giovedì 29 novembre 2012

We were pioneers


Nel corso della quasi vita di una quasi persona quasi normale quale io sono, le fasi di “pionierismo” attraversate sono state diverse. Il fatto di essere capitato a far parte di una generazione che ha visto trascorrere dinnanzi a sé le accelerazioni del progresso tecnologico più vertiginose da che si è cominciato a tener conto degli eventi storici, ha contribuito notevolmente al fenomeno.

Basti dire questo: mentre oggi il lattante medio nasce praticamente già con un tablet in mano, quando ero bambino io si pretendeva invece di cavar fuori del divertimento da quel paio palline di plastica durissima appese ad una corda, il cui scopo consisteva nell’ottenere un rimbalzo sequenziale “a tutto tondo”, con sommo sprezzo dell’incolumità di nocche e falangi. Altro che “touch screen”: ti andava bene se ne uscivi evitando di finire nella lista dei mutilati civili per motivi ludici.

Tra i vari pionierismi affrontati ricordo con molto affetto ad esempio la gradualità evolutiva del nostro mondo televisivo di un tempo. Fa tenerezza pensare adesso al vecchissimo apparecchio in bianco e nero, col trasformatore dalla piccola spia rossa che pesava un accidente, due soli canali e una pazienza boia ad aspettare che tutto il marchingegno si scaldasse, sperando che il quadro la piantasse finalmente di roteare su se stesso come la buffa ruota di un criceto catodico. Per dire, soltanto l’introduzione di Rai3 mi apparve all’epoca come una rivoluzione strabiliante.

Una notevole fase di pionierismo tecno-esistenziale l’ho conosciuta anche con l’avvento di internet. La prima connessione casalinga mi pare di averla impiantata intorno al 1999. Prima di quel momento fu tutto una sperimentazione para-goliardica e comunitaria praticata coi miei amici. Le prime volte, si sentiva un gran parlare di ‘sto internet, ma nessuno ne disponeva a casa. Solo alcuni avevano un pc come si deve e di certo a Gillipixiland, estremo avamposto di poetica barbarie, la possibilità di connettersi è arrivata tempo dopo rispetto a tutte le altre località civilizzate.

Per saziare la curiosità riguardo al nuovo feticcio messo a disposizione dalla tecnocrazia imperante, non restava allora che organizzare spedizioni raccogliticce di villici giovinastri alla volta della città, dove la nuova meraviglia che ci avrebbe transitato nel terzo millennio era disponibile a nolo, stile baldracca megabytale. La metafora non è scelta a caso. Se pensate infatti che l’oggetto di ricerca, durante quelle proto-navigazioni telematiche, fossero gli scaffali virtuali della biblioteca del Congresso, vi state incamminando sulla strada sbagliata. Le pagine agognate andavano piuttosto a parare nei più disparati ambiti riscontrabili lungo i gradi della scala di valori del miglior spirito pecoreccio. La logica della cosa suonava più o meno così: dato che si paga a tempo, tanto vale farlo fruttare al massimo della densità d’interesse, questo tempo. E qual è l’interesse più mediamente denso del medio giovinastro in stato avanzato di adolescenzialità ritardata? Non ve lo sto neanche a scrivere per esteso, per non recare offesa al vostro acume (…i meno intuitivi sappiano che il concetto è condensabile in una paroluzza di 4 lettere, alla quale spesso s’inneggia per popolare spontaneismo, con testimonianze grafiche istoriate sui muri delle stazioni e degli autogrill più esclusivi).

Fin da quei primordiali e vetero-belluini approcci col nuovo strumento tecnologico, mi accorsi di una caratteristica di internet che credo continui a rappresentare ancora oggi una delle sue forze principali. Mi riferisco al suo rappresentare una sorta di moderna lampada di Aladino, per di più esente anche dal classico vincolo dei tre desideri canonici. «...Su internet c’è tutto...»: questa affermazione l’ho sentito ricorrere spesso e sotto certi punti di vista la ritengo condivisibile. Forse però è meno condivisibile l’ampliamento immaginifico ad infinitum che nella fantasia comune si è andato facendo riguardo al nuovo mezzo, trasformato così in vero e proprio veicolo d’espressione di una “desiderabilità” pura ed illimitata.

