martedì 29 gennaio 2013

Disfonie post-moderne


Dal basso della mia introversione (spesso e volentieri sfociante in una reticenza assai poco lusinghiera), ammiro molto le persone che possono permettersi di affermare: «…Io dico sempre ciò che penso…». Tuttavia, sempre riguardo ai medesimi individui, mi sono pure spesso trovato a considerare: «…Non è che siete costretti ad affliggerci sempre ed in ogni modo, anche quelle volte in cui per la mente vi passa un’emerita stronzata...».

Ciononostante, in qualche particolare frangente, anche a me capita di sentirmi per qualche attimo permeato dal sacro fuoco dell’assoluta lealtà e schiettezza dialettica. In quelle occasioni, adattando il proclama su misura, la dichiarazione d’intenti che mi sento di enunciare, si riduce ad un più circoscritto: «…Io racconto sempre ciò che penso…».

Da uno di questi rari attimi in me così transitori, nasce lo spunto della storia che mi accingo a narrare.

Con un mio amico, tempo fa, accarezzammo il sogno di mettere in piedi un’impresa di nostra concezione e creazione. L’idea di fondo l’attingemmo dall’enorme bacino di potenzialità imprenditoriali messe a disposizione dalle cosiddette energie da fonti rinnovabili. Il fenomeno naturale in questione è misconosciuto ai più, ma non sfugge di certo al maschio medio portatore sano di ventre villoso. Forse infatti non tutti lo sanno, ma nell’incavo discreto dell’anfratto ombelicale di questi esemplari dell’umana specie, tende a formarsi periodicamente una pallottolina di lanugine dalle indecifrabili origini.

Le interpretazioni scientifiche in merito parlano di un agglomerato di pagliuzze di lana, proprio lì depositate a seguito dello sfregamento innescato fra le pelurie virili e la trama della maglietta della salute, invernale o estiva che sia, e dunque raffinate nonché selezionate da questa sorta di ecologico e spontaneo setaccio raccoglitore e concentratore.

Secondo la vulgata popolare, più poetica e leggendaria, le misteriose palline seriche sarebbero invece originate per partenogenesi a partire dalla stessa spiritualità immatura del maschio medesimo, rappresentando esse l’espressione tangibile di una sua fanciullaggine protratta oltremodo e sconfinante inopinatamente nei territori che spetterebbero ormai con maggior pertinenza all’età adulta. Un inusitato genere di manna, insomma, prodotto bislacco della non maturazione caratteriale. Un frutto maturato dall’immaturità.

Fosse come fosse, il mio amico ed io, da appassionati cultori della contemplazione ombelicale quali siam sempre stati, ci ritrovavamo con puntualità infallibile a dover rilevare la presenza di queste sferette di tessuto grezzo gentilmente deposte nei nostri rispettivi micro-marsupi setolosi. E fosse stato per qualche episodio isolato di per sé, probabilmente mai ci sarebbe scattata in mente la molla imprenditoriale. Quello che tuttavia ci instradò decisamente verso il sentiero della velleità produttiva, furono proprio l’insistenza e la portata quantitativa del fenomeno. Le soffici palline, anche quando scacciate dalla loro sede con igienistica minuzia, si riformavano sempre puntuali ed infallibili nel giro di due o tre giorni, moderne arabe fenici, e testimoni inequivocabili del “peter-panesimo” diffuso che imperversa sopra i cieli di questi nostri tempi post-moderni.


Fu a quel punto che la lampadina della “politica del fare” si accese luminosissima nell’anticamera della nostra immaginazione creativa: invece di scartare di volta in volta il prodotto peloso interno lordo (pregiatissimo PPIL), quasi fosse un ospite molesto, perché non accoglierlo come gradito pensionante nell’irsuta saletta del nostro hotel a cinque setole? Valutando quantità, frequenza delle visite e qualità della materia prima estratta, calcolammo che nel giro di poco tempo si sarebbe potuta impiantare una produzione stabile di materassi, cuscini e piumini. E anche se non avremmo potuto avvalerci della denominazione di “piumino d’oca”, forse di quella “di cinghiale” sì.

Sulle ali di simili fantasticherie, i miraggi del successo si misero a macinare vorticosi dentro le nostre fantasie foderate di pelliccia. Ci vedevamo già manager rampanti alla testa del più grande impero produttivo mondiale di pregiatissimo cachemire ombelicale. Ci figuravamo ricchi sfondati e mollemente appisolati nell’appagamento pecuniario, cullati fra due guanciali imbottiti di pura lana ecologica direttamente estratta da maschio umano setoloso.

Ma non avevamo fatto i conti con la dura realtà.

I primi ostacoli fra noi e la nostra apoteosi imprenditoriale iniziarono a frapporsi per questioni strettamente linguistiche. Un fenomeno che si manifesti nell’ambito del “reale” senza il supporto di una specifica denominazione propria, rischia quasi sempre di finire per non esistere. E così toccò in sorte alla nostra creazione produttiva “in nuce”. L’oggetto del nostro fare non aveva un nome e non poté avere nemmeno una sua esistenza.

Ci recammo dapprima alla camera di commercio per registrarci, al fine di poter avviare l’attività effettiva. Di fronte ai nostri tentennamenti, manifestati nel tentativo di far comprendere la portata rivoluzionaria di questa nuova frontiera produttiva, che tuttavia non sapevamo meglio circoscrivere entro una definizione precisa, gli impiegati addetti ai vari impicci burocratici bocciarono sonoramente i nostri intenti. Sempre per carenza di denominazioni, venimmo poi a sapere che non esisteva nemmeno un albo professionale dei produttori e trasformatori di palline ombelicali grezze, al quale potersi iscrivere. Informandoci poi nei più esclusivi ambienti pubblicitari e del marketing, con nostro sommo rammarico scoprimmo che, anche una volta raggiunto eventualmente un minimo di evidenza d’immagine con il marchio della nostra ditta, difficilmente saremmo stati invitati a tener banco nei talk-show televisivi, o intervistati dai giornali, per pontificare intorno alle strategie imprenditoriali più arrembanti, o per proporre una nostra ricetta di uscita dalla morsa della crisi.

