sabato 30 ottobre 2010

Quando Gillipix s’intonacava…


Quante volte ho fatto il chierichetto io, da bambino…

Al di là di come il proprio personale rapporto con la religione si è in seguito sviluppato crescendo, quasi tutti hanno fatto il chierichetto a Gillipixiland. O meglio, dalla trafila “mini-ecclesiastica” erano esonerati giusto i bambini catalogati nella risma dei “ribelli”, per loro stessa natura. Talvolta pure fra i più “rivoltosi”, se per caso appartenevano a famiglie pie e devote per lunga tradizione consolidata attraverso diverse generazioni, avvenivano reclutamenti pressoché forzati.

Alla fin fine, io non ricadevo in nessuna delle categorie previste per la suddivisione. Non derivavo da nessuna tradizione familiare di particolare devozione, e tanto meno ero un piccolo sovversivo. Nemmeno ci avrei tenuto più di tanto, ad andare a fare il chierichetto. Mi lasciassero a casa a giocare coi miei LEGO, che per me la felicità ed il grado massimo tollerabile di ostentazione della mia piccola persona, risiedevano tutte lì.

Ciononostante, i piccoli un po’ riservati e imbranati come me, finivano immancabilmente per essere coinvolti in faccende né eccessivamente volute, ma nemmeno rifiutate più di tanto.

E fu così che, come per un’infinità di “crocicchi di scelta” incontrati successivamente nel corso degli anni, anche il fatto di intraprendere la strada della “chierichettitudine” si verificò all'incirca per caso. Non esordii nemmeno in una messa della domenica, ma entrai in quel mondo, per così dire, dalla porta di servizio.

Mi trovavo a perdere il pomeriggio di un giorno qualunque con un pugno di amici a zonzo per strade campagnole familiari come le nostre tasche, quando alcuni di loro ricordarono l’impegno di dover andare a servire messa.

Capitò che, per giustificate esenzioni prontamente sbandierate dai “ribelli” e per impegni millantati da alcuni altri, col numero risultante degli unici due disponibili, non si raggiungesse il quorum.
Il minimo di una squadra di chierichetti era dato da tre piccoli “intonacati”. Il plenum, la formazione al gran completo, necessitava di un quartetto, ma sotto i tre non si sarebbe dovuto andare, perché tre erano le mansioni principali da adempiere.

I due bimbi già destinati al servizio, guardandosi in po’ intorno e soppesati i diversi poteri contrattuali distribuiti nel rimasuglio della piccola compagnia, non poterono fare a meno di concludere la loro disamina deliberativa, uscendosene fuori con un: «…Gillipix, vieni te, dai…», invito al quale io, facendo appello al mio proverbiale “decisionismo”, ribattei fermamente: «…Eh, va beh, verrò…».

Associo ancora il ricordo di quel primo debutto sull’altare, già bello e che addobbato con la lunga veste rossa parzialmente adornata dalla più breve cotta bianca, a certi indeterminati timori che immagino debba provare un attore ignaro del copione, spinto a calci sul palcoscenico. Gli amici, già scafati del “mestiere”, e nemmeno il prete, non mi avevano spiegato nulla, dato che eravamo giunti in canonica in extremis. Semplicemente, eseguii le istruzioni sussurrate in diretta dal “collega” al mio fianco, muovendomi come un automa cerimoniale e fluttuando in una sensazione stranissima di esposizione “para-mediatico-teatrale”, in corso tutta principalmente nella mia testa, dato che a seguire la messa ci saranno state sì e no una decina delle solite vecchiette più affezionate.

In quei momenti non lo sapevo ancora, ma quella doveva essere la prima di una trafila lunghissima di messe servite. Non entro nel merito di cosa la religione significasse per me a quei tempi, e nemmeno di ciò che ha significato in seguito ed che significa ora. Sarebbe un discorso troppo complesso, personale, densissimo di contraddizioni così eclatanti da non saperne rendere conto nemmeno in minima parte.

Quello di cui posso parlare invece è il ricordo positivo lasciato in me da quel lungo periodo di “chierichettitudine”: sembrerà strano, ma queste credo siano le cose che succedono ad essere bambini introversi ed imbranati. La cosa ha forse a che fare con un certo senso della religiosità, ma presenta anche aspetti, per così dire, più “secolari”.

Ebbi modo poi di impararmi con comodo alla perfezione tutta la procedura cerimoniale, divenendo quasi uno “specialista”: come muovermi al seguito degli spostamenti del prete sull’altare, come scegliere il momento giusto per prendere il piattello per la fila della gente alla comunione, versare le ampolline, ripiegare il tovagliolo. C’era un qualcosa di misterioso celato dietro quei gesti, che mi faceva sentire come avvolto da una nuvola di sospensione extra-temporale.

E poi c’era quella componente “comunitaria” così intensa, quel sentirmi così radicato nell’essenza del paese, svolgendo il mio piccolo ruolo “chierichettario”. Dalla mia “privilegiata” posizione di “mini-ecclesiastico”, mi sono sentito di volta in volta fuso a momenti intensissimi di gioie, dolori, sorrisi, lacrime; assaporando, per dire, anche certi disorientanti risvolti di noie ancestrali, nel corso di una miriade di funerali, battesimi, sposalizi, Pasque, Natali o altre cerimonie del tutto ordinarie. Fare il chierichetto era come essere un filtro, continuamente chiamato ad imbibirsi del clima umano del paese.

Anche il parroco probabilmente dovette accorgersi di questa mia graduale presa di possesso del “personaggio”, tanto che veniva a reclutarmi spesso anche nell’orario di scuola, se per caso capitava un funerale in contemporanea. Questo fatto, nella mia semplicità di bambino, mi ricolmava di una sorta di bizzarro orgoglio nascosto, e che tuttavia mi premuravo bene di non rivelare ai compagni di classe. Mi piaceva sentirmi segretamente appagato di quella mia posizione da “esperto dell’identità collettiva” del paese.

Ricordo ancora con un filo di commozione il particolare funerale di una vecchina.
Si celebrò appunto in orario di scuola, ed il prete puntualmente si presentò in aula per richiedere alla maestra di poter usufruire della mia “chierichettevole professionalità”. La vecchietta era originaria di una piccolissima frazione di Gillipixiland, e volle essere seppellita nel minuscolo cimitero di quel luogo, quattro semplici mura sotto l’argine del Piccolo Fiume. La giornata era piovosa, e seguendo il feretro lungo la carraia fangosa che portava al ristretto riquadro di tombe, mi inzaccherai il buffissimo paio di stivaletti anni ’70 che indossavo quel giorno. Tornato in classe, mi sentii particolarmente fiero dei “gradi di fango” conquistai sul campo, anche perché fu quella l’ultima persona ad essere ospite di quel piccolo camposanto.

