giovedì 28 febbraio 2019

In riva alle parole


Adesso che il Grande Fiume si prepara a indossare di nuovo il cappottino primaverile…sulle sue falde vellutate, scritte da salici amanuensi con le dita spoglie nel vento, e fra le tasche di pioppi, crespe di ramaglie ancora nude…si tornano a vedere capannelli di ex-giovanotti seduti a raccontarsi le loro pensionistiche memorie.

Reputo il fiume un “moltiplicatore di riti”, per cui son quasi certo che ciascuna piccola abitudine popolare di un paese, si rifletta più o meno uguale in tutti gli altri paesi affacciati sulla corrente.

È un gioco di specchi dei modi di fare quotidiani.

A ogni ansito d’ansa, a ogni nautica un minimo accogliente, a ogni natica fluviale formata dal capriccio delle pendenze idrauliche, ecco “accadere” puntuale e regolare, come la malinconia dell’una e dodici del pomeriggio, una ridotta compagnia di chiacchieratori anziani.

Parlano perlopiù con le voci rivolte alla sponda, non hanno tanto bisogno di guardarsi in faccia, le loro parole le dicono in buona parte all'acqua in movimento.

Sono fatti che valgono vite intere, a venir tirati in ballo.

Notti di turni in fabbrica…quella volta, sotto una volta soltanto di stelle, con la Palmira dietro un macchione…una razzia di ciliegioni finita con un bagno nella lanca…e com’erano buono i salumi di una tempo…le migliaia di ore trascorse in compagnia dell’aratro attaccato al trattore…e come cantavamo da giovani nelle osterie…

Con questa farina di parole s’infornano le pagnotte di racconti dei vecchi in riva al fiume.

E l'acqua, ce la mette l'umido che porta a valle.

E il lievito, le folate di brezza, ancora attardata a soffiare sulla coda all’inverno dalle erbe ingiallite.

Così le storie raccontate dai vecchi, si involano placide nel canale, e le parole di cui sono fatte si incontrano strada facendo.

Uno spizzico di racconto partito da una nautica, rimane incagliato più avanti, nel seguito di una storia pronunciata cento chilometri in là.

Il particolare di un fatto buffo si smarrisce dal resto della trama, e finisce per infilarsi in un episodio diverso, creando un racconto composito, alla fine nato dietro il riparo creativo di mille pioppi…

In questo modo, il fiato del fiume nel suo corso verso il mare si intepidisce di cento storie mescolate come un gran mazzo di carte, ognuna calata che era una briscola, ma rialzata a riva con la bizzarria di un inedito scartino.

E con la Palmira allora si mangiò pane e salame in fabbrica…i ciliegioni li regalavamo alla miglior voce intonata della compagnia…mentre nella lanca, calando il bilancino, venne a galla, non si sa in virtù di quale balla portentosa, un aratro intero…

Di questo s’impasta, l’aria del fiume, nel suo correre a valle. Del miscuglio di poesia delle storie dei vecchi, che da mille piccole ch’eran nate, una grande e unica ne sfociano, tra la salsedine e le spiagge…

martedì 26 febbraio 2019

La Rayuela del gatto


Il comportamento di un cane assomiglia allo svolgersi di un film o di una storia raccontata con modalità tradizionali.

Per quanto lo “sceneggiatore” dei movimenti canini sia abile a introdurre sorprese, colpi di scena, improvvisi capovolgimenti della trama, si sente in ogni caso sempre la presenza dietro, di un disegno, di una regia.

Il comportamento del gatto è invece molto più simile allo scorrere della vita stessa.

Non è che le cose che capitano, non abbiano assolutamente alcun senso. Eppure il senso, se da qualche parte c'è, risulta quasi sempre labile, sfuggente, ad un passo dal poter essere colto, afferrabile per pochi attimi, ma poi ancora subito scappato avanti, o di lato, o sopra di noi.

Qualcosa del genere capita con la lettura del romanzo di Julio Cortazar, “Rayuela – Il gioco del mondo” (1963 – Einaudi, 17 €).

Rayuela è precisamente un “libro-gatto”.

Addentrarsi fra le pagine di questa singolare narrazione è come osservare un gatto mentre dorme. Non si muove di un millimetro, eppure si ha il sospetto che con quella inattività così densa stia rivoluzionando il senso della realtà.

Come ogni altro libro, “Rayuela” si può leggere seguendo l'ordine normale delle pagine, oppure si può stare al gioco proposto dall’autore, che alla fine di ogni capitolo, indica il numero del successivo a cui balzare per seguitare la lettura.

Come nel gioco del mondo, appunto.

E come quando il gatto chiede di uscire, ma poi si blocca, e ci blocca, un quarto d’ora sulla soglia; oppure ci sfreccia fra i piedi mentre camminiamo, non si sa bene per quale gusto autolesionista di prendersi una pedata pur di intralciarci il passo nel nome di uno stravagante senso di affetto impiccione; così capita con le “non vicende” di questo romanzo anomalo.

