venerdì 30 marzo 2012

Translinguismi rintronali


Uno spettro si aggira nei meandri dell’ambiente pubblicitario: lo spettro del pacchianismo!

Sarà che sono un ingenuo e mi figuro sempre un mondo ipotetico mio, così come presumibilmente e a rigor di logica dovrebbe grosso modo funzionare. Di fatto, immaginando di essere io un pubblicitario, il messaggio verso cui mi indirizzerei cercherebbe di privilegiare l’eleganza, la classe, l’evocazione di un senso di fiducia, di affidabilità, di prestigio, di bellezza, di sicurezza, di solidità, la messa in risalto di prerogative giocose, mirate al benessere di chi acquista, al suo divertimento, al comfort, e così via. Di tutto questo, un po’. Oppure di volta in volta, ciascuno di questi aspetti messo più in risalto di altri, a seconda del prodotto da reclamizzare.

Invece no.

Pare che in molti casi, affidarsi ancora allo “sboronismo”, al “ciòca-piattesimo” (dalla nota espressione dialettale nordica “ciòca-piatti”, ossia “sbatti-piatti”, detto di tizio che, facendo una gran confusione caciaronesca, conclude pochissimo e con molta poca sostanza), oppure consegnarsi anima e corpo al più bieco “mostra-culismo macachese” (tendenza esistenziale di chi preferisce la chiassosa apparenza ad una dignitosa sostanza, nell’immagine metaforicamente mutuata dal comportamento esibizionistico dei macachi), pare insomma che tutte queste strambe propensioni continuino ad essere reputate strategie comunicative vincenti.

In particolare, un sottoambito del pacchianismo esageratamente eclatante che non sono mai riuscito a capire e che continua ad essere mangiato come il pane dai creativi spottaroli, è il “rintronamento translinguistico”. Questo fenomeno si fonda sulla pretesa secondo la quale una certa frase di una certa lingua (nella fattispecie, lo slogan dello spot), se pronunciata con la distorsione tipica di chi non è parlante nativo di quell’idioma, oppure addirittura non ne è parlante affatto, suonerebbe estremamente trendy, cool, fashion, e tutti questi altri aggettivi di ‘sta minchia.

Eppure la lezione di Alberto Sordi è ormai antica, ma evidentemente non ancora assorbita a sufficienza, nella sua pienezza di risvolti ed ammonimenti culturali. Non siamo qui a sindacare sulla maggiore o minore venustà di una lingua rispetto ad un’altra. Assumiamo come postulato che ogni lingua sia bella di per sé, in virtù delle sue caratteristiche intrinseche, inimitabili ed inconfondibili. Affascinante è l’italiano nel suo modo specifico, così come lo sono l’inglese, il francese, lo spagnolo, l’inuit, il dialetto della Bassa Busonia, e tutte le altre lingue insomma, più o meno diffuse o note, vive o morte che siano.

Il punto non sta dunque nel confronto tra lingue, ma nel passaggio improprio da una lingua all’altra, nella commistione sgangherata di pronunce.

Il mai sufficientemente lodato Nando Mericoni (l’«americano a Roma» di Alberto Sordi, per l’appunto) ce lo insegnò già decenni fa: un italiano che cerca di parlare americano senza averne le competenze e l’orecchio necessari, finisce per suonare come un giulivo coglionazzo. Tutt’al più potrà risultare un simpaticone un po’ sbalestrato, un vecchio zio rimbambito, ma mai in ogni caso una persona dalla quale compreresti qualcosa. Lo stesso succede ovviamente anche in senso contrario, nel caso di un anglofono che si cimenti con la parola di Dante e di Manzoni: stesso effetto, ben che vada, da caro vecchio etilista della porta accanto, stesso buffonesco boomerang espressivo rimandato nei denti.

Non fosse bastato il supremo ammaestramento del grande Albertone Sordi, più recentemente, sempre dall’ambito comico, ci è giunto un altro notevole monito riguardo alla ridicolaggine sempre in agguato nell’incauto “travaso idiomatico” e ai rischi ad esso connessi di scivolamento nel pieno di un’esterofilia fra le più boccalone. Mi riferisco all’esilarante quanto amara saga dei “Perego’s”, nella quale il sempre geniale Antonio Albanese interpreta il ruolo di un piccolo-medio imprenditore genericamente “para-lombardo”, uno di quelli duri e puri che “…mio nonno c’aveva l’officina, mio babbo ha fatto il capannone, io un capannone più grande, e mio figlio si droga…”.

Proprio quello stesso figlio (interpretato da Nicola Rignanese), non si sa se meglio definibile “degenere” oppure “fatto degenerare” sotto quella valanga di amore imprenditoriale, che sfoggia la più pacchiana distorsione esterofila, quando ad esempio, entrando in casa, saluta i genitori con la sua classica frase fashion «…Hi mamy, hi daddy…by Clavin Klein…», ricevendo come automatica risposta, ogni volta, l’immutato ritornello: «…Ma va a dà via’l cül, drugà!…».



Tra l’altro, questo altro sommo insegnamento comico, tirando in ballo il mondo della moda, si aggancia perfettamente al “dunque” a cui volevo arrivare oggi. Dopo aver sentito alcune stagioni fa Dustin Hoffman pubblicizzare un panettone magnificandone le bontà col suo perfetto italiano da ubriacone molesto, pensavo si fosse raggiunta l'apoteosi del “rintronamento translinguistico”. E invece sempre nuove chicche s'annidano dietro l'angolo.

Sono costretto a fare il nome dell'articolo in questione, altrimenti non si capirebbe cosa voglio dire, ma preciso che non ho nulla contro di esso. Le mie considerazioni sono rivolte esclusivamente alla bislaccheria pubblicitaria che lo accompagna. Si tratta di un profumo di Roberto Cavalli. Amo il mondo degli odori e dei profumi, e anche se non ne faccio uso personalmente, quando ho l'occasione di averne sottomano alcune boccette svariate, mi diverto un mondo a sniffare all'impazzata il piccolo imbocco degli spruzzatori, beandomi le nari coi vari effluvi. Il mestiere del profumiere deve essere uno dei più affascinanti immaginabili, lo vedo come una missione capace di portare gioia alla gente, allietandola con mille fragranze che sanno parlare direttamente ad una delle dimensioni recettive più sensibili dell'individuo.

In particolare, questo profumo non l'ho annusato, ma sono certo che sarà buonissimo. Per di più, ha il pregio ulteriore di portare un bel nome “italicissimo”, così sonoramente elegante, un giusto equilibrio fra lunghezza sillabica e dosata distribuzione di consonanti e vocali: “Roberto Cavalli – profumo”. Quale migliore modo di suggellare una reclame, che pronunciando queste tre semplici, italiche, pure parole, di per sé stesse già un perfetto slogan bello e pronto?

