romanzi di Philip Roth, quando sono stato stuzzicato da un’ideuzza oziosa. Così mi sono detto: perché non allietare ancora una volta i miei cari amici viandanti per pensieri con uno sfavillante sproloquio nuovo di trinca? (e poi dite che non sono un amico…).
Il romanzo in questione non è esattamente l’ultimissimo di Philip Roth. Si tratta invece di «Il fantasma esce di scena» («Exit ghost»), del 2007. Lo preciso, perché quando hai a che fare con Philip Roth, si può prendere in prestito a pieno titolo la famigerata battuta di Beppe Grillo sui computer e i dispositivi elettronici in generale.
Entri dal rivenditore iper specializzato e puoi fare di tutto per accaparrarti l’ultimissimo tipo di pc, con tutta la RAM che si può, Pentium a rotta di collo, Intel inside e outside, Centrino duo, trio e persino all’uncinetto, ma stai sicuro che puntualmente, appena messo fuori il piede dal negozio, trovi il tuo più caro amico che, data un’occhiata furtiva allo scatolone che stai reggendo, ti fa: «…Ah…hai preso il modello vecchio...».
Una cosa simile potrebbe succederti con Philip Roth.
Dopo il romanzo che sto leggendo io, ne avrà già scritti altri tre o quattro. Sembra una cosa buffa, a dirsi, quasi vi stessi parlando di un ordinario best-selleraro, uso a sfornare romanzetti d’appendice dalle ampie vendite ma dalle scarse vedute.
Invece la verità è che Philip Roth non sbaglia un colpo. Ogni volta si produce in un’opera complessa, densa di nuove fulgide illuminazioni proiettate sugli strambi meccanismi interni di questo bizzarro veicolo a bordo del quale ciascuno di noi è stato costretto a salire, venendo in seguito incidentalmente a sapere che si chiamava vita.

Ma qui si cincischia, qui si bastona il can per l’aia.
Veniamo al dunque, che sarà meglio.
Vi dicevo della mia micro-ideonzola scaturita leggendo «Il fantasma esce di scena». Protagonista della storia è lo scrittore Nathan Zuckerman, alter-ego romanzesco dello stesso Roth, che utilizza questo personaggio, suo parallelo di fantasia, per poter parlare in realtà di sé medesimo. Il nostro è già comparso come protagonista in altri 5 romanzi (Lo scrittore fantasma - The Ghost Writer, 1979; Zuckerman scatenato - Zuckerman Unbound, 1981; La lezione di anatomia - The Anatomy Lesson, 1983 - L'orgia di Praga - The Prague Orgy, 1985; La controvita - The Counterlife, 1986), e come voce narrante in altri 3 (Pastorale americana - American Pastoral, 1997; Ho sposato un comunista - I Married a Communist, 1998; La macchia umana - The Human Stain, 2000).
Gli ultimi tre li ho letti tutti, e sono eccezionali; dei primi invece me ne manca qualcuno, ma quel che conta è che ad un certo punto mi è venuto da chiedermi: siccome questi romanzi compongono alla fine dei conti un’unica storia articolata, possibile che lungo tutta questa trama disseminata nel corso degli anni, non ci si possa trovare mai un’incongruenza?
Non era scetticismo verso Philip Roth. Su di lui vado in fiducia, le sue trame risultano talmente “scolpite” da un punto di vista narrativo, e precise, da darmi praticamente la certezza che l’eventualità di elementi discordanti nelle vicende di Zuckerman sia pressoché nulla. Si trattava piuttosto di una considerazione generale, riguardo la struttura di una creazione artistica intesa in senso universale.

Il fondamentale dubbio esistenziale mi ha tuttavia tenuto in sospeso esattamente 5 secondi virgola 3. Perché al quarto decimo di secondo immediatamente successivo, mi è venuta in mente «La grande odalisca» di Ingres, la quale mi ha altresì invitato a pensare che se mai qualcuno si fosse preso la briga di appurare la coerenza di fatti, date e luoghi immaginati lungo tutta la “saga Zuckerman”, sarebbe stato di certo uno che aveva ancor più tempo da perdere di me.
Che minchia c’entra «La grande odalisca»?


C’entra per quello che a proposito del celeberrimo dipinto sentii dire una volta da qualche parte (il rigore delle fonti innanzitutto!...), ossia che il buon Jean-Auguste-Dominique Ingres, con quel maestoso ignudo tronco, intendeva esprimere un certo “concetto formale” e se ne sbatté persino dell’anatomia umana pur di dar vita a quel gran pezzo di curva parabolica femminile, così come l’aveva pensata lui. Ad un occhio esperto di “viti e bulloni” anatomici, non sfugge infatti che se la statuaria ragazzona, anziché di olio su tela fosse stata fatta di carne ed ossa, avrebbe dovuto avere una, o due, o forse anche più vertebre supplementari.

