venerdì 31 luglio 2009

Il motore del ricordo


Una delle pietre miliari della mia «mitologia infantile» è stata senza dubbio la figura del “bullo campagnolo patito di motori”.
La cosa buffa è che a me dei motori non me n’è mai potuto fregare di meno.
Questa disaffezione per bielle e pistoni prosegue florida ancora oggi, anzi per dirla tutta, negli anni si è decisamente intensificata, tramutandosi in una solenne stanzialità “sopra li maroni miei”.
Ma all’epoca subii anche io il fascino della dimensione motoristica come riflesso esistenziale.
Forse era più per una forma di curiosità verso i tipi umani, che da sempre mi accompagna.
Per far capire quanto me ne importasse: quando per tutti i miei coetanei iniziava il periodo di fibrillazione per il primo motorino (viatico agognato per essere introdotti nel mondo adulto, acquisendo nel contempo anche maggiori spunti di fascino verso l’altra metà del cielo), io continuavo a leggere i miei fumetti, a girare in bici, la testa fra le nuvole e una margherita su un orecchio, e a non beccare niente con le ragazzine.
Ciononostante, quando dal gruppetto di ragazzi riuniti intorno alla panchina sotto l’ombra del viale ascoltavo alzarsi spezzoni di discorsi inframmezzati da termini esoterici come “elaborazione Polini”, “girato a luci allargate”, “serpentone Proma”, mi sentivo anche io introdotto nel tempio del “Grande Mistero del Motore”, che nel mio caso passava più che altro da questa fascinazione per un curioso linguaggio da iniziati.
Va anche ricordato un dato essenziale al discorso: tutti i fenomeni della modernità, una volta calati in un’ambientazione campagnola, tendono a caricarsi di singolarissimi contorni, dando vita ai personaggi più strambi e bizzarri.
Quando l’elettrizzante corrente di una moda cittadina si incontra con la placida brezza del lento vivere campagnolo, dal contatto può scaturire un piccolo temporale sociale che fa scendere fra le foglie del granturco uno scrosciante acquazzone di paradossali tipi umani. Anche il “bullo campagnolo patito di motori” va annoverato senz’altro fra le più fulgide saette scaricate sul suolo agricolo da una di queste periodiche intemperie.
Dire “bullo campagnolo patito di motori” è tra l’altro alquanto generico. Quella che ruotava intorno all’universo motoristico adolescenziale era in realtà una magmatica moltitudine variegata e pluri-cromatica.

A proposito di stranezze: il mio più grande sospetto è sempre stato di non essere io il solo in quel contesto a sapere poco o nulla di motori. Credo che la maggior parte di quei ragazzini vociferanti di carburatori, segmenti e ammortizzatori a gas, in realtà millantassero una sapienza infondata. Lo scopo principale in fondo era andare a tutta birra su due ruote oppure bulleggiare in impennata con pretese da “mèjo fico” della compagnia, per fare colpo sulle ragazze.
Paradossalmente, gli unici che invece possedevano vere conoscenze tecniche erano quei ragazzi che provenivano dalle famiglie più contadine di tutte, quelli che vivevano nelle fattorie isolate fra i campi, con tanto di stalla e fienili.
Grazie alla grande dimestichezza, nutrita fin dalla più tenera età, con trattori, trebbiatrici e ogni altra sorta di complessa diavoleria agro-meccanica, per loro era un gioco da ragazzi sapere vita, morte e miracoli di quei quattro bulloni che componevano un semplice cinquantino o una Vespa Primavera.
Solo che per un beffardo contrappasso, erano poi proprio loro a non riscuotere quel grande successo fra le sbarbine locali, perché la dura “legge della zolla”, crudele corollario dello snobismo delle ragazzine di “centro paese”, dice che per quanto tu possa essere campagnolo, puoi sempre trovare qualcuno più campagnolo di te.

***

Una volta con mio fratello mi successe un episodio dal sapore american-graffitaro rurale.
Eravamo rimasti a piedi con la Vespa nuova sul lungo ponte appena costruito ed ancora chiuso al traffico ufficiale, motodromo ideale e superba oasi di illegalità per giovani fanatici truccatori delle due ruote.
Non che noi due rientrassimo in questa categoria: quella di mio fratello era infatti la Primavera ET3 più regolamentare che circolasse in tutta la grande pianura, per di più nata con un difetto alla centralina elettronica capace di lasciarti in braghe di tela un giro su due.
Quindi, già una lettera della sigla ET3 (Elettronica 3 Travasi) ce l’eravamo giocata; ma poi va anche detto che, con 3 “travasi” appena, e dove credevamo di andare?
Che minchia fossero mai ‘sti travasi, non l’ho mai saputo. Era uno dei tanti termini misterici che volavano come le zanzare nelle discussioni sotto le fronde del viale. Io so solo che all’epoca, se non avevi almeno 5 travasi sotto la sella, col Kaiserslautern che potevi sperare in un mezzo appuntamento con una ragazzina.
Fatto sta che eravamo lì ingloriosamente intenti a spingere il nostro ultra-legalitario cavallo di ferro lungo il ponte, quando sopraggiunsero due Vespe di quelle col trucco così pesante che al confronto Renato Zero dei bei tempi era un giovinetto acqua e sapone.
Erano ragazzi di un paese vicino e si offrirono gentilmente di darci una trainata verso casa. Lungo il tragitto comune, riferirono a mio fratello che volevano gareggiare con la Vespa più veloce del nostro paesello, e se per caso conoscevamo l’impavido cavaliere che la montava.
Altroché se lo conoscevamo: si narrava che la sua Vespa sfiorasse i 130 all’ora e lui era uno dei più fulgidi esponenti del bullismo motoristico campagnolo, un tipo che tra le sottane ci trafficava a suo agio come in mezzo ai carburatori, quasi-idolo inconfessato di tanti ragazzini (come me) che avevano avuto invece il destino di venire su ordinariamente “per bene”, privi del fascinoso carisma dell’innocuo mascalzoncello di provincia.
Poi non seppi mai se la grande sfida sul ponte venne disputata o no.
Quello che purtroppo seppi non molto tempo dopo, non avrei voluto saperlo mai.
Il mio “Cavalier Vespato” preferito, il simbolo più elegante della fantasia motoristica degli anni della mia bambinità, aveva perso la sfida più importante, quella con le insidie del crescere e con tutte le acrobazie esistenziali attraverso le quali devi passare per diventare uomo.
Era morto proprio in un incidente con la Vespa.
Ma ironia beffarda della sorte volle che la cosa non accadesse in occasione di una delle rombanti dimostrazioni di velocità tanto ambite. Si spense invece durante un giro ordinario, per di più sedendo in sella dietro come passeggero.
Al suo ricordo queste indegne righe sono dedicate, perché a suo modo quel ragazzo è stato un simbolo della mia infanzia e la sua energia vitale la sento ancora fremere nell’aria della grande pianura ogni volta che il vento soffia fra le fronde del viale, veloce come la scia lunga di una Vespa truccata.