Il “vulnus” fatale, quello in grado di assestare la mazzata decisiva alle nostre ambizioni, eravamo tuttavia destinati a ritrovarcelo proprio in seno, neanche tanto nascosto, in forma di contraddizione in termini annidata nella natura stessa del nostro essere imprenditori nascenti in misura così inusuale. Consultandoci con un insigne economista, fra i maggiori esperti mondiali di finanza ricreativa, ci venne posto innanzi il più classico degli “uovi” di Colombo. «…E’ un ambiente durissimo, cari ragazzi…» ci ammonì il luminare, un caro vecchietto che si era fatto un certo gruzzolo commerciando nel settore delle sferette di mollica, appallottolate fra pollice ed indice sorbendo i suoi caffè di fine pranzo. E aggiunse: «…Vi sconsiglio fortemente di avventurarvi in questa impresa, perché in quella jungla sopravvive solo chi, come minimo, ha quattro dita di peli sullo stomaco!…».

La sentenza, nella sua nitidezza fulminante, si rivelò esiziale e scrisse la parola fine sopra ogni ulteriore capitolo concernente le nostre più scriteriate speranza. Di peli sullo stomaco, noi un po’ ne avevamo, certo, ma il nostro lieve vello para-post-puberale non poteva certo rivaleggiare con certe lussureggianti savane rivenibili sulle protuberanti panze di taluni squali mondiali dell’imprenditoria. Quelli sì che erano veri e propri macchinari infernali per la produzione iper-intensiva di palline ombelicali. Non avremmo potuto sostenere la concorrenza, saremmo stati schiacciati, come timidi batuffoli investiti da abnormi slavine di lana.

Qualche volta, quando incontro il mio amico, chiacchieriamo ancora con nostalgia dei bei tempi in cui abbiamo rischiato di diventare imprenditori. Ci fa un po’ rabbia pensare a tutta quell’energia da fonti rinnovabili ombelicali che da allora è andata perduta, e continua tuttora a venir sprecata. Ci fa pensare alla corrente dei fulmini, dissipata invano nell’etere, oppure al fiato di tanti idioti, fatto filtrare senza scopo attraverso le loro rispettive chiostre dentali. Alla fine però, ripensandoci bene, conveniamo sempre tutti e due che è andata meglio così. Dell’imprenditore, non potevamo avere né la mente, né il cuore. Al limite, solo un po’ d’ombelico velatamente peloso.

domenica 27 gennaio 2013

La confraternita dell’etilometro


Quello che un poeta non dovrebbe mai azzardarsi a fare, è spiegare una sua poesia. I miei vantaggi in merito sono però due: primo, non sono un poeta, ma soltanto un membro onorario della confraternita dell’etilometro. Secondo: quella che mi accingo ad analizzare non è affatto una poesia, bensì il semplice prodotto di mie divagazioni para-filoso-folleggianti.

Ecco dunque spiegato come io possa permettermi di dire due parole su una recente mia composizione, senza timore di infrangere l’aurea legge della poesia testé accennata. Anzi, a volte i “non poeti” hanno quasi il dovere di illuminare meglio le proprie intenzionalità espressive, per fugare il velato sospetto, che sempre li perseguita, di soggiacere ad un certo malvezzo in virtù del quale le loro parole potrebbero essere state tirate semplicemente a casaccio con la fionda contro il foglio bianco. Mi piacerebbe invece cercare di illustrare, se non proprio un preciso percorso interpretativo, perlomeno un vago tracciato evocativo pertinente alle mie frasi.

Riporto la composizione, per una più agevole sinossi (minchia, come parlo difficile oggi…):

Distillati d’attimi

Distillati d’attimi,
oltre non vorremmo osare.

La durata è sgomento,
il non tempo odora di per sempre.

A mezz’aria nella clessidra
     il granello di sabbia
                 so-
               spen-
                de
            lo spirito
in ammirazione frenante.

E’ gravosa
l’impalpabile discesa,
come di masso
al cui silente tonfo mai s’intende prestar fede.

Vestendo la glabra pelliccia
d’animali tracimanti l’incompiuto,
c’avvinazziamo del vero assenzio
sublimato dalle nostre essenze.

Vattene, tempo, fuori dai peli,
ma non diseredarci
del tuo marchio senza veli.

*******

Tutta la poesiola è intessuta intorno all’ambiguità del tempo e della percezione di esso, e gioca sulle paradossalità emozionali ed affettive che senza sosta ci procura il nostro essere ineluttabilmente immersi nel flusso temporale. “Distillati d’attimi” è riferito proprio a quelle porzioni di tempo che più ci gratificano e che sono sempre così rare e repentine, rispetto al “mare magnum” cronologico fatto invece perlopiù di momenti banali, noiosi, lunghi, insignificanti, ordinari, angoscianti anche, a volte. L’immagine del “distillare” il tempo vuole appunto suggerire un’ideale operazione di estrazione del meglio che il tempo ci può offrire: goccia a goccia, filtrato con l’alambicco.

Gli attimi sono “distillati” nei fugaci frangenti di un bacio, nell’esaltazione fulminea che ci sa regalare la vicinanza della persona o delle persone amate, nel rapimento estatico procurato dalle emanazioni di senso provenienti da un’opera d’arte o dall’immersione in uno scenario naturale particolarmente “totalizzante”. E così via. “Oltre non vorremmo osare” è già una constatazione di paradosso e di inevitabilità: vorremmo sempre rimanere sospesi dentro quegli attimi distillati, ma ci rendiamo benissimo conto di come la loro stessa preziosità sia funzionale alla medesima fugacità che recano con sé.

“La durata è sgomento, / il non tempo odora di per sempre”: qui ribadisco, o perfeziono, la suggestione di prima. Il tempo durevole, prolungato, esteso, le ore senza fine apparente del quotidiano comune, ci paiono spesso un ostacolo insormontabile, e desidereremmo dimorare sempre nell’illusorio “non tempo” degli attimi distillati. Per meglio rendere la suggestione, mi è sembrato bello inserire questo riferimento evocativo ad un non meglio immaginato “odore di per sempre”. Ulteriore contraddizione nel paradosso: “per sempre” è nel medesimo tempo espressione che spaventa, agognata, ma anche frutto potenziale di repulsione.