Alla fine, smisi a fatica la “chierichettale” divisa bianco-rossa
Negli ultimi tempi delle elementari mi stava addirittura troppo corta, lasciando scoperta buona parte dei polpacci, ormai. Venne poi la fase dell’adolescenza, con le sue crisi inevitabili, di carattere sia spirituale, sia corporale.
E anche se ovviamente avevo iniziato ormai a capire da tempo che tornare indietro non sarebbe stato possibile ed in fondo nemmeno auspicabile, nondimeno la dismissione di quella divisa rimase per lungo tempo uno dei sintomi per me più intensamente associati a quelle nuove e sconosciute crisi.



giovedì 28 ottobre 2010

Take a walk on the wrong side


Stasera mi becca un po' male, ragazzi. Portate pazienza e concedetemi alcuni momenti di "finalità nulla", facendo due passi barcollanti nel regno dell'insensato...Here we go:


La notte che si decidevano le sorti del mondo
ero troppo impegnato a grattare la pancia al mio gatto

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Ce n'ho due palle così piene del mio ego
che non riesco a tollerarlo se non per iscritto

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L'unica soddisfazione nell'alzarsi all'alba
è poter soprendere il giorno ancora in pigiama
...e diversamente da uomini e donne
a quell'ora lui ha l'alito buono

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Non c'è fiore talmente profumato che alla fine non puzzi
come non c'è adolescenza talmente felice
da riuscire a terminare un giorno o l'altro

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Mi sono inoltrato con voi
nelle profondità più dense della foresta dell'inspiegabile
l'atmosfera era grave e la sete di sapienza si palpava viva nell'aria
ma adesso ve lo posso anche dire: a me scappava una scoreggia

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L'indicibile non ha mai limite così estremo
da non poterci aggiungere ancora un'ennesima poetica cazzata


domenica 24 ottobre 2010

Professione segnalibro


Gli oggetti più o meno inanimati frutto dell’ingegno dell’uomo sono solitamente portatori di due ordini di significati. Da una parte stanno le caratteristiche pratiche, mentre il rimanente dell'essenza dell'oggetto è colmata da tutti i suoi aspetti immateriali.

Ora, fatto 100 il valore globale delle due componenti (in realtà, scindibili giusto giusto ai fini di una “flanellosa” analisi teorica come la presente), possiamo probabilmente dire che l'oggetto inanimato conosciuto con il nome di libro si accaparra un buon 80 – 90 % di valori impalpabili, lasciando il rimanente 20 – 10 % agli aspetti concreti.

Un lettore veramente sottile, tuttavia, sa appassionarsi parecchio anche agli aspetti fisici dei testi che gli passano per le mani e sotto gli occhi, perché alla fine questi si contaminano e si contagiano irrimediabilmente con le parti più propriamente spirituali del volume.
In un libro, al di là del contenuto che rimane il fulcro centrale del suo senso, non secondari sono infatti anche numerosi aspetti “sensuali”: la sua gradevolezza al tatto, la maneggiabilità, l'aspetto grafico. Persino l'odore fornisce a mio parere un ingrediente molto importante nel determinare l'affinità elettiva fra il lettore e l'oggetto del proprio “nero-desiderio-su-bianco”.

Fra tutti i diversi fattori fisici di un libro, ce n'è poi uno a mio parere non stimato come meriterebbe. E' vero che del libro, questo rappresenta una parte accessoria, ma forse è proprio questa sua sussidiarietà a determinarne la scarsa stima.
Mi riferisco al segnalibro.

Un buon segnalibro è un compagno di viaggio fondamentale lungo il cammino di una buona lettura. Spesso mi succede di non sentirmi pienamente a mio agio, immerso nello scorrimento delle vicende del libro che sto affrontando, se non sono certo di poter contare su di un degno segnalibro nel momento in cui riporrò sul comodino il mio “generatore di pensieri” di turno, in attesa della prossima volta.

Il lettore entrato in reale simbiosi con l'oggetto delle sue scorribande “andiri-venienti” fra le righe, giunge a sentire scorrere flussi di vita effettiva all'interno delle parole che ha eletto a sue predilette con la lettura in corso. E quei flussi desidera controllarli, sentirli affini, abbracciarli tutti ed immedesimarsi in essi, calarsi nel loro allegorico apparentamento con le principali linfe di un corpo pulsante e vivo.

Il segnalibro svolge dunque un compito fondamentale. Si frappone lungo quei flussi, li incanala, li sospende nella pausa del lettore, si incarica di tenere in caldo torrenti impetuosi di emozioni, significati, evocazioni.
Un segnalibro non può essere allora un cartoncino basta che sia. Deve possedere anch'esso una propria dignità e gradevolezza materiale, perché svolge un lavoro indispensabile alla migliore riuscita della nostra lettura.

A me capita spesso una cosa da vero maniaco dei libri.
Se durante la giornata qualche preoccupazione mi affligge, qualche improvvisa rogna, grande o piccola che sia, si frappone fra me ed un mio sereno approdo al rassicurante molo di una serata lieve e spazzata da fastidi di sorta, un subitaneo pensiero gettato al libro di turno che mi attende sul comodino ha la proprietà di procurarmi micro-attacchi di felicità condensata, accantonando per alcuni istanti il malumore.
Ecco, se durante quelle fulminee escursioni fra le suadenti promesse dell'appagamento letterario, mi scappa anche pensato che un buon segnalibro in quel momento mi sta “tenendo fedelmente il passo”, il senso di rassicurazione è amplificato e ancor più ingentilito.

Il segnalibro non sta semplicemente lì, schiacciato fra due pagine. E' invece un direttore di emozioni, uno smistatore di significati, un orchestratore di melodie concettuali, è degustatore delle nostre attese e pregustatore di delizie auspicate, è il dispositivo di arginatura della nostra bramosia di sapere come andrà a finire, depistata temporaneamente solo dalle mancanze di tempo o dagli inutili impicci extra-librari.

Un segnalibro insomma è di per sé oggetto modestissimo, ma come spesso succede anche nella congrega degli umani, anch'esso, al pari degli individui umili e perennemente in ombra, si prende l'incarico di nobili accadimenti fra i risvolti delle nostre avventure di lettori.



sabato 23 ottobre 2010

L’insospettabile felicità dell’«effeunista»


Come tutte le persone felici, Gabriele non immaginava nemmeno di esserlo. La serenità delle sue giornate rimaneva costantemente appesa ad un filo di malinconia sempre serpeggiante in sottofondo, come un ingannevole controcanto.

Gabriele di lavoro faceva l’«effeunista». In realtà, nella grande ditta di progettazione di programmi informatici, questo termine lo conosceva solo lui. Gli piaceva definirsi così fra sé e sé, pensando al proprio ruolo, anche se nell’organigramma la dicitura ufficiale figurava in termini aziendalmente molto più pomposi.

La mente dell’«effeunista» sta dietro a tutto ciò che sgorga fuori alla pressione del pulsante F1 sulla tastiera. La mente ed il cuore, nel caso di Gabriele.
Un’introversione costantemente sospesa sull’orlo dell’incomunicabilità era il tratto personale che gli aveva fatto guadagnare la massima sensibilità in questo tipo di mestiere. Spesso è proprio un timido la persona più indicata per capire l’animo della gente. Il timido ha perennemente puntato su di sé il “teleobiettivo” del giudizio altrui. Questo finisce per trasformarlo in una sorta di “cartina al tornasole” sempre aperta all’atto di cogliere le più impercettibili sfumature della mutevolezza umana.

Le guide confezionate da Gabriele a corredo dei prodotti realizzati nella grande ditta, non di rado costituivano una delle parti più affascinanti di ciascun programma stesso. Chi utilizzava quei programmi assistito dalle indicazioni amorevolmente precise di Gabriele, percepiva qualcosa che oltrepassava il puro affiancamento tecnico. Non è eccessivo dire che addentrandosi in uno di quei programmi sotto la guida di Gabriele, ci si sentisse voluti bene.