mercoledì 29 luglio 2009

Cittadinismi


Ebbene sì, cari amici viandanti per pensieri: proprio io che infinite shakerate addussi agli attributi vostri, profondendomi in sproloquianti dissertazioni riguardo le più disparate tematiche campagnole, vi parlerò oggi niente meno che di impressioni cittadine.
In particolare, volevo far cenno ad un dettaglio che mi è balenato in mente stamani, nel solito tragitto a piedi fra la macchina appena parcheggiata e l’ufficio.
Non che sia una novità per me considerare il fenomeno, ma come accade spesso con le faccende familiari e ripetitive, arriva quella volta che le osservi da un punto di vista inusuale e sembrano svelarti un piccolo mondo di stupore inatteso.
Ma veniamo al dunque, altrimenti, ancora un po’ che meno il can per l’aia, e sentirete il postino bussare alla porta per consegnarvi l’invito alla festa di laurea del nipotino che avevate accompagnato all’asilo appena prima di mettervi a leggere qui.

Il “cittadinismo” di cui vi volevo parlare lo definirei «orchestrazione urbana semi-sincronica degli spostamenti umani».
Detta così sembra una diavoleria venuta fuori fresca fresca dall’hegeliana «Fenomenologia dello spirito», ma in realtà si tratta di una cosa semplicissima.
Tutte le mie mattine lavorative si popolano di vari personaggi regolarmente presenti lungo lo spazio ed il tempo che mi conducono in ufficio. Ma solamente oggi tutto ciò mi è apparso come la grande orchestra della città che si risveglia.
Ogni passante, ogni ciclista, ogni veicolo, ogni dettaglio, visti e rivisti giorno dopo giorno, sono come i suoni di una piccola sinfonia mobile che si ripete sempre uguale a sé stessa, pur con lievi scarti interpretativi dettati dal “Grande Direttore Temporale”.
Basta che prima di partire abbia perso 3 minuti in più di sosta in bagno sopra il “trono di ceramica”, e l’ormai familiare signora ubertosa di mezza età, sfrecciante in bici dietro la scia dei suoi rigogliosi seni “parlanti” ostentati con giustificata fierezza, mezza spanna sopra il manubrio, la incrocio a metà della traversa del grande viale alberato invece che sotto le prime fronde del medesimo (poi, i 3 minuti di “seduta porcellanata” in più potrebbero essere stati sia miei che della signora, non importa).
Basta un altrettanto breve sfalsamento di tempi dettato dal semaforo rosso sulle strisce pedonali, che la teporosa carezza olfattiva proveniente dal forno all’angolo si carica di una prevalenza aromatica all’odor di pizza, più decisamente stagliata al di sopra del normale sottofondo di pane caldo del giorno prima.
Basta aver incontrato un po’ più traffico del normale lungo la via, che gli operai nel cantiere della casa inizi ‘900 in ristrutturazione, ci stanno già dando dentro a suon di betoniera e martello pneumatico, invece di essere ancora intenti nelle frettolose chiacchiere pre-sgobbata di primissimo mattino.

Vedi così la città che si stiracchia, sbadiglia, si sfrega gli occhi, accorda i suoi strumenti e si mette a suonare il proprio concerto della quotidianità. I musicisti sono praticamente gli stessi ogni giorno e lo spartito è sempre uguale per tutti, ma le casuali intersezioni dei loro privati tempi personali, gli intrecci delle piccole sfumature pratiche individuali, danno vita mattina dopo mattina a leggere varianti sul tema, a note eseguite con una piccola coloritura differente, a risvolti melodici ogni volta soffusamente diversi dall’uguaglianza con se stessi.
E tutto questo è un qualcosa che anche un gran rurale come me, con la mente quasi esclusivamente assorbita da dimensioni più proprie alla “Critica della Ragion Campagnola”, riesce ad apprezzare. Anzi, forse è proprio il punto di vista agricolo che mi ritrovo, col suo svagato distacco dal contesto urbano, ad agevolarmi in questa giocosa “Robert-Altman-izzazione” della realtà.

In questo modo, tra uno squillante “do” di petto della procace signora sempre in sella ed un virtuosismo di melodia muratoria per betoniera sola, la gran voglia di rimanere a letto, che inesorabile al suon della sveglia quotidiana si era ripresentato poc’anzi puntuale come l’IRPEF, lievemente si attenua in cuor mio, mentre a furor di narici spalancate mi faccio strada alla volta del panettiere, per scoprire se oggi la focaccia al rosmarino sarà uscita fuori dal forno prima o dopo le crostate alla frutta.


martedì 28 luglio 2009

Rei di bellezza



Quando era uscita questa canzone, credo ormai quasi dieci anni fa, non me ne ero accorto. L'ho scoperta da poco e mi son detto che è stato un peccato non averla sentita prima. Nel deserto melodico-creativo attuale, una bella sorsata di bellezza, oserei dire...
E lei è pure una bellissima donna, che non guasta mai...
Se proprio si deve essere colpevoli di qualcosa, è meglio esserlo di bellezza...

