venerdì 28 giugno 2013

Scultore villano, scherzo gillipixiano…

 
 
Qual è, fra gli oggetti animati ed inanimati, quello che più di ogni altro ci staziona sotto gli occhi ogni giorno, praticamente senza interruzione per la maggior parte delle nostre ore trascorse non dormendo? La risposta è talmente scontata, al limite del banale, che quando ve la dirò, immagino già ognuno voi sbottare fra sé e sé: «…Eh, va beh…ma quella non vale, è troppo facile, e poi non è un oggetto nel vero senso della parola…».
 
D’accordo, quest’ultima obiezione posso anche accettarla. Eppure non potrete non convenire con me che quel semi-oggetto è proprio lei: la nostra mano, o meglio, sono loro, le nostre mani. Le vediamo ogni minuto e anche quando non le vediamo, impegnano quasi sempre le code degli occhi, con il loro fuggevole tramestio là sotto, a coronamento dei polsi.
 
La mano non è soltanto portatrice di evidenza visiva, ma direttamente o indirettamente sa spaziare anche in tutti i restanti sensi. Il tatto è il suo regno. Degli odori è ambasciatrice senza portare pena. Lo stesso dicasi del gusto: la mano è il nostro principale fornitore di cibo, e quando lo fa senza interposta posata, la sensorialità del gesto risulta ancor più marcata. Perfino nella dimensione sonora ha da dire la sua, non fosse altro che per il fatto di consentirci la facoltà d’applauso, oppure per i discorsi muti ma fondamentali di cui è capace, quando ci aiuta nell’imprescindibile attività espressiva della gesticolazione.
 
Con la mano capiamo la realtà, la mano (insieme a labbra e lingua) è il nostro primissimo veicolo di esplorazione del mondo, da neonati e da piccoli ometti in erba. Con la mano carezziamo, picchiamo, ci grattiamo, facciamo, brighiamo, blandiamo, ammicchiamo, invitiamo, respingiamo, lavoriamo e amiamo. Dare la mano è uno dei gesti più significativi, fra umani. Le mani, per chi purtroppo non ha avuto la fortuna di poterlo fare con le parole vere e proprie, diventano esse stesse parole di un linguaggio, quello dei sordomuti, molto vivace e dalle alte capacità comunicative. Con la mano facciamo anche quella cosa che tutti fanno, ma al contempo negano spassionatamente e spergiurano di non aver mai fatto, forse in quanto espressione suprema, nel bene come nel male, del proprio stare soli con se stessi. Con quello che con la mano si può fare, c’è anche chi ci ha fatto una “saccarifera” canzone.
 
Con ogni probabilità non si sbaglia allora constatando come la mano sia quell’entità reale che più di ogni altra ci testimonia, con assiduità ed evidenza incessante, il nostro essere “esseri” fisici e presenti a noi stessi, nella nostra dimensione reale di pertinenza. Ogni uomo, per quanto concerne gran parte della sua consapevolezza esistenziale, «è» le sue mani stesse. Non solo la mano è alla base della concezione numerologica fondativa del nostro modo di intendere il mondo matematicamente (se non ricordo male, già Aristotele intuì che il sistema decimale prende le mosse dalle nostre dieci dita), ma le ricerche più avanzate hanno addirittura evidenziato una corrispondenza “geografica” fra la spazialità sviluppata attraverso la mano e certe aree del cervello. La mano è portatrice insomma sia di una fisicità molto peculiare ed intensa, sia di una carica simbolica altrettanto densa.
 
La mano è anche uno dei soggetti da ritrarre più difficili ed impegnativi di sempre. Il confronto con l’«oggetto mano» è una sfida che ha messo e continua a mettere alla prova gli artisti di ogni epoca.
 
Sciorinata tutta questa altisonante parata di considerazioni, viene da chiedersi a questo punto come mai proprio ad un Gillipixel qualsiasi, lo scultore di serie “z” per eccellenza, il più scarso grattuggiatore di legno mai visto sulla faccia della Terra, sia venuto in mente di provare a cimentarsi con la sagoma lignea di una mano. Lo ammetto, stavolta ho osato un po’ troppo, e i risultati parlano chiaro in merito. Proprio per i motivi elencati sopra, con una mano non si può barare. Non puoi contrabbandare un dettaglio, buttandolo su alla bene meglio, sperando che non se ne accorga nessuno. A chi guarda, basterà abbassare un attimo lo sguardo sulle proprie mani e dal confronto sbugiardarti all’istante e alla grande.
 
Non so allora bene come mai mi sia venuta l’idea di confrontarmi con questo soggetto così arduo. Un po’ mi affascinava la sfida «sculturale», un po’ lo spunto è nato per caso. Da gran sostenitore della «casualarte» quale io sono, attenendomi al mio manifesto programmatico di farmi suggerire dal pezzo di legno stesso la sagoma che ne uscirà fuori, anche in questo caso ho lasciato parlare il tronchetto in questione (è anche stavolta un pezzo di nocciolo). Gli appigli formali erano davvero minimi. Si trattava di uno dei tronchetti più anonimi mai visti. Eppure, in un paio di quasi impercettibili bozzi che facevano capolino nel bel mezzo della distesa della corteccia, io ci ho visto le nocche di una mano. Non chiedetemi come ho fatto, ma le ho viste.
 
