giovedì 30 giugno 2011

L'irrealtà sognata dal vivo


Ho sognato un sogno talmente intenso da lasciarmi addosso uno stato di estatico sconvolgimento, al risveglio. Quasi per caso, ho sfogliato poco dopo un libro e quel sogno era là dentro, "trans-irrealmente" istoriato nero su bianco. E pensare che al mondo c'è ancora gente che perde tempo a drogarsi, quando esistono sostanze così sconquassanti come la poesia e la letteratura...

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Dormi mentre io veglio...
Lasciami sognare...
Niente in me è allegria.
Ti voglio per sognarti,
non per amarti.

La tua carne calma
è fredda nel voler mio.
I desideri miei sono fatica.
Nè voglio fra le braccia
il mio sogno del tuo essere.

Dormi, dormi, dormi,
vaga nel tuo sorridere...
Ti sogno così tanto
che il sogno è incanto
e sogno senza sentire.

"Dormi"
Fernando Pessoa - (1924)

sabato 25 giugno 2011

Gilli mani di forbice

- Ante scriptum -

Nel precendente articoletto, è successo un involontario incidente: il video dei Ramones che avevo inserito alla fine, presentava proprio nei suoi fotogrammi conclusivi un tristo e sciagurato simbolo dittatoriale di un passato non poi così tanto lontano da noi...in poche parole, una svastica.

Quando ho scelto di mettere quel video, non lo avevo visionato completamente ed ecco spiegato l'incidente. Appena mi sono accorto della cosa, l'ho rimosso e sostituito subito.

Mi scuso con voi, cari lettori, per questa svista, e se per caso siete incappati nella visione di quel simbolo nefasto. Sfortunatamente non mi ero avveduto per tempo della sgradevole insidia contenuta in quel filmato. Uno pensa sempre in buona fede che l'idiozia umana, pur rimanendo un'insidia assai perniciosa e sempre in agguato dietro l'angolo, non sia in grado di superare certi limiti. Ed invece spesso ci si sbaglia: c'è sempre un idiota più grande di quanto si pensi.

Tanto che, rinunciando per un attimo alla mia naturale gentilezza espressiva, non mi rimane che convenire con la saggezza popolare, quando afferma che "di teste di cazzo sono piene le fosse"...e a quel fesso che ha confezionato quel video, gli auguro di cagarsi addosso al primo appuntamento con la nuova fidanzata...

E adesso possiamo andare ad incominciare con l'articoletto odierno...

*******

Tempo fa, dichiarai aperta la mia personale sfida fotografica a quella leggiadra puzzettosa e spiumazzante di Ghiandy Dick. Forse qualcuno ricorderà di come rimasi affascinato da questo elegante uccello, che all’anagrafe volatile passa sotto il nome di ghiandaia, e del mio proposito di catturarla con un’immagine, ricalcando, in versione molto meno cruenta e ben più poeticamente scanzonata, le orme di un moderno capitano Achab da salotto.

Da allora, non è che siano mancate le occasioni per mettere nel “carniere ritrattistico” l’ambita preda fotografica. Un’«aviopiumata» famigliola di ghiandaie si è pure accasata su di un alberello dietro casa Pixel. Con evidente ed insormontabile, almeno per il momento, senso di realismo, mi è toccato tuttavia constatare un dato di fatto incontrovertibile: minchia com’è sfuggevole la vecchia Ghiandy Dick!

Plana rapida da una pianta all’altra. Quando si adagia in qualche posto, è guardinga e zompettosa. Per l’umana presenza nutre un’allergia notevole e alla fine non sta mai ferma in un luogo per più di pochi secondi. Capirete che per un inveterato “slowly-down-layer” (libera e fantasiosa anglo-traduzione dell’italico “posapiano”) qual io sono, l’impresa, benché giammai accantonata, si è rivelata alquanto difficoltosa.