lunedì 27 luglio 2009

Chi il pollice ce l’ha verde e chi blu il dente


«E’ la tecnologia, bellezza!!!», sarebbe stata probabilmente la chiosa del vecchio Bogey.
«Sarà…ma a me mi sembrano tanto degli idioti qualsiasi!!!», avrei ribattuto io, in perfetta sintonia “hard-boiled”.
Questo impossibile dialogo fra il grande asfaltatore di jungle e me medesimo, mi è balenato oggi fra i meandri dell’immaginazione pensando ad una bizzarra figura introdotta negli ultimi anni dall’evoluzione della telefonia mobile.
Mi riferisco al “fine dicitore dal dente blu”.
Si tratta di una delle più sviluppate ed aggiornate forme di «homo cellularis telephonantis».
Per poterlo osservare nel massimo della sua forma smagliante, basta aggirarsi normalmente in una strada cittadina un po’ affollata ed attendere pazienti: prima o poi uno splendido esemplare si presenterà ai vostri occhi.
Orecchio pinzato da un abnorme piercing post-moderno (nella miglior tradizione neo-tribal-cellulare), sguardo sonnambulicamente scagliato nel vuoto e telefonino dotato di “bluetooth” in tasca, incurante di tutto il contesto umano ed urbano che lo attornia, lo potrete osservare mentre procede con deciso passo marmoreo, gesticolando e cianciando nel nulla rivolto ad un invisibile interlocutore.
Vi confesso che, da buon campagnolo quale sono, sempre in ritardo nell’aggiornamento sulle ultime diavolerie della tecnica, le prime volte che mi sono trovato di fronte a simili fenomeni, il dilemma se ignorare l’individuo assecondandolo con l’indifferenza, oppure affrettarmi a chiamare di filato la neuro, si presentò fortissimo alle porte della mia coscienza scossa.

L’aspetto più buffo poi è che il “dente più blu” di tutti i cerulei denti, lo sfoggiamo proprio le persone più distinte ed eleganti che incroci per strada.
La cosa è comprensibile e, oserei dire, quasi un corollario naturale della selezione della specie.
Questo strumento è infatti l’ideale per il manager che va di fretta, per il dirigente che deve tener sotto battuta 40 dipendenti mentre si sposta da una all’altra delle 70 sedi di appuntamenti in centro previsti in mattinata, impegnato com’è nel frattempo, con la sinistra, a mandare una mail via wi-fi a Singapore, e con la destra, ad annotarsi sull’altro palmare le 32 riunioni del pomeriggio.

Una volta, ai tempi in cui l’etere non era ancora così tutto morsicato di blu come al giorno d’oggi, ero seduto su una panchina in parco Sempione a Milano, con un mio collega di studi. Ci mangiavamo un panino in un momento di pausa, quando il mio amico, ragazzo dal notevole spirito paradossaleggiante, se ne venne fuori con questa battuta: «Eh…proprio vero che a Milano sono sempre i più avanti d’Italia…guarda quanta gente che parla al cell con l’auricolare…».
In realtà non si trattava né di manager rampanti e nemmeno di “neo-yuppies società-per-azioneggianti”, ma molto più amaramente di umili barboni forse inebetiti dall’alcol, che vagolavano senza metà nel parco blaterando fra sé e sé ad voce alta.
Ogni volta che vedo per strada un nuovo “fine dicitore dal dente blu” tutto sfavillante nel suo vaniloquio col vento, magari accreditato da un finissimo doppiopetto più cravatta di seta, mi si riaffaccia alla mente questo episodio, e allora non posso fare a meno di ritornare con un sorriso di tenerezza alla candida immagine di quei barboneschi antesignani dell’alta tecnologia, all’epoca di gran lunga più eroici nelle loro dimesse palandrane rattoppate (e sicuramente saranno in linea con qualcuno di molto più importante di un Amministratore Delegato qualunque).

L’ultima più eclatante esperienza con un rappresentante della “tribù dei denti blu” mi è poi capitata giusto questa mattina.
Facendo rientro dalla pausa pranzo, passeggiavo in un borghetto in pieno centro storico, quando sul portone di un palazzo lussuoso vedo un distinto signore in camicia e cravatta, che tiene aperta la pesante cortina lignea intarsiata della sua magione, quasi ad agevolare il serrato dialogo che stava intrattenendo con un illustre interlocutore rimasto giusto un passo fuori dall’uscio di casa.
«Dottore qua, dottore là…dottore su, dottore giù…” lo apostrofava infatti.
Peccato che al di là della soglia non ci fosse una cippa di nessuno: stava tenendo aperto solo per il fatto che dentro l’ombroso androne dalle spesse murature, non c’era una minchia di campo su cui poter affondare il vomere del suo famelico dente blu.
«Allora è proprio così», mi è venuto da pensare a quel punto: «le vie al fantasmagorico mondo del “dente blu” sono veramente infinite».



sabato 25 luglio 2009

Costruiti di desiderio


Quando mi succede di leggere brani di libri provenienti da fonti molto differenti fra di loro, magari concepiti in epoche lontanissime l'una dall'altra, da autori appartenenti a contesti storici del tutto estranei, e che tuttavia recano in sè una straordinaria affinità concettuale, quasi fossero stati scritti dalla medesima persona, ci rimango di stucco dal godimento estetico ed intellettivo che me ne deriva.

La cosa più formidabile è quando il fenomeno si verifica in seguito ad una piccola indagine personale su libri diversi.
Ma non è male neppure quando questa magica "epifania del lettore trasversale" viene regalata da un bel testo che già ad adocchiarlo sullo scaffale della libreria irradiava bellezza, pur standosene ancora a pagine perfettamente chiuse.

Il libro in questione è stavolta «Passioni d'oriente - Eros ed emozioni in India e Tibet», a cura di Giuliano Boccali e Raffaele Torella (Piccola Biblioteca Einaudi - Scienze religiose e antropologiche - 2007).

Bando subito agli equivoci: niente a che vedere con pecorecci "kamasutri" da spiaggia o pruriginose trasposizioni banalizzanti, stile scollacciati film LinoBanfeggianti anni '70 (...con tutto il rispetto per il simpaticissimo Lino Banfi e per quel gran pezzo dell'Ubalda: che si mantenga sempre tutta nuda e tutta calda!!!).