Nel blocchetto successivo di “versi”, introduco una sorta di trucchetto da mestierante poetastro saltimbanco. Dopo “The bomb”, la composizione in cui Gregory Corso richiamava graficamente la sagoma del fungo atomico tramite “andate a capo” ed impaginazione dei versi calibrate ad hoc, simili stratagemmi andrebbero banditi per eccesso di imitazione. Ma non ho saputo resistere. Il mio ben più modesto disegno risultante dal gioco delle righe, suggerisce blandamente la silhouette della clessidra a cui si fa riferimento appunto nel testo. Per accentuare l’effetto, ho voluto spezzare la parola risultata centrale, “so-spen-de”, a rendere ancor meglio l’immagine del granello di sabbia che la nostra “ammirazione frenante” vorrebbe si fermasse indefinitamente a mezz’aria, a decretare il “non tempo” dei tanto agognati “distillati d’attimi”.

“E’ gravosa / l’impalpabile discesa, / come di masso / al cui silente tonfo mai s’intende prestar fede”: quel granello tuttavia prima o poi deve cadere. Ed anche se ci può apparire eterno e sommante incorporeo il lasso di attimi della sua sospensione, alla fine è questo che si rivela essere: un masso che cade pesantemente nello smarrimento che segue l’orgasmo, nel lunedì che segue la tregua del week-end, nelle urgenze pratiche del vivere che spazzano via ogni poeticità. E ad ogni rinnovarsi dell’estasi riscoperta negli attimi distillati, riprendiamo ad illuderci che stavolta no, il tonfo non ci sarà, non gli vogliamo “prestar fede”: eppure il granello non manca mai di tornare a toccare il fondo della clessidra, con la sua pesantezza ci sorprende senza tregua, di una sorpresa amara, ma al tempo stesso così familiare ed usata.

“Vestendo la glabra pelliccia / d’animali tracimanti l’incompiuto, / c’avvinazziamo del vero assenzio / sublimato dalle nostre essenze”. Ecco, qui lo ammetto senza problemi: gli ultimi due blocchetti di versi sono quelli più esoterici e sfuggenti, e io stesso fatico un po’ a chiarirli. L’idea era quella di richiamare la dualità che sempre sussiste nell’uomo, la distonia, incerti casi, innescata fra la sua inestirpabile componente animale da una parte, e la sua essenza civilizzata, dall’altra. Tutto ciò mi è sembrato che affiorasse bene attraverso l’immagine di una “glabra pelliccia” che ogni donna o uomo si porterebbe addosso, una pelliccia paradossalmente senza peli, perché partecipa sia dell’animalità, sia della nostra componente civilizzata.

“Animali tracimanti l’incompiuto” è senza dubbio il passo più oscuro. “L’incompiuto” starebbe a significare esattamente la nostra incapacità di approdare ad una compiutezza nella comprensione del tempo. Il tempo ci affascina, ci trascina nel suo turbine, ci ubriaca, non possiamo sottrarci ad esso, ma non lo capiremo mai: in questo tentativo di svelarne il mistero, mettiamo in gioco tutte le nostre facoltà, gli istinti animali uniti alle raffinatezze logico-razionali, ma l’unico risultato finale sta nel nostro tracimare una impotente incomprensione.

“C’avvinazziamo del vero assenzio / sublimato dalle nostre essenze”: qui mi è piaciuto giocare con la sonorità delle parole “assenzio” ed “essenze”. Il tempo è una componente radicale della nostra essenza di uomini: ci è connaturato. L’effetto che a volte ci procura è quello di una vera e propria ubriacatura: è vertiginoso nelle sue contraddizioni, e come presi nel gorgo dei fumi dell’alcol, talvolta ci addentriamo nei suoi misteri.


Concludo infine con un’invocazione, un po’ ironica e volutamente contraddittoria: “Vattene, tempo, fuori dai peli, / ma non diseredarci / del tuo marchio senza veli”. E’ forse quello che ciascuno vorrebbe: non soggiacere più al dominio del tempo (“Vattene, tempo”). Però al tempo stesso, la richiesta è molto pesante e pericolosa da fare: non volere più il tempo significa anche non volere più la vita, significa affacciarsi alla Grande Incognita di ciò che sta oltre il tempo. Quello che ne risulta dunque alla fine, è un’invettiva un po’ infantile e senza senso, un desiderare una cosa ed il suo opposto, un richiesta rivolta al tempo di lasciarci in pace, ma, per carità, di non abbandonarci (“non diseredarci”), di non allontanare da noi il suo marchio senza veli, ossia la condizione temporale che è parte così lampante ed evidente della nostra essenza di uomini. “Fuori dai peli” è un piccolo calembour per richiamare l’espressione “fuori dai piedi”, riecheggiando nel contempo il riferimento alla pelliccia introdotta nelle frasi precedenti. Il marchio del tempo è “senza veli”, sia in riferimento alla sua evidenza estrema, sia perché questa allocuzione suggerisce l’impotenza della nostra “nudità conoscitiva” di fronte al tempo che ci segna indelebilmente.

Se alla fine, a dispetto di questa mia piccola auto-esegesi, ciascun lettore che avrà avuto la pazienza di leggersela, continuerà ad ogni modo a sostenere: boh, sarà, ma io ci avevo capito tutt’altre cose…beh, ne sarò ancor più lieto, perché vorrà dire che si tratta di una composizione aperta alla multi-significazione e non mono-direzionata su un binario interpretativo unico.

sabato 26 gennaio 2013

Distillati d’attimi



Distillati d’attimi,
oltre non vorremmo osare.

La durata è sgomento,
il non tempo odora di per sempre.

A mezz’aria nella clessidra
     il granello di sabbia
                  so-
                spen-
                 de
            lo spirito
in ammirazione frenante.

E’ gravosa
l’impalpabile discesa,
come di masso
al cui silente tonfo mai s’intende prestar fede.

Vestendo la glabra pelliccia
d’animali tracimanti l’incompiuto,
c’avvinazziamo del vero assenzio
sublimato dalle nostre essenze.

Vattene, tempo, fuori dai peli,
ma non diseredarci
del tuo marchio senza veli.



sabato 19 gennaio 2013

Chiasmi socio-etologico-comportamentali


In attesa, quando ritorneranno, di riprendere a seguire il filo di pensieri più elevati e forniti di maggiore velocità concettuale, continuo a trattare le mie questioncelle scaturite raso terra, da elucubrazioni mosse un passo dopo l’altro, in sintonia con le mie camminate campagnolesche.