Quello che voglio sottolineare insomma sarebbe questo: l’arte vive di una sua coerenza autonoma, che il più delle volte sarà in accordo con la sensatezza del mondo. Ma molte altre volte potrà forzare la logicità reale per ragioni estetiche sue interne, senza che questo possa sminuire le virtù artistiche di un’opera.

E alla fine, cari amici viandanti per pensieri, vi domanderete: ma perché è venuto a raccontarci queste balle? Di preciso non ve lo so dire. Forse solo per il fatto che quando me ne sto a letto semisonnolento, post-prandiale e pre-pennichelloso, esaltandomi per qualche meditazione scaturita dalle pagine di un libro, quei momenti mi sembrano così belli che mi piacerebbe foste tutti lì insieme a me.
Come dite? Nel mio letto non ci staremmo tutti insieme?
E chi se ne frega: se Ingres poteva fare una schiena con tante vertebre quante gliene suggeriva lo sghiribizzo del momento, io non posso dare una festa nel mio letto invitando tutta la gente che mi pare?



domenica 11 aprile 2010

Arrivederci, blu cielo


Cari amici viandanti per pensieri, non sono passati che pochi giorni da quando, rifacendomi a Vilfredo Pareto, alludevo alla “non logicità” di fondo delle umane scelte di vita, pur ammantate dalla rigorosa logica apparente messa in scena dalle nostre prerogative linguistiche, le cui radici a loro volta perfettamente affondano nel magmatico materiale emotivo primigenio costitutivo dei meccanismi più intimi del pensare, laddove questi si pongono a metà strada fra semantica e significazione, che in qual novello prodigio non mi vado ad imbattere?

Niente meno che in una concatenazione di “epifanie del lettore” trasversali, infiorettate con una sequela di stupefacenti puntualità.
Vi avevo già aizzato contro gravi minacce letterarie, annunciando la mia intrapresa della lettura della «Recherche», con tanto di brevi “appunti epifanici” riportati su di un “buffardo” quadernetto, quando ecco affacciarsi puntuale un passaggio di Proust che, agganciandosi per l’appunto alle mie distorte suggestioni “Vilfred-paretiane”, reca concretezza ai vostri più intensi timori di scassamento letterale di minchia, attingibile su queste frequenze blogghesche.

Cosa non architetta, cosa non dissimula, cosa non lambicca il nostro dissertare più sotterraneo, per far sì che ad un livello consapevole non ci ritroviamo costretti ad accondiscendere a quegli aspetti della realtà che meno ci vanno a genio?
E tutto questo, come lo costruisce se non con la furtiva complicità del linguaggio, nostro immancabile sodale nel continuo sforzo interiore col quale siamo sempre intenti all’autogiustificazione, alla chiarificazione di sé con noi stessi, alla quadratura del cerchio esistenziale che invece sempre si ostina a digrignarci in faccia nuovi spigoli sbucati fuori a tradimento da ogni imprevedibile “chissà dove”?

«…Ogni volta che [la prozia] vedeva negli altri un bene, per piccolo che fosse, che lei non aveva, persuadeva se stessa che non era un bene, ma un male, e li compiangeva per non averli a invidiare…».

[Da “La strada di Swann” (“Combray”) – Marcel Proust, 1913 - (Trad. di Natalia Ginzburg)]

Ma vale poi la pena darsi tanta pena circa questo tratto che è costitutivo dell’umana essenza? Non c’è logica sostanziale dentro di noi perché alla fine è il mondo stesso a non possederne. Nonostante questo, rimane importantissimo che ciascuno si sforzi di affidarsi alla razionalità più lucida possibile, pena lo smarrimento nel caos, ma al contempo non dobbiamo rimanere spiazzati quando l’illogicità sostanziale nella quale siamo immersi come nostro connaturato liquido amniotico perpetuo, torna a riaffermarsi in tutto il suo fulgore disorientante:

«…le strade migliori non collegano mai niente con nient’altro e c’è sempre un’altra strada che ti ci porta più in fretta…».

