domenica 30 agosto 2009

Sto solo qui


E poi vengono dei momenti in cui il viandante per pensieri non vuol sapere nulla di niente.
Solo vedere la pioggia cadere.
Solo sentire le gocce scalpicciare la loro danza.
I neuroni vogliono starsene con la pancia per aria, come gatti sornioni (sornione er sòr neurone?) che stanno solo lì, che è il loro mestiere stare solo lì.
Un tappeto di gocce soltanto stilla quel sottofondo che non si può zittire, perchè la mutezza del pensare è quasi impossibile: avrei potuto avere una vita diversa?
Avrei potuto essere migliore, avrei potuto amare di più, ricevere più amore?
Per oggi non importa.
Oggi la pioggia cade. E il mio mestiere è stare solo qui.




giovedì 27 agosto 2009

Taratatatatatata



Dice: «...Seeehhh, va beh...son cose che succedono solo nei film...».
Dico: «...Eeehhh va beh...pensa se non succedessero nemmeno lì!...».


mercoledì 26 agosto 2009

Panglo...cosa?!?!?


Ancora dello scrivere. Ancora del comunicare e dell'esprimersi. Ancora del leggersi a vicenda e del tentativo di uscire dai limiti della propria interiorità.
Ancora di tutto questo un po', volevo cianciare oggi.

Ci sono dei pensieri che ti lasciano di stucco. Ma non perchè si tratti di pensate particolarmente geniali. Ti lasciano di stucco perchè sono pensieri di un certo fascino, sì, ma soprattutto perchè sono talmente palesi da farti sentire un po' fesso a non averci mai fatto caso prima. Non proprio fesso completo. Solo un sentore di fessitudine garbata.

Tutto è linguaggio.
Questo è il pensiero che mi ha visitato stavolta col suo carico di lieve infessimento.

Che sia stato a suo tempo Dio a dare inizio al tutto, oppure la legge del caos. Che dipenda da un disegno intelligente oppure da uno scarabocchio demente, dal puro caso, da Zeus o da papà Barzetti, fatto sta che ogni essere umano patisce la propria finitezza spirituale ed aspira a proiettare qualcosa di sè all'esterno, dove va cercando una qualche forma di auto-completamento.
Non solo: estendendo il concetto, si può dire che questo incessante e laborioso "dialogo" avviene anche fra ciascun "elemento" della realtà, sia esso animato o no, ed il contesto ad esso più direttamente pertinente. Ogni oggetto o componente o porzione della realtà "aspira" ad affermare la propria essenza, e per fare questo deve in qualche modo "farsi capire" dall'ambiente in cui è calato.
Per questo mi sento di dire che tutto è linguaggio.

E' linguaggio ovviamente la scrittura, come lo sono il parlare, il dipingere, il comporre musica, la creazione teatrale e cinematografica. Sono linguaggio anche la gestualità ed il muoversi nello spazio, è linguaggio ogni tipo di scambio di "fisicità" con gli altri (in primis tutto il repertorio attinente alla sfera affettiva e amorosa).
Sono linguaggio le forme di tutti gli oggetti, quelli progettati nel breve periodo oppure quelli frutto della decennale "modellazione" effettuata dall'esperienza di mille persone che li hanno usati.
Sono linguaggio gli edifici, non solo nei loro aspetti formali, ma anche sotto il profilo del "dialogo" che sono obbligati ad intrattenere con le regole statiche e fisiche, pena la deriva comunicativa in un discorso fallimentare che potrebbe giungere a pronunciare le fatali parole "inutilizzabilità", "instabilità", "pericolosità", "crollo".
Ma, pur essendo in dubbio (se non del tutto escludibile) una effettiva coscienza sottostante, sono linguaggio anche i rituali di caccia o di accoppiamneto degli animali, i colori coi quali un fiore richiama l'ape o respinge il parassita, la struttura seguita della diramazione della chioma di un albero per disporsi in maniera ottimale all'irraggiamento del sole o allo scorrere della linfa.
Spingendo il ragionamento alle sue estreme conseguenze, è linguaggio anche la forma del sasso che nei secoli ha sostenuto le "proprie ragioni" di fronte alla forza impetuosa delle rapide del torrente, è linguaggio l'ingobbamento della collinetta scaturita dai millioni di discorsi intrattenuti con le sferzate dei venti e con gli arrembaggi delle piogge scroscianti, oppure è ancora linguaggio l'elegante silhouette delle stalattiti o delle stalagmiti che nel tempo hanno eseguito la loro paziente danza con la goccia d'acqua, uno degli amplessi più lunghi che si possano immaginare, se solo ci pensate un attimo.

Insomma, in ogni dove e in ogni quando, la pervasiva presenza del linguaggio è tale e tanta che "panglossismo" mi vien voglia di chiamare tutto questo.
E grazie al ca...e grazie al cabernet, mi direte a questo punto!
Non solo ci vieni a raccontare una cosa che già tutti sapevamo, ma ci spacci pure per "neo" un "vetero-logismo" bello e buono.
Già altri prima di me hanno infatti detto che Panglossismo è un termine che indica l'attitudine a credere di vivere nel miglior mondo possibile.
Tuttavia, le mie pretese sono molto più modeste rispetto a questi dotti riferimento Voltairiani.
Il mio di panglossimi dice molto più semplicemente la cosa di cui ho baterato finora: tutto è linguaggio.

Va beh, insisterete ancora voi: anche precisando ciò, l'«acquacaldismo» della tua scoperta si mantiene sempre a temperature tiepidissime.
Vero. Ma ci sarebbero due corollari interessanti che mi piace qui sottolineare.
Primo corollario: se tutto è linguaggio, la vita può essere vista come una continua interessante lettura, un'interpretazione incessante della miriade di segni nei quali siamo totalmente e radicalmente immersi.
Di riflesso, naturalmente, lo scorrere del nostro tempo diventa anche un cimento senza sosta con l'arte di scrivere, ma non solo lo scrivere nel senso letterale del termine, come sto facendo io ora.
Si tratta invece di uno scrivere la nostra esistenza con tutti i linguaggi possibili a nostra disposizione.
Il secondo corollario deriva in qualche modo dal primo: in questo grande minestrone di linguaggi, ciascuno di essi non si dà come un compartimento stagno che parla coi propri mezzi soltanto.
Tutt'altro. L'infinita varietà dei linguaggi è invece calata senza sosta nel turbinio universale degli scambi e delle contaminazioni reciproche.
Basta saper osservare, dare libero sfogo alla propria sensibilità e mettersi in ascolto.
Si potrà cogliere allora una parentela strutturale fra un bel brano di letteratura e un'architettura particolarmente felice. Nella sfumatura melodica di un brano musicale riecheggerà l'eleganza delle movenze di un campione sportivo, mentre il profumo di un fiore rifletterà inequivocabilmente il sorriso della persona per cui batte il nostro cuore in quel momento.
E la cosa bella di tutto ciò, è che possiamo continuamente prendere a prestito parole dai linguaggi più disparati ed apparentemente remoti, per poter dire cose nuove in quelli che ci sono più consoni e familiari.
Come ad esempio lo scrivere.
Ma di questo magari parlerò più estesamente in un prossimo vagabondaggio fra i pensieri.


domenica 23 agosto 2009

Sei già dentro al "tristy hour"...