Questo libro è invece un complesso, articolato e dottissimo studio (suddiviso in alcuni brevi saggi) su aspetti delle filosofie orientali che hanno approfondito il rapporto dell'uomo con l'importante capitolo esistenziale rappresentato dal desiderio, dalle passioni e dalla emotività.
Condizione "sine qua non" per il verificarsi di una "epifania del lettore trasversale" è che i concetti messi in gioco dai due brani a confronto posseggano una certa dignità culturale.
Forse è superfluo precisarlo nel caso di questo libro.
Ma per dire, se mi capitasse di leggere su "Novella 2000" che quest'anno in spiaggia senza le infradito sei assolutamente "out" e mi imbattessi poi nel medesimo "concetto" su "Cronaca vera", ecco, non è che proverei tutta quella gran esaltazione epifanica.

Il concetto di cui parlo è invece un super-concetto di lusso, roba da leccarsi i baffi del pensiero. Deriva da diverse opere del periodo classico del "tantrismo hindu" (epoca grosso modo compresa fra il III ed il X secolo ed anche oltre) e sostiene che il "pacchetto esistenziale" riassumibile indicativamente nel "trittico" «Passione-Emozione-Attaccamento» (condensato dal termine indiano rāga) si manifesti essenzialmente come forza che si propaga dall'interno della spiritualità dell'individuo.
La sostanza del nostro rapporto di desiderio con le cose nel mondo, non sarebbe dunque insita "quantitativamente" in tali cose, ma dipenderebbero "qualitativamente" da un'energia interiore che in qualche modo in noi è insediata.
Una sorta di piccola rivoluzione copernicana rispetto alla visione occidentale comune sul medesimo tema, che si rivolge solitamente al "potere" attrattivo dell'«altro da sè» come alla forza effettivamente attiva nella dinamica del "desiderare".

Sentite allora cosa si dice in questo bel passaggio del libro citato:

«...Non è il piacere che direttamente muove rāga («Passione-Emozione-Attaccamento»), dice acutamente il Matangapārameśvarāgama, ma è rāga-corazza che crea il piacere nei confronti del particolare oggetto verso cui si rivolge...[...]...il rāga risiede nelle profondità del soggetto e non negli oggetti...[...].
Dunque, anche rāga («Passione-Emozione-Attaccamento») come vidyā («Conoscenza»), è una realtà insieme elementare e complessa, tanto più ardua da definire tanto più intimamente si annida nella struttura profonda dell'io. Facciamoci aiutare in questo difficile compito da alcune penetranti considerazioni di Abhinavagupta nel suo magnum opus, il Tantrāloka...[...].
L'universo, dice il grande maestro kashmiro, è stato creato appunto per soddisfare le anime nelle quali una frenesia, una febbrile smania di fruizioni è stata suscitata. Questa sottile frenesia (lilokā) non ha oggetto, è per così dire uno "strato desiderante", uno stato di infinita appassionata aspettazione, e, di conseguenza, un pensarsi imperfetti, una sorta di nescienza. Essa è la "macchia" primordiale (mala), che si manifesta come la disposizione ad assumere future limitazioni...».

E state un po' sentire adesso cosa mi verrà a dire alcuni secoli dopo il buon Baruch Spinoza nella sua «Etica» (sempre citato in «Passioni d'oriente - Eros ed emozioni in India e Tibet»):

«...Verso nessuna forza ci sforziamo, nessuna cosa vogliamo, appetiamo e desideriamo perchè la giudichiamo buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona qualche cosa perchè ci sforziamo verso di essa, la vogliamo, l'appetiamo e la desideriamo...».

Ora non so cosa ne dite voi...ma non è mirabolante?


giovedì 23 luglio 2009

Scritti di scatto


Si possono ravvisare elementi comuni alla fotografia e alla scrittura?
Io credo di sì (…altrimenti non mi sarei nemmeno scomodato a pormi la domanda e tutta la menata finiva qui, con sommo gaudio del lettore…).

Anche se la precisazione è superflua come i peli, va ovviamente detto che il parallelo si pone sul piano prettamente metaforico, perché stiamo parlando di due modalità di comunicazione che utilizzano strumenti troppo diversi fra loro per poter essere confrontati direttamente.

Una prima affinità la rileverei nella scelta del campo di pertinenza del soggetto.
Sia quando si scrive, sia quando si coglie un’immagine, è molto importante il taglio col quale l’argomento viene ripreso (passo, volutamente, da un termine più proprio allo scrivere ad un altro maggiormente concernente la fotografia, per sottolineare ulteriormente l’intreccio tematico che lega le due “arti”).
Col nostro scritto e con la nostra inquadratura isoliamo una porzione di mondo. Questo comporta due piccoli corollari fondamentali:
1) Preferibilmente, la porzione isolata deve essere autosufficiente;
2) Tutto, o perlomeno molto di quanto è stato tagliato fuori può partecipare come un “non detto” che completa il discorso.
La storia raccontata da uno scritto o da un’immagine deve essere “conchiusa”.
No, no…non mi sono sbagliato a scrivere e voi non avete letto male: non intendevo “conclusa”, ma proprio “conchiusa”. Se avessi scritto “conclusa” avrei limitato molto lo “spazio di manovra narrativo” escludendo importantissime opzioni espressive come il “non finito” o le “trame” che ammiccano senza dire chiaramente, rimandano, lasciano in sospeso per creare suspense e aspettativa per elementi solo immaginati o intuiti.
Dire invece che la storia deve essere “conchiusa” significa che quanto viene raccontato deve chiudere in pareggio il bilancio di una propria economia interna della bellezza.
Il lettore o l’osservatore della foto dovrebbero insomma ricevere l’impressione che nello spazio del narrato o dell’inquadrato nulla è entrato per caso, nulla sta lì per dire cose ripetitive o banali, nulla di ciò che serviva è stato trascurato o escluso maldestramente; dovrebbero percepire che la tonalità di ogni parola e ciascuna sillaba dell’immagine sono essenziali e consustanziali al discorso.
E qui entra in scena anche il “resto del mondo” lasciato fuori dall’«inquadratura»: chi scrive e chi fotografa si rivolge ad un pubblico con il quale condivide un ampio patrimonio culturale. Lo scrittore e il fotografo si affidano al fatto che il pubblico padroneggi buona parte di quel patrimonio di conoscenza condivisa, in modo da poter essere libero di dire solo la sua personale “frase” innovativa, inserendosi nell’ambito del “discorso” generale già noto.