[Da “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” – Robert M. Pirsig, 1974]

E alla fine è infatti spesso un elemento del tutto illogico del vivere che ridona ad esso un qualche senso, un fattore vitalistico legato più alla fisicità che non ad aspetti dettati da un ragionare ponderato e giustificato:

«…non grazie alle mie particolari capacità mentali, ma grazie ad una sorta di ristrutturazione fisica, la vita sembrava di nuovo senza limiti. Certo, questa è una cosa sbagliata da fare, una cosa da pazzi, ma se è così, pensavo, qual è la cosa giusta, la cosa ragionevole, e io chi sono per poter dire di aver sempre saputo cosa fare? Ho fatto ciò che ho fatto: ecco tutto quello che uno sa quando si volta indietro. Ho affrontato la prova che mi toccava obbedendo all’ispirazione e all’inettitudine che erano mie – l’ispirazione era l’inettitudine…».

[Da “Il fantasma esce di scena” – Philip Roth, 2007]



mercoledì 7 aprile 2010

I Queen e la teoria dell’azione non logica


Stamattina, guidavo alla volta della città tentacolare (va beh, “ragnetticolare”, via…), quando, tra un «…Dìu c’at végna ‘n càncar!!!...» metaforicamente inveito verso un automobilista molesto ed un «…Vàh a dà via’l cül tè e c’la vàca‘d tù ma’!!!...» allegoricamente consigliato ad un camionista spericolato, mi son messo a canticchiare «Good old fashioned lover boy» dei Queen:

«…I can dim the lights and sing you songs full of sad things
We can do the tango just for two
I can serenade and gently play on your heart strings
Be your valentino just for you…
Ooohhh boy, ooohhh lover boy, uàcci-nà-tü-nà éh bbbboy…».

Il grammelot anglo-padano l’ho inserito sul finir di citazione giusto per ricordarvi la mia familiarità non particolarmente spiccata con la lingua di Her Majesty (e che “God” la mantenga sempre “save”…).
Se sento una canzone in inglese, faccio fatica a coglierne il testo corretto per esteso. Di questa però, almeno la strofa in questione, la ricordavo abbastanza bene, per avervene già proposto il video qui, su questi lidi bloggherecci, qualche tempo fa, con tanto di testo annesso.
Tuttavia, nel canticchiar guidando, forse per il fatto di avere una discreta quantità di attenzione già spesa all’uopo di non finire nel fosso (…possibilmente), mi sono accorto che, con il rimasuglio di concentrazione che mi rimaneva, stavo intrecciando le varie frasi, tanto che me ne venivo fuori con sortite tipo:

«…I can dim the lights and gently play on your heart strings
Be your valentino full of sad things …».

Ma la cosa buffa è stata un’altra.
Pur storpiando l’ordine dei versi a livello conscio e pronunciato, mi rendevo conto di possedere la giusta sequenza nel retrobottega tacito della mia memoria.
Com’era possibile che stessi cantando per esteso stralci di canzone in ordine errato, e nel contempo riuscissi a dominare mentalmente la sua versione messa in fila nel modo giusto?
A rigor di logica, i rispettivi tempi necessari per trattare i due “materiali verbali” (quello effettivamente cantato e quello solo pensato), avrebbero dovuto sommarsi, rendendo tutta l’operazione piuttosto lunga e complicata. Invece stavo facendo le due operazioni, impiegando a tutti gli effetti praticamente il tempo necessario per eseguirne una sola di esse.

Ed è stato lì, cari amici viandanti per pensieri, che per vostra somma gioia ho rivangato una mia vecchia meditazione inaugurata ai tempi dell’università, quando mi cimentai con un esame di psicologia, pur esulando tal materia dal corso mio principale di studi. Ricordo che fra gli argomenti coi quali gli psicologi si stavano e si stanno ancora arrovellando (e non poco), c’erano e ci sono le modalità utilizzate dal nostro cervello per “elaborare” i propri dati. In particolare, si sprecano le ipotesi circa le procedure che nella nostra scatola cranica si metterebbero in moto nel momento in cui serve recuperare un certo “file”, dall’hard disk cerebrale.

Ora, non è che voglia spacciarvi il mio modesto meditare sulle note di una canzone, per questa grande scoperta scientifica de’ noantri. Ciò che volevo condividere con voi è invece semplicemente lo stupore di fronte a questa fantastica funzionalità a disposizione della nostra zucca.

In qualche parte della nostra operatività inconsapevole, ci deve essere un settore in cui il materiale mentale, e quello verbale in particolare, viene trattato a velocità supersonica.
Non solo.
In quella dimensione sotterranea del nostro districarci cerebrale, con tutta probabilità il materiale trattato deve anche essere impacchettato con una particolarissima “confezione espresso”, ed è forse proprio questa caratteristica che lo rende plasmabile a velocità così elevate.
In questo modo, si spiegherebbe come mai sono riuscito a cantare il testo dei Queen sbagliato e pensare contemporaneamente a quello corretto, senza sforzi supplementari eccessivi. Quello che stavo cantando era un testo tutto rimescolato, ma disteso come un tappeto persiano; quello rielaborato dietro il sipario, era invece lo stesso tappeto, più ordinato ma ancora tutto arrotolato.