Pur continuando a capirle poco mentre ci si parano davanti, nondimeno ci ipnotizzano grazie a una sorta di strana malia.

Perché in una passata di zampa dalla lingua fin a dietro l’orecchio, non c'è assolutamente nulla da capire.

L’unica cosa da fare è rimanere lì, ammirati ed esteticamente succubi.

lunedì 25 febbraio 2019

Che cosa ho imparato leggendo romanzi


Leggendo romanzi ho imparato che la vita è un'assurdità densissima di significati.

Dall’arte del romanzo, ho imparato che il dubbio è sempre un ottimo compagno di viaggio.

La grande tradizione del racconto romanzesco, che s’inaugura con Miguel De Cervantes per arrivare a Milan Kundera e oltre, mi ha insegnato a vedere l’ironia come una fondamentale chiave di lettura della realtà.

Leggendo romanzi ho capito che una buona storia può arrivare a cogliere il cuore delle cose meglio di mille teorie.

Leggendo romanzi ho imparato ad apprezzare come in una sola, frase perfetta, possa esser racchiusa tutta la bellezza che serve in un certo preciso momento.

Dai romanzi ho imparato che gli incontri con le frasi perfette accadono con la stessa magia contenuta negli incontri con le persone speciali.

Leggendo romanzi ho capito che la singolarità di un episodio può raccontare la completezza di un mondo intero. Mentre, in un tipo caratteristico di personaggio, si possono condensare le sfaccettature dell'identità di moltissimi uomini.

I romanzi mi hanno fatto capire che la realtà si regge su una impalcatura di fondo sostanzialmente paradossale, e per vivere in condizione di accettabile serenità, occorre imparare a venire a patti con le infinite contraddizioni disseminate tutt’intorno, per tutto il tempo.

Leggendo romanzi ho provato spesso una forte indecisione, domandandomi di continuo, mentre scorrevano le pagine sotto agli occhi, se fosse preferibile vivere oppure leggere.
Non di rado mi sono risposto: la seconda cosa.

domenica 24 febbraio 2019

Soffi di nulla


Respirare è il passatempo più praticato al mondo.
Smettendone la pratica infatti, smette anche di passare il tempo.
Potrebbe sembrare una battuta, ma mi sento in ogni caso di dare un avviso: non provateci a casa per verificare se è vero.
I respiri si muovono sia accarezzando un’andata, sia assecondando un ritorno. Occorre munirsi di biglietto per entrambe le tratte.
I respiri sono invisibili, eppure hanno anche mille forme e colori.
Il respiro di un’innamorata è color cielo di Provenza, alle 13 e 22 di una giornata d’inizio estate.
Il respiro di un innamorato è color rosa pantera, mentre fuori sta passando la corriera.
Quando questi due tipi di respiro hanno la buona sorte di potersi unire, mescolandosi, diventano color pigiatura d’aurore marine, in un aroma di salsedini frenetiche diffuso tutto in giro.
Il respiro, quando si veste con l’abito per le cerimonie ufficiali, diventa sospiro.
I sospiri di un matematico che si danna per dimostrare un teorema sono quadrati alla radice, ma poi volano alti e asintotici per x tendente a più infinito.
I sospiri di due amanti incagliati fra le umide secche della passione colorano l’aria di odori insospettabili, che fanno crescere un prato fra steli di fiato, su cui si adagia con mollezza la vasta schiena dei loro desideri.
Dietro al respiro si nasconde un piacevole inganno.
Sembra che l’intero lavoro lo facciano la bocca o il naso. Ma in realtà tutto è nascostamente azionato sotto la direzione invisibile di un muscolo discreto, il diaframma.
Il diaframma è un tizio che ha continuamente a che fare col cuore e con la pancia, passa dall'uno all’altra centinaia di volte al giorno, quindi è il massimo esperto di emozioni e sentimenti che possiate incontrate sulla piazza.
Il diaframma è un muscolo che si muove senza evidenza: nessuno meglio di lui poteva trattare con un materiale così leggero come il respiro.
Il respiro, quando si sente importante, sale a cavallo delle sillabe e dei suoni, così, lungo i propri soffi, trascina catene di parole, o note, o canzoni.
Il respiro, che è sempre ottimo modello di costanza, regolarità, discrezione, levità, elevazione, puntualità, senso del dovere e fedeltà alla freschezza, ha una rozza cugina confusionaria, inopportuna, asfittica, maldestramente saltuaria, retrograda frequentatrice di oscuri bassifondi.
Dato che si presenta sempre cominciando per “sc” e terminando in “eggia”, il respiro ormai la disconosce in pieno, e ci tiene da matti a non mescolarsi assolutamente con lei.

venerdì 22 febbraio 2019

Un calcio al pregiudizio


Questo fatto è successo davvero, ma ve lo racconto come se fosse il brandello di una favola.