La seconda affinità fra fotografia e scrittura che vorrei sottolineare è quasi diretta conseguenza di quanto detto finora, ed introduce la cruciale questione “compositiva”.
Gli strumenti per operare in quell’«economia della bellezza» di cui parlavo prima sono forniti appunto dal senso della “composizione”.
In uno scritto o in una foto sono in gioco rapporti di forze espressive, confronti fra fattori dinamici (formali e concettuali), che costituiscono la vera e propria impalcatura dell’«opera» in questione. Queste forze, la sapienza del bravo narratore di foto o dell’accorto coglitore di frasi, è chiamata a soppesarle, giostrarle, equilibrarle o a metterle volutamente in contrasto quando serve, o in assonanza.
E per ottenere questo buon esito compositivo è fondamentale possedere il dono dello «sguardo sintetico a zoom». In altre parole, sarebbe cosa buona essere in grado di tenere sotto controllo in un medesimo tempo sia l’insieme, sia i dettagli dell’intera composizione, in modo da “tararli” in reciproco dialogo, registrandoli in misura dinamica e “biunivoca”.

In conclusione, bisogna anche dire che, se una grande differenza tra foto e scrittura è innegabilmente data dai tempi di realizzazione pertinenti ai due ambiti, anche questo elemento si livella alquanto nel caso si considerino ad esempio brani da scrivere in tutta fretta (vedi articoli di cronaca) oppure riprese fotografiche di soggetti piuttosto statici che concedono l’agio di “soppesare” al meglio l’inquadratura.

martedì 21 luglio 2009

Inutile

Il segreto della gioia e dell'autorealizzazione dell'uomo passa spesso per i sentieri dell'inutilità. L'eco della frustrazione e della mancanza di senso esistenziale si smorza invece sordamente contro le pareti labirintiche di un ottuso utilitarismo esclusivista.
Inutile è la brezza fra i capelli, mentre si corre a perdifiato fra l'inutilità smeraldina di un inutile prato inutilmente rigoglioso sulla soglia della più inutile delle primavere.
Inutile è il profumo sprigionato intensamente dall'inutile sorriso dell'amata.
Inutile è sorridere, fare l'amore e raccontare le cose più divertenti che si possono immaginare alle persone che ci sono più care.
Inutili sono tutte le fiabe.


«...A che cosa servono le fiabe? [...] Secondo noi le fiabe servono soprattutto alla formazione della mente: di una mente aperta in tutte le direzioni possibili. Toccano, nel bambino, la molla dell'immaginazione: una molla essenziale nella formazione di un uomo completo. Le fiabe non servono ad educare esecutori diligenti e limitati, consumatori docili e fiduciosi, subalterni soddisfatti ed efficienti, insomma gli uomini che servono a un mondo che abbia il mito della produttività. In questo senso le fiabe sono altamente improduttive, come la poesia, l'arte, la musica. Ma l'uomo deve anche poter immaginare un mondo diverso e migliore, vivere per crearlo.
Perciò alla sua educazione sono essenziali le fiabe. Non il loro contenuto immediato, non l'ideologia di cui possono essere portatrici: ma il loro modo di affrontare la realtà con occhio spregiudicato, di inventare dei punti di vista per osservarla, di vedere l'invisibile, come lo scienziato "vede" le onde elettromagnetiche dove nessuno aveva mai visto nulla; insomma, proprio come Andersen "vede" un'intera storia sulla punta di un ago da rammendo...».

Gianni Rodari
Introduzione a
"Hans Christian Andersen - FIABE" - 1970


sabato 18 luglio 2009

One froggy life


Credo proprio di soffrire di una stramba sindrome. Il sospetto mi è venuto ripensando ad un vecchio, ma geniale cartone della Warner Brothers: «One froggy evening». Tanto che la chiamerei proprio la sindrome del «ranocchio canterino occulto». Il cartone fa più o meno così:

Sigla…Merrie Melodies…papparapapppa…tziriti-tziriti-tzirititit…..tarazzazzattattààà!!!…
C’è questo operaio edile un po’ infelice e molto al verde (almeno così pare dal suo aspetto), che sta lavorando alla demolizione di un edificio. Non si vede nessun’altro in giro, e nel corso dello “smontaggio” dei mattoni l’omino è arrivato alla vecchia “prima pietra” della casa, posata con tanto di dedica nel lontano Ottocento. Dall’interno della vetusta pietra angolare, sbuca fuori un ranocchio, sguardo abulico, occhio vitreo e palpebra a mezz’asta. La gracidante bestiola non fa in tempo a scorgere l’omino che subito si produce in un’esibizione canora da rimanere di stucco, stile Broadway anni d’oro (che poi chissà che anni sono…).
Non solo: lo zompante animaletto accompagna pure la sua stessa voce tenorile con una danza alla Fred Astaire dei ranocchi, tip-tappando, facendo roteare il suo elegante bastone da passeggio e giostrandosi fra le dita un elegante cappello a cilindro.
Negli occhi dell’omino subito s’illumina il bramoso bagliore del business, con uno sfavillio di simbolini di dollaro che scorrono a rullo sopra il futuro immaginato del ranocchio eroe della ribalta. Infila il batrace superstar in una scatolina e corre di filato da un impresario teatrale.
Ritroviamo adesso l’omino nell’ufficio dell’uomo di spettacolo, che magnifica le doti del suo protetto, rimasto momentaneamente nell’anticamera a prodursi in solitaria nel meglio dei frizzi e lazzi più in voga nel repertorio della rivista. Viene il momento di fare le presentazioni: l’omino spalanca la porta sul corridoio per agevolare lo stupore dell’impresario e…tah-dah!!!...niente, zero, il ranocchio come per incanto si è afflosciato e re-imbolsito alla grande.
A questo punto lo spettatore capisce la botta di genio di tutta la storia: il ranocchio è per l’appunto una sorta di genietto incorporato alla sua lampada, ma il solo desiderio che possa esaudire è quello di far incacchiare l’omino, dimostrando tutta la sua fenomenalità esclusivamente in presenza del suo nuovo padrone.
L‘omino le proverà tutte, fino all’esasperazione, ma non riuscirà mai a sfatare l’incanto beffardo: il ranocchio non canta e non balla in presenza di altri umani che non siano l’omino.
Fino al buffo finale che non vi svelo per non rovinarvi ulteriormente la visione.
Sì perché c’ho pure l’apposito link (dirlo prima sembrava brutto, eh?...) e ora che, con pazienza in fibra di carbonio, vi siete sorbita la mia versione raccontata del cartoon, lo potete vedere (con anche diverse notiziole curiose in merito al piccolo capolavoro animato) facendo un giretto da queste parti:

http://www.tvblog.it/post/14399/classic-cartoons-one-froggy-evening

Veniamo dunque a questa specie di sindrome del «ranocchio canterino occulto», dalla quale mi pare di essere affetto da tempo.
Nella fattispecie mia personale, il ranocchio si manifesta nelle maniere più svariate e sottili.
Spesso mi sembra di portarmelo appresso. Sta dentro di me, il ranocchio, connaturato a tanti miei risvolti esistenziali.
Il primo grande dubbio in merito (anche se allora il mitico cartoon non lo avevo ancora visto), mi venne che ero ancora bambino, per un episodio banale.
Con una truppa di piccoli amici del paese, venimmo arruolati più o meno volontariamente al corso di nuoto in città.
Prima lezione: il maestro (un energumeno terzo-reich-alizzante, finito per sbaglio a fare l’istruttore di nuoto per bambini, solo perché il suo modulo di arruolamento per la Legione Straniera era stato male interpretato) mi chiede di fargli vedere come me la cavavo in acqua.
Io che fino ad allora non avevo conosciuto bacini idrici più ampi della mia vasca da bagno, consapevole della mia insipienza natatoria, azzardo un paio di bracciate e sgambate.
Stupore supremo del kaiser-meister: «Eccezionale!» mi fa, «…hai un talento naturale per il nuoto…movimenti perfetti…».
Oh, ci credete se vi dico che da quel momento sono diventato la più grossa schiappa di tutto il cuccuzzaro dei bambini sguazzanti? Da lì in poi non ho imbroccato più una bracciata: il ranocchio occulto della mia bravura di nuotatore era stato scoperto, e si era deciso a rimanere bello ed ostinato invisibile al mondo.
Un’altra manifestazione conclamata di «occultismo ranocchiale» mi capitò all’esame di maturità. Prova di italiano: non avevo mai preso un’insufficienza in 5 anni di scuola superiore, anzi, pur non essendo il più bravo di tutti a scrivere, nella mia classe me la cavavo più che bene.
Arriva il fatidico giorno per far maturare “Il Tema” e…puff!!! Il mio ranocchio narrativo pensa bene di mostrarsi bolso e sfiatato come un brocco a fine carriera, procurandomi un mediocrissimo cinque come voto.
Ma dove la mia sindrome del «ranocchio canterino occulto» si rivela in tutto il suo fulgore è nella relazione conflittuale da me spesso vissuta, fra la “dimensione scritta” delle mie modalità di esistere da un lato, e quella parlata, dall’altro.
“Me scritto” e “me parlato” sono due perfetti estranei.
Ora, non so di preciso che impressione io riesca a trasmettere a chi mi legge qui su, e voi non potete apprezzare la differenza, avendomi solamente letto. Ma vi posso garantire che se qualche barlume di interesse qua e là nella mia espressione scritta lo avete potuto trovare, non esistereste a definire il mio modo di comunicare a voce e di presentarmi parlando, una vera e propria pizza solenne.
Al punto che, di recente, una cara amica (non molto propensa all’uso di perifrasi quando deve dirti una cosa), dopo aver letto un mio breve e semi-buffoneggiante brano, si è sentita di dirmi: «…ma perché sei così simpatico quando scrivi?...».
E lì io non l’ho fatto, perché la spiegazione sarebbe stata troppo lunga, ma avrei voluto risponderle: «Eh…cara la mia ragazza…non venirlo a dire a me…prenditela col mio “ranocchio canterino occulto”…».

lunedì 13 luglio 2009

Una certa gattitudine


C’è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Finora però ho sempre esitato ad affrontarlo.
Dire “un tema” è riduttivo. In effetti si tratta di una delle mie passioni più care: i gatti.
A parte alcuni accenni qua e là ed un piccolo scritto che toccava solo tangenzialmente l’argomento felino, ho sempre tentennato a “dire di mici” per il timore di non riuscire a rendere giustizia con le parole a tutti i significati che mi sentirei di esprimere in merito.
Non so nemmeno se adesso è arrivato il momento giusto. Sia come sia, oggi parlo di gatti. Alcuni pensieri sparsi, niente di che, ma mi va di parlarne.

I gatti per me non sono semplici animali. Non fraintendetemi, non vi sto propinando uno di quei deliri di estremismo animalista nei meandri dei quali il senso delle proporzioni si smarrisce bellamente.
Molto più “semplicemente”, dico invece che i gatti sono un’identità parallela, una “dimensione specchio” che da un po’ di tempo accompagna la mia vita.
Non è una cosa facile da descrivere. Potrei dire allora che in presenza di un gatto provo un senso di sintonizzazione di energie fra la mia persona e la sua pelliccevole aura.
Il mio sguardo è calamitato inevitabilmente dalla misura perfetta delle sue mosse. La mia vista ed i suoi movimenti si sposano esattamente sui confini di un velo di stile del quale si finisce per non riconoscere più l’inizio, né la conclusione.
Il gatto scolpisce eleganza intorno a sé semplicemente muovendosi. Come Michelangelo era in grado di vedere la futura grazia delle sue creazioni sublimi ancora imprigionata nel blocco di marmo, così il gatto sa anticipare intorno a sé tutta l’aria che sarà necessario fendere per dar vita alle sue movenze elegantissime.