La mia metafora del tappeto è solo un’immagine buttata lì, ma chissà se gli studiosi preposti riusciranno mai a definire le fattezze di questo “materiale mentale supersonico”. L’impresa è ardua per definizione, in quanto, essendo tale materiale inconscio, risulta difficilissimo poterlo delimitare ed osservare direttamente nelle sue caratteristiche “oggettive”.
Andando al di à anche del mio bislacco esempio canoro al volante, provate a pensare ad una circostanza molto ma molto più banale, ossia ogni volta che parliamo, che pronunciamo delle frasi.
E’ una situazione tanto banale e scontata che probabilmente pochi ci hanno mai pensato, ma se ci badate un attimo, converrete come la rapidità con cui le parole ci fluiscono alla bocca possegga un che di sbalorditivo.
Se non esistesse quello che ho chiamato “materiale mentale supersonico”, alias “in confezione espresso”, per ogni frase che siamo intenzionati a pronunziare, dovremmo spendere il doppio del tempo.
Una parte di tempo se ne andrebbe per srotolare ciascun “tappeto-parola-concetto” ed assicurarci di cosa la sua trama riporti istoriato sopra; solo nella seconda parte poi, egualmente lunga in quantità temporale, potremmo dire la nostra frase.
Invece, per ogni parola non ci serve dispiegare completamente il corrispettivo “tappeto” per sapere che è quello necessario al momento: ci basta un’occhiata mentale velocissima al rotolo ancora bello avvoltolato, per sapere all’istante che su di esso è intessuto il disegno giusto del significato che intendiamo esprimere.
Infatti, quando pronuncio una frase qualsiasi, tipo: «…il cane ha inseguito quel gatto rossiccio per 30 metri, poi il micio s’è girato di scatto e gli ha mollato un graffione sul muso…», l’impressione che ne ricavo io è che, se il tempo totale dell’operazione (pensare e dire tutto compreso) è quantificabile diciamo in un’ipotetica misura di 100, allora 97 o 98 se ne vanno per la parte parlata, mentre i restanti 2 o 3 servono per la ricerca delle parole nell’hard disk mentale.
Inoltre, la cosa che sorprende ancor di più, è che se pronuncio invece la frase: «…l’impostazione spazio-temporale del nostro vissuto fa sì che le alternative esistenziali si riducano ad un ventaglio di ipotesi dimensionalmente ben più esiguo di quanto non sia dato supporre di primo acchito …», l’impressione che di nuovo me ne deriva è che la rapidità di ricerca dei file verbali non sia molto dissimile rispetto al caso della precedente frasetta più terra terra. Certo, laddove un 98 era opposto ad un 2, qui magari la proporzione si aggiornerà ad un 94 contro 6, ma alla fine la distribuzione delle energie mentali non si discosterà di molto.
Tenendo sempre precisato che si tratta tutto di miei impressioni personali, per cui magari non è vero una cippa di niente, e continuando nel mio ipotetico ragionare, mi viene allora da dire che a far girare tutto il meccanismo del “materiale mentale supersonico” ci deve essere lo zampino di una qualche raffinatissima e multi-direzionata sinestesia.
In altre parole deve trattarsi di un settore della mente che lavora soprattutto servendosi di un “linguaggio sensoriale misto”, più che di strumenti propriamente logico-concettuali. Devono esserci dunque queste stanze, nella mente, che sanno manipolare il pensiero bypassando la fase analitica che setaccia punto per punto le parole, affidandosi invece pressoché esclusivamente a certe caratteristiche sintetiche abbinate alle parole. Così, ogni termine è riconosciuto quasi nel modo in cui si riconosce un oggetto al tatto, o un panorama alla vista, o un fiore all’olfatto, o un suono all’udito. Anzi, ogni termine è riconosciuto grazie ad una sommatoria articolata di questi estremi sensoriali diversi, in ragione di una considerazione sinestetica generale, per l’appunto.
In letteratura sono riportati casi di strabilianti fenomeni capaci di calcoli mentali complicatissimi. Da qualche parte lessi che questi stessi “calcolatori umani” spiegavano in qualche modo il loro incredibile talento ammettendo di trattare mentalmente i numeri facendo leva più su certi abbinamenti sensoriali complessi che non sulle effettive identità astratte di ciascuna cifra. In questo modo, per dire banalmente, il numero 1 ad esempio era visto come un’entità fredda, gialla e puntuta, il 3 piana, ruvida e scura, e così via, fino a creare tutto un microcosmo di “sensazioni numeriche” elaborabile con regole parallele a quelle più strettamente algebrico-matematiche.