C’era poi Micol André, giovane collega di Gabriele, non tanti anni meno di lui.
Nella grande ditta, le fonti di gravitazione femminile erano numerose, ma Micol Andrè aveva sempre rappresentato uno dei pianeti più luminosi, per Gabriele.
Micol André era impiegata in un’altra ala del grande edificio e Gabriele la vedeva solo di tanto in tanto.
Micol André era felicemente fidanzata e agli occhi di Gabriele la circostanza rendeva l’immagine di lei ancor più pregiatamene rarefatta nella sua irraggiungibilità, già di per sé estrema per il mimetico e defilato mordente affettivo dello schivo «effeunista». Si era soffermato solo alcune volte a scambiare poche parole con lei, nel mezzo di uno dei numerosi labirintici corridoi della grande ditta.
Solo in un’occasione, facendo capolino sotto la coda del “cavallo di Troia” offerto dall’espansività di un collega che lo accompagnava, Gabriele riuscì a parlare un po’ di più con Micol Andrè, assetato come suo solito di addentrarsi con piede vellutato nelle vite altrui. Non per una forma di morbosa curiosità, ma per l’empatia che sentiva con urgenza di dover condividere con ogni essere umano.
Le aveva chiesto di quel nome straniero e aveva saputo delle sue origini per metà francesi, rese ulteriormente fascinose dal dettaglio del doppio appellativo, per di più impreziosito dall’ambiguità della seconda parte. In Francia Andrè è nome maschile ed i genitori si erano riservati il vezzo di chiamare così la loro figlia come a suggellare l'originalità del proprio amore per lei (a dire il vero questa sfumatura, Gabriele, da buon «effeunista», l'aveva letta soltanto fra le righe di quella conversazione).

Con tutto ciò, la figura di Micol Andrè rimaneva per Gabriele un’icona privilegiata e non meglio specificata, di una desiderabilità mantenuta sempre, inevitabilmente ma con soddisfazione, sul filo teso del mai detto e del mai fatto. Nell’archivio personale di Gabriele, Micol Andrè figurava alla voce “affetti generici sotto controllo”.

Poi una notte, del tutto inopinatamente e insospettabilmente, l’aveva sognata, con grande vividezza. La prima parte del sogno si era dipanata all'insegna di una tenerezza estrema. Addirittura, la nebulosa narrazione onirica aveva proditoriamente inserito in copione piccoli ed insignificanti contatti fisici fra Micol Andrè e Gabriele.
Lievi abbracci, sfioramenti casuali, tanto sbalorditivi nella loro pudica intensità, non solo perché mai avvenuti nella realtà, ma anche per il fatto di non essere mai stati effettivamente evocati dalla fantasia di Gabriele, ora immerso nella soffusa incredulità del proprio sogno.

Un altro dettaglio della distorsione paradossale di cui il sogno era inzuppato, veniva dal contrasto clamoroso fra sentito e pensato, fra percepito e creduto. All'atmosfera sostanzialmente casta e priva di risvolti sensuali del racconto sognato, faceva infatti da riflesso distorto la straordinaria potenza con la quale la virilità di Gabriele, smodatamente impennata contro le seriche quinte del suo ventre, aveva voluto commentare a lungo i diversi passaggi della trama del sogno.

L'acme emotivo giunse infine da alcuni dettagli particolarmente toccanti, fra le vicende sognate. Nella tipica confusione dettata dai labili confini del percepito onirico, Gabriele si era ritrovato faccia a faccia con Micol Andrè, a sentirsi raccontare da lei il proprio contrastato rammarico di non poter essere la sua donna.

A questo punto Gabriele si era ridestato.
In tempo per continuare a mantenere vive e chiare nella mente ormai sveglia le immagini sognate, pur riuscendo a rimanere immerso ancora alcuni attimi fra le sensazioni pure, assaporate nel sonno. L'aspetto più piacevolmente bizzarro dell'avventura onirica di Gabriele si manifestò proprio a questo punto. Non sussisteva traccia né sospetto di tristezza alcuna, in quegli attimi sparpagliati di strascico affettivo, traghettati nella semi-veglia.
C'era soltanto una calma vasta, controllata, soddisfatta.
Solo in quei momenti Gabriele si rese conto che il soggetto del suo sogno non era stato Micol Andrè. Aveva invece sognato il desiderio amoroso stesso nella propria essenza più pura, fatta di inafferrabilità eterna.
Tutto ciò parve a Gabriele molto bello.

E vagando con mano esploratrice sotto le coltri, per vedere d'afferrare sensazioni disperse là sotto, altrettanto rassicuranti e familiari, si riassopì ancora qualche istante, in attesa che squillasse la sveglia per una una nuova giornata da «effeunista».



mercoledì 20 ottobre 2010

«Te la do…» - «Va beh, ma io mica me la prendo…»


L’automobile presa come oggetto a sé, considerata da un punto di vista “super partes”, decontestualizzato, ci fornisce uno dei più fulgidi esempi degli stupefacenti traguardi varcati dalla tecnologia moderna.
Calata invece nell’ambito del suo “habitat naturale” odierno, ossia un elefantiaco sistema auto-circolatorio, completato da un grottesco ruolo da status symbol sempre più imbolsito e rintronato, l’automobile rappresenta probabilmente uno dei più potenti amplificatori della stupidità umana mai concepiti.

Una prova continua di questa seconda componente della schizofrenia motoristica viene offerta dal modo in cui questo oggetto culto della modernità viene vieppiù “demenzializzato” in ambiente pubblicitario.
Girano due spot in tv di questi tempi, che la dicono lunga su questo aspetto.
Non ricordo né marche, né modelli in questione, ma anche se li ricordassi non li direi. Cosa importerebbe ormai? Oggi ti puoi comprare un’auto dal nome norvegese, potendo stare certo che la proprietà risiede in India, il motore lo fanno in Bagladesh, il telaio a Taiwan e le pastiglie dei freni a Brembate di Sopra.

Il primo filmino pubblicitario si apre con questa festa in una villa piuttosto elegante. Bella gente che danza, si diverte, drinka, flirta. Viene l’ora di salutarsi e una delle invitate, non ricordo bene per quali circostanze, si ritrova nella necessità di essere riaccompagnata a casa da qualcuno. Qui entra in scena “il nostro eroe”, che si offre di darle un passaggio. Il viaggio è piacevole e, si presume, piuttosto lunghetto, attraverso un bel paesaggio che aiuta a creare un certo feeling fra le gradevoli atmosfere dell’abitacolo, sino a che i due giungono sotto casa di lei.
Visti i presupposti, succede quello che nella realtà non si verifica praticamente mai, nonostante ogni presupposto: lei (che detto per inciso, con le parole del poeta Andrea Mingardi, è una gnocca Abarth) lo invita a salire. E’ a questo punto che l’eroe si fa genio assoluto: «…No, grazie…» risponde, «…volevo solo guidare un po’…» e se ne va via, lasciandola lì sola sul marciapiede, quasi sgommando.

No, fammi un po’ capire: generazioni di maghi del ribaltabile si sono arrabattati come dei matti per combinare una striminzita chiavata su certe utilitarie tanto risicate da non lasciare quasi nemmeno il posto per fare scivolare una mutanda, e te mi snobbi un agevole occultamento del salamino praticato in tutta comodità nell’alcova di una super carrozzata del genere? E per quale motivo poi? Guidare una macchina? Ma ti rendi conto che sei lì lì per ottenere d’ufficio il diritto all’eutanasia gratuita passata dalla mutua?

Ma non ci curiamo di lui, guardiamo e passiamo al secondo spot di cui vi parlavo.