Come ho già detto presentando altre sculturalate, per tutti i miei limiti tecnici, operativi, espressivi e figurativi, quando cerco di fare uno di questi esperimenti plastici, non posso ambire all’operazione realistica in senso stretto. Quello che posso fare è mettere in atto una sorta di avvicinamento alla sagoma immaginata, nel nome di una verosimiglianza di massima. Questo non significa che non ne escano alla fine delle forme interessanti e suggestive. Anzi, a mio modesto parere e mettendo da parte per un attimo l’atavico senso di umiltà di cui ho impregnate persino le mutande, i risultati sono anche interessanti. Soltanto che si tratta sempre di esiti formali che, per così dire, scendono un po’ a compromesso con la realtà.
 
Il dato fondamentale tuttavia sta nel fatto che tentando e ritentando, confrontandosi con dettagli e globalità formale, nella speranza di cavarci fuori parvenze non solo plausibili, ma magari anche significative, si provano emozioni molto belle. Certo, non nego che l’ambizione di far sortire un qualcosa di esteticamente decente rappresenti una molla altrettanto decisiva per mettersi lì a spendere tempo con in mano una lima e la carta vetrata. Ma mai come in questa pratica si può dire che il cammino sia più importante della meta.
 

 
Alla fine ne è risultato un oggetto che paga forse un debito eccessivo al fatto di derivare da un pezzo di legno cilindrico. Il pollice si presenta un po’ sacrificato, non c’era legno sufficiente per coniugare le dimensioni dell’insieme con un’estensione più libera del “ditone”. La posa di per sé non è impossibile, ma un po’ forzata sì. Anche le falangi anteriori sono troppo lunghe, me ne rendo conto. Ma in questi esperimenti lignei, mi succede che ad un certo punto la forma mi appare finita, anche se magari sarebbe migliorabile. Così la lascio com’è in quel dato momento. Levare materiale dall’incavo e soprattutto praticare il foro dello spazio fra pollice, indice e resto delle dita, è stata un’operazione che ha messo alla prova al massimo le mie scarse capacità tecniche. Ma in qualche modo me la sono cavata.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’abbozzo di prisma alla base della parte di tronchetto rimasta al naturale, in teoria avrebbe dovuto evolvere in ulteriori sviluppi, ma poi ho deciso che anche quel dettaglio fosse finito così. Ho allora completato il tutto con un piedistallo in cui la mano si inserisce ad incastro, tanto da risultare come immersa nel legno di base. L’idea è quella di suggerire un effetto “pinna di squalo”, come se la manina affiorasse a pelo d’acqua in un suo immaginario peregrinare marino o fluviale.
 
Alla fine è una metà via fra un pugnetto chiuso o una manina semi-aperta. E con una lieve sfumatura d’ironia, ho deciso d’intitolare questa mia creazione «Disimpugno».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


martedì 25 giugno 2013

E intanto Ulisse splende ancora


 
Di epifanie libresche ho parlato tante volte. Meno spesso, ho fatto riferimento a suggestioni incrociate che possono scaturire dal contributo di varie forme dell’espressività artistica.
 
Stavo rivedendo alcuni giorni fa qualche frammento di un film che apprezzai molto ai tempi della sua uscita al cinema. Sto parlando di «Shine», la commovente storia del pianista David Helfgott, piuttosto romanzata, a quanto pare, nella fattispecie cinematografica. Non è però della qualità del film che voglio parlare in questa occasione, ma di una bella epifania incrociata e retroattiva, dal film stesso agevolata.
 
Antefatto filmico: dopo anni di travaglio psicologico, rispetto al quale il suo tormentoso rapporto con la musica ha avuto gran parte in capitolo, tanto da condurlo addirittura a trascorrere un lungo periodo in una casa di cura per disturbi mentali, Helfgott riesce finalmente ad uscire dall’istituto e sta cercando faticosamente di riprendersi in mano il bandolo della sua matassa esistenziale. Ora vive in un piccolo appartamento, dove ha a disposizione un pianoforte verticale, che però può suonare solo poco tempo al giorno, un po’ perché così gli hanno raccomandato i medici, un po’ perché il padrone di casa, pur essendo persona gentile e a modo, è musicalmente un buzzurro, e non apprezza il suono dello strumento, che tra l’altro gli ha anche chiuso a chiave, concedendoglielo col contagocce.
 
Risultato: Helfgott si aggira per le strade della cittadina australiana dove risiede, come un lupo famelico di pianoforti. Tutte le sere, “sgolosia” come un matto un bel piano che intravede dalla vetrina nella sala di un bar-ristorante (voce del verbo “sgolosiare”: è una parola del mio dialetto che vuol dire “invidiare”, “anelare”, desiderare come un buon cibo succulento; la utilizzo qui, perché non trovo in italiano nessun corrispettivo in grado di rendere l’idea in maniera altrettanto vivida e colorata).
 