Cosa aggiungere dunque ancora per concludere questa dissertazione-excursus linguistico-filosofico-sega-mentaleggiante?
Che a canticchiare i Queen, a volte, non solo c’è il piacere della musica, ma pure quello della conferma di care e vecchie convinzioni. Tipo quella che mi ha sempre fatto ritenere il linguaggio poggiato soprattutto sopra fondamenta sensoriali, ed i concetti, figli in primo luogo di genitori affettivi e nipoti di nonni emotivi.
E non mi sembra il caso, a questo punto, di scomodare il Vilfredo Pareto…
Oppure sì?

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Da Wikipedia (prosecuzione di lettura consigliata esclusivamente a chi ha le palle ormai catafratte…) :

«…Il punto di partenza di questa nuova sociologia che, secondo Pareto, né Auguste Comte né Herbert Spencer erano stati in grado di concepire, è che nella maggior parte dei casi, l'individuo sociale si comporta in maniera non logica, ovvero senza uno scopo apparente e, comunque, senza una chiara coscienza dello scopo perseguito.

Un marinaio dell'antica Grecia che, apprestandosi a navigare, sacrifica agli dei, compie un'azione in nulla adeguata, o utile, al suo scopo di navigare. E quando parliamo, non abbiamo nessuna coscienza esplicita delle competenze grammaticali che utilizziamo per raggiungere lo scopo di enunciare frasi ben formate.

Il problema è però che l'individuo sociale, pur agendo in modo non logico, cosa che lo accomuna alle specie animali, rispetto a queste ultime presenta la caratteristica di accompagnare i propri comportamenti con delle formulazioni verbali, la cui funzione è quella di fornire un motivo del comportamento stesso. Si muore in combattimento per qualcosa che chiamiamo patria, e allo stesso tempo si sottoscrive al motto che vuole che sia dolce e meritevole di lode il morire per la patria.

La sociologia scientifica dovrà allora spiegare quali sono le costanti del comportamento sociale non logico, e quali sono le caratteristiche e la funzione del discorso sociale.

Da questo nucleo di problemi nasce la sociologia di Pareto, costituita da quattro grandi contrafforti: la teoria dell'azione non logica, la teoria dei residui e delle derivazioni, la teoria delle élites, la teoria dell'equilibrio sociale.

Quanto alla teoria dell'azione non logica, oltre a ciò che si è già anticipato, si può aggiungere che essa costituisce una classificazione dei comportamenti sociali nei suoi aspetti percettivo-motori e linguistico-cognitivi. Un particolare interesse è rivolto verso i comportamenti linguistici. Per Pareto, il linguaggio in quanto competenza grammaticale è il tipo puro di azione non logica…».



lunedì 5 aprile 2010

Considerazioni fuor dalle mode sul tempo e le sue code

Arabeschi sottocoperta

In genere, sono un tipo abbastanza rassegnato riguardo allo scorrere del tempo.
Più che rassegnato, direi sereno. Meglio ancora: una sorta di oscillazione tra il rassegnato ed il sereno. O forse, né rassegnato, né sereno sono i termini adatti.
Diciamo che il più delle volte osservo il fenomeno dello scorrere del tempo con atteggiamento stupefatto, misto a punte di meraviglia.
Certo, non dico di essere esente dalla preoccupazione suprema che è propria di ogni essere umano, l’angoscia assoluta cagionata dal traguardo misterico posto a compimento di tutto il nostro percorso esistenziale, altrimenti noto con il poco simpatico nome di «emme-o-erre-ti-e».
Non potrei definirmi umano, se altrimenti fosse. Dopo Heidegger, con il suo «essere per la morte», sappiamo che tutto quanto è celato dietro quella parola, così poco simpatica da pronunciare nonché da pensare, lo possiamo in pratica considerare come il fine stesso del vivere.
Ma raramente mi sorprendo a considerare ad alta voce, come da tanti sento fare: «…Ah, se potessi avere quindici anni di meno…se potessi tornare indietro!...». Moti di potente nostalgia per epoche ormai sfumate della mia vita, mi colgono talvolta senza difesa alcuna, e di fronte ad essi mi sento completamente impotente, questo lo ammetto.