Nossignore invece, niente di tutto ciò che sembrerebbe più naturale. Questi pubblicitari, con a disposizione l'occasione di una siffatta purezza linguistica originaria, non l'hanno sfruttata. Si sono invece ostinati, hanno insistito nel loro balordo intento di “rintronatori translinguistici”, si sono incaponiti ciecamente, chiudendo lo spot con la solita voce cavernosa e virioloide, stile “tris di testicoli”, che ruvidamente sussurra: “...Robbbéudddo Kkkhhhvvvàli...”. E poi dopo non si lamentino se al povero spettatore, in circostanze simili, gli scappa di chiosare fra sé e sé, a labbra socchiuse: «...Ma va a dà via’l cül, drugà!…».


martedì 27 marzo 2012

Ingres: in equilibrio sul filo del vero


Jean-Auguste-Dominique Ingres: e scusate se è poco!

Conosco fin dai tempi della scuola il nome di questo artista francese, attivo dai primi decenni del 1800, sino a secolo inoltrato (nacque a Montauban, il 29 agosto 1873, e morì a Parigi, il 14 gennaio 1867). Ma solo nei giorni scorsi sono stato folgorato in modo davvero intenso dalla bellezza della sua opera.

Ho potuto infatti ammirare le riproduzioni di molti suoi dipinti nel numero monografico a lui dedicato dalla casa editrice Skira, che sta mettendo fuori una serie di tometti d’arte in allegato al Corriere della Sera. E dire che ne sono usciti già parecchi numeri, ogni volta un autore strepitoso, un genio supremo della storia dell’arte dietro l’altro. Con Ingres siamo giunti al numero 61. Non li ho acquistati tutti, ma una buona quarantina direi di sì. Eppure mai come in questo caso, il rapimento estetico era stato per me così forte, nemmeno col numero su Raffaello, o quello su Picasso, o Rubens, Masaccio, Bellini, Turner, Paolo Uccello e un sacco di altri.

Di Ingres (si pronuncia “Aŋghr”, ma a me piace gillipixarlo in “Ingrè”, almeno quando me lo dico mentalmente per i fatti miei) conoscevo giusto quelle tre opere note anche ai gran profani come me: “Donna al bagno”, del 1808 (detta anche “La baigneuse Valpinçon”); “La grande odalisca”, del 1814; “Il bagno turco”, del 1863.
"Donna al bagno" ("La baigneuse de Valpinçon") - 1808

"La grande odalisca" - 1814

"Il bagno turco" - 1863

Sono state queste tre opere, riviste ancora una volta, insieme ad un sacco di altre felicemente rinvenute sul tometto della Skira, che mi hanno fatto scattare l’epifania pittorica. Mi sono domandato perché questo piccolo fenomeno mi sia successo proprio con Ingres e non con altri autori, seppure anch’essi massimi maestri della storia dell’umano “infonder vita nella bellezza”.

Per andare subito al sodo dell’onestà intellettuale, e conoscendomi, dapprima ho valutato se il “quid” in questione non fosse per caso da addebitarsi al fatto che Ingres dipingeva spesso donne nude. Scusate la crudezza triviale del mio argomentare, ma volevo sbaragliare fin da subito ogni fuorviante equivoco. Sono certo che l’interesse figurativo di Ingres per il corpo, e in particolare per quello femminile, ha avuto un ruolo notevole nel far scattare la mia predilezione per questo artista, ma mi pareva di intuire che il punto nodale non doveva risiedere nella nudità soltanto.

Una rapida controprova mi ha subito confortato nella mia deduzione: anche Tamara De Lempicka, ad esempio, ha dipinto corpi femminili nudi a iosa, facendone praticamente il mono-tema esclusivo della sua produzione artistica, ma tutta la sua pletora di seni, glutei e cosce, non riesce, nel mio personale giudizio, a suscitare nemmeno la minima parte di fascino che posso ritrovare invece in una semplice schiena scoperta messa su tela da Ingres.

Il nucleo misterico Ingresiano doveva nascondersi, allora, sì nella “questione corpo”, ma essa andava motivata attraverso fattori ben più sfumati del banale gusto “guardonesco”, che detto per inciso (non dimentichiamolo e non facciamo troppo i furbi…) è pur sempre prerogativa maschile del tutto naturale ed imprescindibile (almeno fino a quando essa rimanga commisurata ad un grado decente di civiltà e di rispetto vicendevole fra individui liberi e capaci d’intendere e di volere).

Se l’atto del guardare non risiedesse da sempre nella natura dell’uomo, e quello di essere guardata non fosse andato di pari passo con l’essenza dell’essere donna, forse il mondo sarebbe stato meno colorato, meno vivace e più bigio, o addirittura, l’umanità si sarebbe estinta da tempo.

Ma tornando a noi: cos’hanno dunque di particolare questi corpi dipinti da Ingres, maschili o femminili che siano, oltre al fatto di presentarsi talvolta nudi? La loro evidenza più singolare sta (a mio avviso, e non solo) nel fatto di presentarsi spesso e volentieri “disarticolati”. In altre parole, la tendenza figurativa di Ingres consiste, in tante occasioni, nel piegare il dato anatomico alle esigenze della composizione.

Una volta appurato ed accettato questo dato, non ci vuole un’aquila per capire che il punto nodale d’interesse dell’artista francese non sono tanto i singoli elementi della composizione, bensì l’equilibrio globale della composizione.

Vediamo un esempio significativo in merito: “Giove implorato da Teti”, dipinto del 1811. Teti, la nereide madre di Achille, sta scongiurando un Giove potentemente assiso sul suo trono, affinché intervenga a rappacificare il dissidio potenzialmente funesto che si è innescato fra il grande eroe dal tallone fragile ed il fiero Agamennone.

La figura di Teti spiega benissimo in questo caso ciò che intendevo parlando di corpi “disarticolati”. Quello di Teti, pur rimanendo un corpo femminile a tutti gli effetti, non è praticamente e propriamente più un corpo. E’ invece una freccia visiva di morbidezze e di tenerezza materna e femminea, che tenta di fare centro nella sensibilità del possente capo dell’Olimpo.

"Giove implorato da Teti" - 1811

La sequenza formata da “profilo del collo più sottomento”, tende forzatamente alla linearità, sfiorando l’innaturalezza. Allo stesso modo, una seconda linea si viene a creare subito a seguire (ma con direzione opposta), laddove il profilo del viso oltremodo appianato (naso e sopraciglia sono come fusi insieme) prosegue nella cima piatta della coroncina posta sul capo della morbidosa nereide. “Collo più sottomento” e “corona più fronte” convergono allora nel vertice della “freccia” che viene a coincidere con la punta del naso. Non si tratta tuttavia di una freccia aggressiva, ma di una freccia che vuole colpire prima di tutto con la propria dolcezza.

Non bastasse la delicatezza appena vista della “punta” di questa freccia, osserviamo anche i fianchi di Teti: essi appaiono straordinariamente femminili, anzi, si potrebbe dire esageratamente femminili. Il gluteo si fonde in pratica con la schiena, andando a comporre un tutt’uno quasi commovente; la leggera pinguedine del ventre riecheggia dinnanzi le terga, specularmente; una delicata linea è soltanto accennata, a suggerire l’attaccatura della coscia: tutto l’insieme offre un’esaltazione suprema della “fiancosità” femminile più sensuale.