Ci sono diversi tipi di passeggiatori, ma una delle classificazioni più peculiari si potrebbe impostare sulla seguente distinzione: quelli che camminano tenendo lo sguardo sull’orizzonte, e quelli procedono con gli occhi fissi a terra. A seconda dell’umore di giornata o della situazione meteo al contorno, io appartengo a fasi alterne un po’ a tutte e due le categorie. L’errore da non commettere consiste nel giudicare più degna e più nobile l’una opzione rispetto all’altra. Si possono far scaturire riflessioni di pregio sia praticando una camminata alla cane Fido Milleossequi (ossia: occhi modestamente rivolti in basso), sia producendosi in quella alla Lupo Impavidus de Lupacci (ossia: sguardo fiero a vagliare l’orizzonte nella sua estensione).

Il suolo ed il cielo sono entrambi ottimi narratori.


E’ stato proprio spostandomi a piedi in modalità “ground detector”, che mi sono accorto di una fatterello curioso. Chiamarlo fatterello è assai riduttivo, perché dietro si celano risvolti alquanto sbalorditivi, a ben guardare. Ma quando ci va di mezzo una “poeticizzazione” della realtà, ai miei occhi tutto s’ingentilisce e dunque è soprattutto per questo che mi viene da vezzeggiare il fenomeno con la parola “fatterello”. In pratica, allungando un passo dopo l’altro sull’asfalto che solitamente ospita le mie passeggiate, mi sono accorto della presenza cospicua di gusci di noce frantumati, quasi sempre vuoti, e tutti rigorosamente dislocati sopra la nera striscia bituminosa, oppure spostati pochi centimetri giù da essa.

Quale arcano si celava dietro questo curioso stillicidio “nocivo”? [Piccolo inciso: è bello virgolettare una parola quando se ne stiracchia la forma, per farla meglio aderire al senso che le si vuole conferire (come ho fatto sopra con “poeticizzazione”), ma forse ancor più bello è virgolettare una parola pur lasciandola intatta nella sua forma ufficiale, solo perché se ne altera ironicamente il significato (come ho fatto qui con “nocivo”)].

A cosa era dovuto insomma tutto quel profluvio di involucri di gherigli smarriti sull’asfalto? Non avessi già sentito parlare di questo piccolo “artificio naturale”, la mia curiosità sarebbe rimasta insoddisfatta. Ma si dà il fatto che, non ricordo bene proveniente da dove, mi era giunta già all’orecchio questa notiziola sfiziosa. La discreta semina di noci fracassate sull’asfalto altro non è che il risultato di una sorprendente capacità d’apprendimento della quale sanno dar prova alcuni uccellini. Non saprei dire di preciso se si tratti di gazze, corvi, cornacchie, ghiandaie o di altri pennuti: più probabilmente sono i rappresentanti di una di queste famigliole ornitologiche, oppure di qualche altra, ma fatto sta che con il tempo, questi ingegnosi spiumettanti hanno capito che l’asfalto è duro, e facendovi cadere sopra, con un po’ di precisione e da una discreta quota, l’altrimenti non scalfibile oggetto dei loro desideri mangerecci, si ottiene di far funzionare la strada come un efficiente schiaccianoci. Quello che poi a loro resta da fare, dopo l’impatto, è solo di planare giù e sbafarsi il contenuto dello scrigno in siffatta maniera spalancato.


Fin qui, si potrà obiettare che si tratta in fondo in fondo di un fenomeno da poco. Non nego di possedere in discrete dosi una certa capacità di divertirmi con poco, quindi magari la mia opinione ed il mio stupore in merito potranno probabilmente venir reputati esagerati. Per completezza va allora detto che, nel prosieguo delle mie peregrinazioni, la parte “andarperpensierosa” veramente sorprendente è giunta solo in seguito, quando m’è accaduto di comparare quella strabiliante usanza pennuta, con un patetico scimmiottamento messo in atto riguardo alla medesima, da quei miserabili degli umani. Sempre adagiata sull’asfalto, poco lontana da alcuni gusci di noce, dapprima ho notato infatti una tesserina magnetica di quelle in uso in un parcheggio a pagamento della città. Chissà quale tipo di apprendimento avrà voluto mettere in pratica, mi sono domandato, quel poveraccio che l’ha scagliata a gran velocità dal finestrino della sua auto. Sarà ritornato poi forse indietro per verificare se, da tesserina ormai scaduta, si era tramutata in abbonamento a vita valido per il medesimo parcheggio?

Proseguendo, vedo un accendino di plastica, anch’esso abbandonato al medesimo destino riservato ai resti del lauto pranzo dei pennuti. Si sarà trattato in questo caso di un irrazionale tentativo da parte di un altro guidatore di sfruttare l’abbrivio della sua vettura per far scaturire dall’impatto una bizzarra strategia per smettere di fumare?

Continuando a camminare, seguitavo a rinvenire altri oggetti abbandonati e scagliati presumibilmente sull’asfalto sempre sfruttando lo slancio automobilistico. Alla fine ho gettato la spugna dell’interpretazione: mi sono reso conto di capire molto meglio le intenzioni dei nostri amici pennuti, che non quelle dei miei simili a due gambe. E, finora non mi è fortunatamente mai successo, ma non oso pensare quale ipotetica strategia mi capiterà di dedurre mentalmente, la volta che m’imbatterò in un portafoglio vuoto o addirittura in un preservativo usato.

mercoledì 16 gennaio 2013

E’ nato prima l’uovo o il Gillipixel?


E’ bello porsi continue domande nella vita. Anzi, forse è più preciso dire che la vita, in fondo, non è altro che una immensa domanda, senza tregua e dalle pochissime risposte. A volte è bello trovare dei responsi. Ma molte spesso, sono belle anche quelle domande che non hanno risposta alcuna. Ce le facciamo così, solo per il gusto di domandarcele, ma una risposta esatta è precisamente l’ultima cosa che vorremmo.