Prismatici vapori urbani

Ma attraversando ogni età trascorsa del mio vivere, e calandomi in ogni nuova che mi è dato di guadare, non mi sono mai sentito né mai mi sento fino in fondo di appartenere a nessuna di queste “epoche”, ed al contempo ho sempre capito e capisco che quello “era” ed “è” il momento da vivere propriamente nel periodo in cui mi veniva e mi viene dato.
La cosa, come si può arguire, è parecchio contraddittoria in me.
Perché da bambino non mi sono mai sentito fino in fondo tale, e nemmeno, divenuto adulto, la musica è cambiata di tanto. Sono stato di volta in volta un infante adulto, un bambino già saggio, e poi un ragazzo anziano, un giovanotto attempato, ed ancora un giovane uomo piuttosto infantile, ma difficilmente c’è stata sintonia fra il mio vivere effettivo spirituale ed i miei estremi anagrafici.
Più che altro, mi sono sempre sentito come il viaggiatore di questo buffo autobus cronologico costituito dal mio corpo e dalla mia mente, sempre più occupato dalla curiosità di sbirciare la varietà dei panorami scorrere lungo i finestrini, che non dal pensiero di capire nelle vicinanze di quale fermata mi trovassi nei diversi momenti.

Un crepuscolo dei miei

Il mio carissimo professore di storia dell’arte del liceo, una delle persone a cui debbo di più per quanto riguarda l’educazione estetica che mi ritrovo, una volta ci rivelò una sorta di sua fissazione riguardante la faccenda del dormire. Vero e proprio cultore di un vitalismo intenso, appassionato ma al tempo stesso equilibrato, paragonabile forse solo ad una certa visione della vita propria degli antichi etruschi, ci raccontò il suo cruccio a proposito del tempo che si spreca durante il sonno. Non che la cosa lo facesse impazzire, perché era pur sempre persona dalla notevole stabilità filosofica. Ma quel pacato e lieve tormento lo faceva meditare. Il tempo del sonno lui lo reputava un tempo perduto, rubato al tempo vero delle attività consapevoli e vissute con piena intensità durante le ore di veglia.
Ecco, questo argomento fu uno dei pochi intorno ai quali non mi trovai in sintonia con il mio caro prof.
Per me, i momenti di ozio, di inattività, di meditazione statica (talvolta persino quelli di noia), sono altrettanto fondamentali al vivere quanto le fasi di frenesia, di urgenza creativa, di intensità affettiva. Ed il sonno non può affatto esulare da questa regola. Il momento di mettersi sotto le coperte, io lo vivo il più delle volte come l’atto di infilarsi nell’abitacolo di un mirabolante mezzo di trasporto, che mi promette viaggi fascinosi e ricchissimi nelle sfumature di paesaggi ed orizzonti. Lì dentro so che sognerò, vivrò sensazioni, emozioni, vibrazioni spirituali, non meno coinvolgenti di quelle provate durante la vita vigile.

Leggendo "La grande rapina al treno"
un gelido pomeriggio d'inverno

E’ in tutto questo confuso insieme di fattori che risiede dunque il modo secondo il quale ritengo di possedere una considerazione del tempo piuttosto fuori moda. Il mio concetto di atteggiamento verso il tempo si potrebbe condensare in una propensione ad adattarsi alle forme del reale.
Per questo, non mi andrebbe più di tanto di tornare indietro, nonostante tutto ed anche a dispetto dei lancinanti attacchi di nostalgia che talvolta mi colgono a tradimento come ladri piombati nottetempo nella casa della mia anima. Non mi andrebbe perché ogni tempo vissuto è stato legato ad una sua propria specifica fatica di vivere, che non mi sentirei di riaffrontare una seconda volta. Non mi andrebbe di cedere una quota di anni accumulati, perché posseggono il valore di pregiate gemme d’esperienza fatte affiorare con sforzo intenso dalla grezza pietra della profondissima miniera dei minuti e delle ore trascorsi.