Insomma: a rigore di logica visiva e formale, dovremmo ammettere che il fianco di questa Teti è il risultato di una deformazione. Eppure, allo stesso tempo (e qui risiede la magia più ammaliante di Ingres), siamo costretti anche ad ammettere che forse nella realtà faremmo parecchio fatica a trovare un fianco dotato di altrettanta energia e grazia femminea.

Ingres prende la realtà, la “disarticola” in base alle proprie esigenze espressive, e poi ce la restituisce ancora più vera del reale: in questo paradosso formale risiede il fascinoso segreto del raffinato pittore francese. Per portare a compimento questa operazione di ricerca visiva, il soggetto e gli elementi raffigurati divengono quasi un pretesto, ma al tempo stesso la fedeltà alla concretezza realistica viene sempre conservata, non è mai tradita.

Ciò che interessa soprattutto ad Ingres sono i meccanismi della visione pura: la sua curiosità è tutta votata a cercare di capire “quello che l’occhio vede”, vuole indagare le ragioni e le forze che entrano in gioco quando osserviamo il mondo. Pur avendo vissuto in uno dei periodi storici più fecondi di pulsioni ideologiche e di inquietudini culturali (la Rivoluzione francese si era consumata soltanto pochi anni prima, mentre il neoclassicismo stava dettando le regole di una nuova concezione estetica del mondo), Ingres si lascia guidare da una sola regola estetica: suo intento è parlare attraverso il linguaggio dell’arte, che dal “funzionamento della visione” trae il proprio alfabeto, fatto di linee, colori, chiaroscuro e luce.

Non a caso, per queste due caratteristiche fondamentali e modernissime della sua poetica (la forzatura delle forme ed il suo «...ridurre il problema dell’arte al problema della visione…», come dice Giulio Carlo Argan), l’opera di Ingres suscitò estremo interesse fra gli impressionisti (Degas, Renoir, Cézanne: massimi indagatori del “mondo come l’occhio lo vede”), e venne studiata anche dal pittore che condusse la deformazione formale alle sue estreme conseguenze “cubiste”, Pablo Picasso.

Fra le opere di Ingres, c’è n’è addirittura una che, per il suo carattere incompleto e “di studio”, conferma fortuitamente ed indirettamente parecchie cose che abbiamo visto finora. Si tratta di un dipinto “di ricerca”, un “non finito”  sperimentale che probabilmente è servito all’artista per uno studio formale su una figura, forse da inserire in una composizione più complessa ed articolata. E’ noto come la “Donna con tre braccia”. A dispetto del nome, che farebbe immaginare chissà quale sembiante mostruoso e deformante, a ben vedere, persino in questo anomalo ed estremo caso, non si può non convenire che l’esito risulti ancora una volta estremamente aggraziato e femminilizzante. Anzi, qui Ingres riesce in qualche modo a suggerire un effetto di consequenzialità di movimenti nella figura.

"Donna con tre braccia" - ante 1863

Prima di chiudere questo piccola sbrodolata d’arte dedicata a Jean-Auguste-Dominique Ingres, mi piace soffermarmi ancora un attimo su due piccoli accenni.

Di seguito riporto un breve passo, tratto appunto dal tometto Skira di cui vi parlavo, riguardante il dipinto forse più noto del maestro francese, il già citato “Donna al bagno” (noto anche come “La baigneuse Valpinçon”). Mi sembra molto significativo rispetto a tutte le questioni che ho cercato di argomentare sopra:

«…Ciò che mirabilmente il pennello di Ingres riesce ad esprimere è l’idea della donna e della sua intima essenza (più che la donna stessa) e sono proprio le imprecisioni formali di una quasi assurda costruzione anatomica che ci conducono, attraverso il fluire della linea, ad accarezzare con gli occhi la morbidezza di un corpo quasi impalpabile…».

Un’ultima nota concerne invece un altro dipinto, di certo meno famoso, ma che forse più di tutti gli altri è riuscito a scatenare in me l’epifania Ingresiana: “Nudo femminile di schiena”, del 1807. In questo caso, l’incanto di Ingres si gioca in misura speciale. Come in tante altre opere dell’artista, si capisce già al primo sguardo che anatomicamente c’è “qualcosa che non quadra”. Però non si saprebbe dire bene cosa. Forse è quella spalla così “slogata” da far sembrare il braccio quasi di un’altra donna, oppure è l’eccessiva “linearizzazione” dell’insieme dei tratti del volto. Non si sa. Eppure, personalmente mi sembra di non aver mai visto niente di più quintessenzialmente femminile della superficie di questa leggiadrissima schiena, così mirabilmente posta in dialogo formale con tutti gli altri elementi compositivi del quadro. Potrebbe essere una donna, o un paesaggio, oppure un edificio: di fatto è femminilità pura messa su tela.

"Nudo femminile di schiena" - 1807

Alla fine, sono dunque riuscito a stanare il mistero estetico di Ingres? Forse che sì, forse che no. Per quello che ne ho capito io, tuttavia, consiste in questo: sia che si provi attrazione, curiosità conoscitiva, nei confronti di una donna o di un uomo, sia che la si provi per qualsiasi altro elemento della realtà intera, quello che ci piace attenderci è un’armonia fra la nostra volontà di capire il mondo e la volontà del mondo d’imporsi a noi.

Per questo Ingres “slogava e disarticolava” i corpi femminili rispettandone tuttavia, e anzi esaltando e rendendo prezioso, il loro più genuino significato formale: la realtà non può mai giungere ai nostri occhi nella sua purezza diretta, perché un atto interpretativo s’impone sempre inevitabilmente. Ma dal canto opposto, la nostra interpretazione non potrà mai ritenersi completamente svincolata dalla guida obbligata dettata dalle modalità di funzionamento del mondo.

In conclusione, se consideriamo la storia dell’arte (seppur molto schematicamente, sia ben chiaro) come un cammino culturale intrapreso a partire da un prevalente ruolo concesso alla realtà “esterna” come dato oggettivo, per arrivare alle sue evoluzioni moderne, che hanno invece spostato l’accento sull’interiorità del soggetto interpretante (in una dinamica molto simile a quella seguita dalla filosofia, peraltro), possiamo dire che l’opera di Ingres si pone come importante crocevia riguardo a questo scarto di percorso sfociato verso la sensibilità moderna.



venerdì 23 marzo 2012

Beatles countdown while sheeps are all around


Bella la primavera, vero?
Una delle cose che mi piace di più di questa stagione è il fatto che ti permette di familiarizzare un sacco con una diffusa sensazione di gradualità. Questo, a patto di poter osservare almeno qualche scampolo di natura e impegnandosi un minimo ad osservare le cose intorno a sé.

Il contesto cambia per piccoli graduali incrementi, ora dopo ora, e se si accorda una sorta di sintonia d’animo a questo lento stillicidio di mutevolezze, se ne traggono proprio belle sensazioni.