Con un mio amico storico, ogni tanto ci facciamo un "tristy hour".
La cosa si svolge con modalità assolutamente opposte al ben più noto "happy hour". O meglio, non lo saprei dire di preciso, perchè ad un "happy hour" non ho mai preso parte.
So solo che il nostro convegno, anzichè in un bar alla moda lungo la via principale dello struscio cittadino, o altro locale per esso, si svolge su una solinga panchina nella piazza del nostro paese semi-desertico.
Se un "happy hour" annoverà fra le sue finalità principali la socializzazione, la conoscenza di nuove persone, in un bagno di "bella gente", atmosfera tutta sorrisi e discorsi frivoli vociati al di sopra dell'immancabile sottofondo musicale all'ultimissima moda, un "tristy hour" si prefigge l'assoluta a-socializzazione e discorsi cultural-esistenziali che sfociano spesso e volentieri in derive surreali, mentre si osserva trascorrere nella piazza gente che dire se sia bella o brutta rimane pur sempre ardua sentenza.

Ecco transitare il "fedele d'alettone".
Trattasi di giovinastro afflitto da indole tamarristica congenita, che vive tutta la sua settimana per questa fugace esibizione domenicale. A bordo della sua automobile motoristicamente e carrozzeri-isticamente truccata all'inverosimile come una vecchia baldracca di lungo corso, il "fedele d'alettone" vive il suo momento di gloria estatica nella sgommata in piena piazza, nella sgasata iper-decibelica.
La sua auto non è un'auto, è un altare innalzato all'adorazione del dio Abarth, un santuario votato alla glorificazione di "San Cerchione in Lega".
E se non di solo pane vive l'uomo, il "fedele d'alettone" si nutre e si pasce delle "madonne" e dei "cancheri" invocati alla volta della sua fumosa parata da parte del capannello di pensionati stazionanti nel giardinetto, intorno all'obelisco ai caduti. Si bea degli sguardi di compatimento dei suoi stessi coetanei seduti al bar, soprattutto di quelli delle ragazzine.
Il suo cuore si fa cilindro nel veder la gazzosa andar di traverso alla sua preferita, perchè fin dall'epoca di suo bisnonno gran mago del Landini a testa calda, è perfettamente risaputo che chi disprezza compra.

Sfilano altri personaggi campagnoleggianti, mentre il "tristy hour" si addentra nel suo significato più bizzarro, ovvero il fatto che lì a bordo piazza anche in pieno agosto è praticamente impossibile a-socializzare come si deve.
Passa il vecchietto in bici e ti saluta in tutto lo splendore della sua giovialità ultra-novantennale, passa un altro amico che si ferma un quarto d'ora a fare una chiacchiera.
Si parla di arte, letteratura, cinema d'essai, ingollando birra e pop-corn procurati nel frattempo al bar, ma rigorosamente consumati sulla panchina, rassicurante e gratuito avamposto di diporto estraneo al circuito ufficiale del consumismo di massa (se massa si possono definire i dieci avventori dieci, pigramente spaparanzati sotto il tendone dell'osteria).

Gli ultimi istanti del "tristy hour" vengono quasi sempre scanditi dal passaggio di un altro amico che per me da sempre rappresenta la personificazione della piazza stessa.
E' nato ed ha vissuto sempre lì, il suono delle campane ha scandito quasi tutte le ore di tantissime sue giornate.
Una persona semplice, anzi, una mente semplice, parafrasando anche il nome del suo gruppo rock prediletto, ma di una semplicità profondissima, capace di trasmettere umanità a bizzeffe ed un senso raro dello stare in compagnia con spontaneità e pulizia d'animo.

Su una sua sentenza conclusiva, ci congediamo dalla panchina per oggi, senza stabilire bene la data nè l'ora del prossimo appuntamento, perchè il "tristy hour" non si può calcolare, è affidato al puro caso, quando viene viene.
A chiosa dei nostri saluti, incamminandosi alla volta del bar per l'immancabile caffè post-cena rigorosamente già consumata intorno alle sette, col nuovo tempo record di 5 minuti e 34 secondi netti dalla minestra alla frutta, è con questa clamorosa perla che si accomiata il nostro "amico-piazza":
«Sono sempre i peggiori che se ne restano!...»




giovedì 20 agosto 2009

Scrivere lo sguardo del lettore


Da un altro recente scambio di commenti con la simpatica Scodinzola, ho tratto un nuovo spunto di riflessione che vorrei sviluppare oggi. Il terreno di dialogo era sempre la scrittura e in particolare la scrittura di un blog.
Qualche tempo fa avevo ipotizzato l’esistenza di una certa affinità fra la disposizione d’animo di chi decide di scrivere un blog e quella invece propria del curatore di un diario personale escluso alla lettura di terzi.
Scodinzola, dopo essersi pazientemente sciroppata quel mio antico mattoncino teorico, giustamente mi ha fatto notare la differenza inequivocabile fra un blog ed un diario.
Il blog viene scritto per essere condiviso con altri, nell’ottica di uno scambio di idee.
Per altro verso il diario, se inteso nella sua modalità privata più classica, è una sorta di rielaborazione interiore di pensieri che invece di svanire nelle impalpabili dinamiche del normale flusso mentale, viene in qualche modo fissata sulla pagina.
Questa distinzione fondamentale sembrerebbe escludere ogni analogia fra un blog ed un diario.
Credo tuttavia che esistano sfumature più sottili in grado di farci salvare la capra della differenza ed i cavoli delle affinità.
Quello che mi sembra di poter dire è che il punto cruciale ruoti intorno alla definizione delle identità in gioco.
Anzi, ancor meglio: il fascino dello scrivere un blog oppure un diario, credo stia tutto nel gioco delle identità che si può venir a determinare.
Ecco, bisogna in ogni caso fare due precisazioni.
Innanzitutto, è vero che questo fatto accade un po’ tutte le volte che ci si mette a scrivere e in qualsiasi ambito lo si faccia, ma nel blog e nel diario succede forse in misura più marcata.
Inoltre, va anche precisato che la cosa riguarda probabilmente meno la dimensione dello scrivere a fini informativi: i blog che ricalcano in qualche modo le modalità giornalistiche, sono quindi meno toccati dal “fenomeno” del gioco di identità.
Ma per tutti gli altri casi, le affinità fra blog e diario calzano particolarmente bene se vengono considerati sotto l’aspetto del gioco delle identità. Non sto parlando dell’atteggiamento ingannevole di chi consapevolmente scrive con l’intento preciso di spacciarsi per un’altra persona.
Intendo invece tutti i modi “normali” di scrivere un blog o un diario. In queste occasioni, a mio modesto parere, è quasi inevitabile lasciarsi affascinare dal meccanismo stesso della “sperimentazione identitaria” che è proprio di queste due modalità di approccio alla parola scritta. Non si tratta tanto di “fingersi” altre persone, ma di “immaginarsi” altre persone. E’ un modo come un altro per tentare di superare l’oppressione causata dalla finitezza delle nostre esistenze.
Questo non significa “fuga dalla realtà”. O se preferite, sì, è anche un po’ fuga dalla realtà.
Ma si fugge da quelle parti di realtà che più ci fanno sentire limitati, conchiusi in un preciso perimetro fatto di spazi, di tempi e di identità personale troppo definiti.
Scrivendo su un blog o su un diario si vestono i panni di un Io “a maglie larghe”, un Io che può permettersi lussi non concessi a quel “povero diavolo” dell’Io concreto. E capita che la stessa “metamorfosi” venga applicata dallo scrivente anche al lettore, che viene immaginato un po’ a proprio piacimento.
Per questo importa poco che un diario sia destinato (almeno in teoria) a non essere letto da nessuno che non sia il suo creatore. Dietro le parole da noi plasmate c’è sempre un lettore immaginato, presente o futuro.
Per farla breve, curare un blog o un diario significa mettere in atto una sorta di piacevole “autoinganno”: siamo noi che scriviamo, ma al contempo non siamo completamente noi, siamo anche altre persone, così come labili e vagamente delineati nella nostra fantasia sono pure tutti i possibili lettori che ci ritagliamo su misura nel nostro dialogar-monologando.
Scrivendo un blog o un diario, si può infine provare l’esperienza emotiva di sentirsi singoli e plurimi allo stesso tempo, uno e tanti, nord e sud, Yin e Yang, scrittore e lettore fusi insieme in un unico essere modellato sulla volatilità della parola scritta.