E così, dopo essermi bersanianamente detto fra me e me: «…Oh ragazssi!...Ma siamo pazssi?!?!?! Non siam mica qui a fare la punta alle spille da balia…non siam mica qui a soffiare sulla torta di compleanno di Matusalemme...», sono giunto alla palese conclusione che ad un fotografo pigro si addiceva un soggetto pigro. E l’occasione per soddisfare questa nuova consapevolezza non ha tardato a presentarsi.

Stamattina, me ne stavo infatti brut brutto a rifare “tim-burtonianamente” la sfumatura bassa ad un piccolo apparato vegetale che adorna le pertinenze di villa Pixel (tradotto dal gillipixese nella lingua delle persone normali: potavo la siepe nel giardino di casa…), quando ecco lì che il soggetto ideale mi si è offerto in tutto lo splendore della sua rilassatezza proverbiale. Era una minuscola lumachina, rimasta fortunosamente appesa proprio ad un brandello di siepe reciso da poco, un lacerto di rametto al quale si era aggrappata scampando per miracolo alla mia frenesia “potatoria”.


Eccolo dunque, il mio alter ego faunistico perfetto. Era un cucciolo di chiocciolina, una lumaca ancora bambina, dispiegata nel pieno splendore del suo sdrucciolevole “mono-piedone” adagiato su una micro-foglia della siepe. Osservandola, mi è tornata alla mente una brevissima filastrocca dialettale della mia infanzia e dell’infanzia di chissà quanti bimbi gillipixesi prima di me: «…Lümaghén, lümaghén, tira föra i tù curnén…» («…Lumachina, lumachina, tira fuori i tuoi cornini…»: purtroppo nella versione in italiano, oltre a perdersi la fatata sonorità, se ne va pure la rima).

Era la frase di rito, l’«apriti Sesamo ecologistico» col quale i grandi suggerivano ai bambini di invitare le piccole lumachine ad affacciarsi fuori dal proprio guscio. Ricordo che da piccolo l’evento non si verificava praticamente mai. Forse perché allora non ero un assiduo osservatore, forse perché capitavo sempre nel periodo sbagliato della tempistica “lumachesca”, ma fatto sta che una chiocciolina affacciata alla porta di casa non ricordo di averla vista mai, e tanto meno coi suoi “cornini” in bella mostra.

Quella piccola locuzione d’invito, nella mia mente semplice di bambino aveva finito dunque per assumere una valenza più generale. Simbolizzava tutti i desideri complicati da realizzare, tutti quei sogni di sbarbatello troppo belli per poter diventare un giorno veri. Ricordo anche che spesso e volentieri erano gusci vuoti ed abbandonati dall’inquilino, quelli che trovavo intorno a casa, di quei tempi.

Invece la chiocciolina incontrata stamane, si presentava baldanzosa e completamente dispiegata verso il mondo. Non sarà stata esuberante e celere nelle movenze come una ghiandaia, ma per i miei standard di “dinamismo estetico” era più che perfetta. Ho potuto persino posizionarla su due set fotografici differenti, mentre lei si lasciava fare con gentilezza, senza mai rifugiarsi in casa, come magari sarebbe stato pure nei suoi diritti.


E mentre alla fine degli scatti, la osservavo allontanarsi fra la verzura, placida e ben consapevole di dove stava posando il piede, ripesando un po’ anche al discorso dell’altra volta riguardo alle nostalgie per il passato, mi è venuto spontaneo considerare: «…Eh…non ci sono più le lumachine di una volta, ma quelle di oggi sono molto più simpatiche…».



martedì 21 giugno 2011

Is the best in the past?


«…Antichissima è la leggenda dell’età dell’oro. Non conosciamo esattamente l’origine sociologica del culto del passato; che può avere le sue radici nella solidarietà familiare e tribale o nello sforzo di gruppi privilegiati di fondare i loro privilegi sull’origine. Comunque, l’idea che il migliore debba essere anche il più antico è ancor oggi così forte che storici dell’arte e archeologi non arretrano neppure davanti alla falsificazione storica, pur di riuscire a presentare come originario lo stile che preferiscono…».

