lunedì 29 settembre 2008

Io mi son un che quando Amor mi spira, noto…

(Foto di Gillipixel)


Qual è il motivo che spinge a creare un proprio blog? Non mi riferisco alle finalità spicciole evidenti, come ad esempio la passione per certi specifici argomenti, tanto per dire la cosa più banale. Mi domando invece se esiste una motivazione profonda, che nasce da un’esigenza intima molto radicata. Io una mezza idea ce l’avrei. In qualche modo c’entra una teoria del grande piscopedagogista inglese Donald Woods Winnicott: “lo stare soli in presenza della madre”.

Non sono un esperto di psicologia, e quindi non mi addentro più di tanto in perigliosi territori nei quali rischierei di perdermi miseramente. Mi tranquillizza tuttavia il fatto che, se in Italia dovesse parlare di certi argomenti solo chi è competente a riguardo, allora potrebbero stare zitti in tanti. Da quel poco che ho letto, dunque, mi sembra di ricordare che un po’ tutta la meditazione di Winnicott è caratterizzata dall’utilizzo di concetti paradossali per spiegare i fenomeni fondamentali della crescita. “Lo stare soli in presenza della madre” è uno di questi affascinanti passaggi nella vita del bambino. Per non rischiare di dire eresie, mi rifaccio ad uno testo trovato in rete, uno scritto di Laura Tussi, elaborato a partire proprio dal saggio di Winnicott, «Gioco e Realtà»:

“…La solitudine è un requisito, è una capacità della maturità che deve essere raggiunta, infatti il paradosso ultimo è l’esperienza dell’infante di stare solo pur in presenza della madre e consiste nella contraddizione tra solitudine soggettiva del bambino e la presenza oggettiva della madre. In questa fase considerare la solitudine del bambino significa alludere al suo rapporto con la madre. Lo stare soli in presenza di una madre aiuta il bambino a elaborare gradatamente l’assenza reale ed effettiva di lei…”.

Ecco, ora, non ve lo saprei spiegare meglio, né tanto meno dimostrare, ma in qualche modo mi sembra che nell’esperienza del curatore di un blog entri in gioco un meccanismo simile. O meglio, questo fondamentale passaggio dell’infanzia viene riportato alla luce in una forma più matura ed adeguata alla dimensione adulta (come lo stesso Winnicott fra l’altro sostiene avvenire con tanti altri paradossi infantili, tipo il gioco, che si ripropone nell’adulto sia in forme ludiche più complesse, oppure anche come “pulsione” verso le espressioni artistiche).

È vero che il concetto si può applicare in generale anche ad ogni esperienza di avvicinamento a questa fascinosa forma di comunicazione che è la scrittura, un’esperienza nota agli umani da secoli. Ma in un blog e in genere nel comunicare attraverso internet, per le peculiarità di questo mezzo e con la forte complicità anche dell’anonimato (in molti casi, non in tutti, certo), credo che l’esperienza dello “star soli in presenza di” si affermi in maniera più intensa.

Almeno, questo era il pensiero al quale mi piaceva andare dietro stasera.

domenica 28 settembre 2008

Every breath you take...

(Foto di Gillipixel)

“…Un romanzo non è un'allegoria […] E' l'esperienza sensoriale di un altro mondo. Se non entrate in quel mondo, se non trattenete il respiro insieme ai personaggi, se non vi lasciate coinvolgere nel loro destino, non arriverete mai a identificarvi con loro, non arriverete mai al cuore del libro. E' così che si legge un romanzo: come se fosse qualcosa da inalare, da tenere nei polmoni. Dunque, cominciate a respirare. Ricordate solo questo...“.

Leggere Lolita a Teheran” - Azar Nafisi (2003)

Avvicinandosi alla lettura di un’opera narrativa di qualità artistica elevata, capita di imbattersi in passaggi chiave che riescono a suscitare in noi una sorta di rivelazione interiore, che partecipa al tempo stesso del senso dello stupore e di quello della conferma. E’ come se di colpo venisse fatta luce su un aspetto della vita del quale, pur essendoci sempre resi conto, possedevamo dentro di noi una consapevolezza più intuita che definita, fatta di soli tasselli sparsi e frammenti disordinati. Il pregio del grande narratore risiede nella capacità di saper dar forma a queste verità sotterranee, incorniciandole in una storia che contemporaneamente possiede sia il dono dell’evidenza universale, sia la presa diretta sulla fugacità del vissuto particolare, riuscendo in questo modo a non smarrire l’efficacia del contatto più intimo con i significati dell’esistenza umana, colta quasi come sospesa sui momenti stessi del suo compiersi

martedì 23 settembre 2008

La caduta dei muri...

(Foto di Gillipixel)

“…Obiettate che pubblicità e propaganda non sono paragonabili, perché una è al servizio del commercio e l’altra dell’ideologia? Non capite niente. Circa cent’anni fa in Russia i marxisti perseguitati iniziarono a riunirsi segretamente in piccoli circoli per studiare il Manifesto di Marx; semplificarono il contenuto di quella semplice ideologia […] quando il marxismo divenne noto e potente in tutto il pianeta, di esso non restava altro che una raccolta di sei o sette slogan […] da tempo ciò che è rimasto di Marx non costituisce più un sistema logico di idee […] a buon diritto possiamo parlare di una graduale e planetaria trasformazione dell’ideologia in imagologia […] La realtà era più forte dell’ideologia […] l’imagologia è più forte della realtà […] i sondaggi d’opinione sono lo strumento decisivo del potere imagologico […] i risultati dei sondaggi sono divenuti una sorta di realtà superiore, oppure, per dirla diversamente: sono diventati la verità. I sondaggi d’opinione sono un parlamento in seduta permanente che ha il compito di creare la verità…“

L’immortalità” - Milan Kundera (1990)

Questi stralci del romanzo di Milan Kundera, grande maestro del paradosso, riecheggiano per certi versi un fondamentale concetto sociologico formulato agli inizi del ‘900 dall’economista Vilfredo Pareto (1848-1923): le azioni non-logiche sono quelle che giocano un ruolo di gran lunga preminente nel determinare le dinamiche della vita sociale. Solo in apparenza il filo conduttore della razionalità tiene collegate cause ed effetti coi quali le nostre scelte di vita sono chiamate a confrontarsi: in realtà, l’affettività, la potenza evocativa dell’estetica, il sentimento, sono i veri motori profondi del comportamento, anche in quegli aspetti che sembrerebbero frutto insospettabile del calcolo e della ponderazione.