In questo periodo, gettando un’occhiata ogni giorno verso il giardino, si può valutare la trasformazione dell’esterno in un penetrante palcoscenico calato nel reale. Alle varie profondità, si possono scorgere di volta in volta le diverse quinte, fatte di chiome di alberi, arbusti, siepi, muri e tetti delle case tutte intorno, che si addentrano all’interno della scena, come veri e propri fondali, ciascuno ordinatamente allineato sul livello prospettico di propria competenza.

Il fenomeno si verifica in primavera e non nelle altre stagioni, proprio in virtù delle piccole pennellate aggiuntive che la natura deposita pian piano sulla tela spaziale ogni istante del giorno che passa. Oggi qualche gemma qua; domani la piccola capoccia delle foglioline che fa capolino; poi dopo i fiori, e poi ancora le foglie più grandi, e così via. Alla fine della fase di transizione morfologica, la completezza estiva ridarà all’insieme una sua compattezza volumetrica: primo piano e oggetti in fuga lungo le direttrici prospettiche si ritroveranno a formare un tutt’uno, ma fino a che la primavera, da saggia scenografa, aggiungerà piccoli tocchi di colore e natura in più, i livelli rimarranno scollati e sovrapposti come pagine trasparenti di un libro.

L’effetto è simile a quello reso dalla visione artificiale in 3 dimensioni. L’ho vista una volta in uno di quei mega-bottegoni di apparecchiature elettroniche. C’era esposta una super televisione a tre piazze, quelle che arrivi a casa tutto fiero della tua gran meraviglia tecnologica conquistata, accendi con la speranza di lustrarti gli occhi con chissà quali fantasmagorie, ma ti ritrovi inesorabilmente lo schermo sempre impestato da “Porta a porta”.

“Ad abbindolandum delfini”, nel negozio erano ovviamente a disposizione gli appositi occhialoni da sub. Li ho inforcati e mi ha subito colpito la poca naturalezza di quella profondità di scena. I soggetti apparivano sì alle diverse distanze, ma era come se fossero appiattiti su lastre di vetro progressivamente più lontane, come in una sequela di tante pareti frontali di acquario riecheggiate varie volte.

Strano perché questa innaturale naturalezza me la ritrovo adesso davanti alla finestra che dà sul giardino, offerta proprio da questi gradevoli giorni di cambio d’abito ecosistematico.

La primavera concilia poi con i giretti in bici e se capita di farne qualcuno con un’amica, questa a volte ti invita a bere un tè da lei, a fine pedalata. Il rito è bello, se la cara ospite ci tiene: si annusano i diversi sacchettini con in fondo l’aromatico malloppo delle foglioline di diverse qualità, si sceglie quella che più sa sedurre le narici, si imbustano i sacchetti e si guarda l’infuso intorbidare elegantemente l’acqua bollente nella tazza. Tutto molto piacevole, ma per chi è avvezzo più alle blandizie di Bacco che non alle mollezze tisaneggianti orientali, se la scelta è caduta su una miscela particolarmente corroborata, la notte cui si va incontro sarà fatta di veglia e di vagabondaggio per pensieri non preventivato.

E verso le tre, dopo un’interminabile ed animata discussione col cuscino, ci si ritrova a leggere qualche pagina del libro che va per la maggiore sul comodino in questo scorcio di primavera: «Nel segno della pecora», del beniamino narrativo Murakami Haruki. Il protagonista, ad un certo punto della storia, si ritrova in treno per un viaggio abbastanza lungo, e per ingannare il tempo, prova a vedere quanti titoli di canzoni dei Beatles riesce a ricordare a memoria.

Visto che la pratica si confaceva benissimo alla mia condizione d’insonne part-time, ho provato anche io ad elencare mentalmente le canzoni dei Beatles che ricordavo. Potrà sembrare molto strano che per addormentarmi mi sia messo a contare canzoni, avendo tratto lo spunto da un libro che parla di pecore. Ma se la cosa vi appare insolita, è solo perché forse non avete sufficiente familiarità con le atmosfere surreali del romanziere giapponese. Il personaggio del libro arriva a contarne 73, poi si arrende. Io non so quante ne ho ricordate stanotte. So solo che ad un bel momento, quando il cielo me l’ha concesso, mi sono assopito.

Però l’idea mi era piaciuta ed ho voluto riprovare l’esperimento stamattina. Ovviamente ho bandito ogni possibile aiuto: niente sbirciate a dischi o libri, né tanto meno subdoli ricorsi a strumenti googlellanti o wikipedeschi. Alla fine il personaggio del romanzo l’ho stracciato, perché di canzoni ne ho ricordate 100.

«…Va beh, adesso cosa vuoi, che ti diamo un premio?...», mi direte voi. No. Mi basta già essermi divertito a fare questo gioco, e magari, volendo, ciascuno potrà provare e ripeterlo. Magari, se non proprio con i Beatles, anche con un altro gruppo o cantante prediletto.

Ecco la lista di canzoni dei Beatles che sono riuscito a buttare giù, andando semplicemente a memoria. Non inganni il fatto che siano grosso modo raggruppate in ordine di uscita dei diversi album: ho fatto così solo per avere un orientamento mnemonico a cui appigliarmi. Eventuali errori ortografici stanno lì a testimoniare esattamente la mia buona fede.

1. I saw her standing there
2. Please please me
3. A taste of honey
4. P.S. I love you
5. Chains
6. Little child
7. It won’t be long
8. Till there was you
9. All my lovin’
10. Love me do
11. I wanna hold your hand
12. With love from me to you
13. Eight days a week
14. Ticket to ride
15. Girl
16. In my life
17. You’re gonna loose that girl
18. I need you
19. Run for your life
20. Michelle
21. If I fell
22. I follow the sun
23. A hard days night
24. And I lover her
25. You’ve got to hide your love away
26. Help
27. Nowhere man
28. Eleanor Rigby
29. The night before
30. Drive my car
31. Day tripper
32. Paperback writer
33. We can work it out
34. Yesterday
35. I feel fine
36. I’ve just seen a face
37. For no one
38. Doctor Robert
39. Got to get you into my life
40. Here, there and everywhere
41. Gooday sunshine
42. I’m only sleeping
43. Tomorrow never knows
44. Magical mistery tour
45. Strawberry fields
46. Hello goodbye
47. The fool on the hill
48. I am the walrus
49. Yellow submarine
50. Hey bulldog
51. All together now
52. All you need is love
53. Sargeant Pepper’s lonely hearts club band
54. Fixin’ a hole
55. Lovely Rita
56. Being for the benefit of Mister Kite
57. A day in the life
58. Within you or without you
59. When I’m sixty four
60. She’s leaving home
61. Good morning
62. With a little help from my friends
63. Here comes the sun
64. Something
65. Come together
66. Because
67. Golden slumbers
68. Carry that weight
69. She came in through the bathroom window
70. Polithene Pam
71. Cry baby cry
72. Rocky Raccoon
73. Glass onion
74. Dear Prudence
75. Happiness is a warm gun
76. Julia
77. Honey pie
78. Revolution
79. I’m so tired
80. Don’t pass me by
81. Piggies
82. Helter Skelter
83. Rain
84. Lady Madonna
85. Sexy Sadie
86. Yer blues
87. Blackbird
88. I will
89. While my guitar gently weeps
90. Why don’t we do it on the road?
91. The continuing story of Bungalow Bill
92. Mother nature son
93. Obladì-obladà
94. Good night
95. The ballad of John and Yoko
96. Hey Jude
97. Let it bee
98. Don’t let me down
99. Get back
100. The long and winding road


venerdì 16 marzo 2012

Fifofobia mondofobica omnififale


Ho scoperto che esistono fobie per tutti i gusti. C’è una paura un po’ per ogni aspetto della vita, un’ansia per ogni piccolo particolare, oggetto, situazione. E c’è una definizione per ogni strizza.