Fatto sta che sotto questa veste veniva visto l’internet dei primi tempi dagli occhi scarsamente informatizzati di un gruppetto di campagnoli in avanscoperta epocale alle porte della città. Onnipotenza mista ad onniscienza pensavamo di andare ad estrarre da quei pochi centimetri quadrati luminosi. L’allegra combriccola di Grandi Fratelli ci sentivamo, impazienti di tuffarci in una dimensione che immaginavamo straboccante di tutti i tipi più straordinari di Grandi Sorelle, quasi sperassimo di venir a scoprire persino l’esistenza al mondo di individui umani di genere femminile che sono soliti portarsela in giro con la riga orizzontale (…mi riferisco all’acconciatura dei capelli, ovviamente).

Il locale dotato di postazioni internet era molto frequentato da umanità giovanilastra di ogni tipo. La riservatezza, praticamente una chimera. Al timone si doveva piazzare allora il più “meno esperto” di noi, quello che aveva un minimo di familiarità nell’abbassare rapidamente finestre, nello zittire schermate, nel dissimulare all’occorrenza ricerche calienti. Tutt’intorno, una corona caciaronesca di copiloti suggeritori in seconda, ciascuno vociacchiando le più assurde richieste, ogni volta regolarmente riecheggiate dal controcanto ridanciano del coro di tutto il resto della compagnia: «...Ma nooo, daaai, questo è troppo da maniaci!!!...».

Come da miglior tradizione di tutte le lampade d’Aladino che si rispettino, anche le nostre avventure internettiane alla ricerca dell’introvabilità estrema del desiderio perduto, si concludevano sempre con dei nulla di fatto clamorosi, compensati almeno da tanto divertimento e preziose risate. Nella foga di far scaturire l’inimmaginabile, ci si sparava più che altro delle gran paginate scritte di risultati dei motori di ricerca di allora, col loro fiuto ancora parecchio farlocco rispetto alla segugità sconfinata del google attuale. Oppure, scartabellando fra i presunti meandri del proibito smodato, ci si ritrovava ad approdare su siti dal candore più lindo che si potesse pensare.

Ma la nemesi suprema dello sfregatore di lampade scornato, ci toccò in sorte con una delle ricerche più strampalate, azzardata a giusto coronamento di chissà quale brain storming ultra-demenziale. Dopo aver ricercato fra gli anfratti dell’indicibilità goliardica esageratamente smisurata, eravamo capitati su un sito dedicato a talune peculiari ed innominabili esternazioni gassose, fisiologicamente manifestate dall’essere umano con compresenza opzionale di sonorità annesse. Con l’intenzione di deliziare le aspettative riderecce della ciurma, il nostro nocchiero sbagliò clamorosamente la consecutio temporum fra l’avvio di uno di quei file “retro-melodici” ed il giusto livello del volume, finendo per far scaturire dalla perfida macchina un gran tuono simil-petale che devastò per intero l’aere video-giochereccio del locale, con inevitabile figura da peracottari rimediata in gran stile da tutto l’equipaggio di marinai virtuali sgangherati.

A volte ne riparliamo ancora, coi miei amici, di quelle lontane avventure da proto-naviganti della fantasia, in mari stranieri ed ostili. Ed ovviamente si ride sempre, ancora. Ormai internet ce lo siamo messi in casa tutti, ed abbiamo scoperto che può servire anche a finalità diverse da quella monotematica dei nostri primi approcci.

La mia postazione domestica in particolare è dotata tuttora di una caratteristica ultradecennale, conservata tale e quale fin dalla prima connessione. Siccome l’attacco alla linea telefonica è situato ad una decina di metri dal computer, da sempre, quando voglio accedere ad internet, devo tirare un cavetto per farlo arrivare sino al modem, nel quale ogni volta lo devo innestare. Ho pensato già varie volte di ovviare a questa scomodità obsoleta. Ma due motivi mi hanno sempre fatto desistere. Uno è il fatto che a questa piccola procedura preparatoria ormai mi sono affezionato, ed essa mi ricorda anche certi buffi aneddoti casalinghi. Come ad esempio quella volta che uno dei miei mici gironzolanti per casa si dilettò a mangiucchiarmi il filo, lasciando sul pavimento proprio due bei pezzettini mozzati di netto con cura, mentre io, nell’altra stanza, non sapevo a quale santo votarmi per riuscire a capire come diavolo non si riuscisse ad attivare la connessione.