Questo è costruito a flash d’immagini veloci, con una voce di sottofondo, che poi sarebbe quella del protagonista. Le immagini, a commento delle parole, starebbero a rappresentare una sorta di sunto di tutte le ultime tendenze modaiole più in voga, che la voce narrante tratta con un tono non scevro da una certa dose di malcelata supponenza
E i social network, e i brunch, e gli happy hour, e così via “puzza-sotto-il-naseggiando”, il protagonista ci tiene a sottolineare che lui non è uno che si mischia alla massa, non è un pezzente come quei poveri omologati schiavi delle mode e delle vacuità più grossolane.
Ma il più bello viene alla fine: quale sarebbe il nobil gesto che tale eroe di turno si accinge a compiere per suggellare in maniera superba la propria assoluta ed integrale estraneità al conformismo? Sta per comprarsi una macchina, marca X, modello Y.
Cioè, prima fai tanto il puzzone e l’esclusivo, che quasi t’immagino normalmente solito sbocconcellare filetti di panda bolliti in brodo di stelle alpine e poi mi vieni a raccontare che il massimo della tua originalità è comprare un’auto, ossia una roba che a breve, ben che vada, sarà in possesso giusto giusto di quei miseri altri tre o quattro milioni di persone al mondo?
Sai allora cosa ti suggerisco io, se vuoi andare davvero al di là delle mode più trite e ritrite? Ma va a ciapà i ràt, va làh, va làh!



domenica 17 ottobre 2010

"Dù iù scpich inglish?" - "No, dènghiu, ài èm astemio"


Ancora due spunti dispersi fra il parlare di parole, ancora considerazioni brade sulla bellezza del linguaggio e sul rispetto ad essa dovuto, con alcune scorribande lungo le stranezze che si innescano fra le lingue quando inevitabilmente fra di loro s’innestano.

Le lingue sono tante, milioni di milioni, come le stelle della canzone e i salami di Negroni. Sono tante e diverse, diversissime talvolta, ma non è capitato quasi mai nella storia dell’uomo che ciascuna vivesse la propria esistenza di lingua nel completo isolamento rispetto a quelle degli altri popoli.

Perdonate la mia smodata stupidità, ma la tentazione di dire una vaccata a questo punto è talmente ghiotta che non riesco ad esimermi: i popoli hanno sempre viaggiato, facendo così in modo di darsi continuamente la lingua in bocca a vicenda.
Il conquistatore per capire il conquistato ed invaderlo meglio; l’immigrato per annusare che aria tirava nella terra in cui approdava, e farsi fregare un po’ meno; il “turisteggiante” viaggiatore delle varie epoche, per ingraziarsi meglio le bellezze locali, evitare il rimpatrio su velivoli low-cost con elica a caricamento elastico, o vedere se magari ci fosse il modo di non finire in una bettola dove ti randellano, scopo arruolamento coatto su baleniera o equipollente bagnarola battente il vessillo del “Jolly Roger”; e così via, dandoci giù di scambi linguistici.

Le lingue dunque, per loro natura conseguente diretta della natura umana, non possono permettersi di procedere per compartimenti stagni. Sono fluide, si mischiano, si contaminano, si frizionano, si sfregano l’una contro l’altra.

E proprio qui casca il Gillipixel linguistico.

Nei punti in cui le lingue si toccano, possono accadere tante cose: buffe, stupefacenti, piacevoli o irritanti. Come sempre, quando si ha a che fare con le lingue, le cose “accadono” e le preferenze del singolo ci possono fare poco. Le dinamiche sono dettate dalla “legge dei parlanti” e ogni lingua si modifica e si amalgama su impulso di uno stillicidio ingovernabile di modi di dire che lentamente si insinuano dapprima su iniziativa di pochi, poi si diffondono, prendono piede sulla bocca di molti (anche questa immagine del piede in bocca, non è male quanto ad ambivalenza “erotonzola” indotta dalla mia supidità…), finendo per diventare regola fissa incorporata nei modi di dire comunemente accettati.

Quando due lingue vengono in contatto, succede che s’inneschino giochi di forza tesi all’assoluto rifiuto della contaminazione da un lato, oppure all’invadenza nel verso opposto.
Le lingue possono essere o troppo passive, per cui s’imbevono senza opporre resistenza di vocaboli provenienti da altri idiomi, oppure sono chiuse ermeticamente, non lasciano spiraglio a nessun refolo di accoglienza nei confronti del “dire alieno”.

Sarebbe divertente fare una ricerca riguardante i casi in cui nel corso della storia le due dinamiche si sono concretizzate.
L’episodio contingente che mi ha dato lo spunto per scrivere il presente articolo deriva dalla mia lettura in corso dei “Promessi sposi”. Ad un certo momento del racconto, non ricordo bene dove, ma mi pare nell’affrontare le vicende della peste milanese seicentesca, Manzoni cita le fonti e gli autori ai quali si rifà per la sua ricostruzione storica, e un tale Jean Bodin si tramuta para-gastronomicamente in un casereccio “il Bodino”, mentre un severo e teutonico Johannes Schenck diventa “sturm-truppen-escamente” “lo Schenchio”.

Ovviamente è meno simpatico il caso delle dittature, che nella loro tragicità, sanno dare adito in questo senso anche a risvolti parecchio grotteschi, e il fascismo non fu di certo esente dal fenomeno, anzi, si distinse per una delle più patetiche campagne di protezionismo del linguaggio.

Un po’ traendoli da miei ricordi e un po’ da citazioni trovate in rete, so fare qui solo alcuni esempi, ma sono del tutto significativi. Primo su tutti l’italianizzazione forzata del nome della cittadina di Versailles: storicamente legata al famoso trattato successivo alla Prima Guerra Mondiale, che prevedeva sanzioni severissime per la Germania ed i paesi sconfitti, venne trombonescamente rivisitata dal regime mussoliniano come l’«iniqua Versaglia».
Sulla scia di questa pretesa autoreferenzialità spasmodica, il cachet si tramutò malinconicamente in “cialdino”, la chiave inglese in “chiave morsa” ed il cognac perse buona parte della sua gradazione scadendo in “arzente”.

Questi effetti paradossali si verificano quando alle rispettive dinamiche delle due lingue che entrano in collisione non si lascia agio di esprimersi con naturalezza. Non c’è una regola fissa, e non avrebbe nemmeno senso: di volta in volta sono l’eleganza e l’efficacia del termine, la sua capacità di afferrare meglio il significato voluto, che fanno sì che prevalga la parola straniero oppure che questa non trovi permeabilità.

Ci sono casi ridicoli anche nel senso opposto, infatti. Più che ridicoli, fastidiosi direi, almeno per me. E stavolta non bisogna andare tanto indietro per ritrovarli. Parlo di quel vezzo tutto contemporaneo di trasferire di sana pianta parole straniere (per lo più inglesi) nel nostro bell’italiano, al solo scopo di conferire un’aura di supponente superiorità verbale al discorso. Succede spesso con l’«economichese»: ad esempio, mi causano intensa irritazione cutanea nelle aree sub-scrotali, termini come “know-how” (“conoscenze” non bastava?), “skills” (“abilità”, “competenze”, fanno così schifo?), “rumors” (“voci di corridoio”: cosa c’è di più colorito ed espressivo?).
Guardate, amici viandanti per pensieri, vi avviso: capitasse un giorno che uno di voi mi incontrasse di persona, che non gli venga in mente di pronunciare di fronte a me quella vaccata del termine “know-how” in contesto italianizzante, perché uno sputazzo nel bel mezzo dell’occhio sinistro non glielo leverebbe nessuno.

Le lingue ad ogni modo si sono sempre fuse fra loro, e spesso è solo il tempo che dice la parola definitiva sulla bontà di quello che ne è scaturito, oppure rivela se la strada imboccata è un vicolo cieco bell’e buono.
Ricordo sempre con piacere una lezione d’italiano al liceo, durante la quale il nostro caro professore ci elencò una serie di vocaboli inglesi, all’apparenza così insospettabilmente anglosassoni che più non si sarebbe potuto, ma grattando sotto il cui manto etimologico si rivelavano invece nelle loro evidenti radici latine: “right” poggia i suoi piedi su “rectus”, mentre “left” affonda dentro “levus”; “ship” invece fenderebbe la sua chiglia in “schifus” (dovrebbe essere un’antica imbarcazione, anche se non ricordo bene la grafia esatta…) e “Christmass” non è altro che la malcelata forma di “Cristus Missus”, “Cristo inviato nel mondo”.