Urban balloon

E fin qui, più o meno tutto bene. Il discorso è farraginoso ma uno straccio di coerenza ce lo si trova anche fuori, volendo. Però poi affiorano dei sintomi, dai quali puoi desumere che in realtà, a livello inconscio, quello che “cova sotto”, insieme a tutte le cose che ho detto, è anche una fottuta paura dello scorrere del tempo.
Uno di questi sintomi evidenti, immerso nella più manifesta dubbiosità della sua fuggevolezza, è forse dato dalla frenesia fotografica. La passione per le foto è cosa che per quanto mi riguarda risale a tempo immemore. Ma questa potenziata “perversione” che la intreccia in maniera così incalzante alle valenze del fluire temporale, è stata introdotta dalla informatizzazione degli strumenti fotografici.
La disponibilità potenziale di fare scatti all’infinito da una parte, e lo stillicidio dei secondi dall’altra, si sono andati pressoché sovrapponendo con una continuità dimensionale sbalorditiva. Questo fenomeno tuttavia non ha fatto altro che acuire il senso della vaporosità imprendibile dell’«attimo».
Il tempo scorre inafferrabile, e la nuova capacità messa a disposizione dalla tecnologia di catturarne sempre più fotogrammi, non è altro che un’illusione amplificata, non fa altro che acuire la sostanziale fuggevolezza che si cela nella sua essenza più intima.
Capita dunque che durante le giornate, mi imbatta di sovente in una scena che vorrei fermare. Dettagli insignificanti, a volte, piccole inezie notate fra le più svariate fonti visive, che però mi muovono dentro qualcosa, mi commuovono ricordi di cose mai vissute uguali, ma allo stesso tempo da sempre note al mio cuore, e che affannosamente cerco di fermare, magari con la scarsissima qualità di ripresa del telefonino.
Sono immagini di precario valore fotografico, che probabilmente posseggono un vago barlume di significato solo per me stesso, ma che proprio per questo sono testimoni della incomunicabilità che affratella ed assorella tutti gli uomini e le donne, immersi come sono fino al collo in questo immenso mistero che è il tempo delle proprie vite.
E mi rendo conto di quanto tutto ciò sia così disperatamente regolare, tutto più che angosciosamente normale.

Il mio amico Egon Schiele

Così alla fine mi consolo, pensando che ogni cosa torna: nessuno ci ha mai capito una mazza, del tempo, e anche io continuo a farlo, sprofondato nella mia beata, angustiata, elettrizzata, limpida e paludosa ignoranza cronologica.



sabato 3 aprile 2010

Buona Pasqua, perfetta al 100%


Su questa Pasqua ci arrivo un po’ lungo.
In scivolata.
Come Babe Ruth, quella volta che tentò di rubare la seconda, ma venne colto in out dall’interbase dei Topeka Hot-Arses.
La scrutata elettorale mi ha lasciato notevoli strascichi di svuotamento mentale, cosicché mi ritrovo a galleggiare boccheggiante, col respiro concettuale piuttosto corto. Mi predispongo spiritualmente ad un bel week-end lungo di ozi culturali e gastronomici sollazzi.
Non ho tante cose da dirvi, al momento, salvo rimangiarmi la parola subito domani mattina, rifilandovi un fondamentale scritto sull’ipersensibilità antiborghese dell’opossum saudita.

Volevo ad ogni buon conto cianciare un po’ di alcune cosette assortite e a casaccio, giusto per non lasciarvi degli auguri asciutti asciutti, come una fetta di torta ingollata senza un goccio di vino bianco.
Intanto volevo rendervi conto del compimento della mia ultima impresa di lettore (…e tutt’d’én tratto, il coro: «…Eeehhh stì cazzi!!!...»).
Ebbene sì, cari amici viandanti per pensieri, l’ho terminato.
Il super tomo sesquipedale, a proposito del quale diverse volte v’infransi le orchidee negli ultimi tempi, ha alfin concesso lo scorrimento della sua ultima pagina sotto i miei ammirati occhi. Mi riferisco ovviamente alla «Storia del Terzo Reich» di William Shirer, 1700 pagine e fischia di goduria storiografica pura, suddivise in due polposi volumi.
Non sono propriamente un esperto di storia, anche se nel corso dei miei studi l’ho sempre trovata una materia appassionante, e non poco. Ma la caratteristica che in questo libro più di ogni altra mi ha affascinato è stata la sua bellezza. Certo, detto così vuol dire tutto e niente.
Avete presente quando un tizio è chiamato a fare il suo mestiere e per caso vi imbattete ad osservarlo all’opera e potete gustarvelo mentre lavora come Dio comanda?
Ecco, è questa la bellezza di cui parlo riferendomi al libro di Shirer. Rimani incantato a vedere come si destreggia fra i meandri della materia, come padroneggia il mezzo. Fa venire in mente un giocoliere che maneggia mille clavette in volo, un liutaio che leviga con mano sicura il suo violino. Solo che qui le clavette sono le infinite fonti, le testimonianze dirette e una miriade di documenti dominati in una panoramica sopra la quale il controllo sicuro dell’autore non sfugge un secondo, e le volute, i riccioli del violino sono la coesione e la chiarezza dell’esposizione, il quadro lucido e coerente che ti si viene formando in mente mentre leggi e ti esalti per tanta sapienza storico- narrativa.
Di più: leggere Shirer regala la medesima sensazione che immagino debbano provare quei pensionati che tirano a mezzogiorno lungo una via cittadina, gustandosi un paio d’orette di lavori in corso, di quelli belli coloriti, variegati e complessi, con ruspe enormi, betoniere giganti, grossi camion e potenti, mastodontici congegni idraulici in ogni dove, a far muovere tutta quella gran macchina operativa. Allo stesso modo, la possanza di questo libro allunga le sue leve sul materiale storico e lo maneggia, lo plasma, lo rimesta come calcestruzzo pastoso e ben dosato, colandolo nelle casseforme dove le gabbie delle armature sono già stata articolate con somma maestria, per dare vita alle fondamenta di un edificio documentale dalle proporzioni superbe.