Una forte conferma al discorso si è avuta da quando il cammino della storia ha fatto spalancare il sipario del disinganno sulle ideologie planetarie del ‘900: il messaggio fondamentale che di quelle visioni del mondo dalle masse veniva esteriormente percepito, aveva a che vedere soprattutto con una dimensione sentimentale, amplificata dalla forza dei potenti strumenti estetici che venivano messi in gioco.

Per quanto riguarda l’arte, vanno infatti distinti i contenuti genuini dai contenuti sovrapposti. Tra le forme («imago») che l’arte è in grado di esprimere ed i messaggi palesi ad esse connessi, non necessariamente l’adesione si presenta univoca, genuina, effettiva e coerente. E’ vero invece che le forme dell’arte sono sempre e comunque in contatto con i meccanismi latenti più istintuali ed inesplicabili che risiedono nel nostro inconscio, anzi si può dire che ne sono in qualche modo l’espressione diretta che tenta di spiegarle. L’arte possiede dunque una sua forza profonda ed autonoma, in grado di fagocitare e piegare a favore della propria immensa possanza persuasiva qualsiasi contenuto, cosiddetto razionale, «di superficie». Essa agisce in presa diretta sull’anima ed opera con i significati che di quest’ultima sono propri: qualsiasi messaggio superficiale gli si vada sapientemente a sovrapporre, ne riceve una consacrazione «inverante» fortissima.

Dato per scontato il necessario salto concettuale, non è forse sulla base di meccanismi analoghi che viene vissuto ancora adesso, a livello del sentire comune, il «gioco» del io sono di destra, io sono di sinistra? E se riesce ad appassionare ancora in tal misura la nostra nazione, non è forse perché in fondo il fervore e il coinvolgimento ai quali sa dar vita sono così strettamente simili a quelli suscitati dall’altrettanto amato gioco del io tifo Juve, io tifo Inter? Le motivazioni razionali che ci stanno dietro sono fragilissime e funzionano più che altro come mezzo di auto-persuasione: tutto il resto è adesione che nasce dal cuore, supportata dalla forza dell’«estetica». Giustamente Kundera, mettendo a confronto marxismo e consumistica società dominata dai media, pone in rilievo il comune denominatore che è stato, in un caso, e continua ad essere, nell’altro, il sostegno principale di due concezioni del mondo così distanti: la potenza dell’immagine, in grado di pervadere e persuadere ad un grado tale da essere riuscita ad esaltare, in varie forme ed in varie epoche, contenuti del pensiero umano praticamente antitetici fra loro.

domenica 21 settembre 2008

Quel motivetto che fa dudu-dudù-dudu-dudù-dudùùù...

(Foto di Gillipixel)

Credo di essere stato solo pochi momenti della mia vita senza un motivetto che mi rimbombava nelle orecchie o una melodia sussurrata fra me e me. La nostra è l'epoca dell'inquinamento acustico e visivo. Siamo martellati da tutte le parti, non c'è bisogno che ve lo venga a ricordare io, soprattutto in un posto come internet. Personalmente, da un punto di vista musicale, la cosa non mi ha mai dato fastidio più di tanto, fatta eccezione per le situazioni estreme, fra le quali faccio rientrare anche quelle causate dalla pubblicità, che negli ultimi tempi sopporto sempre meno. La musica per me è necessaria ed importante come respirare: gli attimi delle mie giornate, coi rispettivi stati d'animo, sono sempre sottolineati canticcchiando o zuffolando note, spesso e volentieri pescate nel repertorio rock, ma anche classico, oppure pop di qualità.

A volte però succede che il motivetto di turno, non saprei bene come dire, ma me lo sento frusto in mente. E' un po' la sensazione che ti dà una cicca dopo che l'hai tenuta in bocca a lungo: mastichi, rumini, vai giù di nuovo di mandibola, ma non ci cavi più niente di buono. Il fenomeno, nella sua complessità (certo, ad un livello "un po' più elevato" rispetto alle mie rustiche metafore), è stato sapientemente illuminato da Giulio Carlo Argan nella sua fondamentale Storia dell'Arte. Parlando della poetica di Andy Warhol, Argan scrive:

“…Andy Warhol […] preleva l'immagine dal circuito dell'informazione di massa, come Lichtestein, ma la presenta logora, sfatta, consumata. […] Sono immagini divulgate dalla stampa quotidiana: la medesima immagine viene veduta molte volte, stampata in piccolo o in grande, in nero o a colori, sul giornale che si scorre la mattina bevendo il caffè, che legge il vicino nell'autobus, che è appeso all'edicola, ecc. Finiamo per riconoscerla senza osservarla. Come il ritornello di una canzone: a forza di sentirlo, lo impariamo a memoria e seguitiamo a ripeterlo mentalmente, anche senza volerlo, anche se "ci fa rabbia". La notizia è stata per un'ora un mito di massa: come tutti i miti, trapassa nell'inconscio senza essere passata per la coscienza...“

L'arte moderna” - Giulio Carlo Argan (1982)