Insomma cari amici viandanti per pensieri, come vedete, fra le lingue, funziona un po’ come fra le persone: i fattori che contano di più sono sempre l’ascolto reciproco e la pazienza nell’approfondire le rispettive conoscenze.
Solo così è garantita una felice e profonda compenetrazione vicendevole.



giovedì 14 ottobre 2010

Mi prude un piede e sono felice


Le parole sono sacre.

Non mi sto riferendo a specificazioni religiose o mistiche del linguaggio, aspetto che riguarda la sensibilità di ciascuno e ambiti troppo elevati per essere sfiorati dal presente mio ragionamento, qui e adesso.
Mi riferisco invece a tutte le parole intese nella loro essenza più pura di parole, da quelle ordinarie e quotidiane, alle più auliche, acute e sottili. Anzi, mi riferisco forse soprattutto alle parole umili che usiamo normalmente nella vita pratica.
La sacralità maggiore risiede in esse.

Mi capita talvolta di fermarmi a ripetere mentalmente una parola, una normale, piccola, semplice, che magari ho appena utilizzato in una frase pronunciata in tutta la sua piena ed utilitaria banalità. Oppure la sussurro piano, ne gusto lo scorrere delle sillabe lungo le sinuosità e gli ondeggiamenti a cui obbliga la mia lingua, fra le vibrazioni ed i fruscii coi quali mette alla prova il senso ritmico delle mie labbra.
Oppure ancora, mi soffermo ad osservare un oggetto o un essere vivente o una sua parte, indugio a considerare un’azione o un gesto che si può fare, e mi gusto la parola corrispettiva che compete a tutte queste cose: gatto, ragazza, fiore, matita, capelli, occhio, bambino, prudere, mangiare, piede, tetta, dito, sudare, saltare, pane, pipì e cielo.

Le parole sono passate nei secoli per le bocche di milioni di umani, hanno allietato i loro cuori, messo in apprensione le loro menti, fatto vibrare le loro passioni, dato consapevolezza alle loro soddisfazioni, messo in guardia dai loro timori, donato identità ai loro progetti, fisionomia alle loro speranze, sagoma ai loro amori.

Le parole legano con un filo ininterrotto la vicenda intera dell’umanità.

Quando dico “vento”, emetto un suono che è stato nella bocca dell’uomo fin dal primordiale momento della sua consapevolezza di essere divenuto uomo. Poco importa che il nostro remotissimo avo non pronunciasse mai le due precise sillabe di “vento”. I suoni che pronunziò lui per riferirsi al medesimo fenomeno naturale erano di certo diversissimi. Ma partendo da quella lallazione primeva, si passò impercettibilmente ad una evoluzione strettamente collegata all’originale, e poi via via, per aggiustamenti minimali, la parola “vento” ha soffiato nei fiati delle generazioni successive fino ad arrivare a noi oggi, così come la conosciamo.
Per questo, per me, è sempre la stessa parola, e per questo le parole sono sacre.

Allora, provate a farci caso per qualche attimo, cari amici viandanti per pensieri, la prossima volta che pronunciate una frase semplice, senza pretese di dire null’altro che il suo significato immediato. Smarritevi nel mistero lontanissimo celato in quei suoni, siate fieri di sentirli riecheggiare in voi, abbandonatevi al piacere di lasciarli imbibire della vostra saliva e arrotolare vellutati lungo il vostro palato.

Potrete così sapere di cosa sanno le cose che travalicano il tempo.



domenica 10 ottobre 2010

Giulio e Giacomo


Dopo aver bevuto l’incanto della visione di «Jules e Jim», sulla scia dell’entusiasmo Truffautiano (…che strano, aggettivando il regista francese si ottengono esiti alquanto buffi ed improbabili: la pronuncia sarà “truffoiano”, oppure “truffotiano”? La prima è più logica, ma io per simpatia sonora, adotto la seconda), mi sto leggendo il romanzo di Henri-Pierre Rochè (intitolato sempre «Jules e Jim») dal quale il grande cineasta ha tratto il suo celeberrimo capolavoro.

Sto scoprendo una piccola perla e un modo di romanzare che a me risulta nuovo nei modi di suscitare emozioni ed immagini, pur nella sua apparente tradizionalità narrativa.

Mi piace e mi entusiasma soprattutto perché Rochè sa fare con le parole scritte tutto quello che alle mie capacità è precluso: ti apre mondi, usando pochissime parole.
Rochè dice il massimo col minimo sforzo.

Tanto è minimo il suo sforzo, che a tratti hai l’impressione di stare ad ascoltare un tizio trasognato che passando di lì per caso, si sia messo a raccontare le sue cose giusto per farti un piacere. Tuttavia l’esito non è fastidioso, come potremmo magari supporre da un simile atteggiamento.

No, nessuna sgradevolezza, né impressioni di snobismo subito, promanano dalla prosa di Rochè.
Semmai è un’atmosfera del tutto preziosa, quella a cui dà adito il suo raccontare. Col fare iniziatico di un “sacerdote del romanzo”, ci parla della vita quasi ammonendoci al tempo stesso che della vita è del tutto inutile parlare. L’unica cosa da farci, con la vita, è viverla.

E poi questo libro, mi ha riservato un’epifania del lettore fra le più belle mai incontrate. Un passo che non solo vale il prezzo del libro di per sé (…e alla fine non sarebbe poi molto, 10 €), ma mi ha fatto pure venir voglia di correre indietro in libreria e versare 10 volte tanto (forse anche per ridare un’occhiata alla giunonica libraia…non bella “ufficialmente”, ma così libresca da far innamorare. Vi sembra forse possibile evitare d’innamorarsi delle libraie, di venerdì sera?...Io sinceramente non ce la faccio, e se voi ci riuscite, vi dico bravi).

Tornando alla mia epifania: è un sunto mirabile della tematica amorosa, un condensato dei suoi significati che supplisce in poche righe alla lungaggine di mille studi sociologici, alla minuzia di altrettante indagini psicologiche:

«…Jules e Magda andarono a fare un viaggio nel Sud della Francia. Mandarono a Jim delle fotografie commoventi, nelle quali apparivano come due esseri lunari e sembravano molto uniti. Jim sperò per Jules.
Poco tempo dopo il loro ritorno, Jules disse a Jim:
“Amo Magda. Ma è un’abitudine. Non è il grande amore. Lei è, insieme, una giovane madre e una figlia affettuosa”.
“Che bella cosa!” disse Jim.
“Non è l’amore che sogno”.
“Ma esiste questo amore?”
“Certamente. E’ quello che ho per Lucie”.
Jim si trattenne dal dire: “Perché non la possedete”.
“D’altra parte” disse Jules “non perdonerò mai a una donna di amarmi così come sono. C’è in questo qualcosa di perverso, un compromesso…da cui Lucie è immune. Lei non accetta nemmeno un’infima parte di me”.
“Chiunque potrebbe pensarla così” disse Jim.
“Sì…potrebbe…” disse Jules. “Ma io lo faccio”.
“Ebbene,” disse Jim “è cosa eroica, e rispettabile. Come essere un martire. E’ la chiave della vostra vita. Se Lucie vi amasse…”.
“Non sarebbe più Lucie” disse Jules…».

Jules e Jim
Henri-Pierre Rochè - 1953



sabato 9 ottobre 2010

Pure thinking


«…In sooth I know not why I am so sad…»
“The merchant of Venice”
William Shakespeare – 1597

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Esiste una dimensione del pensiero così svincolata da “terminazioni espressive concrete” da poter essere definita “pura”?
«…Minchia, oggi cominciamo proprio con una domandina facile facile, e soprattutto se ne sentiva proprio un bisogno della malora…» commenteranno con la loro consueta sopportazione i miei cari amici viandanti per pensieri.