Quando andavo al liceo, per quanto facessi, agli occhi degli amici di città sono rimasto per tutti e cinque gli anni di studio un immutabile provinciale campagnolo.

Potevano però capitare episodi insignificanti, in occasione dei quali mi prendevo delle piccole rivincite ideali (o perlomeno così le interpretavo io).

Durante una lezione di ginnastica, il professore ci propose di fare una partitella a calcetto.
Si giocava senza portiere, tutti “fuori”, e i gol si dovevano fare in due appositi mini-quadrati di circa un metro per uno.

Eravamo in parecchi, quindi si giocava a turno, facendo vari cambi. La partita fu gradevole e tutto quanto, giocai di gusto, ma gli ultimi minuti me li feci a bordo campo, da spettatore, perché ero già stato in gioco il tempo che mi spettava.

Questa faccenda di essere visto come un campagnolo, un po' mi pesava, ma in un certo senso ci marciavo pure dentro. Mi divertivo insomma a calarmi ogni tanto nel personaggio che tutti si attendevano io fossi.

Ad esempio quella volta, mi levai le scarpe prima di rientrare negli spogliatoi, e restai a guardare la fine dell'incontro sfoderando un bel paio di calze verde ramarro con chiassose righe circolari gialle e arancioni lungo lo stinco e per tutto il piede.

Così, giusto per il duodeno di Belzebù!

Succede poi che la partita finisce a gol pari, e si deve decidere la vittoria ai rigori.

In cuor mio non mi preoccupo più di tanto, perché pensavo di continuare a vedere come andava a finire da spettatore.

Invece a sorpresa, i compagni di squadra chiamano anche me a calciare il rigore. Ed è stato lì che un piccolo lampo di teatralità campagnola mi ha colto all'improvviso.

Invece di calzare di nuovo le scarpe, come tutti si attendevano, mi incammino verso il “dischetto” rimanendo imperterrito “in scapéŋ” (con indosso solo le calze).

Tutti sgranano due occhi così, mentre in un misto di sbeffeggiamenti e incredulità, mormorii e risate attutite serpeggiano in giro.

Al campo sportivo in paese, era sempre stata la normalità piantare a volte due “sbarate” (calci) al pallone completamente “da scáls” (scalzi).

Per i ragazzi di città invece, è una cosa fuori dal mondo. C'è chi dice che mi farò male il piede, chi sostiene che la palla è troppo dura, e così via “increduleggiando” nei modi più assortiti.

Tutti gli altri poi avevano tirato di tacco, perché si ritiene sia il modo migliore per centrare una porta molto piccola, dalla distanza ragguardevole del punto di tiro scelto in simili occasioni.

Io non ascolto niente e nessuno. Ostentando con fierezza i miei sfolgoranti calzini da “pajàs” (pagliaccio), mi incammino deciso come il console Cincinnato quando venne implorato di tornare a salvare le sorti di Roma, mentre stava arando a casa sua.

Fronteggio la porta a viso aperto, “tromboneggiando” in stile Gary Cooper di Mezzogiorno di fuoco.

Con tre passi di rincorsa, mi avvento sicuro su quella coriacea sferetta, e le mollo la “sbarata” migliore della mia vita: un piattone dritto come un fuso, roba che nemmeno Franz Beckenbauer s’era mai immaginato nei suoi sogni più belli.

L’impatto del piede col cuoio è un tonfo di tamburo che dà il “la” alla prima sinfonia di “Sbarathoven”, la palla vola come un razzo predestinato a due centimetri fissi dal suolo, centrando la mini-porta alla perfezione, e per qualche istante, brevissimo eppure interminabile, sono stato l’idolo ufficiale di tutta la classe.

Due secondi dopo, tornai a essere il solito campagnolo, ma tutto l'insieme, nella sua generale stupidità, fu veramente molto bello.

Perché per una volta fu la provincia a prendere per il culo la città, sebbene quest'ultima non se ne accorgesse affatto (e badate che non ho scritto “per i fondelli”…).

giovedì 21 febbraio 2019

Che cosa ho imparato dalla filosofia


Dalla filosofia ho imparato che esiste sempre una possibilità ulteriore di guardare ogni questione, situazione, persona, problema, realtà o cosa, da un eventuale punto di vista nuovo.

La filosofia mi ha insegnato che ogni nocciolo della questione, contiene a sua volta un nocciolo più interno, e poi c'è un nocciolo del nocciolo del nocciolo, e poi ancora più addentro, altri noccioli di noccioli, e nuove ragioni dentro le ragioni, senza mai giungere a un punto fermo, stabilito per sempre.

Tutto questo, paradossalmente, non genera insicurezza, bensì un senso di serenità potenziale e rinnovabile.

Perché quando crolla una certezza che per precauzione si aveva continuato a ritenere provvisoria, si può sempre riparare in nuove alternative, se già ci si era allenati a farlo.