Storia sociale dell’arte” (Vol. I – Cap. I)
Arnold Hauser – 1955

Amici, se ho voluto iniziare l’odierno articoletto citando le parole di un tale che sapeva scrivere sul serio, l’ho fatto per rendervi partecipi della constatazione di come le vie dell’andarperpensieri siano veramente infinite.

Per dirla con una metafora “antropo-suina”, i pensieri sono come il maiale, non si butta via niente.

La loro bellezza principale risiede nel poterli lasciar decantare comodi e adagiati in qualche anfratto della nostra mente, dietro una piega della nostra memoria, sotto il tappeto del nostro animo. Possono rimanere latenti per mesi, per anni, come un minuscolo chicco occultato in un terreno che momentaneamente lo custodisce solamente. Poi all’improvviso, è sufficiente un inatteso goccio d’acqua concettuale ad irrorare quei chicchi fra di loro affini, ed il pensiero recondito germoglia con rigoglio, portandosi dietro un’infiorescenza di inediti risvolti di senso, i quali si arricchiscono a vicenda nella risonanza culturale fra di essi innescata.

Non di rado vengo bonariamente rimproverato di essere un discreto passatista nonché moderato vagheggiatore dell’«età dell’oro». Credo che questo tratto faccia parte del “corredo spirituale” di ogni umano. Il passato rappresenta il noto, l’assodato, e come tale rassicura; dietro al futuro si cela l’ignoto, affascina ma intimorisce allo stesso tempo. Il passato può essere inteso persino come fastidio “passato in giudicato”, e forse per questo motivo spesso ricordiamo, se non con piacere, perlomeno con neutrale distacco, anche i momenti difficili trascorsi. Ma adagiarsi eccessivamente sul passato è un errore, paralizza, conduce ad una involuzione, atrofizza la vita. E forse proprio per un passatista, una volta riuscito a cacciare fuori il capo dalla sua buca nella sabbia dei bei tempi andati, la comprensione di tutte le magagne associate a quella propensione risulta più agevole, perché le può osservare con maggiore evidenza sulla propria pellaccia esistenziale.

Esistono tuttavia fattori costitutivi dell’«essere umani» che sembrano profilarsi come archetipi senza tempo, validi dalle lontane ere in cui l’uomo ha potuto cominciare a chiamarsi tale, e che rimarranno attivi sino a quando le nostre caratteristiche fondamentali non subiranno una metamorfosi così radicale da non poterci più definire rappresentanti degni della specie homo sapiens. Queste caratteristiche umane “fuori dal tempo” risolvono di colpo qualsiasi controversia fra passatisti e “futuristi”, annullando in pratica i motivi del contendere sul tema.

E qui finalmente cerco di tirare le somme di un discorso che sta assumendo la dispersività di una manciata di riso scagliata in un tornado.

Dovete sapere che il brano di Arnold Hauser riportato in apertura l’avrò letto circa 15 anni fa e mi è capitato di andarlo a rispulciare nei giorni scorsi. E’ stato a quel punto che il suo portato concettuale ha finito per andare a lievitare assieme a due altre suggestioni culturali nel frattempo da me recentemente assaporate.

Jacques Derrida è stato uno dei filosofi più influenti della seconda metà del ‘900. Quest’inverno mi sono visto un interessante dvd a lui dedicato. Ora, per esigenza di sintesi e per vincoli d’ignoranza (la mia…), semplificherò un po’ i concetti alla boia cane, sperando di non dire eccessive vaccate.

Com’è successo per diversi altri pensatori moderni (Heidegger e Wittgenstein in primis), anche Derrida ha giocato gran parte della sua partita filosofica in ambito linguistico. Non sto nemmeno qui a citarvi la straconosciuta frase di Heidegger («..il linguaggio è la casa dell’essere…»), dato che non riuscirei ad aprire in tempo l’ombrello anti-pomodorate, ma sta di fatto che la cosa più bella che mi è rimasta dall’aver visionato questo dvd sul pensatore francese, pur avendovela già raccontata in un’altra occasione, la ripeto perché nel presente discorso assume risvolti diversi.

