Dal basso della mia introversione (spesso e volentieri sfociante in una reticenza assai poco lusinghiera), ammiro molto le persone che possono permettersi di affermare: «…Io dico sempre ciò che penso…». Tuttavia, sempre riguardo ai medesimi individui, mi sono pure spesso trovato a considerare: «…Non è che siete costretti ad affliggerci sempre ed in ogni modo, anche quelle volte in cui per la mente vi passa un’emerita stronzata...».
Ciononostante, in qualche particolare frangente, anche a me capita di sentirmi per qualche attimo permeato dal sacro fuoco dell’assoluta lealtà e schiettezza dialettica. In quelle occasioni, adattando il proclama su misura, la dichiarazione d’intenti che mi sento di enunciare, si riduce ad un più circoscritto: «…Io racconto sempre ciò che penso…».
Da uno di questi rari attimi in me così transitori, nasce lo spunto della storia che mi accingo a narrare.
Con un mio amico, tempo fa, accarezzammo il sogno di mettere in piedi un’impresa di nostra concezione e creazione. L’idea di fondo l’attingemmo dall’enorme bacino di potenzialità imprenditoriali messe a disposizione dalle cosiddette energie da fonti rinnovabili. Il fenomeno naturale in questione è misconosciuto ai più, ma non sfugge di certo al maschio medio portatore sano di ventre villoso. Forse infatti non tutti lo sanno, ma nell’incavo discreto dell’anfratto ombelicale di questi esemplari dell’umana specie, tende a formarsi periodicamente una pallottolina di lanugine dalle indecifrabili origini.
Le interpretazioni scientifiche in merito parlano di un agglomerato di pagliuzze di lana, proprio lì depositate a seguito dello sfregamento innescato fra le pelurie virili e la trama della maglietta della salute, invernale o estiva che sia, e dunque raffinate nonché selezionate da questa sorta di ecologico e spontaneo setaccio raccoglitore e concentratore.
Secondo la vulgata popolare, più poetica e leggendaria, le misteriose palline seriche sarebbero invece originate per partenogenesi a partire dalla stessa spiritualità immatura del maschio medesimo, rappresentando esse l’espressione tangibile di una sua fanciullaggine protratta oltremodo e sconfinante inopinatamente nei territori che spetterebbero ormai con maggior pertinenza all’età adulta. Un inusitato genere di manna, insomma, prodotto bislacco della non maturazione caratteriale. Un frutto maturato dall’immaturità.
Fosse come fosse, il mio amico ed io, da appassionati cultori della contemplazione ombelicale quali siam sempre stati, ci ritrovavamo con puntualità infallibile a dover rilevare la presenza di queste sferette di tessuto grezzo gentilmente deposte nei nostri rispettivi micro-marsupi setolosi. E fosse stato per qualche episodio isolato di per sé, probabilmente mai ci sarebbe scattata in mente la molla imprenditoriale. Quello che tuttavia ci instradò decisamente verso il sentiero della velleità produttiva, furono proprio l’insistenza e la portata quantitativa del fenomeno. Le soffici palline, anche quando scacciate dalla loro sede con igienistica minuzia, si riformavano sempre puntuali ed infallibili nel giro di due o tre giorni, moderne arabe fenici, e testimoni inequivocabili del “peter-panesimo” diffuso che imperversa sopra i cieli di questi nostri tempi post-moderni.
Fu a quel punto che la lampadina della “politica del fare” si accese luminosissima nell’anticamera della nostra immaginazione creativa: invece di scartare di volta in volta il prodotto peloso interno lordo (pregiatissimo PPIL), quasi fosse un ospite molesto, perché non accoglierlo come gradito pensionante nell’irsuta saletta del nostro hotel a cinque setole? Valutando quantità, frequenza delle visite e qualità della materia prima estratta, calcolammo che nel giro di poco tempo si sarebbe potuta impiantare una produzione stabile di materassi, cuscini e piumini. E anche se non avremmo potuto avvalerci della denominazione di “piumino d’oca”, forse di quella “di cinghiale” sì.