Mentre, se crolla una certezza che si riteneva assodata per sempre, l'alternativa è la disperazione.
Dalla filosofia (come da definizione “filo” + “Sofia”) ho imparato a voler bene alla conoscenza, ma ho anche imparato che fra il conoscere e l’essere, viene sempre prima l'essere. Anche se conoscere ed esistere tendono spesso a sovrapporsi.

Dalla filosofia ho imparato a voler bene alla complessità, e dalla complessità ho imparato che, una delle sue forme più raffinate e difficili da cogliere, si chiama semplicità.

Dalla filosofia ho imparato che sotto forme diverse si possono nascondere fenomeni simili, e viceversa, sotto forme uguali, fenomeni differenti.

Dalla filosofia ho imparato che l’atto di imparare non può avere mai termine e che nessuno può pretendere di insegnare nulla, se prima non ha imparato a imparare.

Dalla filosofia ho imparato che la verità esiste, ma la si può abbracciare soltanto con abbracci di volta in volta parziali e provvisori.

Dalla filosofia ho imparato che, rispetto a un problema, pensare (teoricamente) anche a ipotesi o alternative fra le più assurde e improbabili, può ad ogni modo dare qualche buon frutto.

Dalla filosofia ho imparato che vivere vuol dire soprattutto farsi delle domande in continuazione. E se poi, per caso ogni tanto arriva anche qualche buona risposta, è tutto grasso che cola.

Ogni volta che sono giunto a una conclusione rispetto a un qualche argomento, dalla filosofia ho imparato a domandarmi sempre: “…È questa la parola definitiva che posso dire in merito?...”, e la risposta è quasi sempre, inevitabilmente, no.

Dalla filosofia ho imparato che quando un pensiero si dispone nella mente con una certa eleganza, ha molta più probabilità di essere corretto, rispetto a un pensiero sgraziato e scoordinato.

Ma soprattutto, dalla filosofia ho imparato che leggendo i filosofi, ci si diverte un mondo.

lunedì 18 febbraio 2019

Caro infinito ti scrivo, così mi distraggo un po'…

Mi sta suggerendo tantissime riflessioni, la lettura dell’ottimo saggio di Alessandro Baricco, “The Game” (Einaudi – euro 18…ma io l’ho trovato al supermercato a 15 € e 30 centesimi…).

Quando un libro è un buon libro, quasi sempre ci invita a cambiare il nostro punto di vista sulle cose, ci propone un cambio di prospettiva.

“The Game” non è da meno in questo senso, e in una lunga, appassionante disquisizione, suggerisce di guardare alla “rivoluzione digitale” in atto ormai da una trentina d’anni, da un punto di vista ribaltato.

Il mondo non è cambiato conseguentemente all'invenzione di internet, bensì, internet è nato come espressione dei cambiamenti (o delle esigenze di cambiamento) intervenuti nel mondo.
Questo mi ha fatto pensare a una cosa (e non so se poi la dice anche Baricco più avanti nel libro…probabile di sì, ma per ora sono solo a metà lettura…).

Internet è una sorta di tentativo di risposta comunitaria mondiale, (scaturita quasi “dall’inconscio collettivo” dell'umanità) a una questione radicata nell’uomo da sempre: il nostro problematico rapporto con l’infinito.

È la questione delle questioni, se ci fate caso un minuto.

Abbiamo davanti costantemente “l’illimitato”.
Ogni nostro atteggiamento, ogni pensiero, o possibile modo di agire, ogni volontà, desiderio, aspirazione, sogno…ciascuna di queste propensioni così genuinamente umane, ha davanti ogni giorno, ora e minuto, un infinito di possibilità.

Il guaio grosso (ma non c'è bisogno che ve lo spieghi io) nasce dal fatto che di fronte a tale “infinito smisurato”, noi poveri umani siamo, praticamente per definizione, “finiti”.

Siamo esseri circoscritti, limitati, “perimetrati”, delimitati fortemente, ma non di meno, quasi per uno scherzo che la nostra essenza esistenziale costantemente ci tira, le nostre aspirazioni, desideri, voglie, volontà, sogni…sono sconfinate, senza limite, non racchiudibili entro steccati o gabbie.

Ora, senza esprimere giudizi in merito, o fare moralismi, né qualitativi confronti fra epoche, mi sembra si possa constatare questo: internet ci offre una certa illusione di “domare l’infinito”, ci fa sentire degli strani “cowboy dell’onnipotenza”.
Su internet, nei momenti in cui “ti ci cali”, cadono virtualmente, e potenzialmente, tutti i limiti.

Non c'è limite alle donne che potrai avere, ai viaggi che potrai fare, ai soldi che potrai intascare, e così via.

Il “gran guaio” della nostra effettiva limitatezza però, volenti o nolenti, rimane.

Ripeto, non sto giudicando internet, che anzi reputo una delle “meraviglie” del nostro tempo.