Ad un certo punto, si giunge alla scena topica. Una bella sera, in preda ad un’irresistibile crisi di astinenza pianofortistica, come un forte fumatore a secco di nicotina (anche se a onor del vero, di sigarette ne pippa a volontà), Helfgott brancica una fagottata di spartiti e si precipita di gran carriera nel locale. Approfittando della distrazione dei proprietari e degli avventori, ai quali è ormai familiare come lo scemo del villaggio, si siede alla chetichella davanti alla tastiera e comincia ad assettarsi per suonare.
 
Ed ecco scattare qui un meccanismo narrativo che l’uomo ha iniziato ad adottare fin dalla notte dei tempi, forse nel momento stesso in cui si accorse di essersi appassionato al piacere del raccontare e del sentirsi raccontare storie. Potremmo definire questo meccanismo l’«agnizione sbaraglia-fessi», oppure il «disvelamento gaudente del gran figo nostro». Esso prende le mosse dalla complicità fra il narratore (in questo caso il regista del film) ed il lettore (in questo caso lo spettatore): entrambi conoscono alla perfezione le potenzialità di talento sovrumano in possesso del nostro eroe, giusto nell’ambito in cui è chiamato a darne un saggio in questo momento. Anzi, per far sì che l’effetto riesca al meglio, è necessario che regista e spettatore siano i soli a sapere delle gran doti del protagonista, tutti il resto del mondo sulla scena ne deve essere all’oscuro. Non solo: l’esplosione rivelatoria riuscirà proprio alla perfezione, tanto più il protagonista è reputato una mezza calzetta senza speranza.
 
L’altro ingrediente indispensabile è poi l’intervento del coglionazzo provocatore di turno. Costui, nel gioco delle parti così innescato, normalmente personifica tutta la negatività possibile e immaginabile. La molla necessaria a fa scattare l’artificio narrativo è impersonata in questo caso da “un interdetto” fra gli avventori, il gran tronfione saccente che si mette a sfottere Helfgott in maniera veramente bieca, da vero super bullo da bar.
 
Ci sono allora tutti gli elementi utili a far scatenare l’effettaccio: Helfgott nel pieno fulgore della sua imbaranataggine, un uditorio che nel migliore dei casi lo compatisce, il “so-tutto-me” sguazzante nel suo brodo di boria, e la complicità fra narratore e fruitore della storia, che quasi non stanno nella pelle all’idea di quanto succederà di lì a poco, intendendosela alla grande e facendosi emotivamente  l’occhiolino narrativo.
 
Ora la molla è caricata ben bene e quando la tensione della “goduria pregustata” è tirata al massimo, vai col liscio, via libera alla rivelazione liberatoria! Helfgott non fa quasi a tempo a posare un polpastrello sui tasti, che già si subodora aria di esecuzione magistrale. Infatti, dopo un velocissimo ghirigoro di riscaldamento che è già di suo un mezzo capolavoro, si produce in una versione del “Volo del calabrone” di Korskov talmente bella e travolgente da far separare gli ingredienti nei cocktail in mano a tutta quella massa di etilisti dei clienti del bar.
 
Quasi neanche da dire, nel corso della memorabile esecuzione, le inquadrature sulle facce degli astanti si sprecano, e nel locale è tutto un risuonare di mascelle cascate a terra. Ma l’apoteosi del gaudio supremo è ottenuta indugiando sull’espressione di quel gran «fàcia da merda» dello sfottitore iniziale (scusate il francesismo, ma lo uso per rendere il giusto stato d’animo dello spettatore in quegli attimi di vendetta morale di ordine superiore), il quale non provava un’umiliazione così cocente dalla volta che trovò sua moglie a letto con tre idraulici.
 
La scena si conclude con applauso oceanico finale e gran ritirata del coglionazzo, giustamente condannato alla presa per il culo eterna. E lo spettatore gode come sette ricci.
 


 Facciamo ora un salto indietro di parecchi secoli.
 
Scena: reggia di Itaca, un’isola sperduta da qualche parte nell’Egeo. Il padrone di casa, tale Ulisse, è appena tornato da vent’anni di guerre e smaronamenti non da poco, a zonzo per mezzo mar Mediterraneo. Per vie traverse è venuto a sapere che un manipolo di giovinastri delle famiglie nobili del circondario (i Proci) stanno cercando di impalmarsi sua moglie Penelope. Non paghi, si stanno pure pappando tutto il pappabile dei suoi beni e proprietà. Ulisse, con la complicità della dea Atena, si presenta sotto le mentite spoglie di un vecchio mendicante. Prima di gustarsi l’agognata vendetta sugli usurpatori, anche qui il lettore viene caricato ben bene di sete di rivalsa. Ogni sorta di umiliazione viene appioppata ad Ulisse, re titolare, da quella massa di mangiatori ad ufo, che non lo riconoscono. Insulti, beffe, persino una sgabellata sulla schiena, tirata da uno dei più tronfi fra di loro, Alcinoo. L’ira di Ulisse monta sotto la cenere come un geiser islandese, e nel frattempo noi al di qua della pagina ci diamo di gomito con Omero, senza risparmiarci sorrisetti d’intesa sotto i baffi, immaginando già come andrà a finire.
 