Si tratta di una sorta di previsione controcorrente espressa da Derrida alla vigilia della grande rivoluzione telematica di internet e delle altre moderne ed affini diavolerie atte alla “capillarizzazione” del comunicare (telefono cellulare in testa alla lista…). Assumendo una posizione spiazzante, Derrida pronosticò, con l’avvento di questa iper-accelerazione ed iper-diffusione delle opportunità di trasmettere informazioni, un parallelo aumento dell’importanza attribuita alla parola scritta, contrariamente all’opinione più diffusa che invece prevedeva per la scrittura un declino causato dalla rapidità delle ultimissime super-specializzate tecnologie. Blog, Facebook e messaggi sms dovrebbero bastare ad intenderci di cosa stiamo parlando.

L’esprimersi per iscritto sembra dunque possedere tutti i crismi per poter essere enumerato nella lista di quegli “archetipi senza tempo” di cui parlavo prima, ma l’incrocio concettuale più pregevole ve lo devo ancor riferire. Ci sono inciampato dentro leggendo l’introduzione di «Capire l’arte contemporanea», un buon libro di Angela Vettese che tratta appunto delle ultimissime tendenze estetiche.

La professoressa Vettese ad un certo punto si domanda quale ruolo e quale spazio (una volta esaurita la “stagione d’oro” dell’arte moderna fra tardo ‘800 e prima metà del ‘900) possano ancora occupare le arti visive ai giorni nostri, quando esistono mezzi espressivi (cinema, internet, tv e chissà cos’altro in un futuro assai prossimo) molto più in sintonia con le esigenze di “azzeramento dei tempi morti” apparentemente prioritarie in una visione “ultra-contemporanea” del mondo.

«…Data la difficoltà di definirne il dominio di pertinenza, di comprenderne i criteri di selezione, di renderla veramente popolare, quale funzione resta all’arte visiva?
Il suo vantaggio competitivo rispetto ad altre discipline creative risiede soprattutto nel fatto che ha una committenza indiretta, cioè diversamente dalla pubblicità o dalla moda, non ha vincoli appariscenti al momento della concezione dell’opera.
Nella maggioranza dei casi gli artisti non sono nemmeno interessati ad avere una vasta notorietà […].
Le esigenze del consenso allargato li porterebbero infatti ad una perdita di libertà di ideazione e di velocità di esecuzione che sono ormai le sole armi a disposizione degli artisti: è grazie a queste caratteristiche che l’arte visiva è una delle espressioni più rapide del pensiero, cioè una delle attività che con maggior tempestività coglie lo spirito del tempo…».

Capire l’arte contemporanea
Angela Vettese - 2006

Sorpresa delle sorprese, dunque. Proprio nel pieno dell’epoca con a disposizione gli strumenti per comunicare più strabilianti e più dinamici mai concepiti dall’uomo, cosa non mi si va a rivalutare come forma di espressione assolutamente all’avanguardia? Ma sì, proprio lui: il caro e vecchio vizio umano di “imbrattare coi segni”, siano essi quelli totalmente codificati della scrittura, siano quelli a codice più aperto proprio dell’espressività artistica.
Antica come l’uomo, questa sua magica prerogativa non hai mai perso la propria modernità costante e sempre viva attraverso tutti i secoli percorsi, ed oggi si permette pure il lusso di sfidare le “corazzate comunicative” più agguerrite messe in campo dalla tecnologia più fantasmagorica.

Per concludere insomma questo articoletto quanto mai tribolato e contorto, credo di aver capito che non è poi così importante domandarmi se stare nel partito degli “etàdelloristi”, oppure in quello dei “devoti alle ragioni del futuro”.
Molto meglio mi sembra stare dalla parte degli “archetipi senza tempo”.


domenica 12 giugno 2011

Il dissidio interiore di frigorifero


Ecco.
Adesso.
Insomma.
Non sarebbe proprio mia intenzione scrivere l’ennesimo “cahier de doleance” ad elencare i difetti patri, le magagne nazionali più minuziose e nascoste. L’auto-denigrarsi è sport italico fra i più praticati, non si sentirebbe dunque il bisogno così impellente di una voce in aggiunta al coro già ben nutrito di cantori.

