Come si sarà sentito il capitano Achab lungo tutto la sua travagliata odissea, e poi al termine della faticaccia, quando finalmente riuscì a vedersela con la leggendaria balena bianca? Se proprio lo volete sapere, avete a disposizione quasi 600 pagine del magnifico tomo di Herman Melville (preferibilmente nella stupenda traduzione di Cesare Pavese).
Posso dirvi però come mi sento io, ora che son riuscito a fermare su qualche fotogramma l’inafferrabile spiumettosa alla quale “davo la caccia” da tre anni. Ebbene sì, l’evanescente Ghiandy Dick è stata da me spalmata pixel per pixel su immagine digitale ed il Capitano Gillichab ha avuto i suoi cinque minuti di gloria.
Per chi si stesse già apprestando, lette queste prime righe, a comporre il numero della “neuro”, nella preclara convinzione di trovarsi ormai dinnanzi allo svanire definitivo delle pur esigue facoltà mentali del povero Gillipixel, occorre introdurre un piccolo ma doveroso riassunto delle puntate precedenti. Poco meno di tre anni fa (e vi spiegherò fra breve quanto “poco meno” di tre anni effettivamente siano…), iniziai a notare un delizioso uccelletto che leggiadro svolazzava nei pressi del giardino e sulle alberature limitrofe.
Dapprima non ne conoscevo il nome. In seguito venni a sapere che si trattava di una ghiandaia. Di uccellini eleganti, simpatici, curiosi per sagoma, comportamenti e colori, ce n’è un’infinità. Ma la ghiandaia ha un suo fascino particolare. Sarà per quella sua aria da gazza vestita dalla festa. Sarà perché presenta sulla livrea uno strambo accostamento di due colori che più agli antipodi fra di loro non potrebbero essere: uno sfumatino caffelatte da impiegato del catasto su quasi tutta la superficie del corpo, e poi, a sorpresa, zac!, cangianti ali da sbarbina in discoteca, con inaspettate striature nere e blu, tonalità quest’ultima del tutto inusuale per la fauna prosperante lontana dalle latitudini tropicali. Sarà anche per la sua fuggevolezza e ritrosia, che la rende un uccelletto abbastanza presente, sì, dalle nostre parti, ma pur sempre avvistabile col contagocce.
Sarà per questi e per tanti altri motivi. Fatto sta che la ghiandaia da allora mi è molto simpatica. Nel contempo mi venne l’uzzolo di fotografarla, ma l’impresa si rivelò sin da subito alquanto ardua, giusto per la già citata sua abitudine di concedersi alla vista solo con rapidissime e fugaci apparizioni. In un’altra circostanza, dovetti accontentarmi di rinvenire una sua piuma dispersa nel giardino. Ma fino ad ora ogni tentativo di tratteggiare in foto le sue grazie era risultato infruttuoso.
Adesso invece, ce l’ho fatta.
E non so nemmeno se sentirmi contento sino in fondo, oppure mezzo preso da un eccesso di appagamento, come di colui che vede venir meno l’obbiettivo a lungo perseguito di una piccola soddisfazione personale. E’ più bello inseguire una cosa giusto per il gusto d’inseguirla, oppure l’attimo in cui la si agguanta vale tutta la soddisfazione in gioco? Non è forse preferibile il sapore dell’inseguimento fine a se stesso, senza mai raggiungere la metà prefissata? Non sarà dunque un caso che nel capolavoro di Melville, tutte le pagine sino alla 558 siano dedicate alla ricerca della balena, mentre solo a partire da pagina 559 (e poi fino a 587), si racconti l’effettivo titanico confronto finale con quel portento della natura?
Nel dubbio, mi consola il fatto di essere riuscito cogliere solo tre immagini di Ghiandy Dick, e nemmeno tanto perfette, di modo che mi rimane sempre il margine per ulteriori tentativi. In questo modo, salvo la capra della presente soddisfazione, insieme ai cavoli di future caccie fotografiche.
Altro piccolo stupore nello stupore. Andando a ricontrollare il mio vecchio scritto che diede inizio alla mini-saga di Ghiandy Dick, mi sono accorto di una “mezza-quasi-coincidenza” curiosa: quel lontano articoletto è datato 12 maggio 2010, praticamente 3 anni fa quasi giusti. Alle volte le gillipixate, che risvolti strani riservano…
Ma veniamo alle precise parole di Melville, per giungere alle quali, chiunque si confronti con l’immane mole di Moby Dick, spende il tempo e le forze intere di tutta la sua impresa di lettore:
«…Fatte tutte le vele, Achab levò volta al cavo riservato a sospenderlo in testa all’alberetto di controvelaccio, e pochi istanti dopo stavano issandolo lassù. Era giunto appena a due terzi della strada, e scrutava innanzi a sé attraverso l’apertura orizzontale che c’è tra la vela di gabbia e quella di velaccio, quando cacciò un urlo nel cielo, come di gabbiano: - Laggiù, soffia! Laggiù, soffia! La gobba come un mucchio di neve! E’ Moby Dick!...».
"Moby Dick - o la Balena"
Herman Melville - 1851
(Traduzione di Cesare Pavese - 1941)
Edizione Adelphi - 2004 - pag. 559
Ed ecco invece le trasposte parole di Gillipixel, per descrivere gli attimi del decisivo avvistamento di Ghiandy Dick:
«…Fatta colazione, Gillichab s’indirizzò alla volta del vascello di ceramica riservato a sospenderlo in testa alla quotidiana operazione di controvelaccio corporale, e pochi istanti dopo i vestiari stavano calandosi laggiù. Era giunto appena a due terzi della gamba, e scrutava innanzi a sé attraverso l’apertura orizzontale che c’è tra la tapparella e la cornice della finestra, quando cacciò un urlo interiore nel cielo del suo animo, come di venditore porta a porta di cicorione nano: - Laggiù, spiumetta! Laggiù, spiumetta! Le penne come una tazza di caffelatte interista! E’ Ghiandy Dick!...».
La prima immagine che son riuscito a realizzare è la mia preferita: ho colto Ghiandy nel bel mezzo di una sua espressione furbetta, il collo girato di lato ed il becco sulle ventitré, come a dire: «…’Zzo fai seduto laggiù?...».
Nella seconda, si capacita con sguardo sornione: «…Ah, voi umani siete ancora così indietro per quelle cose? Noi pennuti invece è da secoli che ve la facciamo in testa con tutto comodo...».
Nell’ultima foto, prima d’involarsi nell’ennesima fuga fulminea, lasciandosi dietro la sua tipica scia al caffelatte neroazzurro, Ghiandy mi volge le terga, mostrando la completezza multicolore della sua livrea, e peccato per quel ramo malandrino che leggermente s’è frapposto.
Tutto si è svolto nella manciata di pochissimi secondi, tanto che più di tre fotogrammi non mi è riuscito di fermare. Ma per fortuna la partita con Ghiandy non è certamente chiusa qui. L’appuntamento con lei è per altre foto ancora più belle, semmai riuscirò a realizzarle. Così nel frattempo potrò continuare ad essere il Capitano Gillichab, che solca impavido i sette mari sul suo vascello di ceramica bianca, a tavoletta spiegata.