Insomma, so che il discorso apparirà piuttosto contorto, ma questo non è niente rispetto a quanto potrete leggere nel seguente brano di William Faulkner, che mi ha dato il La per tutta la sbrodolata scritta sopra, nel tentativo di definire meglio il tema scaturito dallo scambio di battute con la cara Scodinzola:

«… - Bisessualità emotiva, - disse Fairchild.
- Sì. Ma lei cerca di conciliare questo libro e l’autore. Un libro è la vita segreta dello scrittore, il gemello nero di un uomo: non si possono conciliare. E per lei, quando si verifica lo scontro inevitabile, l’io vero dell’autore è quello che affonda, perché lei è uno di quelli per i quali il fatto e l’illusione acquistano verosimiglianza solo perché sono stampati.
- Forse sì, - disse Fairchild, distaccato, meditando nuovamente su una pagina. – Ascolti:

Labbra che sembran più stanche di tutto il tuo corpo stanco
Sembrano più stanche per il sinuoso, pallido e astuto

Quieto enigma del tuo volto segreto, e per la tua
Disperazione malata, ossessionata dal suo stesso male:

Non posare la tua mano di ragazzo sul tuo cuore per protestare
Che il sorriso concilia la tua bocca stanca,

Perché il giurarlo non ti fa ingannare

Dalla gioia segreta del tuo seno di donna.


Stanca la tua bocca sorridendo; puoi stringerti
A te stessa e saziare la tua sete di baci?
Il tuo risveglio di vergine si beffa di se stesso
Con l’acuta essenza del sonno, svegliandosi così,
E vicino alla tua bocca si cela il dolore del cuore gemello

Che nessun petto separa dal tuo: non si può spezzare.


- “Ermafrodito” – lesse. – Ecco di cosa si tratta. E’ una specie di pura perversione. Come un fuoco che non ha bisogno di alimento, che vive del proprio calore. Voglio dire che tutta la poesia moderna è una specie di perversione. Sembra quasi che i giorni della poesia sana siano passati per sempre, che i moderni non nascano più col dono per scrivere versi. Altre cose, lo ammetto. Ma versi, no. Si direbbe che gli uomini oggi non sian più abbastanza maschi e vigorosi per occuparsi di una cosa che è quasi contro natura. Una specie di razza sterile: donne troppo maschie per concepire, uomini troppo femminei per generare….».

Zanzare
William Faulkner - 1927



domenica 16 agosto 2009

Piccoli nobili fumi

T.W.: «Tu mi ci vedresti con la divisa, figliolo?»
K.W.: «Adesso no! Ma l’hai indossata, durante la guerra civile!»
T.W.: «Non proprio. Anche allora facevo spesso di testa mia. Come sai, sono sempre stato refrattario alla disciplina, fin da giovane…»
K.W.: «Capisco quel che vuoi dire…tu non potresti mai obbedire ciecamente a un ordine! Sentiresti il bisogno di discuterlo o quantomeno…»
T.W.: «Quantomeno vorrei poter ragionare con la mia testa, proprio così…Ecco perché non sarei mai un buon militare…»

Il T.W. di questo scambio di battute non è, come magari si potrebbe anche ipotizzare forzando un po’ l’immaginazione in direzione intellettualoide, il grande drammaturgo americano Tennessee Williams.
E nemmeno dovete pensare che il suo interlocutore, K.W., rappresenti una sorta di alter ego immaginato dall’artista in atmosfere dal sapore kafkiano (“Kappa Williams”?) per sostenere questa sorta di dialogo con sé stesso.
T.W. è invece molto più semplicemente Tex Willer, il glorioso eroe del far west nato ormai mezzo secolo fa dalla fantasia di Giovanni Luigi Bonelli, mentre K.W. è il baldanzoso figlio di Tex, il giovane Kit Willer, anche noto col suo appellativo Navajo di Piccolo Falco.
Si fa presto però a dire “molto più semplicemente”.
Perché quello che sono andato notando nel corso degli anni, nella mia veste di fedele (anche se “intermittente”) lettore di Tex, è stata una crescente “raffinazione” del suo linguaggio, una progressiva cura riposta nella energia espressiva delle storie di volta in volta proposte. Questo sia dal punto di vista delle sceneggiature, sia per quanto riguarda il disegno e l’impostazione grafica.
In altre sedi molto più dotte di questa, ci si è posti la domanda se il fumetto possa essere considerato una forma d’arte oppure no. Mi viene in mente ad esempio il bellissimo “Apocalittici e integrati” di Umberto Eco, che propone spunti di riflessione geniali sul tema.
Naturalmente, non saprei rispondere all’ardua domanda, ma alcune considerazioni le posso fare.
Per prima cosa, direi che il fumetto deve essere considerato una forma di comunicazione di tutto rispetto. Il fumetto ha inaugurato un modo di esprimersi, di raccontare, totalmente peculiare della nostra epoca (intendendo, molto grossolanamente, il periodo dal secondo dopoguerra in avanti, oppure anche qualcosa un po’ prima).
Già per questo è degno della più alta considerazione, ma a ciò si aggiunga che della nostra epoca il fumetto è anche uno specchio quanto mai efficace. Poche altre forme espressive ne hanno saputo cogliere infatti ad un tempo la superficialità e la complessità, la banalità e la sua effettiva “articolazione sotterranea”. Poche altre forme espressive (penso però anche al cinema) riescono a cogliere la nostra epoca nella sua caratteristica principale di “tempo che si consuma velocemente”.
Questo accade perché fumetto e realtà moderna parlano praticamente lo stesso linguaggio, o perlomeno molto simile.
Un’altra osservazione che mi viene da fare (e qui ritorno in sostanza al dialogo fra Tex e Kit Willer, tratto dal “Texone” n. 23 del giugno scorso, intitolato “Patagonia”) è che con il tempo il linguaggio del fumetto si è evoluto fino a raggiungere livelli qualitativi in grado di trasmettere al lettore esperienze estetiche dotate di un valore di prim’ordine.
Questa elaborazione naturalmente è passata prima attraverso l’opera di diversi pionieri sperimentatori di soluzioni innovative in questa forma d’arte. Nella mia ignoranza fumettistica, mi viene da citare solo i clamorosi esempi della genialità di Andrea Pazienza, oppure della complessità e della raffinatezza narrativa di Hugo Pratt. Ma chissà quanti altri eccelsi autori saprebbe citare chiunque ne sappia un po’ più di me della storia del fumetto.
I colpi di genio dei grandi sono poi trapelati pian piano anche a livello di una produzione “più corrente”, in cui senza dubbio anche Tex rientra, e la lezione dei maestri è stata assorbita sino a far sì che si ottenesse un pregevole innalzamento generale della qualità di questa “forma d’arte-non forma d’arte”.
Un dialogo come quello riportato in apertura, probabilmente sarebbe stato difficile leggerlo alcuni anni fa in un fumetto come Tex o in altri della stessa “categoria”. Non che rappresenti una rivoluzione “intimista” sconvolgente, ma introduce delle sfumature d’animo del personaggio, delle riflessioni personali di una certa profondità, che lasciano adito ad un’ampia dimensione di dubbio.
Si sente nelle battute fra Tex e suo figlio Kit tutta una “contaminazione” con tematiche assorbite da un certo tipo di cinema western anni ’70, che hanno introdotto la figura dell’eroe che oltre a combattere i propri nemici è chiamato ad affrontar anche la sfida con una propria interiorità problematica.
Naturalmente il tutto è risolto sempre con le dinamiche brucianti del fumetto: non c’è tempo di soffermarsi troppo sui rimescolii d’animo personali, nel giro di alcune tavole il nostro eroe deve già essere pronto e scattante per massacrare a sganassoni lo smargiasso di turno o per difendersi da un agguato proditorio teso da una banda di balordi.
E probabilmente nemmeno si sarebbero potute vedere qualche tempo fa due tavole come le seguenti



che introducono il punto di osservazione della storia attraverso i piccoli dettagli quotidiani o drammatici.
Oppure come queste



anch’esse chiaramente debitrici al cinema di un certo modo di trattare il ritmo della narrazione visiva attraverso il montaggio delle inquadrature successive.