L’altro motivo sta nella possibilità, una volta visto quello che mi interessa sul web, di potermi sentire definitivamente sconnesso nel vero senso della parola, dopo aver cavato fuori fisicamente lo spinotto dal modem ed arrotolato il cavetto nei pressi del telefono, pronto per un nuovo collegamento a venire. Non tanto per evocare chissà quali sensi di un mal rinnovato ed ipocrita rifiuto luddistico. Internet, nella mia scala di “accessori socio-esistenziali”, rimane pur sempre un fattore di grande importanza.

Il punto della questione sta piuttosto nella soddisfazione ricavabile dalla sconnessione assoluta. Per riconciliarmi appieno con la consapevolezza di come in fin dei conti sia sempre meglio aver ben chiaro in mente che le donne nella realtà effettiva sono solite portarsela appresso con la riga messa in verticale (parlo sempre dell’acconciatura dei capelli…e cos’avevate capito?!?!?).


lunedì 19 novembre 2012

Angeli con le surreali


Sono pronto a scommetterci, una caterva simile di freddure non l'avete mai sentita...

Un ometto aveva acquistato un’automobile. Non sapeva cosa farsene, dal momento che non aveva la patente. Era affetto da una rara forma di amnesia a singhiozzo. Ecco perché non gli potevano dare la patente. Non è che non fosse assolutamente idoneo alla guida, in teoria. Ma magari succedeva che, stando al volante, si scordasse di colpo a cosa servono i semafori, oppure come si rallenta la marcia del veicolo e così via.

E questo era niente. Gli capitò persino di comprarsi un'automobile invece di due etti di prosciutto cotto. Si era appunto dimenticato della sua impossibilità autistica, quella volta che infilò la porta di un autosalone, dimenticando nel contempo la finalità stessa degli autosaloni, ben deciso a conseguire finalmente, chissà come mai proprio lì dentro, l’agognata licenza di guida. Nel lasso di tempo dei quattro passi fatti addentrandosi nel locale, anche la dimenticanza del motivo per cui s’era introdotto nel negozio lo colse con inesorabile regolarità. Abbozzando di fronte all'irresistibile blandizia del rivenditore, non gli rimase altro da fare che comprarsi un’automobile.

Il giorno dopo, quando se n’era ovviamente già scordato, arrivò a casa dell'ometto la vettura. Gli omini dell’autosalone erano venuti a consegnarla in grande stile. Stupito, l’ometto dimenticante, conoscendosi, li ricevette in ogni caso di buon grado. Eccezionalmente si ricordava di aver appena guardato nel frigorifero alla ricerca dei due etti di prosciutto cotto che era convinto di aver comprato in mattinata ed intendeva mangiarsi per cena. Non avendo trovato poc’anzi il prosciutto, alla vista degli omini con la vettura, gli ci volle un attimo a fare due più due: doveva aver firmato il contratto all’autosalone, convinto di comprare due etti di qualcosa al bancone self-service di un autosalume.

Questo stato di amnesia a sprazzi gliene faceva succedere di tutti i colori, tanto che avrebbe potuto scrivere un libro intero, raccontando le sue strambe avventure. Peccato che pochissimo dei fatti successi rimanesse depositato nel suo ricordo. Scordandosi spesso le cose che aveva mangiato il giorno prima, faceva ad esempio settimane intere ad abbuffarsi dello stesso piatto. Un'overdose di spaghetti allo scoglio gli procurò un inizio di scoliosi.

C’erano poi periodi in cui le amnesie lo coglievano più di rado. Allora un senso di sconforto calava in lui mentre considerava la sua condizione, dato che gli rimaneva impressa leggermente più a lungo. Si recava allora dal suo dottore. Questi gli ripeteva sempre che “doveva farsi animo”. Era la frase prediletta dal medico: «…Si faccia animo, so che non è un disturbo da poco, ma ci può convivere, si faccia animo…». L’ometto dimenticante si mise di buzzo buono e si fece veramente animo. Si fece molto animo. Si fece troppo animo. Si fece talmente tanto animo, che gli venne una punta di anemia.