Durante gli anni della mia fanciullezza, forse anche a causa della modestia del conoscere comune oppure per l’ingenuità dei tempi, più in là di sapere cosa fosse la claustrofobia, non si andava.

Le paure all’epoca avevano una consistenza ben più tangibile, terricola. Anche se nessuno si era mai preso la briga di coniarne le definizioni corrispettive (e mi sbizzarrirò io ad ipotizzarle qui, ex post, per l’occasione), le fife dei tempi andati avevano ad esempio l’immediata consistenza della randellofobia (paura di prendere legnate sulla schiena), oppure il dinamismo meccanicistico dell’autotrenofobia (paura di ritrovarsi guancia a guancia con il radiatore di un camion e rimorchio, lanciato a discreta velocità sull’autostrada del sole). Certi individui particolarmente raffinati ed acculturati potevano poi giungere a struggersi fra le più diffuse angosce, paventando le conseguenze psicologiche di una digitoacciaccofobia (paura di darsi una martellata sul ditone piantando un chiodo). Ma questo era il massimo della ricercatezza pensabile, in fatto di paure “d’antan”.

Poi pian piano si è appreso che, all’opposto della “claustro”, esisteva anche il suo corrispettivo in negativo, ossia l’agorafobia, o paura degli spazi aperti. Solo molto tempo dopo, nel vocabolario corrente si sono aggiunte l’aracnofobia (strizza per i ragni) e la talassofobia (repulsione per il mare). E già qui si stava andando un po’ sul difficile e sul prezioso.

Questo, per quel che mi riguardava, era tutto quanto bisognava sapere sulle fobie. Fino all’altro giorno, quando sono venuto a conoscenza di una fobia che mai e poi mai avrei pensato esistesse, la “venustrafobia”, genere di idiosincrasia di fronte alla quale non ho potuto fare a meno di venirmene fuori con una delle più classiche asserzioni di carattere scientifico-sociale: minchia, ma come siamo diventati complicati. Viviamo veramente in un’epoca tortuosa e mentalmente smacchinevole.

Dovete sapere infatti che la “venustrafobia” altro non è se non la paura per le belle donne. Chi avrebbe mai immaginato, solo qualche anno addietro, di poter giungere a questo punto, lungo il cammino glorioso della storia delle fife vigenti. Anche se posso capire ed umanamente comprendere il sottile significato dei turbamenti e dei disagi che sottostanno a questo genere di timore ufficializzato da tanto di termine tecnico, devo ammettere che prima di sentire parlare di “venustrafobia”, la mia personale esperienza mi aveva piuttosto parlato attraverso fenomeni esattamente di segno contrario. Più che altro, sono sempre state le belle donne, in mia presenza, a soffrire di gravi forme di “gillipixifobia”, anziché io a patire la loro vicinanza.

In virtù di queste considerazioni e nuove prese d’atto, mi sono detto che se anche la “venustrafobia” è stata ufficialmente catalogata come potenziale paura soffribile dall’uomo, allora nessun limite o restrizione saranno mai più opponibili all’esistenza di qualsivoglia altro tipo di fifa, anche la più fantasiosa e bizzarra. Ed ecco come mi è venuto in mente di illustrare, per voi direttamente in anteprima, cari amici viandanti per pensieri, un colorito campionario delle principali fobie che potrebbero affermarsi con un certo rilievo nel corso del ventunesimo secolo.

Senz’altro indugio ulteriore frapposto, passo dunque di seguito ad enumerarvele.

La laidungulofobia: paura degli individui portatori noncuranti di sudiciume sotto le unghie.

La bibliosfarfallofobia: paura di sfogliare con rapidità le pagine di un libro, facendole scorrere velocemente sotto il pollice.

La lavagnosgrattofobia: paura dello stridore causato da un oggetto ruvido fatto strisciare contro il piano della lavagna.

La rectofrangiofobia: paura di pettinarsi con la frangia a destra.

La mancofrangiofobia: paura di pettinarsi con la frangia a sinistra.

La idiofobia: paura di essere circondati da una massa di idioti

La magnofratrefobia: paura di intrattenersi a conversare con uno spettatore assiduo, appassionato e sfegatato sostenitore del “Grande Fratello” (individuo a sua volta notoriamente affetto da cogitofobia: terrore di pensare).

La banalofobia: paura delle persone che sparano banalità di continuo (nota anche come stagionammezzofobia).

La flatulopneumofobia: paura di tirare il fiato, dormendo in una camerata di rinomati scoreggioni.

La scatocinodigitofobia: paura di pestare le cacche dei cani sui marciapiedi, aggravata, nei casi più eclatanti, dalla compresenza della plantofaustofobia: paura di incontrare subito un tizio che, senza pietà per la tua suola ancora pienamente inzaccherata, ti viene anche a dire: «…Porta fortuna!...».

sabato 10 marzo 2012

Baciami, perché «…la libertà personale è inviolabile…»


Certe sere, prima di addormentarmi, leggo qualche articolo della nostra Costituzione.

Consiglio a tutti questa feconda pratica, magari scegliendo anche altri momenti della giornata che più si ritengono opportuni. E’ una lettura che ristora, che rinfranca lo spirito. Cala una fiducia tenera nell’animo, mentre si fa scorrere lo sguardo lungo quelle cristalline parole.

Pare di leggere una favola bella e, badate, dico questo escludendo finanche la benché minima ombra di sarcasmo dal mio considerare. Anzi, suggerisco la somiglianza con la “fiaba”, intendendo questa parola proprio nel suo significato più alto, ossia quello di una dimensione espressiva e narrativa condensatrice delle speranze e dei sogni più trasparenti ed incontaminati che possano scaturire dal cuore degli uomini.

D’altra parte, proprio quello doveva essere lo spirito nel cui contesto quegli articoli vennero concepiti. Credo che i padri costituenti, nella consapevolezza della miriade di altre finalità previste dal loro sommo testo, non mancassero di rendersi conto di essere alle prese anche con la stesura su carta di un sogno di rinascita. Gli orrori della guerra erano appena dietro l’angolo del più recente ieri, e fra gli altri antidoti pensati per ingraziarsi una guarigione definitiva da quei ricordi così dolorosi, di certo non ultima venne la volontà di dare ascolto alla rinnovata “fame di bellezza” che l’uscita dalla tragedia aveva instillato nei cuori delle provate genti italiche.