Come tutti sapranno poi, quando infatti Omero ritiene che la misura sia colma, lascia aperta la diga della rabbia odissea, e dei Proci non rimarranno che misere polpette.
 
Di secoli ne sono passati, quindi, ma l’«agnizione sbaraglia-fessi» (anche nota come «disvelamento gaudente del gran figo nostro») come stratagemma narrativo continua a funzionare benissimo. Quello che ho portato io, con la citazione della scena del film «Shine», è solo un piccolo esempio, ma se fate mente locale a mille altri film o storie note, vi verranno in mente altrettante occasione in cui il meccanismo è stato usato.
 
Avrei voluto poi parlare ancora di una curiosa parentela fra Don Chisciotte e i moderni fumetti. Ma per oggi s’è fatto tardi e credo di essermi dilungato ormai anche troppo, per cui vi do appuntamento magari ad una prossima puntata di parallelismo fa espedienti narrativi delle diverse epoche.


sabato 22 giugno 2013

Curiosità etimologiche


 
 
Cari amici viandanti per pensieri, mandate a letto i bambini che oggi si parla di proibito. Ma no, dai, sto scherzando…
 
Scriverò soltanto le solite quattro innocue fregnacce.
 
Nel mio assillante e quotidiano girovagare mentale fra questioni basilari in un’ottica di salvaguardia della prosperità dell’intero genere umano, mi è capitato recentemente di riflettere intorno ad una singolarità linguistica alquanto sfiziosa.
 
Come mai, nell’uso discorsivo più comune, è invalsa la consuetudine di far derivare dalle parti anatomiche di “differenziazione di genere” per eccellenza, due termini che si pongono, a livello semantico, praticamente agli antipodi l’uno dall’altro? In parole più spicce, perché quando si dice di una cosa che è una «figata», risulta suonare molto, ma molto diversamente dal dire che si tratta di una «cazzata»? Badate bene amici, sembra un argomento assai ozioso. In realtà, lo è molto di più di quanto non sembri. Ma procediamo per gradi con l’analisi linguistic-filosofica-gillipixiale.
 
 Considerando le due parole dal punto di vista neutrale del nudo e crudo meccanismo linguistico da cui hanno preso origine, esse in teoria si dovrebbero equivalere. In entrambi i casi si tratta di un’aggettivazione, creata a partire dall’evidenza di due parti anatomiche ben precise. Trattasi tuttavia di parti anatomiche non qualsiasi. Anche se la considerazione è puramente accessoria al presente discorso, non va innanzitutto dimenticato che già di per sé, tutte e due queste parti anatomiche sono tradizionalmente connesse ad una coloritura linguistica fra le più variegate e fantasiose immaginabili. Intorno a nessun altro organo del corpo umano si è intessuto un florilegio di sinonimi, soprannomi, nomignoli, vezzeggiativi, “cincischiativi” al pari di quelli che possono vantare questi due. Come dicevo, questo non è un fatto che riguarda strettamente da vicino il presente ragionamento, ma già di suo ci dà conto dell’estrema vivacità linguistica di pertinenza di quell’area dell’anatomia umana.
 
Qual è stato dunque il fattore semantico di discrimine, in grado di far virare verso i lidi delle accezioni positivi l’aggettivazione del «Femmineo Indicatore Gentilmente Associativo», facendo invece naufragare le velleità linguistiche della «Coadiuvante Ammennicolare Zampogna Zoomata Ostentabile» fra le secche della significazione di bassa lega? Credo che si debba addebitare la cosa ai rispettivi riflessi, evocati dai due soggetti in questione, proiettati nello specchio dell’immaginario comune.
 

 
La parte femminile in gioco rimanda ad un maggiore senso del mistero. Già da un punto di vista strettamente anatomico, la sua prominente introflessione ne fa quasi un simbolo interrogativo di fascinosità non dette. Aggiungiamo il fatto che molto spesso, per la desiosa controparte maschile, essa riveste un vero e proprio ruolo di perenne miraggio, di meta agognata ma di ben ardua raggiungibilità. La crepuscolarità, la lunarità che le sono consone, contribuiscono poi ad accrescerne l’aura nobilitante e la preziosità di tutte le sue manifestazioni. Paradossalmente, in tutte queste caratteristiche si può intravedere un maggiore senso di saggezza e ponderazione.
 
Ecco dunque forse spiegato come mai una «figata» risulti essere una cosa bella.
 
 

 
Per contro, sul versante opposto, abbiamo la gigionesca variante maschile. Tutte altre atmosfere scaturiscono da quelle parti. Anche qui, il dato anatomico diretto innesca già gran parte della significazione. Tira aria di gran millanteria, in quelle zone. Si ostenta un sacco, si accampano mirabilie e promesse spesso impossibili da mantenere. Le pretese d’impennata maestosità sono effimere e magniloquenti come le lusinghe di una carrellata di spot pubblicitari. Il più delle volte, gran parte di tutte quelle storie si sgonfia in maniera un po’ buffonesca. Inoltre, gli impulsi ad agire, quando vengono dominati da questa parte anatomica, possono poi rivelarsi tra i più azzardati e sconsiderati.
 