Nel condominio dell’ometto dimenticante, viveva una giovane famiglia con un figliolo di una decina d’anni, il piccolo Alberto, bambino non cattivo, ma piuttosto vivace. La mamma del pargolo trascorreva intere giornate a chiamare e rimbrottare il bimbo per qualche marachella o per mille altri motivi: «...E Alberto di qui, e Alberto di lì, e Alberto di su, Alberto di giù...». L’ometto dimenticante non poteva evitare di udire a tutte le ore l’immancabile cantilena tanto che ad un certo punto si fece pure una settimana a letto con l’albertosi acuta.

Un giorno, l’ometto dimenticante conobbe una donna, professione pilota di linea. Era una bella signora sempre elegante, che a furia di attraversare banchi nuvolosi di cirri, soffriva leggermente di cirrosi. Per questo motivo, la donna aveva dovuto prendersi un periodo di riposo. Durante la licenza, per tenersi un po’ impegnata, si era messa a fare vendite porta a porta di sensazioni di volo. Con questo genere di servizio, aveva pensato di andare a coprire quella fetta di mercato occupata dalle persone timorose di salire su un aereo. Il suo insegnante al corso di vendita di sensazioni smarrite, un pasticciere in pensione di Tortona che per hobby coltivava glicine, ripeteva spesso durante le lezioni: «...Anche se la gente ha ormai raggiunto un tasso di glicemia intollerabile, ricordate che il mercato è pur sempre una grossa torta...».


Il primo cliente della donna pilota fu proprio l’ometto dimenticante. Lei suonò al suo campanello, presentandosi nel pieno fulgore di tutta la sua aerea eleganza. «...Chissà...» pensava l’ometto mentre faceva accomodare la signora in salotto, «...ne avrò combinata un’altra delle mie, facendomi carpire qualche firma una qualche volta che mi serviva invece soltanto mezzo chilo di parmigiano...». L’ometto dimenticante non ricordava di aver mai volato in vita sua e nemmeno gli era chiaro se avesse paura o no di viaggiare in aereo. Sta di fatto che con i racconti narrati così appassionatamente dalla signora pilota, gli parve effettivamente di volare per davvero. Lei aveva una voce calda e pastosa, avvolgente, un vero e proprio intortamento con la cigliegina sopra.

L’ometto dimenticante, al colmo del rapimento narrativo e dell’ammirazione, un po’ confuso ed emozionato, voleva ricambiare la signora pilota di tutto quel bene ricevuto attraverso i suoi racconti. Rovistò a suo modo nella cianfrusaglia mnemonica che si ritrovava ed alla fine, il complimento più carino che gli riuscì di tirare fuori fu: «...Ma lo sa che lei è proprio una signora...ecco, come dire: proprio una signora ventosa...». L’amnesia dell’ometto funzionava in maniera imprevedibile. A volte, la consapevolezza gli tornava tutta d'un botto. Allora il ricordo si faceva vivido come l'attimo esatto della marchiatura impressa a fuoco sul posteriore di una vacca nel vecchio West. Era in quei casi che si rendeva irrimediabilmente conto di aver appena pronunciato un'incontrovertibile vaccata. 

Ma il candore e la svagatezza dell'ometto conquistarono la donna pilota. Dopo una frazione di momento in cui fra i loro sguardi corse una leggera scarica di imbarazzo muto, la signora pilota scoppiò in una fragorosa risata, con gran sollievo partecipe da parte dell'ometto a sua volta sorridente. Una volta placata l'impennata di ilare complicità innescata fra i due, la signora pilota chiese all'ometto dimenticante se avesse per caso gradito uscire a cena con lei, qualche sera.

