venerdì 27 aprile 2018

È arrivato un imbastardimento carico di...


Chi ama le parole è spesso tentato di giocarci mentalmente, a volte quasi per oziosa inerzia. Se si dispone poi di un continuo sottofondo espressivo mentale di origine dialettale, le occasioni si moltiplicano. E alla fine si stana il ridicolo dove magari i più non lo vedrebbero.

C'è questa canzone ad esempio, proposta in varie versioni da diversi solisti o gruppi: “Killing me softly with his song”. Dico subito che non mi è mai piaciuta molto, mi è sempre parsa una discreta lagna. Ma se ci aggiungiamo che fra le coloriture dialettali a me familiari, è quasi una regola strascicare un nome di persona tipo “Enzo” per trasformarlo con indolente pronuncia in “Enso”, potrete capire come quella canzone può diventare in un battibaleno una delle più grosse tavanate del mondo.

Basta un attimo e “…Chili mi sofli uid Enso…chi limi sofli uid Enso…chillimi sofli uí d’Enso…kill i mi sofli uidenso…” diventa nella mente un tormentone magmatico di grottesca portata, pronto a plasmare intere giornate di muto biascicamento interiore, in un massacro sillabico senza ritegno ai danni del povero “Enso”.

Cambiando ambito, s'incappa in un'altra zozzeria linguistica. Sempre nel dialetto a me familiare, la moglie del maiale, fra i suoi innumerevoli appellativi, ha anche quello di “roia”. Per la precisione, “roia” è la maialessa che ha figliato, la scrofa circondata da rubizzi porcellini.

Potrete immaginare quanto ci mette un cervello irrorato di questi suoni, sentendo nominare continuamente, soprattutto in questi giorni, il pretenzioso binomio giornalistico “royal baby” (in riferimento al neo-principino britannico), quanto ci mette, dicevo, cotal cervello inquinato a trasformare il tutto in “roia baby”. E fortuna che stavolta è un maschietto, quindi “il” roia baby. Perché nella scorsa british “tornata genitoriale”, trattandosi di una regal rampolla, non si faceva che menarla con “la” roia baby di qua e “la” roia baby di là, calcando dunque ancor più sull'acceleratore comico pecoreccio.

Chiudo poi con un appello linguistico in favore dei poveri cani. C'è un termine associato ultimamente al miglior amico dell'uomo e che a mio parere costituisce una vera e propria sevizia verbale. In varie città sono state predisposte delle zone verdi dove i cagnetti possono gradevolmente scorrazzare e sbizzarrirsi sotto l’occhio amorevole dei cari padroni.

Tutto molto bello, ma per amor del cielo, vi prego, non chiamatele “aree di sgambamento cani”. Non si può sentire, è un termine di una bruttezza da far accapponare persino i mocassini in finta pelle. Ho letto sul web che addirittura in certi posti la ”area di sgambamento cani” viene detta “sgambatoio”…minchia, ma no!!! Ma cosa vi hanno fatto di male questi poveri cagnetti, per trattarli così.

Ci scommetto che se potessero parlare e se sapessero che si pretende di farli stare in una “area di sgambamento”, senza dubbio non esiterebbero a controbattere, in faccia al mal dicitore di turno: “…certo caro, e tu vattene pure nella tua area d’inculamento…”.

mercoledì 25 aprile 2018

Da amorevoli mani


La bellezza di leggere un libro, viene anche da tutti i piccoli riti paralleli che ne nascono.

Un classico è annusare le pagine sfogliandole piano sotto al naso; discernere, al massimo della propria arte di detective dell’odorato, quella lieve porzione aromatica dovuta allo scaffale della libreria, dalle altre sfumature che sanno del tipo di carta usata, la colla, i materiali di copertina, oppure riecheggiano i profumi d’ombra d’un ricordo della gentilezza della libraia, indispensabile guida per scovare il volume nel labirinto del negozio.

Altro bel corollario sta nella ricerca di un valente segnalibro: ogni libro merita il suo.

Ancora, molto gradevole soffermarsi qualche attimo col libro chiuso in grembo, o fra le mani, o posato sul petto se si legge distesi, e fantasticare sulla scia di una meraviglia appena letta, distillare l’ondata di tanta bellezza assorbita.

Queste sono alcune fra le ritualità da lettore più consuete. Non so però se sono in molti a soffermarsi su una piccola suggestione collaterale, praticabile esclusivamente nella lettura di un libro di autore straniero, tradotto nella nostra lingua.

Non lo faccio secondo una regola fissa, o una tempistica precisa rispetto al punto del libro a cui sono arrivato, perché non sempre mi ricordo.
Capita così, come una curiosità improvvisa: corro rapido, con lo sguardo fra le dita, all'inizio del libro, indago curioso appena sotto il titolo interno, oppure a volte fra le primissime pagine cronologiche e “copyrightiche”, e controllo il nome del traduttore.

