Mi ha piuttosto impressionato una frase sentita in questi giorni al tg, mescolata fra i commenti alla recente scomparsa del grande artista della moda Ives Saint Laurent. Si tratta di una dichiarazione dello stilista stesso che esprimendo uno dei più grandi rammarichi della sua eccezionale esistenza, non molto tempo fa riferì di “non essere mai stato capace di amare le donne” (riporto le parole dello speaker se non nella loro completezza letterale, rispettandone comunque il significato nella sua essenzialità).
Questa affermazione mi ha offerto lo spunto per alcune riflessioni sul senso della bellezza nella ricerca artistica, sul mondo della moda e sulla semplificazione giornalistica.
Parto da questo ultimo ambito, che è anche il più immediato. Se si prende per buona l’esternazione di Saint Laurent per come è stata riportata sic et sempliciter nella sua immediatezza lapidaria, niente di più facile che la reazione moralistica in agguato dietro il primo angolino utile della distratta mente dello spettatore medio, possa balzare fuori nel suo fulgore più pieno. Questo stesso mio scritto, in un primo momento, ha pericolosamente gravitato nell’orbita della tentazione di appellarsi allo sdegno di fronte al cinismo della moda e alla freddezza d’intenti che in realtà si celerebbe dietro la sua apparente verve creativa.Fortunatamente in me ha prevalso lo scrupolo della verifica e grazie ad un rapido excursus sul web ho potuto rintracciare una versione della frase ben più completa e fedele al pensiero di Saint Laurent:
"La bellezza mi trascina verso la purezza: credo che un creatore debba rispettare il corpo che veste perché tutte le donne, anche le meno belle, in qualche modo lo diventino: la bellezza è l'eleganza, il gesto, la voce, il modo di camminare. C'è sempre in me questo amore per le donne e questa impossibilità di amarle".
Converrete che tra un “relata” e l’altro (se mi è concesso il “latinismo canino”) di differenza ce ne passa. Questa seconda trasposizione parla di complessità, di dissidio creativo, persino di conflittualità affettiva ed esistenziale, se proprio ci si vuole spingere ad un’analisi più profonda delle parole. Niente o quasi di tutto questo invece nella prima mutila versione, limitata ad estrapolare un lacerto banalizzante, indirizzato più al sensazionalismo che non ad un meritevole approfondimento della figura di Ives Saint Laurent.
Va aggiunto che anche senza ricorrere alla legittima difesa dell’indagine presso altre fonti, l’ascoltatore più dotato di senso critico avrebbe potuto in ogni caso svicolare dall’inganno del facile giudizio di misoginia, proprio considerando una possibile dimensione superiore della moda. Nella impossibilità affettiva verso le donne dichiarata da Saint Laurent, si sarebbe allora potuto leggere fin da subito anche un tratto della sua adesione ad un senso ben più profondamente artistico della moda.
L’arte intesa nei suoi termini più elevati è ricerca pura di significati esistenziali indagati attraverso lo strumento della bellezza. In questa ottica (fatta salva la padronanza tecnica dalla quale non è possibile prescindere), diventa quasi accessorio il medium attraverso il quale l’obiettivo può venir perseguito, sia esso rappresentato da colori e pennello, bronzo o marmo, fotogrammi e luce, stoffa o corpo femminile. Con buona pace, verrebbe così da concludere, dell’aspetto di milioni di sederi di donna, rovinati in mezzo mondo dall’imperante diktat del pantalone a vita bassa (una delle espressioni più evidenti del distacco che si può creare fra gli intenti estetici della moda e le concretezze della vita reale).
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