Fissarono per un giorno a caso di uno dei week-end seguenti. Trattandosi dell'ometto dimenticante, la vaghezza dell'appuntamento, oltre ad affascinare tremendamente la signora pilota, era d'obbligo. L'ometto dimenticante, scordandosi regolarmente la nozione di week-end, si presentò in perfetto orario un mercoledì sera. La signora pilota, sempre più affezionandosi all'inaffidabilità dell'ometto, oppure sempre più affidandosi alla sua affettuosità, si vestì in un battibaleno per uscire, col suo solito fare elegante per natura.

Quel loro primo appuntamento si aprì con spettacolare non senso. Camminavano sul marciapiede, immersi cordialmente in una nuvoletta di chiacchiere di ricognizione, quando un gran trambusto si diffuse per la strada. Una valanga gigante di mollica di pane rotolava di qua e di là, rischiando di travolgere tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Un passante, scampato fortunosamente all’impatto, raccontò all’ometto dimenticante ed alla sua nuova amica pilota che si trattava di un fornaio andato completamente nel panico.

A parte questo furtivo interludio iniziale, la serata dell’ometto dimenticante e della sua nuova amica pilota trascorse molto piacevolmente. Una volta entrati nell'elegante ristorante, l’amica pilota, levandosi il cappotto, aveva svelato una scollatura molto seducente. La misteriosa e buia scriminatura del seno era emersa in forma così sferoidale e prorompente che l’ometto si pigliò subito una bella sinusite. Girandogli le spalle per consegnare il cappotto alla guardarobiera, lei era riuscita inoltre a scatenare nell'ometto dimenticante anche una sequela di sensazioni siderali.

Quando si trovava insieme all’amica pilota, l’ometto dimenticante aveva la sensazione che il suo  disturbo mnemonico si affievolisse. Anzi, il suo difetto, mitigato dalla gentile presenza aviatoria di lei, si mutava quasi in pregio. L’amica pilota, con tutto il tempo trascorso fra le ali di tanti tipi di velivoli, aveva sviluppato una leggera forma di alitosi. Stranamente questa caratteristica fisica, in altri contesti non certo esaltante, divenne subito molto cara all'ometto dimenticante. Anzi, in seguito si accorse addirittura che, fra gli ingredienti principali nella ricetta dell'incipiente innamoramento che si andava cucinando negli atri del suo cuore, quell'inusuale aromaticità di fiato divenne uno degli aspetti della signora pilota che non dimenticava mai, trasformandosi in fonte di nostalgia di lei nei momenti in cui non stavano insieme.

L'ometto dimenticante si rimpinzò di due bistecche, scordandosi di averne appena divorata un'altra, ordinò tre primi, perché guardando ad esempio le gare olimpiche in tele, aveva sempre detestato vedere due degli atleti sul podio che ricevevano soltanto l'argento ed il bronzo. E poi parlava all'amica pilota con soavità, inanellando una graziosa serie di piccoli poetici strafalcioni.

Più l'ometto dimenticante si profondeva senza sosta in tale accumulo di stramberie delicate, più nell'animo della signora pilota lievitava il fervente desiderio di ritrovarsi a planare con lui negli sconfinati cieli dell'intimo confronto sensuale.

Come la signora pilota poté felicemente constatare, fare l’amore con l’ometto dimenticante era un’esperienza multiforme, pluricromatica ed incessantemente cangiante. Una volta giunto a tagliare il traguardo di una prima fatica amatoria, l’ometto dimenticante si scordava quasi subito di aver  gustato da pochi attimi i dolci frutti della fusione androgina, ed era pronto a ripartire di nuovo lancia in resta. L'ometto dimenticante non ricordava di aver mai fatto l'amore in modo così intenso e coinvolgente. A dire il vero, non ricordava nemmeno se avesse mai fatto l'amore, prima di averlo fatto con la sua amica pilota. 

Questa serie di circostanze fece sì che al primo decollo, la signora pilota dovette amorevolmente illustrare tutte le modalità di volo all'ometto dimenticante: come si maneggiava la cloche, come si entrava ed usciva dall'hangar, come si comunicava con la torre di controllo, l'utilizzo del carrello nei continui atterraggi e decolli (in modo da non nuocere alla sfericità delle ruotine), quali erano i panorami più suggestivi da sfiorare a volo radente, oppure gli aeroporti più piacevoli nei quali fare scalo.