La contaminazione di linguaggi può tuttavia funzionare in alcuni casi in entrambe le direzioni, come succede in questa ultima sequenza di “fotogrammi”


è vero infatti che anche qui il narrato deriva senza dubbio da un’ispirazione di base “filmica”, ma in questo caso il fumetto si prende la sua rivincita amplificando l’effetto con un proprio mezzo modestissimo e tuttavia precluso al cinema, perlomeno in una forma così diretta, ossia l’allargamento del campo dell’inquadratura per enfatizzare l'effetto.

(Tutte le tavole, anche se riprodotte un po' malamente, sono tratte dall'ultimo episodio di Tex della serie "ufficiale", il n. 586 dell'agosto 2009, intitolato "Giochi di potere").

sabato 15 agosto 2009

Ferragosto nichilista


Ciao ragazzi,
Vi dicevo ieri che il Ferragosto mi butta un po' giù, ma che avevo imparato a parare il colpo...
Uhm...la giornata di oggi mi ha un po' smentito.
All'inizio l'avevo presa su piuttosto male, ma poi passando a dare un'occhiata al sempre egregio blog di Galatea, ho letto un bellissimo brano che mi ha fatto andar per pensieri ed ho finito per tirarmi su di morale scrivendo di nichilismo...
Mi è venuto fuori un commento piuttosto lungo, e ho pensato di riportarvelo qui di seguito.

***

Dal momento che quando mi vengono a dire che una cosa “bisogna” farla, mi scatta dentro un giramento di sfere che piuttosto che fare quella specifica cosa, andrei in ginocchio da casa mia al Polo (Nord o Sud, a scelta); e siccome che ho sentito dire oggi al tg5 che dalla costa alle cime montuose il verbo è uno solo: “divertirsi”…ecco, oggi piuttosto che divertirmi (tanto più se me lo viene a dire il tg5), mi voglio rompere le balle ben bene e parlare di nichilismo.

Premetto che ho letto con grande piacere il tuo bellissimo brano, Galatea (quando una persona è nata per scrivere, non ci sono storie! Sapresti raccontare la lista della spesa facendo provare comunque sensazioni di bellezza...grande!!!), e ne condivido la sostanza.
Mi è piaciuto soprattutto quando dici che affidarsi alla ragione vuol dire sostenere uno strumento di confronto con la realtà consapevoli di tutte le sue debolezze, ma consapevoli anche che di meglio non abbiamo a disposizione. Questo è il passo fondamentale del tuo brano e nessuna contro-tesi lo potrà mai confutare.
Volevo tuttavia portare un paio di spunti di riflessione in più, anche per sapere il tuo punto di vista in merito.
Una prima cosa che mi viene da dire riguarda le questioni indimostrabili, come è appunto l'esistenza o no di Dio. Ciò che mi viene da dire su questo è che di fronte ad ogni questione indimostrabile non si può fare a meno di porsi con un atteggiamento di fede. Sia che si neghi l'esistenza di Dio, sia che la si affermi, entrambe le tesi necessitano di una scelta fatta su basi indimostrabili, non razionali né “razionalizzabili”.
So che questo ragionamento ha un suo lato debole: è piuttosto contraddittorio in effetti, o perlomeno problematico, sostenere che chi non crede in Dio dovrebbe fornire la dimostrazione di una “inesistenza”. In realtà l'obiezione è di notevole portata, ma per attutirla un po' mi verrebbe da ribattere che una sorta di aspirazione verso l'eterno, verso l'infinità dell'essere, si può considerare pressoché connaturata all'essenza umana.
So che quanto sostengo è ancora più debole, ma in proposito mi viene in mente ad esempio lo stato di trasporto che si prova quando si ama, oppure quando si gode di un'opera d'arte, o ancor più quando si possiede il dono di crearla addirittura un'opera d'arte. Non sono tutti questi indizi che fanno subodorare, sperare, anelare alla possibilità di un superamento della nostra finitezza in questo mondo, ad un possibile travalicamento della nostra mortalità?
A questo punto, tornando a quanto dicevo sopra, dire se questa eternità intuita sia plausibile o no, è questione di fede, qualunque sia una delle due posizioni possibili per cui si opta.
Ma il punto importante, e qui ritorno a cose che hai detto anche tu Galatea, è che qualsiasi delle due posizioni uno scelga, dovrebbe, per così dire, “farsela bastare” senza andare ad aggredire chi la pensa in modo opposto.

Una seconda cosa riguarda proprio la parola “nichilismo”. Se uno analizza con calma il termine nudo e crudo, ossia osservando l'esatta sua radice, si accorge che di per sé non è quella parolaccia come taluni vorrebbero far credere. Deriva dal latino “nihil”, ossia “niente”, “nulla”, lo sa persino un ignorante come me.
In questo senso sì, penso che chi crede che con la morte la nostra esperienza si concluda definitivamente, sia un nichilista. Ma proprio nel senso stretto del termine e senza fare tutte quelle menate scandalistiche, tirando in ballo assurdi paragoni col nazismo e vaccate simili.
Il nichilista è semplicemente, e letteralmente, colui che crede che un giorno dal nostro stato di “essere” passeremo ad uno stato di “nulla”. E qui sorge il “piccolo” dubbio se sostenere questo sia razionale e filosoficamente coerente.
Parmenide (e mica un ignorante come me, si badi bene) sosteneva che il passaggio dall'essere al nulla è un concetto filosoficamente insostenibile. Con le stesse categorie di pensiero, si può bollare di inconsistenza anche l'altro capo della questione, ossia quello di una eventuale creazione: così come l'essere non può mutarsi in nulla, altrettanto assurdo è sostenere che l'essere sia derivato dal nulla, ossia sia stato creato. A rigore filosofico, l'essere non sarebbe un'entità quantitativa una tantum, che in un momento c'è, in un altro momento non c'è, in un posto esiste, nell'altro esiste meno. L'essere è tutto, ed è presente dappertutto e per sempre, ossia è eterno.
Queste tra l'altro sono anche le basi (anche se da me riportate un po' “cagnescamente”) del pensiero di uno dei più grandi filosofi contemporanei, Emanuele Severino.