Ecco dunque invece forse spiegato come mai una «cazzata» sia, nella migliore della ipotesi, una cosa da ciarlatani, e in ogni caso sbagliata.
 
Così terminando il mio bizzarro articoletto odierno, lascio a voi cari amici viandanti per pensieri il dilettevole onere di aggettivarlo a vostro piacimento, a partire da una delle due parti anatomiche a scelta.



martedì 11 giugno 2013

Andarperpensierilegnosi

 
 Notizia ferale, cari amici viandanti per pensieri: dopo esservi sorbiti Gillipixel nelle più svariate fogge di para-scrittore, poetastro, critico d’arte dei bassifondi, sganghero-narratore, fustigatore d’usi e di costumi, vi tocca ora sciropparvi anche la versione “scultore dell’Improbabile”. Ebbene sì, non avrei voluto dirvelo, ma purtroppo è la dura realtà: ci ho preso gusto a cincischiare col legno e i risultati di questa insana pratica saranno esposti su questo palcoscenico mediatico, per il sommo gaudio dei vostri già stremati zebedei.
 
Con l’episodio del piccolo Batman ritrovato, credevo che la questione si fosse chiusa lì. E invece no, mi sono reso conto ancora una volta che l’attività del vagabondaggio per pensieri non ha proprio limiti di applicazione. Non importa se si tratti di scrivere, parlare, disegnare, elucubrare insomma con mille strumenti: il divertimento e la soddisfazione sono sempre di grado elevatissimo. Anche un pezzo di legno può essere fonte infinita di stimoli concettuali e calamita irresistibile di pensieri.
 
Nel caso del piccolo Batman, era stata un’esperienza estemporanea e circoscritta, iniziata da una suggestione vegetale. Allora un piccolo ceppo di legno di rosa e la sua semplice diramazione, si erano incaricati di darmi il «la». E credo che questa duplice modalità d’ispirazione sarà un po’ il mio “marchio di fabbrica” di scultore anche nei lavori a venire, se ce ne saranno. Le mie figure le ricaverò da elementi lignei grezzi capaci di suggerirmi già uno spunto formale attraverso i loro snodi e ramificazioni naturali.
 
Questa volta, il motore immobile di tutto il turbinio di immagini lignee si è concretizzato in un più sostanzioso tronchetto di nocciolo. Altro non era che il rimasuglio di una primaverile potatura, gettato lì in un cantuccio del giardino, e destinato a far la sua decorosa fine in qualche stufa o focolare. Già al primo istante, in quella sua forma grezza e primordiale, giorni e giorni prima di cavarci effettivamente fuori le fattezze che intendevo, ci ho visto dentro una sorta di omino danzante, con tanto di crapetta, braccino alzato e troncone di gamba all’aria, “venere-di-milescamente” incompleto.
  
 
Purtroppo non ho pensato subito a fermare in un’immagine il ceppo originario. Ve lo propongo già sbozzato, anche se ancora piuttosto grezzo. Fate conto che, dove si vedono l’accenno di testolina e gli stondamenti a suggerire le pseudo-gambe con lo pseudo-addome, il legno aveva un andamento tutto a tronco univoco, di diametro costante. La cosa bella ed esaltante di questa attività di para-scultore-levigatore dell’Improbabile, è sentire le forme uscire piano piano dalle mani. Sgratti, levighi, graffi, limi, incidi e rigratti, tutto con gradualità estrema. Ci vuole tempo, la fretta è nemica. E lentamente affiora una sagoma, un barlume di volumetria significativa e la goduria è suprema.

 
Il primo accenno di testolina è molto primitivo, ma già mi regala emozioni notevoli. Nella vita tutto sono fuorché uno scultore. Nessuno mi ha mai insegnato nulla di questa forma espressiva, e non so nemmeno per quale ardito moto d’incoscienza mi sia venuto in mente di provare a fare un qualcosa del genere. I risultati sono prima di tutto legati ad un’ampia involontarietà espressiva (nel senso che una certa idea formale, quando parto, ce l’ho in mente, ma poi quello che ne scaturisce ha anche molto del casuale) e poi sono limitati dalla quasi assoluta ignoranza tecnica, nonché da una gran limitatezza di strumenti di lavoro. I miei attrezzi principali sono una grossa lima iper-sgrattosa per sgrossare, alcune limette più fini (da ferro, tra l’altro) e un set di sei scovolini made in China, acquistati in uno di quei grandi magazzini del bricolage per l’esorbitante cifra di 6 €. A degno completamento di un così imponente apparato tecnico, c‘è l’arma segreta: la carta vetrata. Questa è veramente fondamentale per le finiture ed utilizzata nelle diverse grane calibrate, compie piccoli mezzi miracoli di levigatura.