Ma torniamo a bocce ferme, e cerchiamo di capirci.

Diverse volte ho tirato in ballo la stupefacente celerità con la quale tutto il nostro apparato “mental- concettuale-elaborante” ci assiste nei frangenti in cui parliamo. E’ un’idea sulla quale di tanto in tanto ritorno, perché non finisce mai di causarmi meraviglia: se ci “auto-osserviamo” quando pronunciamo una frase, anche di una certa complessità, possiamo constatarlo benissimo.
I tempi in gioco sono strettissimi, e non lasciano margine ad una sequenza di elaborazioni, bensì solamente ad una quasi perfetta simultaneità: pensare la frase e pronunciarla sono praticamente un tutt’uno, dal punto di vista dei tempi. O perlomeno, sussiste solo uno scarto infinitesimale.

Rimuginando sopra a tutto ciò, mi è venuto da pensare a questa faccenda del pensiero puro. Ora, fate attenzione, perché non vi garantisco fino in fondo di non essere in procinto di rifilarvi una solenne serie di vaccate.

Se quando parlo, le parole escono dalla bocca praticamente in simultanea con l’atto del pensare, questo non vuole forse dire che il pensiero possiede un proprio riservato raggio d’azione entro il quale può operare senza agganci con qualsivoglia strumento espressivo concreto?

Uhm…no, eh?
State già digitando sul vostro cellulare il numero della neuro, meditando tra l’altro di suggerire agli infermieri di portarsi dietro una camicia di forza di quelle buone? Come darvi torto…
Cerco allora di prendere su il ragionamento entrando da un’altra porta, per vedere se per questa volta riesco ad evitare il ricovero…

Quando pronunciamo una frase, il nostro “elaboratore” non ha bisogno di spendere il tempo materiale che teoricamente potremmo attenderci per la scelta dei termini, per il loro corretto ordinamento, per il loro inserimento all’interno delle necessarie regole sintattiche, grammaticali, semantiche del discorso. “Pensato” e “detto”, vengono invece praticamente insieme (poi dipende anche dalle abilità oratorie di ciascuno, certo…).

Mi piace dunque immaginare che l’elaborazione vera e propri avvenga in una “stanzetta a parte”, dove il pensiero gira velocissimo e a suo piacimento, svincolato da strumenti “tangibili e materiali”. Se il nostro “Intel-Zuc Scentrino 2.0” fosse costretto per forza a muoversi “per parole”, i tempi risultanti di attesa per l’uscita dei suoni dalla bocca sarebbero più lunghi.
Invece parrebbe esistere un livello del pensiero che non può permettersi di perdere tempo ad usare strumenti di nessun tipo: lui elabora in perfetta purezza e le parole ci si appiccicano “in automatico”.

«…Sì, va beh…» risuona ancora a questo punto il coro greco dei pazienti lettori di siffatta tragedia, «…ma perché hai deciso di venirci ad infliggere questo supplizio proprio a noi, quest’oggi? Non potevi andartene a bere i tuoi soliti tre o quattro bianchini all’osteria, come sei solito fare?…».

Anche questo rimprovero mi trova disarmato, lo ammetto.
Ma il perché di tutto è forse a sua volta connesso al fatto che il mio delirante “menare-il-can-per-l’aia” intorno alla suggestione del “pensiero puro”, mi si è ulteriormente complicato frullandosi al discorso delle modalità di certe espressioni artistiche.

Se questo fantomatico “pensiero puro” esiste veramente, esso possiederà ampie parti difficilmente comunicabili. Infatti, solo laddove riesce ad agganciarsi ad elementi espressivi condivisi dai comunicanti, c’è effettivo scambio di informazioni e di significati fra questi ultimi. Tutto il resto è regno della poesia e dell’arte in generale, che rappresentano quell’anelito interiore teso alla trasmissione dell’incomunicabile. L’arte è il tentativo più nobile di trattare il “pensiero puro”, mai realizzato dall’uomo

Tutto questo, per arrivare finalmente a parlare della musica (in particolare, la parte strumentale di essa) e dell’arte moderna non figurativa.
Della musica (intesa nel suo più ampio “spettro”, nessun genere escluso), mi ha sempre incuriosito un fatto: fra le arti è quella che forse più di tutte riesce a raccontare l’indicibile, servendosi di una dimensione espressiva quasi totalmente svincolata da fenomeni naturali e da un codice precisamente stabilito per convenzione.

I suoni che la musica utilizza non hanno nulla a che vedere con qualsivoglia suono (o rumore) reperibile nella quotidianità. E lasciamo da parte la fondamentale eccezione della voce, che tuttavia, anch’essa, nel canto assume modalità tutte proprie. Il suono di un violino, di un piano, di una tromba, non ricreano nessun suono naturale conosciuto, se non per vaghissime similitudini (tipo il vento, o il tuono, o la pioggia, che so io…).

Anche il linguaggio, le parole, si obietterà, sono svincolate dal “materiale realistico”, non sono fatte di suoni naturali.
Questo è pure vero, ma le parole comportano un’operazione preventiva di accordo contrattuale ben preciso fra i parlanti. Ossia fanno parte di un codice esatto entro il quale ci si è messi tutti d’accordo che “cane” vuol dire quel simpatico animaletto che fa le feste e scodinzola al padrone, e “gatto” quell’altro similmente simpatico e palla-pelosetto, che però si fa un po’ più i cavoli suoi.
Nella musica invece, non c’è contratto preciso sui significati ed il vincolo con le sonorità reali è, come detto, labilissimo.

Un ambito artistico in cui invece è fondamentale l’utilizzo di veicoli espressivi tratti direttamente dal repertorio concreto della realtà, è quello delle arti figurative e “rappresentative” in genere, particolarmente pittura e scultura. Esse, nella loro accezione tradizionale, hanno sempre parlato attraverso il linguaggio fornito dalle forme della natura, corpi, oggetti veri.
Ora, l’arte “non-figurativa” ha tentato di spezzare tale vincolo secolare, praticando in questo senso una sorta di avvicinamento alle forme di espressione pura della musica.

Musica ed arti non figurative sono dunque forme espressive che, da quando esistono, si sono sempre candidate come perfetti veicoli della parte del pensiero “più pura”, di cui andavo cianciando in apertura.
Quello che dobbiamo constatare però è che se la musica, da secoli riesce mirabilmente nel suo intento, ossia parlare perfettamente alle menti e ai cuori proprio in virtù del suo distacco dal mondo, non lo stesso può dirsi delle arti non figurative. Il loro abbandono del rassicurante terreno del realismo, le ha rese infide e sospette al pubblico.
Ma come mai questo sia accaduto, non ve lo saprei proprio spiegare e forse sarà oggetto di future riflessioni.

«…In verità non so perché sono così triste…» dice Antonio in apertura del “Mercante di Venezia”, mentre io gli faccio eco, in chiusura di questo mio ennesimo delirio: «…In verità non so perché mi faccio questi pipponi mentali…».



venerdì 8 ottobre 2010

I am the walrus anyway


Ciao John, oggi ne faresti settanta, ma rimani sempre più giovane di tanti di noi.

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Un dio «...si fece un largo cappello, lo divise esattamente a metà e colorò la parte sinistra di blu brillante e quella destra di rosso vivo. Poi si recò dove molte persone stavano lavorando nei campi, alcune sul lato sinistro e altre sul lato destro di una strada.

Là, il dio si manifestò in tutto il suo fulgore. Nessuno potè fare a meno di vederlo. Grande e splendente, col suo bel cappello, iniziò a camminare lungo la strada.
Tutti coloro che si trovavano nei campi del lato destro lasciarono cadere le zappe e rimasero immobili a guardarlo, e lo stesso fecero quelli del lato sinistro.

Erano estasiati. Poi il dio sparì.