Ad ogni nuova ascesa in quota, era poi necessario ricominciare la lezione di volo sempre da capo, cosicché di volta in volta lei poteva guidare lui su rotte amorose incessantemente rinnovate e sconfinate. La signora pilota si divertiva poi a canzonare con affetto l'ometto dimenticante, rivelandogli magari, all'inizio di una nuova planata fra le nubi dei sensi, che fare l'amore consisteva nello stare affacciati insieme alla finestra, vestiti solo dalla cintola in su, guardando il cielo spalla a spalla. L'ometto, grazie all'effetto taumaturgico sortito dalla presenza dell'amica pilota, ricordava ormai molte più cose di quante non desse ad intendere. Finse in ogni caso di stare affettuosamente al gioco e dopo dieci o quindici minuti trascorsi alla finestra con l'arietta fresca a tenere in stallo le carlinghe delle pance, girò il capo di lato ed atterrando con uno sguardo a sorriso nel tepore caro del fiato di lei, sussurrò: «...Questa volta mi è piaciuta tanto, è stato molto bello...».

Non fu quella l'ultima volta che fecero l'amore durante la loro prima magica nottata. Mentre la signora pilota meditava che probabilmente non sarebbe più tornata al suo impiego sui voli di linea, dal momento che non avrebbe più potuto ritrovare là emozioni minimamente paragonabili a quelle provate volando con l'ometto dimenticante, fecero ancora l'amore tante altre volte, prima di atterrare addormentati e spossati l'uno sulla pista delle braccia dell'altra. Quando si svegliarono, andò a finire che fecero l’amore persino in una coltre di fiori di loto, certi ormai di potersi infischiare anche del rischio di contrarre l’otite.

Ed ecco come fu che l'ometto dimenticante, pur non potendo guidare l'automobile che aveva in garage, imparò a volare.

mercoledì 14 novembre 2012

Piccoli boom diseconomici in tempo di crisi



Una volta sentii Vittorio Sgarbi fare una bellissima considerazione riguardo a «Le diable au corps», il romanzo di Raymond Radiguet («Il diavolo in corpo» - 1923). Non ho letto «Il diavolo in corpo» e nemmeno ricordo per filo e per segno la riflessione sgarbiana, per cui stavolta siamo messi proprio male. Nondimeno mi piacerebbe imbastire un discorso intorno a questi temi, intrecciandoli con un piccolo dettaglio quotidiano osservato nei giorni scorsi, più un’epifania del lettore di tutt’altra origine, dalla quale, allo stesso modo, sono stato calamitato di recente.

Mi sono documentato e, sulla Garzantina di letteratura, a proposito di «Le diable au corps» ho trovato il seguente, succinto, ma interessante sunto: «…storia di un amore del tempo di guerra, nella prospettiva stupita e inquieta  di un adolescente costretto a subire le regole della sconfitta esistenziale degli adulti...».

Il caso di Raymond Radiguet (1903 – 1923), poeta e scrittore francese, impersona forse meglio di qualunque altro il fenomeno del genio artistico sublimato dalla morte nella dimensione di un eterno riferimento ai valori della giovinezza. Visse soli venti anni, ma nel breve lasso di tempo di un lustro o poco più, fece in tempo a scrivere due romanzi (l’altro è «Il ballo del conte d’Orgel», pubblicato postumo nel 1924) e una raccolta di poesie («Le joes en feu», «Le gote in fiamme», anch’essa postuma, del 1925), nonché a fondare nel 1920, insieme a Jean Cocteau, una rivista d’avanguardia artistica intitolata «Le Coq».

L’osservazione di Sgarbi era semplice ma molto efficace. La poetica fondamentale di «Le diable au corps» si incentra sull’idea dello stato di grazia in cui si dipana la giovinezza. Tutto il mondo intorno può anche andare in fiamme, ma il parallelo del proprio vissuto interiore, in quel periodo della vita, è plasmato in continuazione da folgoranti stupori ed “eroismi della gratuità”, in grado di far vivere come immersi in un ininterrotto stato esistenzialmente febbrile. Il protagonista di «Le diable au corps» vive una storia d’amore molto coinvolgente con una donna di qualche anno più grande, ed al cospetto di questo dato così totalizzante per il proprio vissuto personale, anche l’immane tragedia della Prima Guerra Mondiale, uno dei momenti più disperati e disumanizzanti dell’intera storia del mondo, si muta quasi in uno sfondo sfocato e senza sostanziale importanza immediata.