In particolare, ai tempi della mia strascicata adolescenza, questa simbiosi felina raggiunse picchi di intensità tali che la mamma ad un certo punto, tra il serio e il faceto, si disse preoccupata di quelle contemplazioni che mi conducevano nei territori a me solo noti dell’estasi pelliccifera.
Temeva che mi trasformassi in una sorta di «Birdy» in versione felina, una specie di “Catty”, che ne so, pronto da un momento all’altro a zompettare fuori in giardino per andarmi a rifilare gli unghioli contro la corteccia del cigliegione.
Un’altra cosa che mi viene da dire sui gatti può sembrare la più estemporanea e fuori contesto possibile, ma in realtà è fondamentale e riguarda la loro buffa seriosità.
In ogni gatto si cela un piccolo Buster Keaton del mondo animale.
Naturalmente queste immagini sono solo degli spasmi metaforici che tentano di dire, ma non fanno altro che testimoniare l’indicibilità di questo importante capitolo micesco.
Le conseguenze emozionali della seria buffezza del micio non trovano paragoni fra le altre dimensioni sperimentabili dal sentire umano. E’ un senso di gioia che nasce come per esplodere in una risata, ma sfocia nei termini di uno stupore muto, arrovesciato su di un sorriso che non può che essere rivolto all’interno di se stessi.
Un sorriso che sente tutta l’inutilità e l’inadeguatezza dell’esporsi al mondo, perché nessun sorriso saprebbe render conto della magica laboriosità messa in gioco dal nostro amico micio, mentre intesse nell’aria beffe dal sapore autorevole, portatrici ad un tempo degli estremi di una saggezza millenaria e della freschezza ingenua dei versi di un neonato.
E nei dettagli di una mossa gattesca, talvolta mi è parso di cogliere un barlume di vero, quasi che stessi sentendo l’amico micio raccontarmi, a forza di passatine di zampa dietro l’orecchio, stiracchiate ed eccelse ronfate in pose plastiche, di come la vita possa essere grandiosa ed effimera nel contempo, gloriosa e beffarda, il tutto però sempre con grande classe.

Ecco, lo sapevo che non sarei riuscito a dire tanto sul gatto, e soprattutto con un minimo di ordine e comprensibilità. Il gatto è per me un pensiero troppo elevato e che sento troppo.
Ma quello che ho cercato di dire sono stati quei pochi tratti che mi sembravano essenziali per definire il mio modo di sentire la felinità.

sabato 11 luglio 2009

Al garsòn con la spèńa in d'al fianch

Ragazzi, non mi viene uno straccio di idea in questi giorni...niente, nada, nix, tabula rasa.
Pazienza...in attesa che qualche pensiero mi torni a casa offrendomi il supporto per buttar giù due righe, vogliate gradire questo classico del buon umore
(...a parte le facezie: questa è una grande canzone!!!...)

mercoledì 8 luglio 2009

Yesterday don't matter if it's gone

Stasera volevo andar per pensieri, ma non ne ho trovato le forze.
L'unica cosa che mi è passata per la mente è stata questa:



...perchè Capitan Harlock è un dogma di fede e non si può discutere e poi perchè a volte penso che forse mi piacerebbe tornare bambino. Ma dopo due secondi mi ravvedo e mi dico che non ne varebbe la pena, perchè "yesterday don't matter if it's gone"

domenica 5 luglio 2009

L'oblio nei muscoli


«...I bambini erano davvero come i cani? Potevano penetrare i segreti altrui, conoscere le persone per istinto?...
[...]...I bambini sono più sensitivi degli adulti. La vita di un bambino si svolge interiormente più di quanto non si creda. Un bambino può distillare in un solo istante tutta una gamma di esperienze di cui non ha neppure una conoscenza precisa. L'antropologia ce lo spiega in parte. Ma non ci dice molto, perchè sono troppo grandi le lacune della conoscenza umana che devono essere colmate dalle supposizioni.
La prima cosa che si insegna a un bambino è l'infallibilità e la necessità del precetto, e al momento in cui il bambino sarebbe abbastanza grande per arricchire le nostre conoscenze sulla psiche, ha dimenticato tutto.
L'anima cambia pelle ogni anno come fanno i serpenti. Non si possono rievocare emozioni provate un anno prima: ci si ricorda solo che una certa emozione era associata a un fatto fisico ben determinato.
Ma tutto ciò che resta ora è una specie di fantasma di felicità, un rimpianto indistinto e senza significato. L'esperienza: perchè dovremmo imparare la saggezza dall'esperienza? Solo i muscoli ricordano, e ci vuole un esercizio ripetuto all'infinito per insegnar qualcosa a un muscolo...»

"Zanzare"
William Faulkner - 1927

Ci sono concetti, idee, pensieri, sensazioni, intuizioni vagamente abbozzate nella mente, che ti capita di inseguire lungo gli anni, senza mai riuscire a riordinare quel flusso di "pensato" in un disegno di sintesi riassuntivo e coerente.
Poi incappi in un brano come questo e ritrovi tutto quel coacervo di sensazioni concettuali che schioccano nello spazio brevissimo di poche frasi, come condensate sulla punta della frusta di un sapientissimo domatore di significati esistenziali.
Non è mai una spiegazione in senso stretto quella che se ne ricava. E' solo un ritratto più vivo e più completo, dipinto in una forma unica ed irripetibile, non traducibile con parole sostitutive, pena la perdita della grazia sospesa che quel disegno reca con sè.

Qui Faulkner coglie in pieno il paradosso di come la formazione dell'esperienza di ciascuno si fondi inevitabilmente anche sull'atto del dimenticare. La nostra primordiale sapienza di bambini la perdiamo per strada e dopo che ne siamo sgusciati fuori, di lei ci rimane poco più di un bozzolo rinsecchito, come capita alla farfalla che osserva il suo vecchio abito da crisalide.
Stupenda è l'intuizione del fatto che della fanciullezza permangano sensazioni "muscolari", una volta inevitabilmente svanita l'essenza vera del "sentire bambino".

Dovessi tentare di spiegare ciò che nella mia percezione personale di adulto rimane come sensazione primaria dei ricordi della mia bambinità, indicherei la diversa percezione del tempo provata nelle due diverse età.
Paragonerei allora il "vivere nel tempo" ad una cavalcata in groppa ad un cavallo.
Da bambino sentivo che fra me ed il cavallo del tempo non c'era quasi differenza, eravamo un essere solo e non c'era nemmeno la sella a frapporsi nel contatto diretto.
Crescendo ho visto e sentito il cavallo del tempo precisarsi sotto di me sempre più distinto e delineato. Si stava trasformando in un essere "altro", esterno da me, mentre sella, briglie e altri finimenti si formavano nel frattempo a rimarcare ancor più nettamente la dualità intervenuta.


sabato 4 luglio 2009

And the murderer is...