Ho trovato una bellissima di queste domande citata in un libro. Se la pone lo scrittore e poeta polacco Stanislaw J. Lec (1909-1966):

- Qualcuno ha mai chiesto alla tesi e all’antitesi se vogliono diventare sintesi?

La domanda “ad esigenza di risposta tendente a zero” si contraddistingue per la sua ironia e per la vena paradossalmente poetica ed un po’ folle che riesce ad innescare nell’animo di chi la pone e di chi se la sente rivolgere. Un po’ come succedeva al giovane Holden, quando si domandava dove andavano le anatre del laghetto di Central Park, in inverno, quando la superficie dell’acqua ghiaccia e compagnia bella. Anche se ormai è stra-citato, stranoto, e ci viene fuori dalle orecchie (nonché da vari altri orifizi corporali), riporto il passaggio per la sua sempre innegabile bellezza, soprattutto nella versione originale:

«...”You know those ducks in that lagoon right near central Park South? That little lake? By any chance, do you happen to know where they go, the ducks, when it gets frozen over? Do you happen to know by any chance?” I realized it was only one chance in a million...».

The catcher in the rye
J. D. Salinger1945

«...”Sa le anitre che stanno in quello stagno vicino a Central Park South? Quel laghetto? Mi saprebbe dire per caso dove vanno quando il lago gela? Lo sa per caso?” Mi rendevo conto che c’era soltanto una probabilità su un milione...».

Il giovane Holden
J. D. Salinger - 1945

Sulla scia di queste domande “ad esigenza di risposta tendente a zero”, chiaramente troppo nobili ed elevate per osare soltanto pensare di eguagliarle in qualche modo, mi è venuto gillipixellescamente da crearne di mie. Ovviamente assai più grezze, dozzinali e molto, ma molto più stupide. Ve le propongo:

- Perché quasi tutti i transessuali sono sudamericani?

- Sino ad oggi il maschio è nato col pisello e la donna con la patata: in un futuro, nel caso di avvento di una razza umana estremamente evoluta, dobbiamo attendercela dotata di patello oppure di pisata?

- Se l’uomo uscisse da dove esce l’uovo, le sue origini sarebbero più nobili?

- La prima cosa che si fa nascendo, è piangere: la vita ti avverte sin da subito che lungo il suo corso, di dolore ce ne sarà da smazzare a bizzeffe. La prima cosa che si fa al mattino svegliandosi, è correre in bagno: è il benvenuto offerto da ogni nuova giornata, traducibile nel messaggio cifrato: “Ma vai a cagare!”. Non è che scambiamo sempre la vita per quel gran prodotto di qualità, solo perché non prestiamo mai attenzione alle avvertenze scritte sulla confezione?

- Quando il sole tramonta alla sera, sta mostrando il sedere a noi ed il viso all’America, o viceversa?

- C’è più stoltezza in un uomo cresciuto male, oppure stanchezza in un vecchio maturato peggio?

- Le civette sul comò del famoso “ambarabà – ciccì – coccò”, l’amore con la figlia del dottore, come facevano a farlo?

lunedì 14 gennaio 2013

Sorti pennute

Una delle mie domeniche mattina, a piedi lungo l’argine. Una nebbia tanto grassa quanto invisibile sfarina gli occhiali di goccioline mosaicate. L’intero orizzonte è pesto e bigio come le occhiaie di un pugile suonato a fine carriera. I pensieri volano bassi, di conseguenza. Sino a giungere presso il limitare del vasto sbocco visivo, a cavallo del grande gomito aperto sul massiccio di terreno, dove un piccola esibizione naturale mi coglie da lontano.

Alta, sopra i grigi ciuffi dei pioppeti della sponda opposta, si distende una formazione di anatre, in sontuoso assetto di volo. Contro il plumbeo sfondo, vanno disegnando il più classico dei loro motivi. Un’aperta e quasi perfetta “V” nera, capitanata dal più impavido fra i loro timonieri.
Ma ecco che dall’ala sinistra, una ribelle frangia di pionieri della forma si stacca in libera distesa aerea. Per alcuni attimi scombussolano la trama, bramano un diverso racconto. Sembrano un rivolo di spuma che si arrotola ad un’estremità dell’onda, un ricciolo ribelle sconquassato e ricadente dalla frangia. Una folata di vento più violenta di tutto il resto della possanza eolica, una volontà interiore del gruppo a sparigliare l’ordinato schema.
La mossa spiazza un po’ le aspettative, ma non devo attendere molto per veder riconfortata la mia piena fiducia nella logica ornitologica. Il drappello sovversivo subito architetta una nuova porzione di sagoma ed il puntuto indicatore presto si riforma, con rinnovata precisione, con una simbologia rimarcata e sintetizzata. Ancora più convincente e in sintonia con una grafia umana, si delinea adesso l’insieme. Quei fieri solcatori del cielo quasi sembrano voler fugare ogni mio dubbio, tracciando un’immagine a prova di cretino: «...Ma sì, se non l’avevi capito, oh tonto di un Gillipixel, questa è proprio una freccia!!!...».

Poi tutto lo squadrone si distende e plana leggero, rallentato, graduale. Sembra ora un’ampia rete da pescatore, gettata in tutta la sua apertura sopra i flutti ribollenti delle acque pescose. Solo che, non pesci si prepara a cogliere, bensì riposanti fronde di pioppi. Le estremità della sventagliata di anatre penzolano per qualche attimo come tirate giù da immaginari piombi messi a fare da contrappeso. Alla fine lo stormo ridotto a sciame dalla foschia e dalla distanza, sfuma di sotto guadagnandosi l’invisibilità.
Con lo sguardo grato e l’animo in micro-estasi per il piccolo spettacolo privato ricevuto in regalo dal cielo, svolto giù dalla solita discesa che circumnaviga la casa dove un dalmata mattiniero suole salutarmi con qualche latrato, a metà tra l’allarme rivolto ai padroni ed un burbero buongiorno per me. A proposito di pennuti: subito dopo il latrato, dall’aia quasi ai piedi dell’argine, già da due domeniche non odo più il riecheggiare di un omologo verso animale d’allarme velato: il simpatico «...kmèk – kmèk...» che una pingue oca da cortile era solita rivolgermi mentre passavo a fianco del suo territorio domestico. Come mai, mi domando.