Insomma, tutto qui, Galatea. Volevo solo portare questo mio piccolo contributo alla questione, ma soprattutto sono fiero di non aver seguito il “verbo” del tg5, e di certo mi sono divertito a scrivere queste righe, ma non nel modo che dicevano loro!

venerdì 14 agosto 2009

Ricetta di Ferragosto


Tra Capodanno e Ferragosto non sono mai riuscito a capire bene quale dei due mi faceva più schifo. Spiegare per filo e per segno il perché sarebbe un po’ lungo. Ne parlai già 7 mesi e 15 giorni fa, quando eravamo in corrispondenza dell’altra boa annuale, quella più fredda.
Fatto sta che per me queste due festività hanno sempre avuto quel retrogusto di fasullo, quel sentore di scarsa autenticità capace di mettermi dell’umore tipico di quando gli zebedei fanno Giacomo-Giacomo.
Non che adesso i miei sentimenti in merito siano cambiati più di tanto. Ma almeno col tempo ho imparato un po’ a parare il colpo e a limitare i danni di queste due giornate un tempo veramente devastanti.
Quel che occorre è una buona dose di sguardo disincantato e sufficientemente surreale, posato sugli avvenimenti ferragostani o capodanneschi.
Aggiungere poi una spruzzata di pazienza, unita ad una manciata di salda convinzione che durante la festa incriminata non succederà esattamente una beata minchia. Un buon libro ed un buon letto possono completare il tutto. Se poi il letto è pure farcito di altra persona gradita, tanto meglio, ma non si chieda troppo alla buona sorte.
Per farla breve, il Ferragosto andrebbe affrontato con lo spirito della canzone “Vita sottostimata”, scritta dal noto cantautore Fiasco Botti, il cugino prudente di Vasco:

«…Voglio una vita che sia rispettosa
Di quelle vite fatte, fatte colà,
Voglio una vita che se ne importa
Che se ne importa di tutto sì
Voglio una vita che è sempre puntuale
Voglio una vita di quelle che si sa assai

E poi ci troveremo come i maial
A bere lambrusco al Bar Central
O meglio che non ci incontriamo affatto
Ognuno a rincorrere il suo gatto,
Ognuno sempre a casa
Ognuno lo stesso
E ognuno in fondo perso
Dentro i fatti altrui!

Voglio una vita sottostimata
Voglio una vita da bordo ring
Voglio una vita commisurata
Voglio una vita come Credolin
Voglio una vita che è sempre puntuale
Di quelle che ronfi assai…
Voglio una vita, e poi problemi mai!...»

Ah…dimenticavo: ragazzi (ma soprattutto ragazze…), buon Ferragosto a tutti!
Grazie a chi passa di qui, legge e commenta.
Grazie a chi passa di qui, legge e non commenta.
Grazie a chi non passa di qui, non legge, non commenta e non ha nemmeno il computer.
E’ bello essere amici, anche se ci conosciamo solo un po’…



giovedì 13 agosto 2009

Ancora sul popolo degli uomini

Dicevo nella parte precedente di questo scritto sui Pellirosse, che in ogni atto di conoscenza il rischio dell'intervento del "pre-giudizio" è praticamente inevitabile. Rimane importante tuttavia sforzarsi di minimizzare l'impatto di questa componente pregiudiziale.
In questo senso, va osservato che il libro di cui volevo parlare, «Storia degli indiani d'America» di Phlippe Jacquin (dal quale sono tratti tutti i brani virgolettati), risalendo alla metà degli anni '70, mi pare paghi un discreto tributo alle allora prevalenti categorie interpretative della realtà di ispirazione marxista.
Per dirla in maniera un po' "sempliciottistica", credo che il marxismo abbia percorso strade distorte di indagine sul mondo, ma che ne abbia rivelato anche risvolti di senso notevoli, e tenendo conto durante la lettura di questo "limite storico" e storiografico, quello di Jacquin rimane pur sempre un buonissimo libro.

Si rimane a bocca aperta, ad esempio, leggendo dell'armonia raggiunta dal popolo Pellerossa riguardo al proprio rapporto con i mezzi ed i beni di sopravvivenza:

«...La tribù indiana è profondamente democratica poiché tra i suoi membri non c'è nesso di prevalenza. Nessun membro della tribù è sottoposto a un obbligo di lavoro o di tributo verso un altro. Ognuno caccia e lavora secondo i propri bisogni familiari; una volta soddisfatti i propri bisogni, l'indiano può dedicare il suo tempo al riposo, alla danza, alla dialettica...[...].
...Nel mondo indiano ogni unità di produzione, vale a dire una famiglia, non ha bisogno degli altri, tranne nel periodo delle grandi cacce. La sua produzione non va oltre i suoi bisogni; in effetti l'indiano, allorchè giudica che i suoi bisogni sono appagati, cessa ogni attività di produzione. L'indiano rispetta la natura e controlla l'ambiente in cui vive, non per accumulare beni che gli sarebbero inutili, ma per soddisfare i suoi bisogni.
Il cacciatore sa che non può costituire scorte che impoverirebbero rapidamente le risorse dell'ambiente. Il nomadismo permette di sfuggire alla legge dei prodotti in decrescita e impone un limite al trasporto di oggetti - ciò che spiega lo scarso valore attribuito ai beni materiali...[...]...l'indiano dedica poco tempo alla ricerca del cibo; i bianchi rimasero sorpresi per la quantità di feste, danze, riunioni che si svolgevano negli accampamenti. L'indiano passava molto più tempo a decorare il suo vestiario, a fumare il "calumet" o a giocare con i figli, che a lavorare: non si è mai rassegnato a lavorare...».

A proposito di spazzare via i pregiudizi: non è che leggendo questo passo ci si possa lasciare andare ad utopiche rivisitazione di una possibile società a venire ricalcata su quel modello. L'organizzazione sociale degli indiani d'America è stata un unicum storico irripetibile nella sua forma, in quanto inserito in un contesto ambientale particolarissimo e in una congiuntura della storia frutto della sommatoria di una serie di fattori particolarmente "felici".
Del tutto in-scientificamente mi viene tuttavia da affermare che è sempre pur bello poter pensare che una società come quella (con anche tutti i suoi difetti) sia esistita in qualche angolo della storia.

E ancora: pur essendo una questione del tutto evidente, non mi ero mai chiesto come mai il popolo Pellirosse si presentasse così frammentato nella miriade delle sue orgogliose e gloriose tribù. Grazie al libro di Jacquin ho potuto approfondire anche questo aspetto.
La molla di tutto è l'aggressività, che nelle dinamiche sociali ampie di quel popolo si andò definendo come fattore di mantenimento di un equilibrio fra le genti, e di conseguente armonizzazione delle genti stesse con il proprio ambiente.

«...La guerra è figlia dell'aggressività...[...]...Qual è la funzione dell'aggessività? Secondo Eibl-Eibensfeldt, essa ha lo scopo "di suddividere gli individui e i gruppi" sul territorio da essi occupato e così garantire lo spazio minimo di cui essi hanno bisogno per sopravvivere. Nelle società primitive, l'aggressione fa scindere il gruppo in fazioni rivali che vanno a svilupparsi in un altro territorio...».

Questo "meccanismo" faceva sì che la distribuzione della popolazione sul territorio si mantenesse ampiamente sotto i margini di possibili "sovraffollamenti", mantenendo un equilibrio costante tra la distribuzione dei nuclei umani e le porzioni di territorio "consumate" da questi ultimi, con la conseguente possibilità lasciata sempre aperta alle risorse naturali di potersi rigenerare secondo i propri ritmi e tempi più consoni.

Non si trattava tuttavia di un'aggressività dal carattere distruttivo, che avrebbe vanificato tutto l'aspetto virtuoso delle dinamiche in gioco. Componente necessariamente associata a questo costante stato conflittuale era il notevole grado di "ritualità" attraverso cui ciascuna tribù indiana interpretava il proprio rapporto con i nuclei ad essa "esterni":

«...Per ridurre l'aggressività, oltre alla scissione del gruppo, esiste un altro sistema: il ritualismo...[...]
La guerra fa parte del funzionamento della società indiana. Lo stato di guerra è dunque permanente fra le tribù. Una tribù ha sempre nemici, non per la disputa d'un territorio o di risorse naturali, ma semplicemente per il compimento di riti significativi.
Per provare la sua bravura il guerriero indiano non ha bisogno di uccidere il suo avversario. Gli basta vincere una prova assegnatagli dalla tribù. Così, presso i Crow, quattro azioni di guerra sono ritenute onorevoli: sciogliere e portar via un cavallo dal campo avversario, appropriarsi dell'arco nemico nel corso d'un corpo a corpo, colpire l'avversario con la mano e organizzare una sepdizione vittoriosa...».