Diciamo allora che scriverò di sottili osservazioni circa alcune mutazioni linguistiche molto minimali, quasi impercettibili, che tuttavia rappresentano sempre il sintomo di un clima culturale in divenire. I cambiamenti del linguaggio non sono “quasi mai” limitati a semplici variazioni sillabiche o verbali di superficie. Sotto sotto, nelle profondità più insospettate, ci cova sempre un modo di essere in evoluzione, atteggiamenti e stati mentali che rinnovano la loro pelliccia, come bestiole dinnanzi alla nuova stagione incipiente.

Ho scritto “quasi mai”, perché si verificano anche casi in cui la metamorfosi linguistica viene più o meno consapevolmente ed artificialmente indotta con la pretesa di far apparir mutata una realtà che nella sostanza rimane immota.
Una definizione appropriata di questo fenomeno potrebbe essere “sindrome della camicia di Totò”.

Non ricordo bene in quale film il grande giullare partenopeo proponeva questa gag, magari in più di uno. In queste occasioni, il Principe De Curtis si presentava perfettamente agghindato con un vestito nero, e solo dopo alcune scene si scopriva che la sua camicia era in realtà composta solamente di polsini, colletto e una “padella” frontale nella zona dei bottoni, ma tutto il resto dell’indumento, quello coperto dalla giacca, mancava completamente.

Lo stesso accade con queste artificiose modifiche del linguaggio: sono sempre l’avvisaglia superficiale di uno “straccionismo” effettivo depositato nel profondo, di una pretenziosità balorda, di un voler far credere ciò che non è.

Ma veniamo al dunque. Focalizzerò l’attenzione su due “permute articolari” venute in essere da alcuni anni a questa parte. Più precisamente si tratta di una bizzarra “trasformazione di genere” in un caso, e di una “misteriosa” sparizione di articoli nell’altro caso.

«…“Il” tv…».
Se c’è un’espressione che linguisticamente mi fa venire il latte ai gomiti è proprio questa: «…“il” tv…». Da quando sono nato ne ho sempre sentito parlare come «…“la” tv…», e mi sembrava naturale: la televisione è femminile, dai. D’accordo, «…“il” tv…» si potrebbe intendere anche come espressione sintetica che sta per «…“il” televisore…», ma questa tesi mi convince poco.
«…“La” tv…» è sempre stata «…“la” tv…», perché minchia pretendereste adesso di privarla della sua vezzosa femminilità?

L’«articolazione» dell’apparecchio televisivo al femminile («…“la” tv…») reca con sé un sapore di casa, introduce ad un senso di accoglienza, di calore domestico, di malia sensuosa. Da che mondo è mondo, il ruolo della seduzione magnetica è sempre stato prerogativa femminea. Se ci badate un attimo, le sirene, la ninfa Calipso, la maga Circe, Omero mica le pensò come nerboruti, spigolosi ed irsuti zappaterra del Peloponneso, bensì come graziose e curvilinee donzelle.

Non è un caso, o almeno così mi pare, nemmeno il fatto che i più convinti fomentatori di questa “mascolizzazione” degli apparecchi televisivi, siano proprio i rivenditori dei medesimi o anche i negozianti di arredi et similia. La pretesa di rendere “maschia” la tv nasconde il desiderio, forse inconsapevole forse no, di caricare questo “elettrodomestico” di una rinnovata aggressività. Lo si vuole connotare di uno spirito competitivo bislacco e mal riposto, ritenendo stoltamente superate la sua antica gentilezza femminile e la rosea grazia, che invece le si connaturavano così a pennello.