La lettura di Shirer è stata parecchio impegnativa, anche perché due volumi di questa mole impegnano un sacco di tempo, e con difficoltà si tiene a bada nel frattempo la bramosia di iniziare nuovi libri. A stento infatti sono riuscito in questo proposito, e proprio quando mi trovavo ad un centinaio di pagine dal traguardo, mi sono lasciato deviare per pochi giorni, sparandomi direttamente in vena un altro sommo testo (di genere completamente diverso), a suo modo pregno di altre e ben più febbricitanti urgenze narrative, «I miei luoghi oscuri» di James Ellroy.

Poi mi sono detto: adesso per un po’ basta con libri “chilometrici”, per un qualche tempo sarà meglio preferire testi snelli, di modo da poter gustare di letture più differenziate in tempi più ragionevoli.
Detto, fatto: forte della mia uniformità mentale che sa sfiorare livelli di coerenza logica espressi forse solo dal sedere di un bambino di due mesi, mi sono subito imbarcato nella lettura di «À la recherche du temps perdu», del buon vecchio Marcellino Proust.
Non pago, mi sono anche procurato un quadernetto sul quale mi sto segnando i passi più epifanici, quelli più capaci di smuovere la mia sensibilità…e mo’ so cazzi vostri, cari amici viandanti per pensieri! Mi sa che prossimamente di ‘sta menata del Proust ne sentirete parlare spesso.

Ma come faccio a non rimanere esterrefatto, a non deflagrare in una variopinta fioritura di interiori suggestioni contagiose, quando prendo in mano un libro e dopo poche pagine vi ritrovo un passo minuscolo in lunghezza, ma immenso per quanto riguarda significati e risonanze poetiche?
Non solo. Un passo che in pochisime righe riassume tutta la mia vita semivissuta al 20%, come l’IVA:

«…[il vecchio Swann padre] non si poté tuttavia consolare della morte della moglie, ma nei due anni che le sopravvisse, diceva al nonno: - E’ curioso, penso molto spesso alla mia povera moglie, ma non ci posso pensare tanto alla volta –
“Spesso ma poco alla volta, come il povero Swann padre”, era diventata una delle frasi favorite del nonno, che la diceva a proposito delle cose più diverse…».

La strada di Swann” (“Combray”) – Marcel Proust, 1913
(Trad. di Natalia Ginzburg)

Lo stesso si può dire per quello che è stato, da sempre, più o meno volontariamente e coscientemente, il mio atteggiamento verso la vita: la vivo molto spesso, ma non la posso vivere più di tanto alla volta.

Ve lo dicevo, cari amici, che in questo periodo difetto un po’ di lucidità argomentativa. Così, per concludere e non fare brutta figura, con gli auguri di Buona Pasqua che vi avrei voluto fare con più padronanza mentale, mi faccio aiutare stavolta dal mio sasso perfetto al 100%.
In un’epoca in cui è ormai divenuto molto difficile sapere di chi ci si debba fidare, è pur sempre un conforto poter contare sulla fedeltà e sull’affetto di un amico sasso.
Ammiratelo! Non trovate che sia un impagabile mattacchione, lì tutto abbarbicato fra i boccioli, e già calato in pieno nel fervore delle incipienti vibrazioni primaverili? Pasqua è tra l'altro una delle sue feste predilette, perché lui con le uova se l’intende alla perfezione. Anche per questo, stamattina si è profuso in tali manifestazioni di bucolica euforia.

E’ la seconda Pasqua che passo con voi, cari amici viandanti per pensieri, e sono contento di questo periodo che abbiamo attraversato insieme. Potere scrivere per voi è sempre una magia.
Ancora i migliori auguri di buona Pasqua, dunque, da me e dal mio sasso perfetto al 100%.