Inutile ricordare come in un contesto sociale simile, il senso dell'onore, unito al valore della parola data e delle leggi "non scritte", assumessero un'importanza fondamentale.
Considerati questi due grandi tratti generali del carattere dei Pellirosse, stupisce ancor meno pensare come questo nobilissimo popolo difficilmente avrebbe potuto reggere il tremendo impatto colonizzatore di un'altra parte dell'umanità fondata su presupposti esistenziali situati totalmente agli antipodi della sfera dei valori umani.
Il "bianco" ("wasichu", secondo la lingua Lakota Sioux) non solo contemplava la distruzione e l'appropriazione violenta, sia dell'avversario sia degli elementi naturali, come opzione possibile del proprio senso di aggressività, ma nel corso di tutta l'epopea della colonizzazione del Nord-America, più volte si dimostrò incapace di dimostrare lealtà e rispetto umano.
Basti ricordare che nel giro di pochi decenni, fra i nuovi americani e le tribù indiane vennero firmati ben più di 400 trattati: nessuno, dico nessuno, venne mai rispettato.



martedì 11 agosto 2009

Eppure è un peccato…

Il continuo del mio scritto dedicato ai Pellirosse è in via di elaborazione e conto di terminarlo a breve. Nel frattempo però volevo andare un po’ per alcuni pensieri che mi sono venuti in mente dopo un breve scambio di battute con la simpatica Scodinzola.
Ho avuto modo di leggere sul mio e su altri blog alcuni gentili commenti proprio di Scodinzola, che interviene sempre in modo garbato, riuscendo, anche solo nelle poche righe normalmente dedicate ad un commento, a trasmettere il desiderio di leggere qualcosa in più scritto di suo pugno.
Ogni volta però il simbolino blogspot affiancato al nick di Scodinzola, anziché rifulgente dell’arancionata tonalità che indica attività bloggatoria sottostante, lo ritrovo sminuito dalla “grigesca” sfumatura che informa dell’assenza di un blog dietro l’angolo di un commento.
E ogni volta puntualmente penso che sia un vero peccato che Scodinzola non curi un proprio blog. Il medesimo concetto mi sono permesso di esprimerlo a Scodinzola: «E’ un vero peccato, Scodi!!!» le ho detto.
Lei, con la consueta cortesia, mi ha risposto:

«…Non sono una blogger e non credo la diventerò. Ho poco tempo per riuscire a tenerlo aggiornato e soprattutto non ho il dono della scrittura. Il mio voto alla maturità ha subito un notevole ribasso a causa del tema "appena sufficiente". Però mi piace molto leggere e quindi... meno male che ci siete voi a dilettarmi…».

Fermo restando che l’identità di lettore (che pure io sento fortemente connaturata alla mia indole) rappresenta a mio modesto avviso uno dei più nobili modi di essere al mondo, e rispettando nel contempo la sacrosanta intenzione di Scodinzola di mantenersi lettrice-commentatrice di blog, se dovessi riassumere l’essenza del leggere e dello scrivere lo farei mutuando ed estendendo un concetto di Flaubert.
Non ricordo le parole testuali, e nemmeno dove le lessi, ma mi impressionò parecchio sapere dal grande maestro francese che quando si legge, non lo si fa per le più ovvie motivazione che di solito vengono alla mente. Anche per quelle, certo.
Ma prima di tutto il resto, noi leggiamo «per vivere».
Credo che l’idea sia ampliabile dicendo pure che quando decidiamo di scrivere non lo facciamo per comunicare qualcosa agli altri, né per impegnare in qualche modo il tempo e nemmeno per sentirci protagonisti di chissà cosa.
Se decidiamo di scrivere, lo facciamo per vivere. Lo facciamo per addentrarci in una dimensione esistenziale più alta. Una delle più alte possibili.
Non comunichiamo contenuti ai lettori, ma ci fondiamo con loro.
Non impegniamo il tempo, ma travalichiamo lo spazio ed il tempo stessi, per andare ad abitare alcune preziose porzioni di incorporeità esterne a qualunque “adesso” ed appartenenti al regno della gratuità assoluta, condizione necessaria per fonderci col più intimo senso della Bellezza.
In sostanza leggere e scrivere sono i due volti di una stessa essenza del vivere, il sole e la luna di nostre ideali giornate spirituali, l’alternanza di una notturna assimilazione di sogni e di una diurna esplosione luminosa dei medesimi nella gioia della condivisione con gli altri.

Per questo, Scodi, credo che sia un peccato.
Non è questione di doni, poi. Il dono di vivere lo possediamo tutti (a volte anche nostro malgrado, aggiungerei).
E se devo proprio dirla tutta, credo che l’esame di maturità abbia poco o nulla a che vedere con la vita. Tanto più che ho già accennato alcune volte come io stesso sia uscito piuttosto sommessamente da quel tanto decantato e “cruciale” passaggio “di crescita”. E magari avessi preso un “appena sufficiente” nel tema. Nossignore, mi sono beccato proprio un bel cinque grasso grasso, invece.
Insomma, ne sparo ancora una e poi la faccio finita.
Per me chi ha avuto la fantasia di crearsi un nickname così semanticamente plastico e ricco di tali e tanti appigli immaginifici, non può essere una persona che non scrive bene.
Sempre tenendo come punto fermo il suo insindacabile diritto di rimanere serenamente una lettrice-commentatrice e aggiungendoci anche tutto il rispetto per il pudore di non volersi aprire più di tanto in un luogo come il web, che per certi versi può anche paragonarsi ad una jungla spirituale.



domenica 9 agosto 2009

La visita del popolo degli uomini

I Pellirosse son tornati a farmi visita.
Questo argomento mi appassiona da parecchio tempo.
Però non ho mai pianificato in modo ordinato una ricerca sistematica o una serie di letture in merito. D'accordo, questo soprattutto a causa della mia pigrizia proverbiale. Ma anche perchè in generale credo che i bei libri "ti vengano incontro" quando lo vogliono loro.
Con gli indiani d'America è successo alcune volte.
In fondo non ho nemmeno letto tanto sull'argomento, ma ogni volta sempre cose piuttosto intense.
Il primo testo fondamentale lo incontrai da ragazzino: Dee Brown, "Seppellite il mio cuore a Wounded Knee". Poi venne "Sul sentiero di guerra", una raccolta di vive testimonianze dei protagonisti di quella tragica avventura definitiva. E dopo ancora, "Gli spiriti non dimenticano", la bellissima biografia del leggendario capo Lakota Sioux "Cavallo pazzo", scritta da Vittori Zucconi.
A questo libro stupendo è legato fra l'altro un episodio curioso. Giunto alla trecento e settantunesima pagina delle 375 dell'intera narrazione, la trovai completamente bianca (come potete arguire dalla maldestra foto-elaborazione che ho messo qui sopra).

Quando mi successe questo piccolo inconveniente librario, lì per lì, la tentazione di scendere sul piede di guerra ed affrontare a viso aperto la terribile tribù dei Feltrinelli, fu grande.
Ma poi considerai la cosa come un segno mandato dal Grande Spirito: era un invito a mantenere vivo il mio interesse per il "Popolo degli uomini", continuando a scrivere io stesso quella pagina lasciata in bianco e andandola a riempire con nuove "letture pellirosse".