Ecco, è questo che mi succede quando ho qualche "cicca frusta melodica" lì fissa a tartassarmi la mente: "mi fa rabbia". Nel tempo mi sono anche accorto che oltre a farmi rabbia, a volte mi scatta dentro pure una sorta di meccanismo inconscio di difesa, alquanto buffo a dire il vero. Canticchiando e ricanticchiando, quasi senza rendermene conto, sostituisco al testo della canzone parole improbabilissime. Tipo: una volta mi tormentava un pezzetto della canzoncina di "Jeeg Robot d'acciaio" (...oh, portate pazienza...): "...se dal passato arriverà, una nemica civiltà...". La mia ribellione mentale, inconscia ed involontaria, la tramutò così: "...se dal passato arriverà, una fottuta civiltà...". Lo stesso per un classicone di Percy Sledge, "When a man loves a woman": "....When a man loves a woman...baby, baby, baby...va a dà via al cül". Credo che non ci sia bisogno di traduzione, nemmeno per il lettore non avvezzo al dialetto nord italico.

L'altra sera, mi è risuccesso. Lavoricchiavo al pc, e come spesso faccio, tenevo accesa sotto la tele, tanto per non farmi mancare il mio sano bombardamento videosonoro quotidiano. Al contempo, non volevo essere troppo distratto, e ho girato sul programma più vacuo disponibile, un sorta di revival di canzoni del passato, su Rai Uno. Ad un certo punto, sbuca fuori un motivetto vecchissimo: "...aveva una casetta piccolina in Canadà...". Sarà stato un po' il fatto che ero concentrato e quindi più "infastidibile", fatto sta che fra me e me, anche dopo, seguitavo a canticchiare: "...aveva una casetta piccolina in Canadà...e tutti quei bastardi che passavano di là, dicevano che bella la casetta in Canadà...".

Boh...la cosa più preoccupante però, è stata che anche una volta nel letto, continuavo a ripetere la mia variante compositiva, e più grave ancora, ridevo pure da solo.

venerdì 19 settembre 2008

Gentili eccezioni

(Foto di Gillipixel)

Nel posto in cui lavoro (non sto a dire dove e cosa sia, tanto non cambia nulla ai fini dei pensieri ai quali voglio andare dietro oggi) sono impiegate anche diverse persone con limitazioni fisiche o mentali varie, in base alla relativa legge che obbliga all’assunzione di una percentuale di disabili proporzionata al numero dei lavoratori della ditta o ente in questione (ma pure questo non è il discorso che voglio affrontare). Già ci sarebbero buoni spunti per riflettere sul motivo per cui io stesso mi ritrovo a lavorare lì, ma anche qui finirei per divagare.

La considerazione che mi interessa è un’altra. Queste persone svolgono i loro compiti con diligenza ed impegno, ma naturalmente a volte si trovano più in difficoltà e questo magari causa qualche perdita di tempo fuori programma ai cosiddetti “normali”, che devono intervenire e metterci una pezza (…andrebbe poi verificato chi e cosa siano mai ‘sti “normali”).

Se uno analizzasse la cosa in termini quantitativi (parlo di un ipotetico “soggetto analizzatore” diverso da me stesso, perché l’analisi quantitativa decisamente non è fra le mie specialità), non esiterebbe a definire il fenomeno come un intralcio all’efficienza generale di quel posto di lavoro (e qui vi arriva la conferma definitiva circa il fatto che l’ipotetico “soggetto analizzatore” non potrei decisamente essere io, dato che non è di certo mio costume perdere il sonno preoccupandomi dell’efficienza dei posti di lavoro).

Da un punto di vista qualitativo tuttavia, il quadro cambia decisamente in senso favorevole. Chi è costretto a staccare dal proprio compito per questi piccoli momenti di assistenza si ritrova più o meno costretto ad entrare in una dimensione psicologica particolare: deve fare i conti con il senso del limite e della comprensione. Non parlo ovviamente di un atteggiamento pietistico, che qui non c’entra niente. Intendo invece dire che chi è chiamato a “supplire” deve fare uno sforzo per capire dov’è il “confine” dell’abilità dell’altro e calarsi nel suo modo di vedere le cose.

Sul momento, fra i meno pazienti, possono nascere anche “micro-incazzature” malcelate, oppure in un secondo tempo, moti di ironia un po’ crudele scambiata dietro alle spalle. Certo, non sono mica qui a raccontarvi il seguito di Alice nel suo paese delle meraviglie.

Ma l’effetto più importante che ne deriva è che alla fine tutto l’ambiente di lavoro risulta ingentilito. Queste persone, anche semplicemente con la loro presenza, introducono una nota di delicatezza, che si riverbera in termini di serenità su tutti quelli che lavorano lì.

Una bella conferma del fatto che due più due non fa quasi mai quattro.

venerdì 12 settembre 2008

Niente trucchi da quattro soldi

(Foto di Gillipixel)

Questa vorrebbe essere un’«epifania del lettore» a scatole cinesi, con piccoli rimandi fra libri, ma molto meno impegnata delle altre inserite finora. Più che altro sono considerazioni affettuose verso i libri, la parola scritta, lo scrivere e il leggere.

Leggevo un bel libricino, una breve raccolta di saggi sulla scrittura: «Il mestiere di scrivere», di Raymond Carver (1938-1988). Avevo già sentito parlare di questo autore americano, soprattutto come grande scrittore di racconti e storie brevi, ma non avevo mai letto niente di suo. Già è stato strano dunque conoscerlo così, dalla porta di servizio. Davvero una piacevole conoscenza, direi. Nei vari scritti contenuti in questo libro ci sono indicazioni su quella che Craver riteneva l’essenza dello scrivere. Indicazioni molto preziose, soprattutto quella che riguarda la sincerità dello scrittore, o anche solo semplicemente dello scrivente. Una delle raccomandazioni di Carver, divenuta poi anche titolo di un suo libro, è «niente trucchi da quattro soldi». Scrivere onestamente è la base da cui partire se si vuole ottenere almeno un minimo di considerazione per le cose che raccontiamo (apprezzo molto questa cosa perché in tante occasioni sento io stesso il rischio di cadere in trucchetti retorici di ogni tipo, anche in buona fede intendo).