Il testo della Costituzione è nutrito di bellezza.

Balza all’occhio soprattutto la sua semplicità, la sua levigatezza, la sua precisione misurata, qualunque sia la tematica affrontata. Si sente che dietro c’è tutto un rovello di considerazioni, un infaticabile lavorio di valutazioni e contro-valutazioni fra pesi e contrappesi sociali, umani, politici. Ma tutto questo magma sotterraneo, che pur si può chiaramente intuire, emerge alla fine sottoforma di una prosa pulita, ponderata alla sillaba, portatrice di un’essenzialità formale che commuove, tale è la sua michelangiolesca giustezza nello svelare e nel celare con attenzione ora il “detto”, ora il “sottinteso”.

Come tutte le favole, anche la Costituzione reca in sé non poche venature di malinconia, i sentori di un’irrealizzabilità, tipici di ogni utopia. La Costituzione ci racconta soprattutto l’Italia come avremmo voluto che fosse. Non tutto è stato disatteso, per fortuna. Ma molto di buono, troppo, è rimasto imprigionato nella bellezza di quelle pagine. L’imperfezione della realtà, del compromesso mondano, ha avuto la meglio su tanti fronti. Ma non per questo dobbiamo lasciare che la nostra “fiducia costituzionale” venga meno.

La nostra Costituzione ha un testo talmente bello, che addirittura immagino le sue parole insinuarsi con proprietà fra le moine e le dolci schermaglie d’affetto scambiate da due amanti nella loro alcova, continuando ad attagliarsi perfettamente anche a quel contesto e a quel clima umano così peculiare.

«…L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento…»: una frase simile, o tante altre tratte dai diversi articoli, non stonerebbero per niente fra le labbra di un amante infervorato nell’acme delle sue dichiarazioni di passione, né tanto meno smorzerebbero l’atmosfera più propizia a quei momenti, anzi, la galvanizzerebbe di rinnovati e più invitanti risvolti di complicità umana.

E se mi si concede una vaccata conclusiva (che nulla intende togliere alla serietà e alla poeticità di tutto il discorso), si tratterebbe di vera e propria “corte costituzionale” (giuro che davvero non so come faccio ad essere così stupido certe volte, minchia…).


venerdì 9 marzo 2012

Troppo mondo


Mi sto confrontando in questi giorni con una lettura alquanto impegnativa, nonché parecchio “elevata”. Si tratta di un romanzo campione dello psicologismo più rimuginante, di una storia tanto andarperpensierosa che più di così non si potrebbe. Come al solito, mi guarderò bene dal propinarvi una recensione, compito per il quale mi sono già dichiarato altre volte inadatto. Mi appiglierò invece alla mia attuale lettura, nelle modalità epifaniche che più mi sono congeniali, cogliendo una piccola, preziosissima perla dallo scrigno di questo grande libro.

Dopo un centinaio di pagine percorse lungo i sentieri della vicenda assai mentale del protagonista, mi sono infatti imbattuto in questo fuoco di fila di considerazioni multicolore:

«…Il velo di Dio steso sopra le cose ne fa degli enigmi. Se non fossero tutte così minuziosamente particolareggiate, e così inesauribilmente ricche, forse mi riposerebbero di più. Ma io sono prigioniero della percezione, testimone obbligato. La realtà è troppo appassionante…».

Herzog” – Saul Bellow1961

Oltre ad avermi beato le sinapsi in virtù della sua bellezza, questa epifania del lettore mi ha dato lo spunto per alcune riflessioni. Da una parte, le parole di Saul Bellow hanno consolidato in me la propensione ad interrogarmi intorno ad uno dei grandi misteri dell’età contemporanea, che è sempre il seguente: perché tanta gente al giorno d’oggi si ostina ancora a drogarsi, quando il mondo mette a disposizione una miriade di stimoli già così immensa di per sé, che non basterebbero 32 vite per sperimentare tutto quanto?

Ma questa è stata soltanto una riflessione di superficie.

La parte più profonda del mio meditare ha riguardato un'altra sfumatura, quella che credo sia la principale da cogliere nelle parole dello scrittore. Anche se non ci voleva certo una perspicacia stratosferica, per afferrare questo aspetto, visto che la maestria narrativa di Bellow è così ficcante da imporsi con estrema evidenza.

Ciò che il maestro del romanzo americano intende sottolineare con le sue considerazioni è l’ambivalenza di conseguenze che la proprietà multiforme del reale può significare per la sensibilità umana.

La ricchezza di dettagli del mondo può rivelarsi così “intollerabilmente intensa” (attraverso lo strumento dell’amplificazione percettiva che le è proprio) sia nei momenti di gioia, ma purtroppo e drammaticamente, anche nei momenti infelici della vita. Questo è il senso, per come l’ho capito io, della fulminante affermazione di Bellow a chiosa di questo minisaggio filosofico: «…La realtà è troppo appassionante…».

Se fate mente locale a periodi della vita in cui vi siete sentiti particolarmente infelici, non mancherete di riportare alla memoria le circostanze che vi videro in quei momenti alquanto oppressi dalla presenza di “troppo mondo”.

Allo stesso modo, penso capiti se si ripensano periodi della vita sereni e soddisfacenti: il mondo intorno a noi era sempre “troppo”.

Soltanto che, nella prima ipotesi scarseggiante di gioia, il mondo era “troppo” per essere rigettato, per levarsene dai piedi almeno piccoli pezzettini. Mentre nella seconda congiuntura, quella dei momenti gioiosi, il mondo era “troppo” per essere abbracciato quanto si sarebbe voluto.

Come spesso accade per tantissime altre peculiarità proprie della nostra essenza di umani, anche in questo caso un dono fra i più belli che ci sono stati “messi a disposizione” per impreziosire le dimensioni esistenziali in cui siamo calati, si rivela un’arma a doppio taglio.

Nei periodi propizi, “troppo mondo” è una ricchezza di cui non ci sentiamo mai sazi, e che ci fa sfiorare vertiginose sensazioni di onnipotenza “sensitiva”, mista a lievi sentori di insoddisfatta frustrazione.

Nei periodi infausti, “troppo mondo” diviene il potenziale detonatore che rischia di innescare la deflagrazione dell’identità di una persona, la quale si disperde dietro i mille rivoli della realtà, divenuti altrettanti infiniti piccoli specchi frammentati, riflettenti ciascuno una porzione di se stessi troppo minuscola, perché sia possibile ricostruire da ciascuna di quelle immagini esplose, un quadro sufficientemente riconoscibile della propria personalità (e in questo caso, ad essere onesti, torna leggermente a rivalutarsi il punto di vista dei drogati…).


mercoledì 7 marzo 2012

Mio fratello è tifoso unico…


«…Pigliamo l'autostrada, faremo prima.
Usciamo a Nottingam sud,
e andiamo a casa di mia nonna.
Lei ti capirà. Ha dei parenti in città.
Ad Ankara, Ankara uno Lazio zero.
Scusa Ameri, per me è molto duro.
Altri tempi, altre situazioni, altro modo di vedere.
Comunque, per me è molto duro…»

Nottingam” – Squallor - 1977

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Il calcio e la democrazia, in Italia oggi, si riflettono a vicenda nella relativa struttura essenziale. Sul piano teorico, ciascuno per il proprio ambito di pertinenza, sono due grandi costruzioni ideali di civiltà. Calati invece al loro livello applicato, immersi nel flusso effettivo del vivere, calcio e democrazia si sono tramutati in due sgorbi deformi.