 
 
 
Sulle prime, data la mia estrema inesperienza in materia, mi ritenevo quasi già definitivamente soddisfatto con la conquista formale di questo testoncino tribale. Ma poi mi sono detto: perché non osare un po’ oltre? Mal che vada, caccio tutto nella stufa, come doveva essere fin dall’inizio. Ecco allora che ho azzardato una sbozzatura dei tratti somatici. Come dicevo, sono tutt’altro che padrone della tecnica e tanto meno degli esiti figurativi, per cui il testone che lentamente affiorava dalle mie limate era per minima parte voluto, e perlopiù frutto dell’alea scultorea. Ciò nonostante, vi dirò che mi stava simpatico, mentre mi si sfarinava fra le dita, questo piccolo pelatino un po’ crucciato e con le sue fattezze arcaico-selvagge. I dettagli del naso e delle orecchie, pur nel limite degli esiti ottenuti, si sono rivelati molto impegnativi da tratteggiare. L’ironia è sempre in agguato, e fra le cose un po’ ridicole nel mio procedere scultoreo, c’era anche il fatto che a forza di limare e grattare, questa capoccetta mi ricordava sempre più un vago ghigno mussoliniano. Niente di più lontano dalle mie intenzioni, ovviamente, ma questi sono gli inconvenienti di essere un casual-artista.
 
 
 


Un momento estetico decisivo per la mia piccola opera, è venuto col taglio di un breve tratto della base, in modo da far sì che la figura si reggesse in verticale. Incoraggiato dai significativi passi avanti compiuti, ho deciso di tentare l’inosabile: realizzare una piccola manina alla sommità del ramo minore che si dipartiva a lato della testa (pensando nel frattempo fra me e me: «…Vai: questa è la volta buona che sbatto via tutto!...»).
 
E la mia audacia è stata premiata. Anzi, qui vi devo segnalare un breve episodio zen, occorsomi proprio durante i tentativi di accennare la sagoma di questa manina. Per evitare di aggravare altresì i rimandi mussoliniani, mi ero imposto di evitare di fare una manina completamente dritta e sparata in alto (e ci mancava pure il saluto romano, porc la misoir!). Ho allora sagomato questa mano con le dita decisamente ripiegate, quasi ad un uncino. Ma poi, in un maldestro tentativo di raffinazione formale, mi è scappato uno colpo di scalpellino cinese, ed ho troncato di netto tutte le quattro dita uncinate. Lo sconforto, sul momento, è stato grosso. Son stato lì lì per segare tutta la manina e far finta che in quel punto non ci fosse mai stato niente, se non addirittura di andarla a sbattere nel canale di Livorno, emulo di Amedeo Modigliani. Per di più, l’incidente aveva portato anche sardoniche conseguenze: ora il rimasuglio di manina pareva veramente sparata verso l’alto. Oltre al danno bastardo, la beffa porca.
 
Ma vi accennavo ai risvolti zen di questo malaugurato inconveniente. Superato il primo attimo di disappunto, ho guardato meglio il moncone rimasto e ci ho visto dentro una possibile evoluzione, in meglio, della manina lignea. E così è stato. La manina mi è riuscita con ancor migliori dettagli di prima, leggermente ripiegata, come in un gesto di saluto gentile, o in un tentativo blando di aggrapparsi a qualche appiglio. Da una fase di crisi, era scaturito qualcosa di meglio. Mi è sembrato tutto molto zen e molto degno di riflessioni.

 
 
 
Ho concluso poi la mia creazione dotandola di una piccola base, la cui realizzazione mi ha donato altrettanti attimi di divertimento. Ho ricavato questo basamento da un’assicella usata normalmente dai muratori per fare da spessore in qualche loro lavoretto. Se l’aveste vista com’era, nel momento in cui l’ho presa in mano per la prima volta, tutta scheggiosa, ruvida, sporca, scabrosa in superficie, non credereste che sia divenuta quel pezzo di burro levigato che fa da sostegno ora alla mia statuetta. Grazie alle sagomature vagamente tondeggianti che gli ho affibbiato, mi piace che suggerisca l’idea di un flusso di legno, una corrente leggermente ondosa, dalla quale l’omino emerge fuori.
 
Completando la mia seconda impresa da “scultore dell’Improbabile”, nonché casual-artista, ho verniciato poi ben bene le superfici lavorate, lasciando al naturale invece i tratti di corteccia superstiti. Alla fine, ho pensato a due diversi titoli, da assegnare all’opera. Il primo, più ufficiale e serioso è «Crisantropos»: un omino della crisi, al tempo stesso mezzo crisalide e mezzo simulacro umano che si divincola dalla costrizione vegetale, per rinascere a nuova forma. Il secondo titolo (o sottotitolo), rendendo omaggio al senso dell’ironia che non deve mai mancare nelle corde di un casual-artista, suona invece così: «Benny day on ice». Non ve lo spiego, ma si sarà capito che il riferimento alle vaghe mussolinità emerse nel corso della lavorazione, non è casuale.
 
Ed ora, dandovi appuntamento alla prossima creazione (se ci sarà), vi saluto con alcuni scatti del «Crisantropos» concluso, o quasi.













giovedì 6 giugno 2013

Coniugar l’inconiugabile


Ho, hai, ha
illusioni di possesso.

Faccio, fai, fa
lievi passi nell’agire.

Sento, senti, sente
vibrar l’eco di persone.

Vedo, vedi, vede
l’inafferrabile negli altri.

Decifro, decifri, decifra
lo stormire dei respiri.