Sulle ali di simili fantasticherie, i miraggi del successo si misero a macinare vorticosi dentro le nostre fantasie foderate di pelliccia. Ci vedevamo già manager rampanti alla testa del più grande impero produttivo mondiale di pregiatissimo cachemire ombelicale. Ci figuravamo ricchi sfondati e mollemente appisolati nell’appagamento pecuniario, cullati fra due guanciali imbottiti di pura lana ecologica direttamente estratta da maschio umano setoloso.
Ma non avevamo fatto i conti con la dura realtà.
I primi ostacoli fra noi e la nostra apoteosi imprenditoriale iniziarono a frapporsi per questioni strettamente linguistiche. Un fenomeno che si manifesti nell’ambito del “reale” senza il supporto di una specifica denominazione propria, rischia quasi sempre di finire per non esistere. E così toccò in sorte alla nostra creazione produttiva “in nuce”. L’oggetto del nostro fare non aveva un nome e non poté avere nemmeno una sua esistenza.
Ci recammo dapprima alla camera di commercio per registrarci, al fine di poter avviare l’attività effettiva. Di fronte ai nostri tentennamenti, manifestati nel tentativo di far comprendere la portata rivoluzionaria di questa nuova frontiera produttiva, che tuttavia non sapevamo meglio circoscrivere entro una definizione precisa, gli impiegati addetti ai vari impicci burocratici bocciarono sonoramente i nostri intenti. Sempre per carenza di denominazioni, venimmo poi a sapere che non esisteva nemmeno un albo professionale dei produttori e trasformatori di palline ombelicali grezze, al quale potersi iscrivere. Informandoci poi nei più esclusivi ambienti pubblicitari e del marketing, con nostro sommo rammarico scoprimmo che, anche una volta raggiunto eventualmente un minimo di evidenza d’immagine con il marchio della nostra ditta, difficilmente saremmo stati invitati a tener banco nei talk-show televisivi, o intervistati dai giornali, per pontificare intorno alle strategie imprenditoriali più arrembanti, o per proporre una nostra ricetta di uscita dalla morsa della crisi.
Il “vulnus” fatale, quello in grado di assestare la mazzata decisiva alle nostre ambizioni, eravamo tuttavia destinati a ritrovarcelo proprio in seno, neanche tanto nascosto, in forma di contraddizione in termini annidata nella natura stessa del nostro essere imprenditori nascenti in misura così inusuale. Consultandoci con un insigne economista, fra i maggiori esperti mondiali di finanza ricreativa, ci venne posto innanzi il più classico degli “uovi” di Colombo. «…E’ un ambiente durissimo, cari ragazzi…» ci ammonì il luminare, un caro vecchietto che si era fatto un certo gruzzolo commerciando nel settore delle sferette di mollica, appallottolate fra pollice ed indice sorbendo i suoi caffè di fine pranzo. E aggiunse: «…Vi sconsiglio fortemente di avventurarvi in questa impresa, perché in quella jungla sopravvive solo chi, come minimo, ha quattro dita di peli sullo stomaco!…».
La sentenza, nella sua nitidezza fulminante, si rivelò esiziale e scrisse la parola fine sopra ogni ulteriore capitolo concernente le nostre più scriteriate speranza. Di peli sullo stomaco, noi un po’ ne avevamo, certo, ma il nostro lieve vello para-post-puberale non poteva certo rivaleggiare con certe lussureggianti savane rivenibili sulle protuberanti panze di taluni squali mondiali dell’imprenditoria. Quelli sì che erano veri e propri macchinari infernali per la produzione iper-intensiva di palline ombelicali. Non avremmo potuto sostenere la concorrenza, saremmo stati schiacciati, come timidi batuffoli investiti da abnormi slavine di lana.
Qualche volta, quando incontro il mio amico, chiacchieriamo ancora con nostalgia dei bei tempi in cui abbiamo rischiato di diventare imprenditori. Ci fa un po’ rabbia pensare a tutta quell’energia da fonti rinnovabili ombelicali che da allora è andata perduta, e continua tuttora a venir sprecata. Ci fa pensare alla corrente dei fulmini, dissipata invano nell’etere, oppure al fiato di tanti idioti, fatto filtrare senza scopo attraverso le loro rispettive chiostre dentali. Alla fine però, ripensandoci bene, conveniamo sempre tutti e due che è andata meglio così. Dell’imprenditore, non potevamo avere né la mente, né il cuore. Al limite, solo un po’ d’ombelico velatamente peloso.