Faccio mente locale: le feste son trascorse da poco, le pignatte hanno bollito fieramente ed i destini, al di qua ed al di là del coperchio, si sono compiuto. Cosa vuol dire, a volte, poter disporre dell’abilità del volo di cui sono dotate le tue cugine anitre...cara oca da cortile, che nobilmente ripetevi il compito di guardiana sull’esempio remoto delle tue antiche nonne sul Campidoglio.

Cos’altro mi resta da dire, per te, se non uno sconsolato «...requiescat in pance...»?

sabato 12 gennaio 2013

Wassily Kandinsky: e non c’è niente da capire…


Da molto, troppo tempo, trascuro la mia rubrichetta d’arte. Oggi mi è venuto voglia di riprenderla con un autore molto impegnativo: Wassily Kandinsky (Mosca, 1866- Neuilly sur Seine, 1944). Il criterio col quale ho scelto di volta in volta gli artisti intorno alla cui opera mi sarebbe piaciuto un po’discettare, è sempre stato molto banale: semplicemente, le creazioni dell’autore in questione dovevano e devono piacermi, dovevano e devono dirmi qualcosa. Le note dolenti iniziano poi esattamente da qui, ossia dall’istante in cui mi debbo mettere a spiegare in cosa consista quel “qualcosa” che l’opera del tale artista mi sta dicendo, mi sta comunicando.

Ma facciamo un passo indietro, riportiamoci per un attimo alle fondamenta dell’atto conoscitivo medesimo, ponendoci alcuni quesiti che vengono prima, molto prima del compito stesso di dover spiegare ed argomentare. Un’opera d’arte si può davvero “capire”? In un’opera d’arte c’è veramente “qualcosa da capire” (come nella famosa canzone di De Gregori)? Quello di “comunicare” è davvero lo scopo primario, l’obiettivo principe, di un’opera d’arte? Mi sembra che la risposta possibile da dare a queste domande sia alla fine sempre la stessa: sì e no.

E’ chiaro come l’intenzionalità più intima di un artista prenda le mosse dal desiderio, dalla brama quasi, di entrare in sintonia con il sentire degli altri. Ma la via artistica viene solitamente intrapresa ad iniziare da quel punto in cui ci si rende conto dell’impotenza dei normali canali di trasmissione di significati relativi al mondo e alla vita. Quando i codici assodati e perfettamente condivisi delle varie forme di linguaggio a disposizione per trattare “operativamente” i significati del vivere (in primis la lingua del “senso comune”, ossia tutte le parole che ci consentono di “dire” con la certezza assoluta di essere capiti, e per le quali “cane” vuol dire “cane, “gatto” vuol dire niente più di “gatto”, e così via), quando questi codici, dicevo, si rivelano impotenti ad inglobare in sé la complessità di significazioni di grado superiore che si intende trasmettere, ecco che entra in scena il fare artistico. Ad esempio: voglio dire quanto sono turbato dal senso dell’infinità del tutto? Voglio proclamare un sentore nascosto e remotissimo che mi pare di aver intuito nei meandri più sotterranei del vivere? Voglio abbracciare la complessità delle cose con un solo sguardo sintetico che ne renda conto in misura umana? Ecco che in tutte queste circostanze, l’uomo si è sempre affidato al mezzo artistico, come solo in grado di coprire la vastità di simili compiti “comunicativi”.

Allora sì, è vero: un’opera d’arte “comunica”. E’ vero: in essa c’è qualcosa da “capire”. Ma saranno sempre un “comunicare” ed un “capire” dai confini assai labili, amplissimi, sconfinati. Un’opera d’arte è un congegno comunicativo a significazione aperta. Ha poco senso dunque, in questa ottica, la classica frase che si sente dire spesso: «…Ma io l’arte moderna non la capisco…ma cosa vuol dire questo quadro?...». O meglio, sono dubbi legittimi, ma hanno poco senso nel caso ci si attenda un tipo di “capire” limpido, lineare ed onnicomprensivo, che non lasci fuori “scarti di senso” alcuno, come quello di pertinenza ad esempio di una farse del tipo «...il gatto ha bevuto tutto il latte nella ciotolina...». Se è questo il tipo di “capire” di cui si va in cerca, si rimarrà per sempre delusi e non si capirà alla fine mai nulla. Nemmeno il critico più acuto e geniale potrà mai capire un’opera d’arte con quella precisione e completezza, con quella assoluta biunivocità fra “significato” e “supporto linguistico atto ad esprimerlo” (colori e linee in pittura, marmo nelle sculture, fotogrammi nel cinema, ecc.) che ci si attende da un comunicare del tipo “operativo” e lineare utilizzato invece nella quotidianità.

Dopo aver detto queste cose, parandomi tra l’altro anche stavolta un po’ le spalle per tutte le castronerie che mi capiterà di scrivere nel proseguimento del discorso, posso tornare al tema di Kandinsky. I ragionamenti fatti sopra calzano bene riguardo a tutto il senso del fare artistico, ma per di più cadono abbastanza a fagiolo soprattutto per quel che concerne la poetica dell’artista russo.



Per capirci qualcosa, è utile partire dalla metafora offerta dalla musica, spesso frequentata non a caso dallo stesso Kandinsky. In cosa si differenzia la musica rispetto a tutte le altre forme d’arte? In questo: la musica è del tutto astratta, ossia non ha riferimento od aggancio alcuno ad “elementi sensoriali presenti in natura”. Il discorso è sottile e va chiarito bene. D’accordo, anche la musica si serve di suoni, che sono pur sempre entità fisiche tratte dalla realtà. Certo, anche la musica è un “linguaggio” e si deve pur basare su qualche tipo di “segno” o supporto materiale, che nel suo caso è appunto il suono. Ma il suono, in musica, non “imita” nessun elemento del reale. O se lo fa, lo fa in misura estremamente “traslata”. Ad esempio, è vero che le “Quattro stagioni” di Vivaldi offrono un’immagine riflessa di un certo senso della naturalità. Tuttavia i “segni” di cui quelle melodie si servono per fare questa operazione evocativa sono del tutto avulsi da riferimenti diretti agli elementi reali e sensoriali delle stagioni vive e vere. Il suono di un violino non imita nulla di reale, se non se stesso, e così si può dire di tutti gli strumenti. La musica rappresenta dunque la forma di linguaggio più pura ed avulsa dall’imitazione di elementi sensoriali tratti dalla realtà. Per questo riesce ad introdurci dentro atmosfere così “metafisiche”, talvolta, o a farci sfiorare dimensioni così alte e lontane.