Ascolto, ascolti, ascolta
le parole dalle cose.

Annuso, annusi, annusa
in te l’odore di me.



domenica 2 giugno 2013

L’effetto «vapurèn»


 
Quando ero un tenero virgulto di campagna (non come adesso, che sono una stoppacciosa e tardo-rurale erbaccia infestante), passavano sempre i «vapurèn». Le acque del fiume, partendo da Pavia per arrivare sino a Venezia, si tramutavano in un biscione agonistico a disposizione di motoscafi di ogni foggia e cilindrata, pilotati da un manipolo di audaci che a colpi di derapate e spiattellate a pelo d’acqua, se le davano sportivamente di santa ragione, rasentando a tutta manetta ripe impellicciate di salici e scarmigliando gli altrimenti piattissimi fondoni fluviali.

Accadeva ogni anno, intorno al 2 di giugno, ed allora era ancora festa, prima della cancellazione e poi del ritorno in vigore, festa di una Repubblica all’aroma di complotto, insaporita da convergenze parallele, con spolverate di compromesso storico. «Vapurèn» è il termine “tecnico villico” in gillipixilandese stretto, per indicare i motoscafi, appunto.

Vuoi perché in campagna la propensione a divertirsi con poco è sempre stata tenuta in gran conto, vuoi perché effettivamente allora era più raro assistere ad uno spettacolo sportivo di una certa importanza, vuoi un po’ la minchia che vuoi, fatto sta che il passaggio dei «vapurèn» era un evento abbastanza atteso e gradito. Se ne cominciava a parlare diversi giorni prima. La voce si diffondeva a macchia d’olio: «…Dùmenica a pàsa i vapurèn… dùmenica a pàsa i vapurèn » («…Domenica passano i motoscafi…»). A portare la smotorante novella erano soprattutto i più assidui frequentatori del Bar Sport, gente di una tale tempra morale, da essere in grado di stabilire i più strabilianti record di resistenza nel periglioso confronto con le profondità intellettuali della Gazzetta rosata.

Fra questi annunciatori del “gaduim magnum” vaporinesco, c’era anche un mio caro amico, tuttora grande esperto di pratica sportiva da bar. Lo conosco di fatto da quando sono nato ed è uno dei più appassionati divoratori di notizie relative ad ogni tipo di sport immaginabile, ma sono quasi certo che, se nell’arco della sua vita ha fatto al massimo 27 metri di corsa tutta filata, è dire tanto. Era soprattutto lui che mi teneva avvertito con puntuale immancabilità, ad ogni rinnovata occasione vaporinesca. Oltre ad essere un grande indagatore del mondo teorico delle competizioni di ogni risma, per la proprietà transitiva, questo mio amico è ovviamente da sempre anche un eccellente sportivo da poltrona. E come tale, conosce ad altissimi livelli, quasi da raffinato esperto, l’arte dello “spettatore di eventi agonistici”, il quale deve annoverare fra le sue doti più eccelse anche un’ingente dose di pazienza. Lo sportivo da divano sa essere un notevole amministratore di noia, è un incassatore instancabile di barbosità, slalomeggia da par suo fra i tempi morti dell’evento agonistico passivamente sorbito in posizione decubitante, perché sa che le gare sono un po’ come la vita, possono riservarti la spettacolare sorpresa, il momento clou, quando meno te l’aspetti e quando ormai pensavi che non sarebbe arrivato più nulla di esaltante.

Succedeva così dunque che, in occasione della festosa giornata in cui era previsto lo smarmittoso passaggio dei «vapurèn», il mio amico si facesse trovare già di buon mattino infrattato dietro ad un macchione di gaggia costeggiante il corso fluviale, già bello ed appostato per godersi la parata dei bolidi sgratta-flutti. E lì rimaneva fisso, senza mollare un attimo la posizione, fino a quando l’ultimo fil di fumo di scappamento lasciato dietro in scoreggiante scia dall’ultimo scafo in gara, non svaporava lontano all’orizzonte, in direzione Venezia. Io invece, che una qualche esperienza nella pratica degli sport giocati davvero, ce l’avevo, ma ero profondamente inetto per quanto riguardava la suprema disciplina dell’agonismo da divano, affrontavo ogni volta il confronto con lo spettacolo dei «vapurèn» adottando una tattica disastrosa.

Da buon pigro professionale, mi attardavo a lungo sonnecchiando a letto, e solamente all’udire delle prime avvisaglie di ululati a scoppio dei motori (percepibili in piena nitidezza anche da casa), inforcavo in fretta e furia la bici e mi recavo di gran carriera lungo il primo affaccio disponibile sul fiume, per riuscire a cogliere almeno qualche scampolo di colorato e rombante sfrecciare motoristico. Il tragitto tuttavia, se fatto in bici, non era e non è uno dei più immediati ed istantanei, per cui almeno 5 minuti buoni, fra la percezione del fragore dei cilindri e il mio approdo sulle rive, me li bruciavo per strada. Con puntualità matematica, erano sempre quei 5 minuti esattamente sufficienti a far sì che non riuscissi a vedere nemmeno uno di quella prima ondata di motoscafi in gara, ormai svaniti giù per il fiume come per rincanto, durante il mio affanno ai pedali.