Voglio solo, a tale proposito, insinuare una piccola riflessione poetica aggiuntiva, sul ruolo “curativo” di un’altra dimensione e propensione umana a me molto cara: la scrittura.

Ritengo che scrivere rimanga uno dei rifugi più belli in cui riparare, di fronte a questo grande sgomento causato dal rapporto ineludibile con l’infinito.

Scrivendo, ci si confronta con la necessità di sintesi. Le parole vanno scelte in quantità per forza limitata, anche se le idee da trasmettere e condividere, che “sotto” incalzano nell'animo, sarebbero in teoria senza fine.

Dei milioni di cose da dire, quando scrivo ne devo, e ne posso scegliere tre o quattro. Mi è concesso di farlo tra l'altro usando un numero molto limitato di segni (lettere e punteggiatura) e di parole.

Ogni scritto si deve concludere con un “punto” che sta a indicare una “fine” momentanea del discorso.

Ed è soprattutto a quel “punto”, che lo scrivente si ritrova alquanto rasserenato riguardo alla questione dell’infinto, persuaso com'è che le proprie limitate parole saranno bastate a evocare nel lettore, anche tutto l’infinito volutamente lasciato fuori.

mercoledì 13 febbraio 2019

Quel certo non so come


Mettiamo che debba venire a casa vostra un tipo per spiegarvi una cosa.

Lo fate accomodare in salotto, gli offrite pane con salame, un bicchiere di lambrusco, e appena si è deterso bene la voce, lui comincia a dire: “…Allora per spiegarti la cosa che ti dovevo spiegare, te ne spiego un’altra…”.

Non stento a credere che subito vi verrebbe da sbottargli in faccia: “…Ma cu’ sìt, sémo?...” (Ma cosa sei, scemo?).

Temo che sbagliereste. Perché non avreste riconosciuto in quel tipo, niente meno che “l’omino delle metafore”.

Per dirla in parole molto povere (anzi, poveracce), una metafora consiste proprio nel tentativo di spiegare una cosa, raccontandone un’altra.

In questo modo continuerà a sembrare una roba da “sémi”, ma a far bene mente locale ci si accorge che praticamente tutta la vita, o quasi, è una metafora: tutto “funziona” metaforicamente.

Metafora deriva dal greco “metaphorà” (trasferimento), composto da “meta” (oltre) e “phero” (portare).

Ogni cosa ci “porta oltre”, ossia ci parla di altro.

Alcuni esempi.

Il gioco, e dunque lo sport, ci parlano delle relazioni fra le persone: giocando, si simulano situazioni di confronto con gli altri, modi di rapportarsi che poi succedono nella quotidianità. Si fanno prove “a parte”, per non scannarsi a vicenda (in teoria…).

Il lavoro è una metafora della lotta per la sopravvivenza, trasportata in una forma definita da regole…sempre per non scannarsi a vicenda (sempre in teoria…).

Il linguaggio è una metafora totale delle cose che ci circondano, la gran metafora di tutte le metafore.

La lingua in senso stretto (l'italiano, l'inglese, il dialetto, ecc.) è un insieme di segni e suoni appiccicati a dei significati su cui ci siamo messi d'accordo.

I segni non sono le cose che indicano (naturalmente), ma “portandoci oltre”, ci conducono ad esse.

A partire dal linguaggio in senso proprio, sono metafore anche tutti i linguaggi in senso esteso, come l’arte, la poesia, la letteratura.

Il pittore, con un suo quadro, rimanda a una serie di significati che “stanno oltre” i quattro segni e colori sulla tela.

Il romanziere, con la storia raccontata, rimanda a sensi e contenuti “ulteriori” rispetto alle vicende (più o meno complesse) di cui parla la trama.

Fin qui può essere abbastanza comprensibile, ma si può anche esagerare col concetto e dire che lo stesso atto di mangiare, di cibarsi, funziona metaforicamente.

La sostanza del mangiare è trarre nutrimento dagli alimenti per vivere.

Ma il suo importante aspetto metaforico ci rimanda ai gusti, al piacere dell’assaporare, a una serie di gradevolezze conviviali, tipo lo stare insieme, oppure anche tutti i riti della preparazione del cibo, e così via.

Lo stesso nobilissimo gesto del fare l’amore, è una metafora importante.

Di per sé, si impongono per evidenza tutti gli aspetti “gòsineschi” (maialevoli: voce del verbo “gòsinare” = maialare) della cosa (belli, eh…per carità, chi dice di no…).

Ma anche il far l’amore è un vasto “riferirsi ad altro”, alla più ampia tendenza a una fusione fisico-spirituale con la persona oggetto dell’attenzione erotica del momento.

Tutto è metafora allora, tanto che propongo di indire la GMM, la Giornata Mondiale della Metafora. La individuerei nel 32 marzo. Essendo dedicata alla metafora, ossia all’arte del “rimandare a”, non potrà trattarsi di un giorno effettivo dell’anno, bensì dovrà essere un giorno a cui perennemente si rimanda.