Tutti urlarono: "Abbiamo visto Dio! Abbiamo visto Dio!". Erano al colmo della felicità, ma ad un certo punto qualcuno sul lato sinistro disse: "Era proprio qui, in tutta la sua gloria e col suo cappello blu!". Allora quelli sul lato destro urlarono: "No, il cappello era rosso!"

La controversia si aggravò sempre di più, e alla fine le due fazioni innalzarono fra loro un muro e cominciarono a prendersi a sassate. Fu allora che il dio ricomparve. Questa volta percorse un tratto di strada in direzione opposta e poi sparì di nuovo. Tutti si guardarono in faccia stupiti, e quelli di destra dissero: "Avevate ragione, il cappello era proprio blu! Vi chiediamo scusa, l'altra volta ci siamo sbagliati!".
E quelli dall'altra parte: "Ma no, siamo noi che ci siamo sbagliati, avevate ragione voi!".
A questo punto erano quasi tutti completamente frastornati, e non sapevano più se continuare a litigare o fare la pace.

All'improvviso, il dio riapparve. Stavolta rimase fermo in mezzo alla strada, poi girò su se stesso, prima a sinistra e poi a destra...e tutti scoppiarono a ridere!...»

"The wisdom of no escape - and the path of loving-kindness"
Pema Chödrön - 1991




mercoledì 6 ottobre 2010

Il ritorno di S.A.M. e dei suoi paradossali amici


Una volta vi parlai dell’amico S.A.M., anche noto come «Sequenzone Accelerato Macrotemporale».

Per chi non volesse andarsi a “ri-sbarbare” il mio relativo antico scritto, agevolo rapidamente una sintesi del concetto.
Dicesi «Sequenzone Accelerato Macrotemporale» quell’artificio registico che nei film riassume lassi di tempo anche notevoli, nello spazio di pochissimi minuti, se non a volte secondi, durante i quali, taluni passaggi salienti della vita dei protagonisti (ma spesso non cruciali per l’economia stretta della trama), si condensano quasi volando via sulle note di un qualche commento affidato alla colonna sonora.
Un «Sequenzone Accelerato Macrotemporale» può concentrare anche mesi, addirittura anni, nel giro di poche inquadrature.

Uno dei più mirabili esempi di S.A.M. che mi è capitato di vedere negli ultimi tempi, anzi, a ben pensarci forse il più stupefacente mai visto, è contenuto nel film di animazione della Pixar «Up», in cui il protagonista passa direttamente dalla fanciullezza alla vecchiaia “guadando” attraverso un super sequenzone di alcuni minuti, molto commovente e densamente poetico.

All’epoca del mio mini-trattato sul S.A.M., mi avventurai in improbabili teorie sociologi-cazzeggianti.
Ciò che invece mi preme mettere in rilievo oggi riguardo al S.A.M., è che pur costituendo esso un meccanismo del tutto artificioso ed irreale, contro natura direi, alla fine piace. Questo non starebbe a significare proprio una cippa di nulla. Per dire: anche tirare strisce di coca lunghe come tutta la linea di centrocampo di San Siro, è attività che piace, pur non essendo cosa del tutto naturale nemmeno essa.

La faccenda più singolare del S.A.M., sta invece nel riuscire a farci piacere un fenomeno che se ci capitasse effettivamente nella vita, non sarebbe causa di notevole soddisfazione.
Provate un po’ ad immaginare di esservi ritrovati già in pensione, alcuni minuti dopo aver varcato la soglia dell’aula della vostra prima elementare, e poi mi saprete dire.

Eppure il S.A.M., cinematograficamente applicato alla vita altrui, trasmette un effetto consolatorio, commuove, intenerisce. Dunque, non saprei spiegare come mai, ma in sostanza un fenomeno decisamente odioso in una potenziale realtà immaginata, risulta gradevole in una finzione effettiva.

Non saprei dire come mai, ma alcune ipotesi le posso sparare lì.

Una mini-teoria è che forse non ci dispiace fino in fondo che la vita passi.
«…Fffàte rettro saragat!!!...» mi sembra quasi di udire il coro di protesta, «…a noi che la vita passi ci dispiace, eccome!!!...».
Lo so, lo so, spiace molto anche a me che passi, non temete. Quello che intendevo è che nel valutare la vita ed il suo senso, le impressioni derivate sono sempre ambivalenti e non così lineari come si potrebbe supporre.
La vita è una gran bella cosa. La vita è il nostro contenuto e il nostro contenitore.
Ma è pure una gran faticaccia.
Talvolta, quando capita di fare quel “gioco delle speranze inutili”, normalmente praticato all’insegna del motto «…Ah…se potessi tornare indietro!!!...», non sempre mi ritrovo sicuro della risposta.
Sinceramente non lo so se tornare indietro effettivamente nel tempo, mi piacerebbe più di tanto. Perché ci sarebbe da sorbirsi di nuovo tutti i guai, i piccoli o grandi drammi, le angosce, insomma, tutto l’insieme degli sforzi fatti per crescere (per quel poco che si può dire che io sia cresciuto…soprattutto mentalmente…).

Alla fine, è su tutto questo coacervo di sensazioni che il «Sequenzone Accelerato Macrotemporale» entra a gamba tesa. Spazza via i tempi morti, ancor più di quanto faccia il meccanismo filmico in genere, il che rappresenta forse la sua essenza più vera (come ricordava uno che la materia un po’ la masticava, tale Hitchcock Alfredo…).
Il sequenzone filtra le magagne, pota i problemi, scartavetra gli intoppi del tempo, che scorre così via liscio come l’olio, tanto che alla fine ci ritroviamo, seduti sulla nostra poltrona al cinema o in salotto, belli “sequenzonati” e giulivi, come l’ignaro vacanziere che continua a godersi la sua villeggiatura, mentre i ladri gli hanno svaligiato la casa (nel senso che sullo schermo ci hanno portato via una vita in due minuti, ma noi ci sentiamo bene…).

Possiamo considerare poi fra i parenti stretti del sequenzone, anche il montaggio (“Monty”: motore immobile ed essenza imprescindibile del “Blob” enricoghezziano). Ditemi infatti un po’ voi cosa c’entra quello spezzatino di inquadrature di “Monty”, con la normale visione che abbiamo delle cose nella realtà.
Una banale spiegazione potrebbe risiedere in un suo ricalcare remotissimamente la funzione del battito delle palpebre. L’ho scritto così per inciso, perché mi garbava a livello di suggestione, ma questa dello sbatacchiamento ciliare credo sia una pista di pensieri che non porta da nessuna parte.
Il refresh ottico che le palpebre ci garantiscono non ci propone ad ogni rinnovo di schermata una inquadratura molto differente da quella abbandonata un microsecondo prima. Invece il bello del montaggio sta proprio in quello, ossia che zompetta visivamente compiendo anche balzi tematici notevoli.

Prima ancora che costituire un fenomeno visivo, dunque, il montaggio si propone come dinamica concettuale. Ci aggrada perché riecheggia tutto il piacere provato quando la mente gira a mille ed associa idee con emozioni, a loro volta intrecciate a suggestioni, anch’esse frullate ancora con sogni, speranze, ipotesi, progetti, e così via, stropicciando e “pastrugnando” il tutto in barba dei limiti di spazio e di tempo.

Alla fine della fola, cosa possiamo concludere allora?
Al di là del fatto di essere divenuti parte di un vero e proprio linguaggio (quello cinematografico-televisivo) ormai codificato e consolidato, il «Sequenzone Accelerato Macrotemporale» e il montaggio ci sono particolarmente cari proprio in virtù della loro innaturalezza.
Perché ci fanno gustare per alcuni minuti l’onnipotenza di poter disporre dello spazio e del tempo godendo di prerogative normalmente a disposizione soltanto dei super eroi o di qualche semidio a scelta (che ne so: Ercole o SuperPollo…).