Ancora col fiatone per l’inutile corsa, inghiottendo delusione dopo essere arrivato in tempo soltanto per osservare quattro rimasugli bianchicci di onde provocate dal passaggio dei bolidi da me rigorosamente non visti, ma soltanto sentiti da lontano, con altrettanta puntualità mi imbattevo nel mio amico sportivo da bar. E subito lui, con malcelata soddisfazione per aver visto premiata la sua lodevole tenacia di sportivo da poltrona, passava ad elencarmi le mirabilie motoristiche appena ammirate, sciorinando tanto di nomi, cognomi, soprannomi dei piloti e caratteristiche tecniche degli scafi, testé passati in rassegna e da me immancabilmente “lisciati”: «…Sono passati Gigio Squartaroli, con motore Alfa Romeo a marmittone Sbaranga,  Berto il Bullo su piattella 900, Erminio Liscafi col suo flatulante a 6 cilindri…poi un inglese si è spiaggiato sui sabbioni, è sceso col volante in mano, ha tirato due sacramenti in dialetto britannico, si è fatto prestare una chiave, inglese come lui, ed è ripartito guidando con quella…».

Di fronte a questo stuolo di meraviglie mancate, io mandavo giù disillusione su disincanto e mi ripromettevo di riscattare all’istante le mie magagne da inetto sportivo da bar, deciso a stare lì fino all’ora di cena, pur di vedere almeno la lamiera ammaccata di un vecchio scafo rugginoso. Tanto più che il mio caro amico, dando ulteriore prova del suo illimitato nozionismo agonistico, mi allettava preannunciandomi i prossimi passaggi, da lui minuziosamente studiati a memoria sulla base delle sacre previsioni della Gazzetta dello Sport: «…Intorno alle 11 dovrebbero passare gli ottomila: c’è Huboldt Gerkowsky, detto il Manfred Von Richtofen dei pescegatti, su catamarano ribassato, poi deve passare Ubaldo Liviolini, il ragioniere dei fuoribordo, su Modello Unico 740, e poi…e poi…e poi…».

Ma sportivi da divano si nasce, non si diventa. E pur facendo appello a tutte le mie energie attendiste, la pazienza di cui ero capace non andava oltre il quarto d’ora di sopportazione. «…Va beh, allora magari torno fra un po’, verso le 11, come hai detto te…ciao…» dicevo allora al mio amico, che già se la rideva sotto i baffi, sapendola molto lunga riguardo alle strategie da vero visionario sportivo statico. Infatti, non mi ero allontanato che di pochi minuti di bici, e di nuovo giù, udivo smotoramenti furibondi alle mie spalle, provenienti da scafi di passaggio al di là di ogni previsione gazzettistica. Ritornavo allora sulle mie pedalate con un affanno di tipo superiore, ma giunto ancora al cospetto del mio amico, era solo per sentirmi recitare di nuovo: «…Era un drappello di ritardatari…pensa te: c’era anche il barone Bartàca da Mondibello, sul suo scafo carenato oro, erano 6 anni che non partecipava…». A quel punto, con un filo di mezza incazzatura sulle labbra, rinunciavo definitivamente alla velleità di riuscire a vedere almeno un ferro vecchio concorrente alla gara. Risalutavo di nuovo il mio amico e ritornavo definitivamente a casa, dove me ne stavo buono buono a completare la mattinata magari giocando a LEGO, mentre dalle sinuose anse del fiume continuava a provenire beffardo il riecheggiare rombante di motoscafi che avevo rinunciato senz’altro a voler vedere.

Questa buffa tiritera si è ripetuta per diversi anni della mia bambinitudine, fino ad un bel giorno in cui, ritornando con la memoria a quei buffi avvenimenti, mi sono accorto come anche in altri ambiti più generali della vita, non necessariamente connessi alla pratica sportiva da bar, si possa verificare un fenomeno che mi piace definire «effetto vapurèn».

Nel pieno dell’«effetto vapurèn», incappano coloro che hanno la ventura di trovarsi spesso al posto giusto, ma nell’esatto momento sbagliato (ed io sono spesso di questa schiera). Il bello è che 90 volte su 100, trovi lì ad attenderti anche il declamatore delle gran meraviglie che ti sei perso, facente funzione del mio amico in riva al fiume. O se non è una persona fisica a rammentarti il tuo fiasco, c’è pur sempre la coscienza a farlo.

Non hai pazientato? Sei arrivato tardi? Non hai previsto per tempo? Hai calcolato male le coincidenze? Niente paura: sei stato solo vittima dell’«effetto vapurèn». Non hai detto a quella ragazza deliziosa le parole giuste da dire nell’attimo opportuno, e la rivedi due mesi dopo a limonare sulla panchina col tizio che ti aveva preceduto di un soffio a porle l’accendino in discoteca? Non hai fatto la domanda che andava fatta e un’opportunità favolosa è sfumata via lasciando dietro di sé un’eco scoppiettante e beffardo come il rombo di un motoscafo all’orizzonte?

Rilassati, non è niente di che: è sempre e soltanto l’«effetto vapurèn».