Per farla breve: avete visto? Volevo raccontare cosa sia la metafora, e per spiegarmi non ho fatto altro che creare metafore tutto il tempo.

Non c'è niente da fare, non se ne esce: nessuno può sfuggire al vastissimo, onnicomprensivo, abbraccio caldo del gran metaforizzare universale.

martedì 12 febbraio 2019

Il mito dello strafogno


Secondo il mito platonico dell’androgino, all’alba dei tempi maschio e femmina erano fusi in una persona unica.

La potenza vitale di questo essere, singolo e duplice al contempo, era talmente intensa da minacciare la stessa autorità degli Dei.

Zeus, temendo che uno di questi androgini di straordinaria forza caratteriale scalasse l'Olimpo per andarlo a spodestare, ordinò ad Apollo di scendere sulla terra a separarli.

Con colpi netti e precisi di spada, l’abbacinante dio della luce recise in parti uguali ogni androgino, da una parte gli uomini, dall’altra le donne.

Da quel momento ciascun nuovo nato vaga per le strade della vita, alla ricerca della metà a cui era una volta attaccato (Apollo separò anche uomini uniti a uomini e donne unite a donne, ed ecco serenamente spiegata dai greci anche l'omosessualità).

Del lavoro di Apollo, rimane traccia nell’ombelico di uomini e donne, che secondo il mito è il punto dove il sapiente dio ricucì grossolanamente la ferita causata dal suo colpo di spada (anche un precisino come lui non riuscì a fare di meglio…).

Se fossi stato un antico greco, mi sarei inventato un mito parallelo a quello dell’androgino. Si sarebbe chiamato il mito dello “strafogno”.

Secondo il mio mito, uomini e donne sarebbero stati un tempo rivoltati col dentro verso fuori. Non in senso fisico, naturalmente, ma in senso spirituale.

Tutto quello che abbiamo di bello o brutto, di rassicurante o inquietante, di profondo o stupido, di meraviglioso o banale, nel nostro animo, sul piano di pensieri, idee, riflessioni, emozioni, sentimenti, guizzi intellettuali, energie culturali, capacità conoscitive, fragilità morali, debolezze caratteriali, grandiosità o meschinità del cuore…tutto si sarebbe potuto vedere dal di fuori.

Non sarebbero esistiti i concetti di falsità o sincerità, perché ognuno avrebbe visto ogni questione interiore degli altri, e mostrato a sua volta il meglio e il peggio di sé, per intero.

Non ci sarebbe stata purtroppo l’arte, venendo a mancare lo sforzo di raccontare l’infinito che ciascuno reca dentro, già normalmente manifesto al mondo.

Ma in compenso ogni persona sarebbe stata essa stessa un'opera d’arte semovente.

Ogni individuo sarebbe stato un rifulgente essere di straordinarietà vivente, senza bisogno di spiegare nulla di sé, agli altri.

Zeus si sarebbe ovviamente preoccupato anche stavolta di fronte alla strana possanza di questo individuo.

Così abituato com'era a intessere trame per scovare ogni giorno fra i mortali una nuova amante con cui giovialmente tradire Giunone, avrebbe avuto non poche difficoltà con questi individui trasparenti al massimo.

Avrebbe allora pensato bene di inviare ancora una volta uno dei suoi fedelissimi per sistemare la faccenda.

Dioniso, un tipo abituato a che fare con le intimità più nascoste dell’animo, gli sarebbe parso il più adatto per l’occasione.

Solo che, essendo anche un po' pasticcione, Dioniso avrebbe “strafognato” (stropicciato) alla bell’e meglio uomini e donne, rivoltando maldestramente il fuori di dentro, ma lasciando ampi margini di leggibilità dell’animo in molti tratti esterni, come le espressioni del viso, i rossori, le timidezze, i gesti goffi, la sudorazione traditrice, i balbettii, l’eiaculazione precoce, l’alopecia verbale, e così via.

Fu così in ogni modo che nacque il mito dello “strafogno”…e tale è proseguito fino ai nostri giorni (mentre nel frattempo, ci abbiamo guadagnato l’arte, la filosofia e la letteratura, che non sono cose da poco…altro che l'ombelico di Apollo…).

venerdì 8 febbraio 2019

La casa dei pensieri della Bassa


Negli spazi di tempo che si annidano fra gli attimi, là dove i sospiri di un pioppeto riecheggiano le sinfonie della rugiada appoggiata sugli steli d’erba medica, la “casa dei pensieri” si presenta al viandante nella sua invisibile evidenza.

La “casa dei pensieri” non trattiene nulla e tutto accoglie.

Con le sue pareti d’aria, è un filtro in entrata e in uscita.

L’ampia capanna del tetto forma un bel coperchio che custodisce la maturazione di tutto il “materiale pensabile” insinuato fra le sue maglie.

Lì sotto si formano le idee, le riflessioni, le preoccupazioni, le gioie, le emozioni che poi andranno a spargersi per tutta la Bassa.