Quando si parla di indiani d'America, bisogna innanzitutto cautelarsi riguardo ad un'altra grande tentazione. Infatti, lasciarsi lusingare da una idealizzazione pervasiva di tutto l'argomento, è un attimo. Ci vuole un niente a dare inizio al festival dell'«età dell'oro», parlando di Pellirosse, ci si mette un nonnulla a dotarsi di tutto punto dell'armamentario completo della nostalgia per il regno perduto di una vagheggiata Arcadia del «buon selvaggio», con tutti gli annessi e connessi.
Non è questa la mia intenzione.
Ogni epoca storica ha avuto ed ha i propri significati.
La cosa più saggia da fare, a mio modesto parere, è tentare di mettersi dinnanzi ai vari "evi" presi in esame con la mente il più possibile sgombra da preconcetti (anche se alcuni residui inevitabilmente rimarranno sempre in ciascuno di noi).
Mettersi in ascolto con lo scopo primario di tentare di comprendere le complessità del flusso storico: ecco, già il diporsi in questo atteggiamento mentale è un buon passo d'inizio per affrontare la conoscenza di epoche e di popoli.

Non solo spazzare il campo da ogni sorta di pregiudizio, dunque, ma addirittura mettersi nell'ottica che un giudizio definitivo non lo si vorrà avere mai. Una posizione del tutto ideale, ovvio, perchè l'istinto di giudicare è insito nella natura umana stessa. Ma pur sempre un ideale che va tenuto costantemente dinnanzi quando si affronta ogni atto del conoscere.
Conoscere nuove idee, conoscere nuove persone, conoscere nuovi luoghi, conoscere nuovi sentimenti: sempre tenendo presente che non li si conoscerà mai sino in fondo, perchè ciascuna di queste cose è un'entità complessa, in evoluzione, in progressione, ed alla fine della fiera, infinita.
Compresi i fatti storici del passato lontano: la loro comprensione non è mai definitiva. Anzi, più tempo si frappone all'urgenza ed alla passionalità bruciante dei fatti vissuti in presa diretta, più l'equilibrio e la capacità di dipanare la matassa di cause e concause storiche si perfezionano.

Ecco insomma, cari amici: l'andar per pensieri è pratica eccitante e foriera di divertimento gratuito, ma come vedete può condurre facilmente a partir per la tangente.
Dovevo parlare di Pellirosse ed ho finito per disquisire di equilibri conoscitivi. Per cui, al momento sospendo qui la mia trattazione e vi rimando ad una seconda puntata sull'argomento indiani d'America.
Non senza avervi anticipato prima che la recente visita fattami dai Pellirosse è dovuta proprio all'elegante tometto che potete osservare sempre nella foto: «Storia degli indiani d'America» di Philippe Jacquin.




giovedì 6 agosto 2009

Tre fave per un piccione


Ebbene sì, carissimi amici viandanti per pensieri, alla fine è accaduto.
L’«Irreparabile» ha fatto il suo beffardo corso.
E’ bastata una sola mezza mattinata, perché il qui presente cantore degli idilli agresti, il qui scrivente fustigatore delle mode motoristiche, il qui “stracciante sfericità altrui” riguardo alla mala pianta del consumismo, bruciasse in un batter d’occhio un anno speso a pontificare e a lanciare strali intorno a queste tre tematiche cruciali.
«…Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico, sono ampio, contengo moltitudini…» poetava qualche tempo fa il buon Walt Withman.
Ma allora cosa dovrei dire io, dopo quello che mi è successo stamattina: sono ampio, contengo petroliere?
Ma andiamo per ordine…venghino, sior siori venghino, che andiamo a cominciare: qui si narrerà la istoria completa del piccione e delle tre fave della contraddizione…bambino là in fondo stai bravo, non sparare le caccole in mezzo all’onorevole pubblico, che se no chiamo l’Uomo Nero…

Me ne andavo bel bello (va beh, nel mio caso calza più “brut brutto”…) stamattina in auto alla volta della città e già subodoravo qualcosa che non andava.
Le strade erano piuttosto sgombre, complice il clima vacanziero e l’orario per una volta non antelucano, tanto che iniziavo a preoccuparmi del fatto che stessi apprezzando una certa gradevolezza nell’atto del guidare.
«Ohibò…e che perfido maleficio sarà mai codesto?…io che reggo un volante con piacere?...», mi domandavo sospettoso.
Il sospetto cammin facendo si è tramutato in panico, constatando di man in mano che non stavo mandando alla malora nessuno dei radi automobilisti che incrociavo.
Di contro alle ottomilatrecentoventiquattro maledizioni nelle quali solitamente mi profondo ogni mattina ordinaria di viaggio lavorativo verso l’ufficio, in tutti i 30 km. del tragitto odierno mi sono concesso solo un bonario “ca’t végna un acìdént a té e a c’la vàca ad tù ma’…” all’indirizzo di un simpaticone che ad un incrocio in cui mi stavo per immettere, mi manifestava il suo preclaro diritto di occupare una corsia e mezza, anziché l’ordinaria semi-porzione di carreggiata prescritta ad ogni bastardo qualsiasi.
Ma il mio panico stupefatto si è a sua volta evoluto in sbalordimento generale una volta che ho fatto ingresso nelle strade abitualmente più trafficate della città.
Cosa non hanno visto i miei occhi…
Cittadini solitamente calcanti il pesante piedone della guerra automobilistica sull’acceleratore dei loro veicoli, che invece oggi parevano tutti dei lord Brummel del motore: gente che lasciava passare i pedoni col radiatore a fare l’inchino, precedenze rigorosamente interpretate, piccole curve e rotatorie prese su con cognizione.
Ci mancava poco che dai finestrini delle auto si vedessero spuntare le mani dei rispettivi conducenti protese nell’atto di offrire un Martini con tanto di oliva a ciascuno degli altri circolatori motorizzati.
Addirittura, nel mezzo di questo clima pastoral-viabilistico, ad un certo punto mi è quasi parso di vedermi affiancare da un tizio, che abbassando il finestrino mi annunciava: «Passa pure da casa mia se vuoi…ho lasciato mia moglie nel letto, uscendo…ha già fatto gli “anta” ma si mantiene un bijou e una botta la merita sempre…fai con comodo, non me la prendo per oggi…».
Ecco, forse non è andata proprio così e questo probabilmente l’ho solo immaginato, ma fatto sta che ad un certo punto mi son ritrovato ancora a considerare con orrore fra me e me: «…Ma lo sai che la città non mi dispiace?...».
Sì, signore e signori della corte, lo confesso: io, proprio io Egidio Calloni…ah no, ho sbagliato: questa era solo una reminiscenza dalle mie vetuste letture dei fondamentali periodici «Il Monello» e «L’Intrepido»…dicevo dunque, io, proprio io che da circa un anno vi tartasso le aiuole sproloquiando di campagnolismi assortiti, mi sono sorpreso in ammirata ed incoerente considerazione dell’ambiente urbano.