Ora, l’indagine poetica di Kandinsky, da un certo momento in avanti della sua avventura artistica (si può addirittura fissare una data: dal 1910 in poi), è tutta incentrata su questo obiettivo: cercare di capire se un tipo di “purezza linguistica” simile a quella musicale sia evocabile e praticabile anche attraverso gli strumenti espressivi dell’arte figurativa (in parole povere e nel senso più comune: con gli strumenti della pittura).

«Primo acquerello astratto» 
Wassily Kandinsky - 1910


Per intraprendere questa operazione di finissima levatura intellettuale (ancor prima che tecnica), Kandinsky si rende conto della necessità di azzerare ogni tipo di conoscenza riguardante la realtà. Non a caso ho detto prima che il mio discorso introduttivo generale si attaglia bene anche al ragionamento particolare su Kandinsky. L’operazione che Kandinsky attua con il suo «Primo acquerello astratto» del 1910 (data di un fatidico spartiacque per l’artista, come già accennato) sta infatti nel riportarsi idealmente alla fase mentale (e percettiva, e delle sensazioni) che precede ogni tipo di acquisizione conoscitiva. Kandinsky prova ad esplorare quale esito figurativo possa derivare dal gesto artistico puro, spogliato di ogni sapere acquisito con l’esperienza. Kandinsky si propone la realizzazione di un gesto pittorico che preceda ogni fase successiva di comprensione, ogni forma di “capire” derivata in seguito dall’esperienza. Si sarà insomma già capito come Kandinsky persegua l’intenzionalità di riportarsi ad una dimensione infantile (e proprio per questo “pre-conoscitiva”) del fare artistico figurativo.

“Il prima” di ogni “capire”; “il prima” di ogni “sapere”; “il prima” di ogni rappresentazione riguardante il mondo e le cose, che con l’esperienza ci si forma: è quella dimensione che Kandinsky intende andare a cogliere a partire dal suo «Primo acquerello astratto» del 1910. Sicuramente si trattava di un programma estremamente arduo, al limite dell’utopico. Spogliarsi della consapevolezza adulta ormai stratificata ed assodata appare come un compito pressoché impossibile. Ma il senso dell’operazione del maestro russo non è così ingenuo e banale: l’intento non sta nel riprodurre una vaga idea di “infantilità”, alla ricerca di un qualche senso di spontaneismo fine a se stesso e non meglio precisato. In gioco c’è invece una scommessa filosofica ben più profonda. C’è un confronto con tutta l’indagine speculativa dei grandi pensatori moderni, in primis Arthur Schopenhauer.

Per Schopenhauer il mondo come pura Rappresentazione umana non può non rivelarsi altro che nelle forme di un’illusione. Mentre è nella Volontà del mondo di procrastinare se stesso, che risiede la vera essenza del reale. Kandinsky intuisce allora che la pittura può dire qualcosa riguardo alla vera essenza del reale, soltanto se si spoglia di ogni pretesa di rappresentazione, di imitazione della realtà (così come, per riprendere la metafora introdotta prima, la musica già fa “per sua natura”). In questo (perlomeno da come l’ho capita io) risiede il nucleo più intimo ed essenziale della poetica di Kandinsky.

Va detto che già altri insigni artisti prima di lui avevano preparato la strada all’astrattismo, ma nessuno come Kandinsky era riuscito a condurre il discorso ad estremi di “radicalità” così spinti. Con Kandinsky la purezza della “non-figurazione” si fa assoluta. La pretesa di dire ciò che esiste “prima”, “al di qua”, della rappresentazione è totale.

Ci racconta Giulio Carlo Argan: «...Kandinsky si è proposto di riprodurre sperimentalmente il primo contatto dell’essere umano con un mondo di cui non sa nulla, nemmeno se sia abitabile. E’ soltanto qualcosa d’altro da sé: un’estensione illimitata, non ancora organizzata in spazio, gremita di cose che non hanno ancora un posto, una forma, un nome. [...] Indubbiamente il bambino percepisce, riceve sensazioni dal mondo esterno: ma la percezione non si precisa in nozione, si traduce in un insieme di moti istintivi, con il quale il bambino prende ciò che lo attrae, respinge ciò che teme. Se dispone degli strumenti necessari, trasforma quei gesti in segni, che a loro volta vengono percepiti; e poiché il mondo esiste per lui in quanto lo percepisce, facendo qualcosa che si percepisce afferma la sua volontà di fare realtà, di esistere. Kandinsky  non si propone di dimostrare che così il bambino vede il mondo e così lo rappresenta, sarebbe un assunto insensato. Si propone di analizzare, nel comportamento del bambino, l’origine, la struttura primaria dell’operazione estetica...».

L’arte moderna. 1770 / 1970
Giulio Carlo Argan - 1970

Ecco allora come Kandinsky cerca di spogliarsi di ogni sapere, nel tentativo di esprimere solamente l’essenza di ciò che è “pre-conoscitivo”. Le linee non sono dunque contorni che delimitano figure conosciute, ma solo prolungamenti di una volontà gestuale pura. I colori non raccontano la fisicità di superfici note, non riproducono volumi di cose riportate sulla tela attraverso una “interpretazione” dei relativi stimoli provenienti dalla realtà. Come dice ancora Argan, l’insieme dinamico della composizione non intende riprodurre delle “forme” (tipico prodotto di una “rappresentazione”), ma piuttosto una coralità di “forze” (esito di una “Volontà”) in gioco.