In questo senso, anche dalla sua bella prosa elegantemente asciutta, ho sentito subito che Carver si inserisce a pieno titolo nella grande famiglia di alcuni miei autori USA prediletti: Mark Twain, Ernest Hemingway, F. S. Fitzgerald, J.D. Salinger, per arrivare a Philip Roth, Don De Lillo, Paul Auster e un po’ anche Michael Chabon (anche se quest’ultimo lo conosco meno). Il fatto più piacevole è stato però che affrontando la lettura di Carver son tornato con la mente proprio ad un passo di J.D. Salinger, contenuto nel suo capolavoro «The catcher in the rye»:


«…Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira…».


J. D. Salinger - "Il giovane Holden" (1951)


Carver ti fa sentire proprio così mentre lo leggi: ti sarebbe piaciuto sentirlo per telefono e parlare con lui del più e del meno. Non vorrei che questa mia asserzione fosse fraintesa come una gaffe idiota: so benissimo che il povero Carver è morto ormai da vent’anni.

Ma i punti in proposito sono due.

Primo: pur sapendo benissimo che il buon Raymond non può più mettere nero su bianco le sue frasi adamantine, mentre leggi le sue pagine lo puoi sentire estremamente vivo. Questa sarà anche una banalità, ma è una delle magie più intense della scrittura: attraverso di essa gli uomini e le donne vivono tempi che non sono più il loro, ed emozioni, idee, sentimenti, moti dell’animo vissuti nel passato sono urgenti e attuali come se fossero per sempre congelati in un presente senza fine.

Secondo: l’idea di chiamare veramente l’autore al telefono, come sentiva di dover fare il vecchio Holden Caulfield ogni volta che gli capitava una lettura giusta, naturalmente va intesa come una dimensione dello spirito, più che un’attitudine concreta effettiva. Ricordo un aneddoto raccontato da Corrado Augias: una volta si trovava a Londra e gli si presentò l’occasione di conoscere di persona uno dei suoi scrittori prediletti di sempre, Philip Roth, grazie all’invito ad un party nel quale sarebbe stato presente appunto l’autore di «Lamento di Portnoy» e «Pastorale americana». Stupendosi lui per primo di sé stesso, Augias declinò l’invito: non voleva che la conoscenza diretta della persona in carne ed ossa, in qualche modo inevitabilmente interferisse con l’immagine immensa dello scrittore che si era formato leggendo le sue pagine.

Dicevo in apertura che questa voleva essere un’«epifania del lettore» a scatole cinesi: chiudo allora citando un’ultima preziosa scatolina narrativa che ho rinvenuto proprio nel bel libro di Carver, che ben si attaglia a tutte le piccole riflessioni scritte sopra:


«…La letteratura dà notizie che rimangono attuali…».


Ezra Pound


La più breve delle «epifania del lettore» che ho richiamato finora, ma forse una delle più potenti, se la sapete leggere come si deve.

martedì 9 settembre 2008

Finchè vedrai sventolar bandiera gialla...

“…Ci circondano da ogni parte, a migliaia, i genitori, spaventati dalla nostra intensità. E’ questo che li spaventa. Noi crediamo davvero. Ci educano a credere, ma quando gli mostriamo la vera fede chiamano lo psichiatra e la polizia. Noi sappiamo chi è Dio, questo ci rende pazzi di fronte al mondo…“

Mao II” - Don De Lillo (1991)

La sacralità del passaggio dall’età giovanile a quella adulta. Un momento cruciale ed intensamente significativo nella vita di ogni essere umano, forse la fase più critica nella formazione della personalità di un individuo. Il prezzo di una complessità che va pagato per riuscire a diventare grandi. Tanto complesso è quel momento della vita che, pur essendoci passati tutti, a distanza di anni se ne perde l’intensità del senso che ne provavamo vivendolo. Un periodo affrontato per certi versi come una malattia che ci ha colti impreparati. Paura e promessa, nel corso di quegli anni di transizione, camminano fianco a fianco, nella percezione continua di una provvisorietà, che urgentemente chiede di essere in qualche modo rivolta in stabilità. Un’età attraverso la quale si cammina come avvolti in una sorta di trance esistenziale, che trasfigura con un manto di stupore esperienze note anche fino a poco tempo prima, ma che ora si mutano in fonte di nuovi dubbi ed esaltanti prospettive. Il giovane che procede avvolto in questo alone di novità non ne coglie fino in fondo i confini, ma si sente come investito di una forza mai provata prima, una forza capace di cancellare ogni tipo di limite di fronte a sé, di scardinare il giogo in cui le precarietà dello spazio e dal tempo finiti ci costringono. Chi invece è ormai approdato alla più stabile dimensione adulta, vive il ricordo di quell’età di trasformazioni con un sentimento sospeso fra la nostalgia e il sollievo, come il superstite di un viaggio avventuroso che nella memoria passi in rassegna i mille luoghi affascinanti incontrati lungo il percorso, ma che allo stesso tempo consideri l’altrettanto cospicuo numero di insidie scampate. I fantasmi dell’età di passaggio rischiano infatti ancora di far calare le proprie ombre sul porticciolo di certezze a cui si è ormai approdati con l’età adulta, minaccia questa che potrà essere tenuta sotto controllo lungo tutto il corso degli anni a venire, ma la cui costante presenza nascosta non cesserà mai di farsi sentire. Per questo motivo il confronto fra generazioni vive attraverso un paradosso che continuamente si rinnova: nessuno, attraversandola, è mai riuscito a comprendere fino in fondo il senso completo della fase della maturazione, nel bene e nel male, in tutti i suoi aspetti e potenzialità. Chi invece quell’età l’ha ormai superata non ne coglie più la carica profetica, ma sente piuttosto la necessità, tutelando i giovani ai quali è legato da vincoli affettivi, di difendere anche se stesso da pericoli che si percepiscono non ancora completamente scongiurati per quanto riguarda il prosieguo della propria stessa vita di adulto.