Non che mi dica più di tanto, la maggior parte delle volte: i traduttori sono troppo spesso sconosciuti sottovalutati, ai loro nomi non viene mai dato il risalto dovuto a quelli di veri e propri artefici decisivi della buona riuscita di un testo.

Succede però ugualmente una piccola magia: se scopro che a tradurre è stata una donna, mi prende un tuffo al cuore di bellezza aggiuntiva.

Sia ben chiaro, la cosa non parte da una questione di merito o qualitativa. Che la traduzione sia fatta bene, dev'essere scontato, al di là del genere.

Ma il fatto che venga da una sensibilità femminile, aggiunge un tocco di impalpabile sensazione, indefinibile, tanto quanto la malia dell'odore delle pagine, indeterminabile come il peso del fascino delle frasi, quando ci appoggiamo il libro in grembo.

Immagino le parole straniere originali del testo che, accolte dallo sguardo, dalla mente, dal sentire di una donna, sono passate attraverso un filtro di speciale amorevolezza.

Ripeto, si tratta in buona parte di suggestione pura, non voglio assolutamente sfiorare la questione se siano migliori traduttori gli uomini o le donne, perché sarebbe soltanto uno sciocco quesito.

Dico solo che il “tocco traducente” femminile mi è più caro per una serie di insondabili motivi, che non saprei meglio far risalire se non al mondo di una amorevolezza maggiormente consona alle corde interiori dell'altra metà del cielo.

C’entra forse un qualcosa di materno, la realtà che le donne portano la vita, e in qualche modo nel tradurre fanno nascere dal grembo oscuro dell'idioma straniero, nuovi virgulti raccontanti.
C’entra forse il fatto che alla figura della donna viene più naturale associare idee di accoglienza, ascolto, benevolenza, rispetto.

C’entra forse un’immagine che ne consegue. L’idea che le parole dell'autore, riplasmate nella forma a noi comprensibile, ci vengano consegnate dalla delicatezza di mani fra le quali hanno potuto sostare e soffermarsi tutto il tempo necessario per un'appropriata metamorfosi.

C’entra forse infine che la parola stessa è femmina, e questo in mille significati possibili.
Fatto sta che un libro, tradotto da una donna, lo sento doppiamente vivo e fremente di energia narrativa.

martedì 24 aprile 2018

L’Odiore



Fra odiare e adorare, ci sta di mezzo un complicato misto dei due, definibile con l’intensivo neologismo verbale di “odiorare”.
Il sentimento dell’odiore si prova soprattutto per persone, cose, luoghi che ci sono particolarmente cari e familiari. Si odiora ciò che si ha sotto gli occhi della mente e del cuore da lungo tempo. Per logica deduzione, ne consegue che si odiora in primo luogo se stessi.
È sulla propria persona che si affina in special forma inaugurale il senso dell’odiorato. Prima di riuscire a odiorare gli altri, si inizia odiorandosi.
Non è un caso che l’odiore, con tutte le sue bizzarre e imprecise declinazioni, oltre a contenere in sé i due verbi odiare e adorare, congloba anche il sostantivo “odore”, con gli annessi “odorare”, “odorante”, e così via.
L’odore della persona (a partire da quello della propria) è forse la componente più emblematica dell’atto di odiorare. Nel rapporto prolungato con persone, cose e luoghi, niente è più sintomatico della complessità relazionale del ritrovarsi ad adorare una puzza arcinota, oppure a odiare un profumo fin troppe volte annusato.
L’odore è la cartina di tornasole affettiva più potente, non poteva non fare da ago della bilancia nell’odiore.
L’odiore per sé, e per l’altro da sé, non è necessariamente un sentimento negativo. Tutt’altro. In quanto depositario dell’ambivalenza della vita e della realtà, l’odiore può riservare energie potenziali non trascurabili.
La lunga frequentazione di certe persone, cose, luoghi, ce li rende più o meno insopportabili, dopo un po' di tempo. È quasi inevitabile. Insopportabili, però irrinunciabilmente cari. Da qui le variegate e contorte rilevanze emotive sorgenti dallo status di “odiorante”.
Odiore non può tra l'altro fare a meno di implicare, dalla rima alla cima, l’amore; mentre in una certa sua primaria coniugazione, quella rivolta a un ipotetico “tu” ben-mal-voluto, si intinge niente meno che nell’aurea preziosità del più ambito dei metalli: “...Ti odi-oro…ti odioro..”.
Chi odiora si pone in una sorta di terra di mezzo, regno della contraddizione vivifica. La porzione di odio in atto spinge a controbilanciarsi verso l'estremo amoroso. Viceversa, il reparto degli affetti positivi viene riportato alla realtà dell’inafferrabile essenza celata in ogni tipo di felicità anelata.
L’odio e l’amore dunque si fanno da vicendevole contrappeso nell’odiore, di modo che non ci si ritrovi eccessivamente delusi e disillusi né su un versante, né sull’altro.
Odioratevi, allora. Odiorate l’esistente, odioriamo il tutto, con la massima ampiezza delle narici dell’essere, di cui siamo capaci.