In modo simile, lì vengono raccolte e riassorbite le idee, le riflessioni e le emozioni usurate, già sfruttate, diventate vecchie a forza d'essere pensate e provate intimamente.

Di notte, dal fiume, una brezza che soffia costante a favore di corrente, porta giù le piccole squadre dei “folletti ahü”, instancabili lavoratori della fantasia, che sostando per ogni ora di buio sotto la cappa della “casa dei pensieri”, rammendano ragionamenti, aggiustano storie, inventano nuove battute comiche e circostanze buffe, impastano i bizzarri caratteri delle persone, forgiano piccoli fatti quotidiani, pronti per accadere all’indomani, o limano attimi di buon tempo da passare in compagnia degli amici più matti.

I nuovi pensieri fabbricati e quelli vecchi riparati, rimangono poi in deposito, a disposizione di chiunque nella terra lungo il fiume li vorrà vivere e pensare.

I piccoli “folletti ahü” entrano nella casa dei pensieri seguendo una loro carraia preferita. A destra e a sinistra, un campo chiaro e uno scuro.

Da quelle tonalità, i piccoli “folletti ahü” pescano la coloritura dei pensieri di cui si vanno ad occupare. Sono sempre idee molto nette, o tutte bianche o solo nere.

Infatti molto spesso i piccoli “folletti ahü”, per arrivare in fondo alla costruzione di un pensiero, si danno botte da orbi, perché ciascuno vorrebbe dare al suo prodotto immaginato, il colore dell’animo prediletto.

Il coperchio del tetto a capanna sobbalza allora come per la pressione di millanta fagioli in bollitura, le possenti colonne cigolano forte sotto quelle spinte polemiche sussultorie, e attraverso le pareti d’aria sbuffano fuori soffuse nebbie “culatellose” o sapide zaffate di calure “lambruschificanti”.

Ma alla fine un tinteggio buono per ogni idea si trova sempre.

Sul finire della nottata, i piccoli “folletti ahü”, con le spalle cariche di nuovi pensieri e possibili fatti sfiziosi, si disperdono di nuovo sulle fiatate umide che il fiume spiffera lungo la piana.

Spargono il loro carico qua e là, nelle zucche e in mezzo ai piedi della gente.

Poi risalgono fra le foglie dei pioppi, e vibrando verd’argentei saluti alle ore che passano, restano in attesa della brezza portata dall'imbrunire, per far rientro, sopra calessi di vapore trainati da zanzare mille-stagioni, nella “casa dei pensieri” dove si plasmano le chiare-oscure vibrazioni sparse tutt’intorno, nell'aria della Bassa.

domenica 3 febbraio 2019

Breve storia semi-triste di due estremisti molesti, incappati senza dar resto in un indigesto chiarimento funesto


Due estremisti assolutisti s'incontrarono dopo le feste.

Disse il primo al secondo: “…Sai quanto dista il mio punto di vista? Sono di idea a te totalmente opposta?...”

Rispose l’altro: “…Ora che lo so, il mio cuore fa festa: soltanto io so cos'è la vita onesta, non riuscirai mai a cambiarmi la testa…”.

Presa poi ciascun la rincorsa che basta, si scagliò contro l’altro arrembando lancia in resta.

Estrassero lesta la Colt dalla fondina destra, e di due persone che erano più nessuna n'è rimasta.

Passarono poi di là due fancazzisti modesti, ma dai pensieri vasti.

Al vedere per terra quei miseri resti, esclamarono tosto: “…Ecco che bel gusto a fare ogni volta il gran fusto…se sempre di un’idea sola la tua mente si impasta, se mai l'opinione di un millimetro si sposta, va finire che sbatte contro una chiusa pista…”.

E quindi fatta lieta sosta all’Osteria Dell’Aragosta, tirarono a sera in compagnia pluralista, tra buoni gocci di vino, fette d'arrosto e piatti di pasta.

sabato 2 febbraio 2019

Dualismi


Corpo o spirito?
Pratica o teoria?
Fatti o parole?

Tendenzialmente siamo abituati a trattare il mondo come una casa divisa in due stanze: da una parte, la stanza delle cose “concrete” e dall'altra, la stanza delle questioni “astratte”.

Soprattutto quando parliamo, o scriviamo, o pensiamo o, per dirla in generale, “usiamo il linguaggio”, siamo abbastanza convinti di usare un qualcosa di molto astratto.

Forse però proprio nel linguaggio troviamo una smentita a questa convinzione.

Le parole ci raccontano come tra corpo e spirito ci sia molta meno distanza di quanto non crediamo.
Ci pensavo uno degli ultimi pomeriggi non piovosi, camminando sull’argine, mio sommo maestro di meditazione.

Sull'argine si va avanti o indietro, si può spaziare con lo sguardo in alto e in basso, oppure dare libere occhiate a destra e a sinistra, ci si può fermare e poi ripartire.