venerdì 5 settembre 2008

Learning to fly

(Foto di Gillipixel)

“…A volte il profumo di una saponetta (o di qualche altro oggetto di uso domestico) mi riporta improvvisamente alla mente un ricordo d’infanzia o un luogo dimenticato. E allora mi scopro a pensare quanti altri ricordi sono profondamente nascosti nei recessi del mio cervello; in realtà mi sembra che il mio cervello sia l’ultima delle grandi terre sconosciute e provo una sensazione di stupore all’idea che forse un giorno vi scoprirò nuovi mondi. Immaginate il continente sommerso di Atlantide e tutte le isole dell’infanzia sommerse e in attesa di essere scoperte. Lo spazio interiore che non abbiamo mai esplorato adeguatamente. I mondi dentro i mondi dentro i mondi. E la cosa meravigliosa è che questi mondi ci aspettano. Se non riusciamo scoprirli è solo perché non siamo ancora riusciti a costruire il veicolo giusto (nave spaziale o sottomarino o poesia) sul quale partire alla loro ricerca. E’ in parte per questa ragione che scrivo. Come faccio a saper cosa penso se non scrivo? E’ questo il sottomarino o la nave spaziale che mi porta nei mondi sconosciuti del mio cervello. Ed è un’avventura senza fine, inesauribile. Se imparo a costruire il veicolo giusto posso scoprire sempre più territori. E ogni nuova poesia è un nuovo veicolo, studiato per penetrare un po’ più a fondo (o per volare un po’ più alto) di quello precedente…“

Paura di volare.” - Erica Jong (1973)

La parola scritta può essere considerata come il medium conoscitivo più longevo, lo strumento di “accumulazione culturale” che conserva più fedelmente le proprie caratteristiche originarie. Un pezzo di pietra, papiro o carta, inciso o sporcato con sapienza dalla ripetizione di pochi tratti ai quali si è attribuito un significato condiviso entro un codice definito: questi grosso modo sono tutti i fondamentali adeguamenti storici ai quali questa forma di espressione comunicativa ha dovuto sottostare per poter continuare a rimanere uno dei principali strumenti di scambio informativo fra gli uomini. La stampa a caratteri mobili ha rivoluzionato il grado di diffusione, ma non ha in fin dei conti mutato la sostanza delle cose.

Niente di simile si può affermare riguardo ad altri supporti attraverso cui la conoscenza umana è stata nei secoli incanalata. Solo alcuni esempi. L’immagine: fra i graffiti istoriati sulle buie pareti delle grotte dall’uomo preistorico e la moderna dinamicità visiva del cinema, di mezzo ci passano centinaia di anni e di esperienze rinnovate, i corpi appiattiti nei mosaici bizantini, l’illusorietà prospettica con Piero Della Francesca, la fotografia e le attuali infinite possibilità offerte dal computer, solo per citare alcuni passaggi. Considerazioni analoghe si possono fare riguardo al suono. Nonostante l’assoluta impalpabilità che coinvolge l’ascoltatore, dato finale mantenuto costante in ogni epoca, anche la “conoscenza sonora” ha subito nel tempo notevoli mutazioni per quel che concerne i suoi aspetti materiali di sostegno: insieme agli strumenti utilizzati per produrre contrappunto, armonia sonora, melodia, musica, sono straordinariamente cambiate le forme e i modi di concepire il suono, basti prendere in considerazione solamente il centinaio di anni che ci hanno preceduti ed osservare che differenza passa tra un valzer di Strauss e certi passaggi strazianti segnati dalla chitarra distorta di Jimy Hendrix.

Nel caso della parola scritta, le cose sono andate diversamente. Nei tratti sostanziali della questione, si tratta ancora oggi del medesimo strumento usato da Dante e Boccaccio: la constatazione è tanto apparentemente insignificante ed oziosa, fino a che non si considera quanto è invece potente la forza evocativa e conoscitiva di questo che possiamo considerare fra tutti, come il più neutrale dei medium. La scrittura può contare solo su pochi elementi limitati per trasmettere significato, ma è proprio da questa caratteristica che trae la sua capacità universalizzante, in grado di assumere in sè tutte le altre espressioni di transizione informativa: non tratta elementi visivi, ma non di meno sa convogliare immagini senza limite; non ha a che fare direttamente con note, toni o rumori, ma è in grado di trasmettere suoni di ogni tipo, fatti scaturire direttamente nella fantasia del lettore; non si serve di odori, colori, né di gusto, è statica, ma non c’è niente di più normale che ritrovare tratti di una trasversalità sinestetica senza confini nei brani più belli e memorabili dei grandi narratori di tutti i tempi.

Per questa sua serie di peculiarità, la parola scritta partecipa dunque nel medesimo tempo di una grande complessità e di una stupefacente semplicità: è anche la più “democratica”, la più accessibile fra le forme di espressione umane. Dalla sua parte va messo in conto l’uso quotidiano della parola in senso lato, che trasmette a tutti i parlanti anticipazioni della familiarità che potranno continuare ad approfondire nella versione “nero su bianco”. Anche per questo motivo, la parola scritta continua forse a rimanere lo strumento più immediato, diretto e a disposizione di tutti, per avvicinarsi a forme alte di espressione artistica.

giovedì 4 settembre 2008

Quanta strada nei miei saldali…quanta ne avrà fatta Bartali

(Foto di Gillipixel)

«Il linguaggio è la casa dell’Essere», diceva Martin Heidegger. E diceva bene. Così, mette tristezza vedere quanti “senza tetto” ci siano ancora in giro al giorno d’oggi.