Un’altra “sgangheratezza” linguistica degli ultimi tempi riguarda, come dicevo, un enigmatico occultamento di articoli. Lo strano fenomeno si verifica quando si parla di società più o meno pubbliche, più o meno partecipate o semi-privatizzate, preposte ad offrire servizi fondamentali d’interesse collettivo. Per non fare torto a nessuna di esse, m’inventerò sigle e nomi fittizie, ma ci siamo intesi circa l’oggetto del mio favellare.

Queste società recano come nome quasi sempre una sigla, un acronimo. Mettiamo che si chiamino Butil, Rifol, Gevos. Sono società, per cui ne abbiamo sempre parlato al femminile: la Butil, la Rifol, la Gevos, sempre per usare i nostri nomi fittizi. Da un certo momento in poi, però, ha cominciato a svanire l’articolo: “…scalata in borsa per la maggioranza di Butil…”, “…Gevos apre ai privati per una gestione condivisa…”, e così via.
Anche qui, non a caso, la tendenza si è manifestata soprattutto fra gli “addetti ai lavori”. La decurtazione d’articolo è stata agevolata in particolare da giornalisti, economisti e politici, ma la gente comune ha sempre continuato a dire, giustamente: «…sei andato a pagare la bolletta della Gevos?...», «…sì che ci sono andato, mannaggia a la Gevos e a li mortacci sua!...».

La privazione dell’articolo in questo caso mira (sempre più o meno consciamente, o volutamente) ad “antropomorfizzare” queste società, a tramutarle, da oggetti quali sono, in soggetti, facendo passare la sotterranea idea di una loro rinnovata dignità, magari a seguito del colpo di bacchetta magica sburocratizzante di un riassetto societario. Sono divenute più “friendly”, più “easy”, più attente alla “customer care”: «…Che bocca friendly che hai, nonna società partecipata…», «…è per intortarti meglio, figliolo mio…».

Insomma, cari amici viandanti per pensieri, datemi pure del paranoico linguistico, ma il fatto è che ci rimarrei parecchio male se fra qualche tempo si cominciassero a sentire in giro dialoghi del tipo: «…Dove hai messo il gorgonzola, cara?…», «…Uhm, non ricordo caro, prova a guardare dentro "a" frigorifero…».

sabato 11 giugno 2011

Noi non scrivevamo


Noi non scrivevamo per fluire insieme al tempo.
Noi non scrivevamo per raccontare cose,
per comunicare al mondo,
per far scorrere idee
nel mentale sistema circolatorio universale.

Noi scrivevamo per un atto d’amore verso l’inspiegabile.
Noi scrivevamo per risalire a galla
dalle asfittiche profondità del quotidiano commercio verbale,
uno scatto di reni, su a riaffiorare nell’aria pura, ricolmandoci
i polmoni dello spasmo liberatorio di una boccata di ignoto.

Noi scrivevamo per sopravvivere.
Noi scrivevamo per planare sopra la vita.

Noi non scrivevamo.

Noi scriviamo.


giovedì 9 giugno 2011

From football to fuckball


Un articoletto sui recenti scandali calcistici.

Se questo fosse un blog sanguigno ed impulsivo, inizierebbe così: ma brutti scarti di parastinco usato…ma sottoforma di rifiuti umani disorganici…ma come vi permettete di speculare sui sogni e sulla passione della gente, privandola anche dell’ultimo angolo di innocenza rimasto, prosciugando quella piccola oasi di incoerenza e di sana evasione “non-sensuale” che aiuta un po’ tutti a continuare a sperare in qualcosa?
Che vi pigliasse l’orchite alle tonsille, molto diffusa, tra l’altro, per analogia geografico-anatomica, fra le gran teste di minchia, quali scommettitori truffaldini e truccatori di partite…che vi cogliesse la tonsillite rettale acuta, patologia sempre assai contagiosa fra supreme ed analoghe facce da culo…