Ma il momento più gravemente contraddittorio della mia mattinata doveva ancora venire, perché poi, non pago del delirio di incoerenza in cui mi trovavo ormai a naufragare, mi sono recato niente meno che al Grande Centro Commerciale (mea culpa, mea maxima culpa…) e qui mi sono immolato sul gradino più altamente inutile della futilità consumistica.
Ho acquistato un oggetto, auto-persuadendomi che mi servirà per riporvi la macchina fotografica, ma ben consapevole in cuor mio del reale motivo iper-frivolo della compera.
L‘ho comprato solo perché non ho saputo resistere al “look da cartone animato” che promanava da questo coacervo di tela e vellutini.
Tanto che non saprei definirlo altrimenti che con un termine in stile “Merrie Melodies”: si tratta di una “borsinina” per la fotocamera (comunicazione di servizo: Farly, mandami pure a casa il conto della pomata che dovrai procurarti per curare l’eczema causato da questo doppio diminutivo carpiato con avvitamento infantile).
La gravità del mio gesto la potete commisurare in proporzione di quanto riportato nell’immagine, ove l’oggetto rifulge in tutta la sua “borsininità”.
Lo sfalsamento dimensionale dato dal primissimo piano non vi tragga in inganno.
Fidatevi, è veramente una “borsinina”: 18 x 12 x 10 cm.
Non vi sembra quasi di vederla a tracolla di Bugs Bunny quella volta che doveva recarsi in vacanza a Pismo Beach facendo tappa a La Jolla?
Tra l’altro, una volta a casa mi sono accorto che il rito supremo dell’inutilità consumistica era completato dal fatto che la mia reflex nella “borsinina” ci sta dentro appena appena.
Diciamo che, anche in questo caso, la fotocamera ci entra, e giustamente, in maniera “cartoonistica”.
Infatti, quando si chiude il gancetto anteriore, la “borsinina” si inciccisce talmente che sembra quasi di immaginare la reflex là dentro pressata come Tom quando, al termine di un inseguimento con Jerry, si ritrova incastonato in un barattolo. Oppure, la sua gonfiezza ricorda lo stato in cui si ritrova Silvestro uscito da una centrifuga in lavatrice.

Insomma, è andata così, cari amici: mi sono reso colpevole di triplice contraddizione aggravata da futili motivi.
Ora per espiare dovrò studiarmi a memoria le «Bucoliche» di Virgilio, per poi andarle a recitare alla “Sagra del Cotechino Strabollito”, non senza aver introdotto la serata con «Il lamento della scavatrice» di Pasolini.
E per completare il mio atto di contrizione, prometto di visionare buona parte della filmografia di Akira Kurosawa, con qualche assaggio del «Decalogo» di Krzysztof Kieslowski (…voi riderete, ma la cosa più grave è che questa parte della penitenza L’HO GIÀ FATTA!!!)



mercoledì 5 agosto 2009

Gli dèi dell'alfabeto


Oggi vi ho pensato, amici blogger tutti.
Anzi: oggi "ci" ho pensato.
Ho pensato a noi che ci nutriamo di parole, che mangiamo sintassi e poi ci alitiamo semantica in faccia l'un l'altro.
Ho pensato a noi onnivori sillabici, che come tanti segugi da tartufo ci indaghiamo vicendevolmente le scritture, alla ricerca del profumo iluminante e misterioso di una gemma di senso e di bellezza interrata in una qualche frase altrui.
Specularmente, ho pensato ancora a noi che cerchiamo di disseminare il terreno delle nostre narrazioni di potenziali spunti che possano affascinare ed ammaliare l'immaginato lettore come preso nel laccio di una subitanea folgorazione.
Ho pensato a tutto questo stando davanti ad un libro, naturalmente.
Dall'altra parte di quella sottile cortina "bianco-allitterata" della pagina che periodicamente ci calamita dentro di sè e ci risucchia nel suo mondo "numinoso".
Un mondo della cui sostanza epifanica ho avuto ancora una volta conferma, per il tramite di una nuova, fascinosa ed "olimpica" epifania del lettore. Naturalmente.

***

«...Eppure ci fu un tempo in cui gli dèi non erano innanzitutto una consuetudine letteraria. Ma un evento, una apparizione subitanea, come l'incontro con un bandito o il profilarsi di una nave...[...].
Poiché, per noi, tutto ha inizio con Omero, ci chiediamo allora: come viene nominato, nei suoi versi, questo evento? Quando scoppia la guerra di Troia, già gli dèi frequentano meno la terra rispetto a un'età precedente...[...].
Ogni età primordiale è un'età in cui si dice che gli dèi si sono quasi dileguati. Soltanto a pochi, prescelti dall'arbitrio divino, gli dèi si mostrano:
"Non a tutti appaiono gli dèi in piena evidenza", enargeîs, ci dice ancora l'Odissea. Enargeîs è il terminus technicus dell'epifania divina: aggettivo che contiene in sé il bagliore del "bianco", argós, ma finirà per designare una pura indubitabile "evidenza". Quella specie di "evidenza" che poi venne ereditata dalla poesia. Ed è forse il tratto che la differenzia da ogni altra forma...[...].

Spostiamoci ora alla scena di oggi, quale appare ogni giorno sotto ai nostri occhi: innanzitutto, gli dèi ci sono ancora. Ma non sono più una sola famiglia, per quanto complicata, che abita in vaste dimore sparse sulle pendici di una montagna...[...]...Il potere delle loro storie continua ad agire. Ma la situazione ha questo di peculiare: che la composita tribù sussiste ormai soltanto nelle sue storie e nei suoi idoli dispersi. La via del culto è sbarrata...[...].
Questa, si direbbe, è diventata la condizione naturale degli dèi: apparire nei libri. E spesso in libri che pochi aprono. E' forse un preludio all'estinzione? Solo in apparenza. Perchè nel frattempo tutte le potenze del culto sono migrate in un solo atto, immobile e solitario: quello del leggere.
Per un immane abbaglio il mondo, obnubilato dall'intossicazione telematica, si pone questioni piuttosto vacue sulla sopravvicenza del libro. Mentre il fenomeno che sta davanti a noi e non viene nominato è un altro: l'altissima, inaudita concentrazione di potenza che si è addensata, e si sta addensando, nel puro atto del leggere.
Che davanti agli occhi ci sia uno schermo o una pagina, che vi scorrano numeri, formule o parole, nulla cambia: si tratta pur sempre di lettura.
Il teatro della mente sembra essersi dilatato, per accogliere schiere di segni in attesa, incorporati in quella protesi che è il computer. Ma, con superstiziosa sicurezza, tutti i sortilegi e tutti i poteri vengono attribuiti a ciò che appare sullo schermo, non alla mente che lo elabora - e innanzitutto lo legge.
Eppure, che cosa potrebbe essere altrettanto avanzato tecnologicamente quanto una trasformazione che avviene in modo del tutto invisibile come all'interno della mente?
Il processo è carico di conseguenze nascoste: anche se la mente è ancora rudimentale, congiungendosi con lo schermo a formare un nuovissimo Centauro essa si abitua a vedersi come un teatro iluminato...[...].
E già ora negli interstizi di quel teatro si aprono, davanti agli occhi di chiunque, le vaste caverne dove risuonano, come sempre, i nomi degli dèi...»

"La letteratura e gli dèi"
Roberto Calasso - 2001



martedì 4 agosto 2009

Midsummer night's bullshit


Mi lamentavo con un collega di lavoro a proposito della sfortuna cronica che in certi periodi della vita sembra ti si avvinghi alle caviglie, facendoti fare dei ruzzoloni ad ogni tentativo di compiere un passo avanti in qualsiasi avventura dell'esistenza tu ti voglia imbarcare.
«Ah!!!...Se solo potessi azzeccare il 6 al SuperEnalotto, alla prossima estrazione...» ho sbottato ad un certo punto.
«Ma la schedina l'hai giocata almeno?...» mi fa lui.
«Ma scusa...» ho ripreso ancora io, «se deve essere culo, che sia culo fino in fondo: io "pretendo" di trovare la schedina vincente direttamente passeggiando per strada, scivolata fuori dalla tasca dell'incauto giocatore distratto. Già porto fuori il cane a pisciare. Poi riporto in casa il cane pisciato. Ecchéccaspita, anche la schedina adesso...mica potrò fare tutto io, eh?!?!...». (*)

(*) = Per dirla proprio tutta, io il cane non ce l'ho nemmeno...