Non mi riferisco a chi sbaglia ad usare le parole per “ignoranza”, intendendo il termine nel senso più neutrale e generico possibile. Quello può capitare a tutti, tanto alle persone di una certa cultura, quanto a chi per varie congiunture della vita ha avuto poco a che fare coi libri, per di più in molti casi proprio suo malgrado.

La lingua italiana è talmente vasta che credo non basterebbero due vite per arrivare a conoscerne tutte le sfumature, ed è pure una cosa bella, perché in questo modo hai di fronte ogni giorno una specie di terra affascinante, dentro la quale poter scoprire sempre nuovi paesaggi e scorci inediti. A me ad esempio capita spesso di venir assalito da dubbi atroci sulla correttezza di un participio passato un po’ raro, oppure quando scrivo, mi ritrovo a tentennare di fronte ad una “i” da mantenere o da eliminare nel passaggio dal singolare al plurale di certe parole (“provincia”, per dirne una), come un giocatore di roulette che non sa bene se sbattere le sue fiches sul rosso o sul nero (…e non fate della facile ironia sotto i baffi sullo “sbattere le fiches”, che vi ho sentiti…).

Quelli che invece non sopporto sono i “gregari dell’espressione alla moda” e gli “esaltatori di sapidità”.

Eccellenti “gregari dell’espressione alla moda” sono i giornalisti. Naturalmente ci vuole chi scatti in testa al gruppo, chi per primo sappia creare la perla. Subito si ritrova appresso un nugolo di gregari pronti a tirargli la fuga verso il traguardo glorioso dell’insulsaggine linguistica.

Succede un grave incidente stradale causato dall’imprudenza di qualcuno che non ha saputo commisurare la sua guida alle condizioni del tempo? Subito loro, giù a far clamore: “Nebbia assassina”. Come se un giorno, mi girasse di mollare una testata contro il primo palazzo lungo la via, e poi chiamassi il 113 sbraitando nel cellulare: «…Presto! Aiuto! Correte subito! Sono stato aggredito da un muro!...».

Va beh, i giornalisti sono anche obbligati a fare come fanno, perché stanno dentro a quel meccanismo strano del “panem et circenses”. Ma i “gregari dell’espressione alla moda” che si immolano di propria spontanea volontà sull’altare degli inestetismi semantici, quelli li capisco ancor meno.

“Piuttosto che…”: ecco la peste espressiva dei nostri giorni, il morbo verbale che si propaga incontrollato sulle bocche di coloro che vogliono darsi il tono colloquiale dell’amicone dalle ampie vedute. Magari tu chiedi che viaggi han fatto nella vita e loro a dirti che, bah…fammi pensare, sono stati a Londra, piuttosto che a Praga, piuttosto che a Bali, piuttosto che a Bombay, e così via.

Peccato che in italiano “piuttosto” abbia valenza escludente, non pone in relazione due o più opzioni, ma va usato se si vuole indicare una possibilità di scelta che mette vicine due alternative che si escludono a vicenda. E allora, si può capire?...Dove minchia sei stato in viaggio?!?!?

Ci sono poi gli “esaltatori di sapidità”. Questi il più delle volte, ma non è detto, sono dei parlanti investiti di qualche ruolo ufficiale, piccoli amministratori, assessori, sindaci. Forse in virtù della loro posizione si sentono in dovere di aggiungere pomposità alle parole (son stati eletti e in qualche modo si vogliono mostrare riconoscenti verso il cittadino), finendo per infilare magniloquenze del tutto improbabili in argomenti sostanzialmente banali.

Alcune di queste chicche sono talvolta così potenti che ti potrebbe venire l’orticaria. Si astengano dalla lettura coloro che sono facilmente soggetti ad emicranie, nausee e vomito. Ho sentito cose che voi umani…tipo una sindachessa intervistata su una tele locale, che parlando dei tanti percorsi per passeggiate turistiche presenti nel suo comune, spiegava che era disponibile “un’ampia sentieristica”. Oppure un altro primo cittadino, impegnato anche lui ad interloquire televisivamente: il tema era il problema dell’acqua sotto la sua giurisdizione e non credevo alle mie orecchie quando ho appreso che dalle sue parti il cristallino liquido lo “emungono” dalle falde.

Ora, ho verificato ed il termine è tecnicamente ineccepibile, ma giuro che se mi trovo davanti una bacinella d’acqua e vengo a sapere che è stata “emunta”, fosse anche dalla fonte più pura del mondo, non la voglio vedere nemmeno per lavarmi i piedi.

E se mi capiterà di essere invitato da un “gregario delle espressioni alla moda” ad andare a vedere quel bel film con tanti effetti speciali, piuttosto che quell’altro con una regia magistrale, piuttosto ancora che quello col cast eccezionale, gli canticchierò in faccia senza remore: «…Tat-ta-ra-zazz…Tat-ta-ra-zazz…- e vai al cine, vacci tu! -…».

martedì 2 settembre 2008

Se il barbone sale in cattedra

(Foto di Gillipixel)

Ho assistito a questa scena nel cuore della città dove lavoro. Camminavo per una via centrale, molto centrale, forse la più importante di tutte per quanto riguarda diversi aspetti modaioli e d’immagine. La strada dello “struscio” per intenderci, un posto dove la puzza sotto il naso di certi individui, a certe ore di certi giorni della settimana, è talmente forte che non solo la si potrebbe annusare, ma anche vedere come una cosa viva e personificata che passeggia anch’essa rimirandosi le scarpe firmate attraverso le lenti dei propri occhiali controfirmati.

