Una giusta riserva di “ignoranza relativa” può essere sempre garanzia di stupori a venire. Nel senso: non sapere certe cose, può avere i suoi vantaggi. Perché quando poi ne vieni a conoscenza, la soddisfazione ti ripaga.
La conferma di questa regoletta irregolare l’ho avuta grazie alla lettura del “Tom Jones” (1749) di Henry Fielding (1707-1754). Ad un certo punto della narrazione l’autore illustra un’etimologia che ogni buon studente (o ex-studente) di liceo classico dovrebbe conoscere normalmente. Non la conoscevo, dalla qual cosa si deduce come minimo che non ho fatto il Classico. Mi riferisco alla parola “ipocrita”. Deriva da “üpokrites” o “hypokrites” (traslittero in qualche modo, per evitare di scrivere imprecisioni), che in greco antico aveva già il significato odierno, ma, molto più in continuità con la sostanza del reale, voleva dire in primis “attore”.
Il fatto che in origine il termine significasse le due cose (attore e ipocrita), ma è poi andato perdendo la sua accezione neutra, per mantenere solo quella negativa, fa pensare. Forse per i greci era sottintesa una maggiore naturalità nel dato di fatto che nella vita tutti recitiamo, senza che questo debba comportare nessuna implicazione deteriore. Assumiamo dei ruoli, vestiamo panni confezionati dalle circostanze sociali, dalle vicissitudini biografiche e così via: entro i limiti di una certa considerazione, non c’è nulla di negativo, fa parte della natura umana.
E’ strano che tutto ciò fosse linguisticamente quasi scontato per i greci, mentre per noi la nozione si è andata camuffando dietro la cortina della negatività. In fondo, i greci avevano meno occasioni (seppur di qualità elevatissima, con il teatro che in pratica loro stessi hanno inventato) di confrontarsi con la dimensione recitata vera e propria. Oggi noi invece siamo sempre immersi nell’habitat recitativo: con la tv, coi film, le letture di ogni tipo, e negli ultimi anni soprattutto con internet, supremo ambiente di “trasposizione altra” di se stessi.
Se faccio un attimo mente locale al mio comportamento quotidiano, mi sento immerso di continuo in un film. Recito anche senza volere. Ogni azione che compio, la percepisco sempre come parte di una trama generale. Il tutto avviene spesso inconsciamente. Ma non solo. Il tutto assume anche una sua caratterizzazione estetica precisa. Si agisce come se il senso dell’inquadratura, dei tempi, del ritmo, e così via, ci sovrastassero di continuo influenzando le nostre decisioni e i nostri gesti. Ci muoviamo con una telecamera e un regista interiori, sempre incollati all’animo, attenti alle nostre mosse, pronti a dare il ciak, a decretare il “buona la prima”, o a far ripetere la sequenza.
Il rischio che ne deriva è quello di mal sopportare i tempi morti, di annoiarsi quando la storia sembra non procedere, di sentirsi fuori dal copione quando non si coglie il senso di quanto accade. Per fortuna negli anni ho assunto massicce dosi di antidoto per questi inconvenienti. Ho imparato ad apprezzare i film, i romanzi o i racconti nei quali succede poco o nulla. E posso così evitare, nella mia recita personale, di considerare salti di continuità, quelle parti che invece sono un tutt’uno indissolubile con la trama generale.