Nei confronti della democrazia, mi pare pressoché doveroso riferirsi ad un atteggiamento di realismo applicato. Serve a poco rifugiarsi sotto una presunta campana di cristallino sdegno, immaginandosi tutelati da un ambiente esistenzialmente asettico, entro il quale si pretenda di godere di un distacco assoluto dalle brutture del mondo. Il mondo è imperfetto e pieno di magagne per sua natura: inquadrarlo entro disegni ideali, qual è appunto quello della democrazia, può servire ad indicare modelli virtuosi verso i quali tendenzialmente mirare, senza lasciare venire mai meno la consapevolezza dell’irraggiungibilità di fondo di quel traguardo supremo.

Detta in parole povere: la democrazia, così come la conosciamo oggi nella sua concretezza applicata (soprattutto nella forma italiana attuale) farà anche parecchio schifo, ma finora, in tutto il corso della storia, l’uomo non è mai riuscito ad escogitare forme di governo “sistematicamente” migliori. Nel tempo, saranno emerse anche rare oasi felici di buon governo non necessariamente improntato a criteri strettamente democratici. Ma ogni volta si è trattato più di fatali congiunture, venutesi ad innescare fra accadimenti particolarmente favorevoli e personalità particolarmente autorevoli ed illuminate, anziché di realtà rinnovabili attraverso una cammino progettuale reiterabile e corredato dal margine di una certa sicurezza anticipatrice.

Insomma, di fatto, la cara e vecchia democrazia, nelle sue forme concretate odierne, è proprio una gran ciofeca, ma l’atteggiamento più saggio è tenersela ben stretta, anche così com’è (con la speranza e l’impegno di miglioramenti futuri sempre maggiori, ovvio).

Nel caso del calcio, e sempre con puntuale riferimento alla sua espressione italiana dei giorni nostri, i fattori in gioco sono i medesimi: un modello ideale inarrivabile da una parte (l’ideale di un gioco, di uno sport), ed una sua applicazione sempre più indegna in termini di realtà spicciola, dall’altra parte (le ultime vicende del calcio scommesse sono state soltanto la ciliegina stronzesca, posta a coronamento di una ormai annosa ed inveterata grossa torta di merda).

Per quanto riguarda il calcio però, rispetto alla democrazia, ritengo che la ricetta da adottare sia esattamente di segno opposto. Del calcio va rigettato, il più possibile, quanto di applicato e di reale esso presenta oggigiorno, per rifugiarsi momentaneamente fra i suoi anfratti ideali, in attesa di giorni migliori, che possano farlo tornare a rifiorire anche sul suo fronte concreto. Va messo in sospeso, posto fra parentesi, il senso di affetto, di appartenenza e di identificazione coi colori della propria “squadra del cuore”, se intesa nella sua specificazione attuale (eccezion fatta forse solo per la maglia Azzurra, per motivi di causa maggiore da tutti comprensibili).
Nella pratica della “tifoseria” sportiva ci ho sempre trovato poco senso, preferendo di gran lunga l’interesse per la bellezza del gioco, per l’eleganza gestuale degli atleti, per la nobiltà insita nel rispetto dell’avversario. Oppure, ho sempre concesso la mia predilezione ad altri risvolti “pedagogici” dello sport, in primis la sua capacità di far meglio capire come saper vincere e come saper perdere.

Ma questi sono solo miei punti di vista. L’essere tifosi, anche nel senso più corrente del termine, ha una sua dignità ed implica questioni di pancia, è una propensione pilotata da leggi analoghe a quelle che reggono, per esempio, la passione erotica o l’infatuazione artistica. Sindacare riguardo alla sensatezza della tifoseria, non è insomma nemmeno essa stessa una delle pratiche più sensate.

Ma che soddisfazione c’è nel tifare, ossia nel riporre una grandissima parte del proprio cuore e delle proprie speranze più ingenue in individui che mezz’ora prima si sono accordati per inscenare una finta sfida e farmi passare bellamente per un idiota? Allo stesso modo, che soddisfazione c’è nel dare in pasto il candore delle proprie gratuite aspettative di tifoso, ad un Moloch divenuto ormai solamente il rutilante pretesto per far girare sempre più soldi, attraverso canali leciti ed illeciti?

I colori della “squadra del cuore” vanno dunque riposti momentaneamente nell’empireo sportivo fatto di ricordi sublimati e di auspici futuri per il ritorno ad una qualche forma di accettabilità calcistica, almeno lievemente più dignitosa di quella attuale. Il campionato ideale, fatto di giocatori perfetti ed impeccabilmente votati all’espressione dell’incorruttibile purezza dei valori sportivi, non è mai esistito e nemmeno esisterà mai, neanche nella mente del più sbiellato dei sognatori.

Ma rifiutare lo stato di degenerazione attuale rimane un diritto sacrosanto di ciascuno.

Proprio nell’ambito del godimento di questo mio diritto, complici anche le rigide temperature dell’inverno che ci stiamo apprestando a sfangare pure stavolta, ho sfoderato nei mesi scorsi una vecchia sciarpa nerazzurra, ideale testimonianza del mio sempre più idealizzato affetto nei confronti dei colori dell’Inter.

E’ una sciarpa semplicissima, non presenta nessuna scritta, solo i puri colori e niente più: strisce nere, alternate ordinatamente a strisce azzurre, tutte del medesimo identico spessore. Suo pregio ulteriore: non ha reso nessun tributo al vortice “trangugia-e-divorante” del merchandising ufficiale, ma venne realizzata anni fa dalla sapiente arte sartoriale di una magliaia di Gillipixiland.

Inghippi combinati, piccole truffette, velate disonestà, meschinità da mezze tacche, ci sono sempre state e sempre ci saranno nel mondo del calcio, ma nondimeno questa sciarpa mi racconta dei due rigori sbagliati da Beccalossi in una sola partita col suo capriccioso e geniale piede sinistro; mi racconta delle guasconate di Benito Lorenzi, delle invenzioni di Stefano Nyers, delle movenze eleganti di Giacinto Facchetti.

Mi sussurra l’ideale di un calcio che mai è esistito, se non nell’animo degli appassionati più semplici ed innocentemente trasognati.