Proprio a metà della strada, c’è questo ometto in bici. Ha posato per un attimo un piede a terra, vicino ad un alto bidone dell’immondizia, un braccio ben addentro ad una delle due ampie bocche ingurgitanti del barilotto. Il percorso dei materiali attraverso le fauci “rifiutivore”, lui aveva deciso che per questa volta doveva prendere la direzione contraria all’usuale. Il bello è che faceva le cose proprio con calma. Nel suo rovistare, anche se celata là sotto, si intuiva la mano impegnata in una cernita accorta e ponderata, proprio come si fa davanti allo scaffale del supermercato, dove si ha agio di valutare misura, peso, dimensione e consistenza di svariate merci.

Ecco, tutta la sequenza dell’immagine è suonata davanti ai miei occhi come una stonatura sublime. Quel gesto, compiuto con quello “stile”, proprio in quel posto, aveva un qualcosa di terribilmente edificante.

Per contrasto, mi sono ricordato del fastidio provato tante volte l’inverno scorso in quella stessa strada nel vedere certi negozi con le vetrate scorrevoli d’entrata costantemente spalancate, mentre fuori c’erano solo pochi gradi. Un vero e proprio insulso inno allo spreco, celebrato nel nome di chissà quale ultima geniale trovata pubblicitaria. Un’assurda pretesa di invogliare il cliente ad entrare in un posto in cui sa già che compresa nel prezzo dei vestiti acquistati, una quota dei soldi sborsati l’avrà sbattuta al vento per riscaldare l’aria della strada.

La melancholia del deejay

(Foto di Gillipixel)

Abitando da sempre in un piccolo paese abbastanza distante dalla città, ho sviluppato un’esperienza da pendolare di tutto rispetto. Quei lassi di tempo trascorsi tra casa e il luogo di lavoro (o all’epoca, casa-scuola) sono una fonte di meditazione notevole. Meditazione forzata e spesso associata a stati di disagio, se non di sofferenza vera e propria, anche questo va detto. Ma pur sempre di fertile riflessione si tratta. Porzioni del tempo della mia vita ormai divenuti piuttosto numerosi, e che mi ritrovo ogni volta a considerare nella loro essenza di momenti molto delicati e sfumati di vulnerabilità psicologiche di ogni tipo.

Da un paio di giorni ho ripreso questa trafila dopo un breve periodo di ferie, e mi è capitato un fatto strano, ma forse poi non così tanto. È successo che non sopportavo l’autoradio. Ho constatato il fenomeno con un certo disappunto, devo dire. Per i discreti viaggetti che mi devo sorbire, l’autoradio è una compagnia notevole ed è stata una sensazione contraddittoria, come sentire la mancanza di una cosa che in quel momento stavo odiando.

Da mesi non mi succedeva una faccenda del genere. Pur viaggiando ad orari che concilierebbero piuttosto il desiderio di silenzio (appena sbattuto giù dal letto dalla sveglia, ecc.), di solito un po’ di musica negli ultimi tempi non la disprezzavo. In queste mattine invece, niente. Era come cercare di far abboccare i pesci dalla parte della coda.

Non a caso però ho parlato di musica. Infatti, per quanto riguarda la voce parlata che sortisce dall’autoradio, il mio rapporto è sempre stato conflittuale. Un po’ a tutte le ore. Figurarsi al mattino presto. Non saprei dire bene come mai mi succede così. Già l’atto del guidare è per me spesso una sgradevole imposizione, facile fonte di nervosismo e disappunto. Se poi si aggiunge violenza a violenza, con una voce sotto che di volta in volta si arrabatta nel tentativo di informare, convincere, pontificare, divertire, allora non ne parliamo neanche.

Quello che ho provato nelle ultime albe tuttavia aveva più il sapore dell’umana compassione. Per il dolore del povero deejay. Dove trova le forze, mi domandavo, per riuscire a chiacchierare a quest’ora del giorno, adempiendo al suo dovere di essere spiritoso e simpatico a tutti i costi, mentre io sto facendo una fatica immane anche solo a sopportare il silenzio? Chi l’ha detto che dobbiamo essere trasformati in condannati al sorriso forzato quando tutto intorno a noi sembra riflettere proprio gli stati d’animo opposti?

Se questa è la strategia adottata, si vede che funziona. Nel senso che alla fine i prodotti reclamizzati fra una forzatura gioviale e l’altra vendono, e la ruota gira bene sia per i “radiolari”, sia per gli “spottaroli”, sia per gli “inventori di bisogni”. (Breve digressione: ho digitato su google questo mio strambo neologismo, “radiolari”, e mi è uscito questo: «…i radiolari sono protozoi ameboidi caratterizzati dallo scheletro siliceo…». Funny, isn’t it?...).

Si vede che funziona, mi son ripetuto, ma io continuo a non capire bene come.

E allora mi è scattata in mente un’«epifania del lettore» a ritroso, nel senso che di solito è la lettura di un brano a far da molla alla suggestione, mentre in questo caso era stato un piccolo episodio quotidiano con relativa riflessione a farmi ritornare ad un passo letto da poco:

«…erano coetanei dell'ufficiale della guardia, uomini con baffi alla magiara e ciocche inanellate ricadenti sulla fronte, in abito nero da cerimonia o in alta uniforme. Quella sì che era una generazione in gamba, pensò il generale, mentre guardava le effigi di parenti, amici e commilitoni di suo padre. Erano uomini splendidi, benché di natura un po' schiva, poco portati a vivere in armonia col mondo, orgogliosi; però credevano in qualcosa: nell'onore, nelle virtù virili, nel silenzio, nella solitudine, nella parola data, e anche nelle donne. E quando subivano una delusione, si rifugiavano nel silenzio. La maggior parte di loro aveva trascorso in silenzio la vita intera, dedita ai propri doveri e all'osservanza del silenzio come all'adempimento di un voto…»

Sàndor Màrai - "Le braci" (1942)

lunedì 1 settembre 2008

Have you ever seen the rain...