Ciao ragazzi!
Già più volte ho dato dimostrazione in questa sede di saper eccellere in misura egregia nella nobile arte del fraseggio sul nulla. Oggi però mi volevo superare, tentando il record mondiale di infrangimento del muro del suono del niente puro.

***

Dunque...ho sentito dire da qualcuno in tv che ogni libro fondamentalmente reca in sè la struttura del giallo, seguendo in sostanza i meccanismi primari di tale genere letterario.
Questo non nei termini di un'affinità in senso stretto con l'arte di Rex Stout ed Ellery Queen, bensì nel nome di una parentela che accomuna ogni opera scritta intorno ad un nucleo di mistero in senso lato, che lentamente viene disvelato nel corso della narrazione-trattazione-disquisizione condotta dall'autore del libro.
Per farla breve, in ogni libro si cela l'«assassino».
Non importa l'argomento affrontato, non importa con quale tecnica, non importa in quale fra i generi del "raccontare" comunemente codificati lo scrivente intenda collocarsi (romanzo, saggio, racconto, articolo di giornale, trattazione scientifica, memoriale, componimento poetico, ecc.).
Chiunque si metta di fronte alla pagina bianca per trasmettere significati attraverso la parola scritta, lo fa nell'ottica di condurre il lettore lungo la lenta scoperta di un piccolo nucleo di sorpresa, nella prospettiva di un cammino che culminerà con lo scoprimento di un arcano angolo di stupore pregiato.
A ben vedere tutto questo è anche assimilabile al "concetto" di strip tease.
Lo scrittore è anche in un certo qual modo un esibizionista e si diverte un mondo a togliersi di dosso velo dopo velo, indumento dopo indumento, concedendo il più ampio agio alle movenze eleganti del proprio argomentare, giocando col lettore a lasciar intravedere, sino a portarlo al coinvolgimento totalizzante finale, alla manifestazione di una nudità concettuale condivisa alla luce del sole della comprensione.
Ogni atto del raccontare implica dunque, in senso figurato, sia indagini che smutandamenti.


Nel caso particolare della mia presente affabulazione, l'indiziato principale l'ho trovato stamattina nell'orto.
Un grosso fiore di un blu quasi artificiale, tendente al viola metallico, vispo di sottili petali a stelo, tanti e dritti come capitava solo sulla chioma di Johnny Rotten ai tempi d'oro. Guardandolo, mi veniva da considerare come faccia strano a volte ritrovarsi sotto gli occhi una cosa che si presenta nella sua forma meno usuale.
Per di più se il suo aspetto meno noto è assai più bello ed affascinante di quello affermato come il più comune.
Chissà, per tanti magari anche il sembiante più generico di questa pianta, legato alla fase in cui il suo frutto è maturo, avrà poco da dire. Io stesso ho sempre associato di più il suo nome a vaghi ricordi di bambino, a non meglio precisate battaglie contro il logorio della vita moderna, a quello stranissimo Carosello che vedeva protagonista un Ernesto Calindri assiso al limitare dell'esagerato traffico cittadino, mentre sorseggiava un bicchierino del ritemprante elisir in questione.
E non solo mi domandavo quale aspetto preciso avesse quel tanto decantato frutto dal quale l'essenza liquorosa era tratta, ma nella mia campagnolità fanciullesca ci rimanevo di sasso e non riuscivo a capire come fosse possibile gustarsi in santa pace un goccetto stando a pochi metri da quella moltitudine motorizzata, io che fino ad allora non avevo mai visto più di 5 macchine tutte in una volta sola, e per giunta con sommo mio turbamento, un pomeriggio afoso di luglio sulla provinciale.
Oggi il testimone pubblicitario è passato di mano ed un po' più prosaicamente tutta la faccenda è divenuta l'ennesima Storia Tesa di quel mattacchione di Elio, ma all'epoca dei miei incanti bambineschi quell'ortaggio si vedeva poco anche dall'ortolano. Nemmeno da lui certi "esotismi" erano ancora sbarcati.
Ma ormai l'incanto dell'ignoto è roba dei tempi andati e quel frutto mi si presenta adesso addirittura sotto casa, per giunta sfoggiando i vari passaggi di tutte le sue forme mutevoli, compresa quella meno nota, ma più graziosa e sfavillante.
Lo si era capito subito insomma. Questo non era tanto un giallo alla Agatha Christie, ma piuttosto un appressarsi al colpevole alla maniera dell'ispettore Maigret, indagando sugli aspetti psicologici e sul vissuto del maggiore indiziato, per coglierlo in fallo, sorpreso fra i risvolti più nascosti delle sue magagne affettive.
E il colpevole stavolta ha un solo, semplice nome: carciofo.



Lo so, lo so, avete perfettamente ragione: stavolta vi ho propinato un fraseggio sul nulla veramente scandaloso, eccessivo...però, se ci pensate su bene, da quale altra parte avreste potuto leggere una storia gialla nella quale i panni dell'assassino sono vestiti dal carciofo?
Come dite?
Cosa stanno mormorando i più discoli dei miei lettori assiepati negli ultimi banchi laggiù in fondo?
Mi accusate di aver lasciato cadere a metà strada la similitudine dello spogliarello, per non arrivare ad ammettere che a fine storia mi sono inevitabilmente ritrovato col carciofo di fuori?
Ahi, ahi, ahi!!! Com'è dura e pungente la verità quando te la ritrovi nuda fra i piedi...


mercoledì 1 luglio 2009

Principessa Poison De' li Veleni Prince

Non so se è più colpa del deserto melodico-creativo che acquista sempre più metri nel territorio odierno della musica pop, oppure se sia semplicemente dovuto al fatto che andando su con gli anni la capacità di assimilare novità si affievolisce, lasciando posto solamente alla matusalemmaggine incipiente in me.
Fatto sta che sempre meno canzoni nuove colpiscono il mio stupore di questi tempi. Però talvolta succede ancora, e quando succede è sempre la stessa sensazione di quando ero bambino e poi ragazzino: mi sento in sintonia con l'«adesso» e pienamente figlio del mio tempo, un tempo del quale per altri versi non sono sempre così entusiasta.