Si badi bene: non è questione di superficialità o di “apatia civile” e sociale, da parte del protagonista di «Le diable au corps», e nemmeno c’entrano il cinismo, l’indifferenza. Si tratta molto più nobilmente di dinamiche esistenziali dalle quali difficilmente ciascun essere umano può esimersi. Per quanto sia smisurato l’universo, per quanto infinite possano essere le stelle, enormi le galassie ed i pianeti rispetto alla nostra misera esistenza individuale, quest’ultima sa tuttavia riservarci immensità interiori la cui estensione emotiva riesce sempre immancabilmente ad oltrepassare in proporzioni persino quello “sproposito dimensionale” celeste. Non c’è infinitezza materiale o storica che un nostro incontaminato e semplice sentimento non sappia sopravanzare con la pura forza del proprio paradossale imporsi a noi stessi.

Come al solito, gli aneddoti tratti dalle mie osservazioni quotidiane sono sempre ben più modesti, rispetto alle originali fonti artistiche in riferimento alle quali mi pare di volta di in volta di poter stabilire un’affinità poetica. Ma la poesia non è mai questione di dimensioni. 

Durante le mie solite camminate sull’argine, vedo (e sento) spesso, appena più sotto la piccola altura di difesa fluviale, un gruppetto di bambini sui dieci anni o poco più, che fanno scoppiare dei petardi. Si dedicano interi pomeriggi alla futile operazione, vari giorni alla settimana, e le piccole esplosioni si susseguono a raffica, senza tante pause. Conosco abbastanza questi bimbi, e meglio i loro genitori. Non sono teppistelli molesti frutto di famiglie problematiche. Sono ragazzini normali, un po’ vivaci forse. E brave persone sono le loro mamme e i babbi. Mi è sorta così una miriade di pensieri fatti a forma di sorriso maldestro, nel considerare questo loro pervicace attaccamento allo spreco economico più futile, praticato in un momento storico in cui tutto intorno, il resto dell’umanità è indaffarata a darsi di gomito, in un vicendevole e continuo ammonirsi riguardo alla drammatica verità di fondo: «…C’è la crisi…». Quei ragazzini non sono stupidi e vagamente credo intuiscano già di stare sprecando soldi sudati con difficoltà dai rispettivi genitori. Ma la loro natura li spinge a rivendicare il proprio diritto ad essere felicemente inconsapevoli. L’energia vitale propria del periodo bambinesco che stanno attraversando s’impone loro senza troppe titubanze o interrogativi ulteriori. La gioia sprigionata da quei mini-botti, per i loro piccoli animi acerbi, è incommensurabilmente indicibile rispetto ad ogni altra ragionevole considerazione.

Visitando i paraggi di questi pensieri, mi se ne è poi imposto un altro ancor più singolare ed indistinto. Mi sono domandato se forse, chissà, in fondo in fondo non stiamo sbagliando proprio ogni cosa, affidandoci esclusivamente a tutto il tecnicismo ed alla commisurata ragionevolezza messi in gioco nel tentativo di superarla, questa crisi. Supportato anche dalla suggestione fornita da alcuni bellissimi versi letti sulla quarta di copertina di «Lettere luterane», una raccolta di illuminati articoli scritti poco prima di morire da Pier Paolo Pasolini, sono rimasto col dubbio se, insieme a tutte le ricette economiche che da più parti si vanno ammannendo, non sarebbe forse altrettanto efficace saper riscoprire nell’intimo dell’umanità un po’ della freschezza di quella insensata energia, ancora custodita incontaminata nell’animo degli svagati bombaroli in miniatura di mia conoscenza.

Non a caso, rileggendo varie volte il densissimo poetare di Pasolini, mi è sembrato che le sue parole si armonizzassero bene con l’eco dei mitraglianti scoppiettii provenienti da poco oltre l’argine:

«…Siamo stanchi di diventare giovani seri,
o contenti per forza, o criminali, o nevrotici:
vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare
qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare.