(Foto di Gillipixel)

“…Centocinquanta anni prima [di Joyce e Kafka] Laurence Sterne ha già colto il carattere problematico e paradossale dell’azione; nel Tristram Shandy non vi sono che azioni infinitesimali; […] Questa assenza di azione (o miniaturizzazione dell’azione) è trattata con un sorriso idilliaco (sorriso che né Joyce né Kafka conosceranno e che non avrà uguali in tutta la storia del romanzo). Mi sembra di vedere in questo sorriso una malinconia radicale: chi agisce vuole vincere; chi vince procura sofferenza al prossimo; la rinuncia all’azione è la sola via per giungere alla felicità e alla pace…“

Milan Kundera - “Il sipario” (2004)

I termini fondamentali della nostra civiltà cosiddetta occidentale, così come la conosciamo e nelle forme in cui si è evoluta a partire dalle sue primarie radici filosofiche greche fino all’attuale era di predominio della tecnica sul mondo, si basano sul valore dell’azione come proprio principale “referente esistenziale”. Talmente radicata è anche nel vissuto quotidiano la fiducia verso questa sorta di “gnoseologia pragmatica”, che sovente il senso comune ne esce clamorosamente indotto a non dare il dovuto rilievo alle palesi contraddizioni che tagliano trasversalmente molti aspetti della società fondata su tali presupposti. Parallelamente si fa in questo ambito intensa la fascinazione di stare vivendo, per così dire, nel “migliore dei mondi possibili”, forti della “verificabilità immediata” della quale si pretende investito il rapporto “causa-effetto”, prodromo concettuale imprescindibile su cui si fonda l’atteggiamento pratico dell’agire direttamente indirizzato a degli scopi.

Ma non va dimenticato che la visione del mondo tipicamente occidentale, sebbene presenti nei suoi esiti principali, connaturati alla sua stessa essenza, taluni eclatanti riscontri probatorio a giustificare la propria propensione ad “imporsi” sulla realtà come da essa è intesa, rimane pur sempre un’interpretazione, ossia uno dei punti di vista possibili. Molte altre grandi tradizioni culturali (quella orientale in primis) hanno infatti guardato con estrema prudenza alla pretesa capacità di una presa diretta sul mondo progettabile e preventivabile, che attraverso la relazione “causa-effettuale” a tutta apparenza si giungerebbe ad ottenere. E francamente, il fatto che una civiltà come non mai in possesso delle più ampie conoscenze scientificamente più evolute, si ritrovi a mandare avanti ancora un mondo in cui i quattro quinti della popolazione globale vivono una vita spesso ai limiti dell’umana dignità, se non la certezza che abbiamo sbagliato tutto, almeno qualche dubbio dovrebbe farlo sorgere.

E così via esemplificando (in un modo poco lusinghiero di cui si farebbe volentieri a meno): una civiltà che ha raggiunto il più alto livello di benessere materiale di sempre, ma che ha bisogno di aggrapparsi all’ancora sempre più vasta deleteriamente offerta da psicofarmaci, tranquillanti vari, antidepressivi e droghe della più svariata natura, per difendersi dall’altrettanto notevole livello di malessere spirituale diffuso che nel frattempo è stato anche “conquistato”. Si obietterà che è solo questione di volontà politiche non attuate, di scelte mal indirizzate. Possibile. Le dinamiche in gioco e la complessità dei fattori sono tali e talmente vaste, che qualsiasi presa di posizione semplicistica risulterebbe inevitabilmente ingenua e degna di scarsa considerazione.

Proviamo tuttavia solo un attimo a cambiare punto di vista. Prendiamo in considerazione (sulla scia del pregevole brano di Milan Kundera sopra riportato) questo passaggio del “Tao te ching”, testo cinese fondamento della secolare saggezza Taoista: “La cosa più molle al mondo si precipita contro la cosa più dura al mondo. Niente al mondo è più molle e debole dell’acqua, ma nell’avventarsi contro ciò che è duro e forte, niente può superarla. Senza sostanza, essa penetra in ciò che non ha interstizi. La cosa diventa facile per essa grazie a ciò che non esiste. Così io so che il Non-agire ha il sopravvento. Insegnare senza parole e trarre profitto dal Non-agire, pochi nel mondo vi riescono. Perciò il Santo si attiene alla pratica del Non-agire e professa un insegnamento senza parole.”

Non agire. Una prospettiva concettuale totalmente opposta e contraria al senso del mondo visto dalla posizione occidentale. Cosa può insegnarci? L’idea del “Non agire” può suggerirci tanto se ne cogliamo la stretta vicinanza con l’atteggiamento condensato dal verbo “ascoltare”. Ascoltare il mondo, quello che ha da dirci, le risposte che ci rimanda quando ci addentriamo in esso. Non più solamente cercare di imporre le nostre affermazioni per piegare la realtà. Ma come fa l’acqua, appunto, renderci conto che la vita è un dialogo con il mondo e non una lezione impartita “ex-Cathedra”. Porre attenzione alle risposte e agli interrogativi che la realtà ci propone in cambio di ogni nostra scelta, la quale non finisce per portare cambiamenti solamente al nostro intorno, ma ne arreca inevitabilmente anche a noi stessi. Come succede per l’acqua, che con la sua plastica saggezza sa dialogare con le cose che incontra adeguando la sua forma ad esse, ma avvolgendole nello stesso tempo in un’armonica definizione dei reciproci confini.