A questo punto, innumerevoli altri approfondimenti sarebbero necessari per meglio tratteggiare il senso completo della poetica di Kandinsky. Tanti altri quadri andrebbero analizzati. Ma siccome mi pare di aver già abusato fin troppo della pazienza del lettore, per oggi reputo pietoso e doveroso terminare qui. Sempre pronto, s’intende, ad incassare la fatidica conclusione da parte di chiunque abbia avuto bontà di arrivare sino a questo punto nella lettura del mio sproloquio: «...Va beh, sarà: ma io alla fine, nell’arte moderna continuo a non capirci una mazza...».

martedì 8 gennaio 2013

Steamy dripping drops of dew


Cari amici viandanti per pensieri, non faccio in tempo ad augurarvi epifanie a bizzeffe, che nel giro di pochi giorni me ne capita una minimale, ma alquanto stupefacente. Quando si tratta di epifanie, siamo alle solite: la cosa fondamentale, con loro, non è tanto che accadano. Certo, se non si verificano nemmeno, stiamo freschi, hai voglia a star lì ad aspettarle…

Ma la questione basilare, con le epifanie, sta soprattutto nel saperle cogliere. Chissà quante migliaia, milioni forse, ce ne passano sotto il naso tutti i giorni, ma noi siamo così immersi nel tran-tran del familiare flusso dell’ordinario, da non accorgerci di nulla. Le epifanie scorrono in una loro corrente fluida, misurata e mimetica: siamo intinti continuamente in questo corso di stupore, ma soltanto in certe occasioni ci è dato di poter sollevare il velo dell’apparenza, riuscendo ad acciuffare il piccolo mistero celato al di sotto. Le epifanie esistono già da qualche parte, forse da sempre. Forse sono eterne, sono pizzichi di infinità, sbocconcellamenti di evasione fuori dalla dimensione temporale. Però solo la nostra percezione e consapevolezza piena le legittimano, le “inverano” nella loro completezza. Sono una nostra invenzione nel senso etimologico del termine (dal latino: invĕnĭo – invenis – invēni – inventum – invenīre = “imbattersi a caso in qualcosa o in qualcuno”), perché nell’attimo stesso in cui ci accorgiamo di esse, le rinveniamo, le facciamo venire alla luce.

Ed ora che mi sembra di aver menato a sufficienza il cane introduttivo per l’aia delle premesse, vengo a svelarvi l’entità di questa recente, piccola-grande mia epifania. Lo scrittore Joseph Conrad pronunciò una volta una sua ormai celebre frase, che mi è sempre suonata parecchio simpatica: «…Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?...». Ecco allora che parafrasando il grande maestro della penna anglo-polacco, a me viene da dire: «…Come faccio a spiegare ai miei amici viandanti per pensieri che quando guardo fuori dalla finestra, a volte le cose più sorprendenti le trovo non al di là del vetro, e nemmeno al di qua, bensì esattamente “sopra” il vetro?...».

E’ quanto accaduto appunto in una di queste mattinate recenti, tra le più preoccupate nel corso dell’anno a vedere ribadito il concetto di giornata nebbiosa. Avvicinando lo sguardo a pochi centimetri dall’occhio vitreo della mia stanza per pochi attimi di virtuale evasione, il panorama esterno non era dunque dei più esaltanti. Quello interno, ancor meno: c’ero io, ossia non propriamente un paesaggio bucolico. Escluso l’esterno e scartato l’interno, è stata invece proprio la membrana trasparente intermedia, offerta dal doppio vetro, a catturare la mia meraviglia. Su di essa era posato un umido manto di vapore depositato, una condensa greve e copiosa, curiosamente distribuita con un disegno preciso a goccioline fini, piccine, una sorta di vescichette di liquore acqueo.

Osservando ancor più da vicino questa insolita trama, da un certo momento in poi non riuscivo più a levarmi dal piacevole inganno che si trattasse della superficie di un qualche pellame o cuoio fine, ricavato da chissà quale insolita creatura di un immaginato regno bovino meteorologico. Pur continuando a sapere che si trattava di goccioline, era bello lasciarsi blandire dall’illusione di stare rimirando il dorso di una insolita valigia in pelle eterea, o una borsa alla moda confezionata in lieve cuoio idrico.

Non potevo esimermi dal fermare il fenomeno su alcuni scatti fotografici. Ne ho fatti cinque e, anche se potranno apparire molto simili o monotoni, li riporto tutti (e li corredo con titoli roboanti e scherzosi da pseudo artistoide contemporaneo, per divertimento). Una volta riversate le immagini sul computer, una nuova epifania nell’epifania è affiorata. L’avevo subodorata già dal vivo, sul vetro vero e proprio. Ma in immagine, con la resa particolare del chiaroscuro fotografico, l’effetto si è rafforzato notevolmente. Da vescicole di quel liscio pellame che ci avevo visto all’inizio, le gocce, in foto, si sono decisamente mutate in minuscoli monticelli avvistati col telescopio sulla superficie di un inatteso pianetino appena scoperto nei cieli, una luna dalla grigio-topesca trama micro-globulata, un dedalo di avvallamenti astronomici in miniatura.

E le sorprese non erano finite qui. Ancora più per caso, fissando un po’ più a lungo delle altre una fra le cinque immagini, lo stupore degli stupori si è amplificato a dismisura. Invito anche voi a provare l’esperimento, cari amici viandanti per pensieri. Non so indicarvi bene il metodo ottico più idoneo ad ottenere l’effetto, ma se osservate una delle foto per un tempo sufficientemente lungo, ad un certo magico momento vi accorgerete che le mie buffe goccioline si trovano a formare una cosiddetta immagine ambivalente: quello che è in rilievo, allo sguardo si muta in un incavo, e viceversa. Ecco allora che non più soltanto una superficie di coriaceo pellame vi trovate di fronte, oppure un’astronomica pianura immaginata, ma anche la scabra grana di un improbabile “intonaco a bolle rientranti”, un blocchetto di torrone spezzato con taglio netto, una mollica gessosa di porosità in perfetto bilanciamento spaziale, o ancora, la faccia stavolta non proprio impeccabile di una pallina da golf dai forellini messi giù un po' a casaccio.

Piccolo suggerimento pratico atto alla visione: se non riuscite a cogliere quanto vi ho descritto, forse l’effetto riesce più immediato facendo scorrere un’immagine dopo l’altra e sostando un po’ con lo sguardo su ciascuna. Spero che vi balzi all’occhio, provando, perché quando accade è un piccolo spettacolo.


1 – Porosità spaziale

2 – Cuscinetti astratti

3 – Granuli idrici

4 – Louis Vaporòn

5 – Parete succhia-sguardo