Non vogliamo essere subito già così sicuri.
Non vogliamo essere subito già così senza sogni…»

lunedì 5 novembre 2012

Il mantra del non, ovvero la tetta totale



Non mi sento bene
non mi sento male.

Non mi sento sostanziale
non mi sento irrilevante.

Non mi sento del mondo
non mi sento irreale.

Non mi sento immaginabile
non mi sento impensabile.

Non mi sento giovane
non mi sento vecchio.

Non mi sento felice
non mi sento senza gioia.

Non mi sento forte
non mi sento debole.

Non mi sento profondo
non mi sento superficiale.

Non mi sento acuto
non mi sento ottuso.

Non mi sento italiano
non mi sento americano.

Non mi sento in patria
non mi sento all'estero.

Non mi sento colto
non mi sento ignorante.

Non mi sento incolto
non mi sento seminato.

Non mi sento maschio
non mi sento femmina.

Non mi sento umano
non mi sento disumano.

Non mi sento bello
non mi sento brutto.

Non mi sento biondo
non mi sento moro.

Non mi sento superdotato
non mi sento poco attrezzato.

Non mi sento attivo
non mi sento passivo.

Non mi sento pratico
non mi sento teorico.

Non mi sento virtuoso
non mi sento vizioso.

Non mi sento pudico
non mi sento immorale.

Non mi sento potente
non mi sento impotente.

Non mi sento fottuto
non mi sento fottente.

Non mi sento eccitato
non mi sento de-erotizzato.

Non mi sento penetrante
non mi sento penetrato.

Non mi sento soffocato
non mi sento non respirato.

Non mi sento senza senso
non mi sento non sensuale.

Non mi sento stitico
non mi sento fluido.

Non mi sento spirituale
non mi sento fisico.

Non mi sento peloso
non mi sento glabro.

Non mi leggo
non mi sfoglio.

Non mi vesto
non mi spoglio.

Non mi sento grasso
non mi sento magro.

Non mi sento profumato
non mi sento puzzolente.

Non mi sento senza odore
non mi sento aromatizzato.

Non mi sento evaporato
non mi sento condensato.

Non mi sento sazio
non mi sento affamato.

Non mi sento consumatore
non mi sento consumato.

Non mi sento appagato
non mi sento gratuito.

Non mi sento utile
non mi sento superfluo.

Non mi sento ricco
non mi sento povero.

Non mi sento saggio
non mi sento stolto.

Non mi sento affascinante
non mi sento sgradevole.

Non mi sento compreso
non mi sento da comprendere.

Non mi sento sveglio
non mi sento addormentato.

Non mi sento a bordo
non mi sento a riva.

Non mi sento allenato
non mi sento fuori esercizio.

Non mi sento furbo
non mi sento stupido.

Non mi sento alto
non mi sento basso.

Non mi sento cotto
Non mi sento mangiato.

Non mi sento amato
non mi sento odiato.

Non mi sento solo
non mi sento insieme.

Non mi sottraggo
non mi addiziono.

Non mi divido
non mi moltiplico.

Non mi sento particolare
non mi sento universale.

Non mi sento degno di nota
non mi sento indegno di nota.

Non mi sento stonato
non mi sento senza nota.

Non mi sento un playboy
non mi sento uno sfigato.

Non mi sento presente
non mi sento passato.

Non mi sento di oggi
non mi sento di domani.

Non mi sento qualcuno
non mi sento nessuno.

Non mi sento “di” qualcuno
non mi sento “di” nessuno.

Non mi sento vero
non mi sento finto.

Non mi sento niente
non mi sento tutto.

Non mi sento esattamente me
non mi sento non-io.

Non mi sento
non mi assaggio nemmeno più.

sabato 3 novembre 2012

La soluzione aguzza il problema


Uno squarcio nel cupo del velo,
abbaglio di appiglio.

Trama compromessa
tirando qualunque filo.

Uscire al di sopra del velo,
districarsi dalla trama.

Per non scoprire con la cura
il peggior volto di quella paura.