E nel frattempo, canticchio:
«…mio fratello e' tifoso unico sfruttato
represso calpestato odiato
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico deriso
frustrato picchiato derubato
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico dimagrito
declassato sottomesso disgregato
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico frustato
frustrato derubato sottomesso
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico deriso
declassato frustrato dimagrito
e ti amo Mariù
mio fratello e' tifoso unico malpagato
derubato deriso disgregato
e ti amo Mariù…».


venerdì 2 marzo 2012

Gillipix spreadicatore


Fatto 100 il totale ottenuto sommando le soddisfazioni (“soddi” per gli amici) alle insoddisfazioni (“insoddi”) di cui si può beneficiare (o maleficiare) durante il lasso di tempo vigile a disposizione nell’arco di una giornata (mettiamo mediamente 16 ore su 24), si potrebbe quasi indicare una soglia fisiologica oltre la quale scatta la necessità di buttarsi completamente sulle 8 ore di sonno rimanenti.

Non è mai un bilancio strettamente schiavo dei numeri. Per dire, con un 50 di “soddi” e 50 di “insoddi” va ancora di lusso; 40 “soddi” e 60 “insoddi”, beh, si può ancora tollerare; 30 “soddi” e 70 “insoddi”, l’inventario inizia a scricchiolare, ma regge ancora.

Ecco, direi che la soglia critica si avvicina pericolosamente quando s’inizia a rasentare un resoconto fatto da 25% di soddisfazioni a fronte di un 75% di insoddisfazioni: da quella linea di demarcazione in poi, credo sia opportuno riporre la maggior parte delle speranze e delle aspettative quotidiane sulla parte non desta, ovverosia dormiente, della nostra giornata.

«…Va’ a lèt e quérciàt sö bēn…» recita un antico adagio gillipixilandese: «…Vai a letto e copriti su bene…».

La saggezza popolare, al pari dei miti, possiede il pregio di saper esporre l’apodittica essenza di talune verità, senza la pretesa di spiegarle per filo e per segno. Ce le mette davanti senza fare nulla di più, semplicemente: così è, se vi pare. In questo caso più che mai: quando mi accorgo che il bilancio fra le soddisfazioni e le insoddisfazioni mie, si spinge perigliosamente sull’orlo dei risicati limiti “75-25”, capisco che non è il caso di insistere: meglio temporeggiare, limitare i danni ed aspettare il momento di andare a letto.

Bisogna infatti tener conto anche dell’ulteriore fenomeno in base al quale, sotto il 25%, le stesse “soddi” mie, per eccesso di sbilanciamento, tendono minacciosamente a tramutarsi in sodomie, mandando a carte quarantotto ogni tipo di veritiero riscontro delle energie esistenziali in gioco.

Il territorio del dormire fornisce sempre un oasi, un porto franco. Si potrebbe obiettare: ma con alle spalle una giornata negativa, poi risulterà difficile organizzarsi una nottata degna. Verissimo, ma anche per questo la teoria del bilancio “soddi-insoddi” può fornire una spiegazione: quel che conta è mantenersi sempre poco distanti dal confine del 25% di soddisfazioni: un 22 o un 21%, pur essendo già quote tremendamente misere, sono ancora accettabili per non scivolare dentro a nottate d’insonnie angoscianti. Il 20% di soddisfazioni giornaliere è il minimo estremo sotto cui non si deve sprofondare, se non si vuole compromettere anche il “bene rifugio” di una sana ronfata ristoratrice.

Il periodo attuale è per me per l’appunto caratterizzato da un andamento dello spread “soddi-insoddi” che oscilla fra i valori di 50 e di 60. Nota tecnica: lo spread “soddi-insoddi” si calcola sottraendo dalla percentuale quotidiana di insoddisfazioni, quella di soddisfazioni: con 75 di “insoddi” e 25 di “soddi” si ottiene appunto 50, mentre si ottiene uno spread di 60 quando il bilancio è 80 e 20. Lo spread “soddi-insoddi” massimo, ed al contempo ideale, si ha con il valore di “meno 100”, il che equivale a dire giornate con 0% di insoddisfazioni e 100% di soddisfazioni.

Nessun umano ha mai avuto il privilegio di toccare uno spread “soddi-insoddi” espresso in valore “meno 100”. Questa quantità, come dimensione teorica, è infatti depositata al “Museo dei pesi e delle misure” di Sevres, sotto forma di descrizione della giornata di un tizio che abbia ricevuto in mattinata la comunicazione di essere beneficiario della donazione di metà delle quote azionarie Microsoft, seguita, nel pomeriggio, da una lettera bi-autografa “Naomi Campbell-Sharon Stone” recante la lapidaria dicitura “stasera te la diamo”, e che si sia presentato, sempre il suddetto tizio, al suddetto appuntamento galante, accorgendosi sul più bello di una crescita di 8 cm della propria strumentazione virile.

Questi sono tuttavia esempi scientificamente inarrivabili. Ma anche per chi, come me in questi giorni, naviga attraverso quote di spread “soddi-insoddi” comprese fa un “più 50” ed un “più 60” di valore, non sono escluse le scoperte interessanti. Vivacchiando intorno a questi tassi di spread, tanto per dire una cosa, ci si concentra parecchio sul dormire e su taluni suoi aspetti meno evidenti, e si possono fare piccole scoperte, come mi è capitato appunto in queste ultime nottate e prodromi ronfanti di mattinate incipienti.

Ho scoperto infatti che la musica ed i sogni sono fatti di una sostanza affine. Che mi potesse crescere, nel piede destro, l’unghia del mignolino di un centimetro in un secondo, se ve lo so spiegare, ma fidatevi che è così: la musica ed i sogni hanno una struttura molto simile.

In primo luogo, musica e sogni sanno regalare un tipo di estasi inarrivabile con qualsiasi altro tipo di leva espressiva, esperienziale, esistenziale, vitale, ecc. (escludo a priori da questa considerazione l’opzione droghe o altri artifici consimili d’induzione in stati di alterazione, perché alla fine, a mio parere, l’esito di queste altre vie sfocia sempre in dimensioni a loro modo musicali o oniriche).

Solo musica e sogno sanno trasporre il nostro essere in una dimensione superiore, “non mediata”: le sonorità musicali sono altrettanto impalpabili, inconsistenti ed enigmatiche, di quanto lo siano le fuggevoli e caleidoscopiche permutazioni oniriche. La musica e il sogno consentono di farci centellinare porzioni di “vita altra”, agevolano esperienze parallele alla vita effettiva. In più essi provengono da recessi molto profondi del nostro patrimonio emotivo-affettivo e come tali sono anche, fra le esperienze umane, quelle meno raccontabili, meno trasmissibili con supporti espressivi che non siano i loro stessi di pertinenza: la musica si può raccontare al meglio solo eseguendola, oppure, approssimativamente, canticchiandola, così come i sogni e l’esperienza effettiva da essi scaturita sono alla fine di fatto comprensibili solo a chi li ha sognati.

Forse non sarà un caso allora che un piccolo angolino di beatitudine si può ricavare in ogni momento della nostra esperienza da svegli, anche quando trascorriamo periodi di spread “soddi-insoddi” non propriamente lusinghieri, semplicemente ascoltando una canzone cara o un brano di musica al quale siamo affezionati. Oppure non sarà un caso nemmeno il fatto che quasi ogni mattina, il mio risveglio avviene con in mente una canzone, probabilmente frutto della spremitura onirica appena compiuta, come una piccola sorsata di vino novello musical-sognante.