Anche se in un angolino della nostra mente, mentre ci beiamo di S.A.M. e di “Monty” a gogò, può sempre fare capolino quel campanello d’allarme premonitore, capace di farci subodorare lo “smadonnamento” che ci toccherà poi facendo la coda in macchina alla fine del film, uscendo dal parcheggio della multisala.
Questa volta purtroppo in un perfetto “piano sequenza”, spietato e inesorabile come un paio di calzini reduci da una settimana trascorsa nelle Adidas Torsion di un maratoneta.




domenica 3 ottobre 2010

Scompensi proverbiali


Certi modi di dire proverbiali, mi mettono un po’ d’ansia. Intendiamoci, niente di grave. Se è per questo, mi angoscia molto di più l’idea di quattro belle legnate ben assestate sulla schiena con un generoso randello, e nodoso, di noce stagionato.
Questo nulla toglie tuttavia al fatto che sviluppando una discreta sensibilità per le parole, si finisce poi per sentirle vive e ficcanti più del dovuto in certi modi di esprimersi particolarmente coloriti, con effetti talvolta bizzarri e imprevisti.

Queste piccole riflessioni mi sono accorse alla mente alcuni giorni fa, mentre assistevo ad una lezione di aggiornamento per il mio lavoro, tenuta da un bravo docente, che sapeva ben colorire e con giusta misura le sue parole, farcendole di quelle immagini “sapienzial-popolari” necessarie a rendere più fluente e lieve il proprio discorso per l’uditorio.

Ad un certo punto, per esemplificare alcune difficoltà insite in certi oggetti del suo disquisire, ha tirato fuori il modo di dire della “coperta corta”. «…L’utilizzo di questi strumenti…» suonava più o meno il suo discorso, «…ci consente un margine di azione in una determinata direzione, ma diventa problematico nella direzione correlata, e viceversa. Per cui si capisce facilmente come la coperta sia sempre un po’ corta…».

L’immagine, giusto in quella specifica circostanza, mi ha colpito oltremodo. E’ stato lì che ho cominciato a meditare sulla “invadenza immaginifica” del detto proverbiale.
Il triturare le parole sotto forma di proverbio è usanza antichissima, viene da molto lontano, e sappiamo che gli antichi erano specialisti nel forgiare immagini vivide ed efficaci. Fra gli scopi del proverbio, d’altra parte, c’è proprio l’intenzione di suscitare stupore, perché un concetto entra meglio in testa quando “fa il botto”, che non presentandosi sornione e pacato, stringendovi la mano mentre dice con somma flemma: «Piacere di conoscerla: io sono un concetto!».

Il proverbio dunque quando impressiona e vi colora a più non posso l’immaginazione, non fa altro che il suo mestiere. Tuttavia, le immagini che vi introduce nella zucca possono risultare, non dico spiacevoli, ma perlomeno scomode, malagevoli, leggermente fastidiose, foriere di equivoci paradossali. E’ l’inconveniente che va messo in conto nel possedere un’immaginazione stravagante, per non dire bacata, per non dire ancora degenerata.

Faccio un esempio brutale, per rendere meglio l’idea. Non lo trarrò dal mondo dei proverbi, ma da quello della pubblicità, che in un certo modo incarna oggi una sorta di surrogato dell’immaginario proverbiale di un tempo.
Avete presente lo spot delle patatine realizzate col porno-attore Rocco Siffredi? Ecco, questo caso mi offre l’occasione di far notare come dalla suggestione alla distorsione, il passo possa essere veramente breve. Non mi riferisco a nessuna remora di ordine moralistico, parlo semplicemente di linguaggio e delle sue potenzialità evocative.

Se parli delle patatine sul filo plateale del doppio senso erotico («…la patatina tira…»), il meglio che ti possa capitare, per associazione metaforico-espressiva, è creare un “corto circuito significante” fra il piacere del cibarsi ed altre tipologie di piaceri. Ma se tutto il discorso viene messo in bocca ad un esperto nel maneggiar l’ortaggio dall’altro “lato della barricata”, di lì a non riuscire a sopprimere la maligna deriva mentale secondo la quale quella specifica marca di patatine possa, con rispetto puntinato parlando, avere un sapore del “ca…”, è un attimo.

Per tornare al caso specifico proverbiale, questa faccenda della “coperta corta”, con modalità simili, mi ha suggerito involontari scenari di povertà, di ristrettezze, di angustie materiali, riflesse in un batter d’occhio anche nella limitrofa dimensione spirituale.

Passando poi in rapida rassegna i pochi proverbi che conosco, gli esisti sconfortanti non sono stati da meno.
«…Campa cavallo che l’erba cresce…»: ma perché?!?!?!
Non può il povero cavallo godersi un sano e felice periodo di sua giovinezza, pascolando con gioia fra verdissimi prati già belli erbosi e rigogliosi? Deve proprio aspettare di essere vecchio, bacucco e imbolsito, per potersi fare una lauta brucata con tutti i crismi?

«…Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca…»: ma perché?!?!?!
Poi chissà cosa ci fai con la moglie ubriaca? Vai a cercarti un’altra che di certo ci starà non tanto per il tuo fascino o il tuo sex-appeal, ma solo perché sei un gran trafficone di vini? E magari tutto le serve solo per farti ubriacare a tua volta e fotterti poi tutta la casa? Ci vuole così tanto a comprarsi due botti, ubriacarsi insieme alla moglie, riallineare le reciproche frequenze in lieta compagnia etilica, con il piacere aggiuntivo di sapere bella colma la seconda botte di riserva?

«…Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi…»: ma perché?!?!?!
Ma voi, vi ci siete mai messi nei panni del povero venditore di anima al diavolo? No, dico: ti ho venduto l’anima, mica le unghie dei piedi, adesso non staremo mica qui a questionare per quattro micragnosi coperchi, vero?

Sragionando su questa linea, ho pensato che l’Italia potrà dirsi una democrazia di senso compiuto, con un sistema di welfare efficiente e capace di superare persino gli standard scandinavi, solo il giorno in cui introdurrà la basilare figura socio-assistenziale del “consolatore proverbiale”.
Laddove ci sarà sentore di sconforto causato da sovraesposizione a motti e modi di dire popolareschi, ecco che il “consolatore proverbiale” si presenterà puntuale in ogni casa, pronto a lenire lo scompenso linguistico ed immaginifico patito.

Il “consolatore proverbiale” potrà di volta in volta svolgere la sua opera di compensazione sul malcapitato “proverbializzato”, sia rettificando i motti in senso paradossale ed umoristico, sia con azioni concrete vere e proprie.
«…Non facciamo di tutte le erbe un soviet…» potrà essere ad esempio uno dei suoi consigli terapeutici, «…chi rompe paga, ma poi si può rivendere i cocci al mercato dell’usato, o riciclarli con la raccolta cocci differenziata …».
O ancora: «…Avere la botte piena e la moglie ubriaca oggi è possibile: sposa un’enologa…».
Oppure, in periodo carnevalesco, si potrà altresì vedere il “consolatore proverbiale” bello addobbato con un costume da diavoletto, che giunge alla casa di un vessato da proverbi e scarica nel suo giardino un camioncino e rimorchio di pentole e coperchi, rigorosamente abbinabili.

Ma chissà quanti anni dovremo attendere ancora perché la nostra società faccia progressi di civiltà di così ampio respiro. Per il momento, non ci resta altro che consolarci alla maniera che userebbe uno stesso “consolatore proverbiale” regolarmente iscritto all’albo dei “consolatori proverbiali” professionali: «…Campa cavallo, che la coperta corta cresce…».