Va beh, questo succede in ogni luogo aperto, con una visuale abbastanza libera.

Ma il bello sta proprio qui, perché se succedesse solo sull'argine, allora sì che sarebbe molto strano.

Il nostro essere consapevoli di noi stessi è dettato fondamentalmente da come ci sentiamo posizionati nello spazio.

E a sua volta il nostro sentirci nello spazio è dettato dal confronto generale fra verticale e orizzontale (e il tutto deriva dalla forza di gravità, ma non allarghiamo troppo l'argomento).

Stiamo parlando insomma di come il nostro corpo sente se stesso nello spazio, una faccenda strettamente fisica. Un fatto.

Torniamo alle parole: anche se tradizionalmente vengono contrapposte ai fatti, in realtà hanno una abbondante radice fisica. Moltissime parole sembrano astratte, e invece si muovono anche loro “nello spazio”.

Prendiamo ad esempio la parola “subire”. Quando la sentiamo, per raffigurarci in mente il significato, immaginiamo qualcosa che “sta sotto” [Tra l'altro, ci aiuta qui anche l’origine latina del termine, formata da “sub” (sotto) e “ire” (andare)].

Nel senso opposto, se usiamo la parola “prevalere”, o “successo”, o “vittoria”, ci raffiguriamo un qualcosa che “sta sopra”, o tende “ad andare in alto”.

Prendiamo le parole “domani”, o “progresso”, o “speranza”: ci suggeriscono qualcosa che “ci sta davanti”.

Pensiamo ad altre parole ancora più astratte (in apparenza), come “invece”, “ma”, “anzi”, “però”: quando intervengono in una frase, sentiamo come se il significato di quel che viene detto “tornasse indietro”.

Oppure, la stessa parolina “se”: dà l’impressione di una sospensione del discorso, che da quel punto potrà dirigersi in ogni direzione.

Ancora: le parole “dunque”, “insomma”, segnano una sosta nel ragionamento, mentre “infatti”, “allora”, indicano la ripartenza nello stesso.

Sono solo esempi stupidi, ma ci dicono che quando scriviamo, parliamo, pensiamo, è come se ci muovessimo nello spazio. Un po' come passeggiare sull'argine.

La cosa forte è che il “meccanismo” funziona anche al contrario.

Nel caso di utilizzo di “linguaggi fisici”, questi rimandano alle parole e ai pensieri.

Se un pittore traccia certe righe, o uno scultore fa certe forme, o un ballerino certe mosse, o un attore certe espressioni, possono voler dire “invece”, “se”, “dunque”, “insomma”, “subire”, “prevalere”, “vittoria”, “speranza”, e  così via.

E mentre mi perdevo fra questi pensieri, ecco che l’argine mi ha frullato ulteriormente le idee.

La luce radente da un lato ha disegnato una gran falce d’ombra su quello opposto, un bellissimo boomerang in chiaroscuro che per meglio essere apprezzato, andava guardato in obliquo.

Cosa avrà voluto dirmi?

Boh, glielo domando alla prossima passeggiata…


Ascolto


Ascolto quello che dicono
Ascolto la voce della gente
Ascolto gli scricchiolii fra le vite
Ascolto le parole del mondo
Ascolto il vibrare delle cose
Ascolto il crescere degli alberi
Ascolto il mutare delle nubi
Ascolto il suono di pioggia che lava il mare
Ascolto la fretta d’una moffetta
Ascolto lo specchio nello sguardo d’un gatto
Ascolto una carezza che do al vento
Ascolto la superficie d’un tormento
Ascolto l’irradiarsi dell'amore
Ascolto il rinsecchirsi dell’odio
Ascolto il tempo in cammino
Ascolto un sacco di ore sciupate bene
Ascolto la meraviglia di ogni vigilia
Ascolto il respiro dei giorni
Ascolto le chiacchiere del corpo
Ascolto il dire “io” del desiderio
Ascolto il farsi chioma dei pensieri
Ascolto il mio parlare interno
Ascolto l’eloquenza del silenzio
Ascolto l’allontanarsi delle galassie
Ascolto il setacciarsi degli atomi
Ascolto le pause fra gli attimi
Ascolto in una scoreggia l'eco del Big Bang
Ascolto in un'erezione il tramestio dell'evoluzione
Ascolto il mio scrivere di ascolto
Ascolto lo sbocciare delle idee
Ascolto le parole che non so parlare
Ascolto tutto il coro degli ascolti
Ascolto la vita che s’ascolta
Ascolto la saggezza del reale
Ascolto la follia del vitale
Ascolto l'armonia dell’ascoltare
Ascolto il mio odore fra gli odori
Ascolto il mio essere io rarefatto nel tutto
Ascolto il mio meravigliarvi
Ascolto ogni espressione far staccare un'incrostazione
Ascolto ciascun intimo “sorrisarmi”
Ascolto in ogni cuore questo mantra proseguire