E così via sacrosantamente indignandosi ed inveendo…

Ma questo è un blog pervicacemente votato alla poesia dell'inutile, per cui l’articoletto prosegue su altri binari.
Per contrasto, tutto quel marciume che periodicamente viene a galla quando accade qualche episodio in grado di rimestare un po’ nel gran calderone calcistico, mi ha fatto ripensare ad una delle azioni di gioco più poetiche e più emozionanti alla quale mi è capitato di assistere negli ultimi tempi. Successe già alcuni anni fa, ma nel frattempo nemmeno una magia della “Pulga” Lionel Messi o una finezza del “Principe” Diego Milito in Coppa dei Campioni, sono riuscite a rubarle il gradino più alto sul podio della mia personale classifica delle prodezze sportive.

Non ricordo più per quale motivo preciso, ma fatto sta che mi ero ritrovato a bordo campo di questo mini-torneo calcistico per bambini. L’atmosfera era simpatica, tante squadrette di piccoli atleti si sfidavano a perdifiato, sfoderando il meglio di quel gioco un po’ anarcoide e confusionario, al quale soltanto i bambini sanno dar vita con tanto impegno e trasognato trasporto. Come contorno, c’erano pure pane, salame e buone torte appena sfornate dalle mamme, mentre i papà sorvegliavano con occhio vigile sull’operato agonistico dei figlioli, i più stolti, bramando per loro la concretizzazione di una sfolgorante carriera di successo in serie A («…ma papà, ma cosa t’ho fatto di male per augurarmi di diventare “calciatore”?...»), i più saggi, ridendosela di gusto e ringraziando il cielo per tutto quel divertimento “gratuito, adesso e subito”.

In una delle tante micro-sfide, era coinvolto anche il bimbo di un mio vecchio caro amico.
Seguivo dunque quella partitella con ancor maggiore curiosità. La cosa più bella in una partita di calcio fra bambini è proprio quell’aspetto del modo di giocare bambinesco che fa imbestialire i loro fessi allenatori, se per caso hanno la sfortuna di averne già fra i piedi. Loro si buttano a capofitto sulla palla, tutti insieme all’unisono, in stormi fanciulleschi compatti e caotici, irrimediabilmente attratti dalla forza magnetica della sfera di gomma, con la massima aspirazione tecnica di mollarci dentro una bella pedatona ben assestata.

E’ nei momenti più accesi della sfida che vedi delinearsi, ora da una parte, ora dall’altra del campo, configurazioni di laocoontica fanciullezza, ammassate e ruzzolanti per il prato come un malloppo armonico di acerba umanità, perfettamente in sintonia col moto rotolante della palla. Il grande Jacovitti avrebbe disegnato la scena come un piccolo vortice umano gomitoloso e ciclonico, dalle cui spire sarebbero sbucate frammentariamente punte di scarpette tacchettate, gomiti implumi, grida festose, sorrisi giocondi e qualche immancabile salame coi piedi.

Ero insomma lì che mi gustavo le gesta sportive giocosamente intricate di quei piccoli furetti scalcianti, quando una di quelle furibonde mischie s’innesca pericolosamente al centro di una delle aree di porta. Il bimbo del mio amico è orgogliosamente parte della tenzone, lo vedo nel bel mezzo che sbuffa e si azzuffa, darebbe chissà cosa per affibbiare una superba pedata al biglia gommata. Ma ecco che la sorte lo asseconda, fa scivolare la palla dolcemente ai suoi piedi. La porta è proprio di fronte a lui, l’invito è delizioso, irresistibile, l’incanto agonistico lo traspone fuori dal tempo, è il suo momento, è la sua occasione: sbam! Molla una puntata sopraffina a quel ripieno d’aria rotolante: ed è goooaaalll!!! goooaaalll!!! goooaaalll!!!

Il bimbo del mio amico non ci può credere, la sua felicità sale fino al cielo, è la gioia fatta bambino, ma…«…un attimo, fammici un po’ ripensare…io non ero in attacco, e quella era la “mia” porta…quindi ho fatto goal alla “mia” squadra…».

Nel giro di tre millisecondi ho visto il viso del bimbo del mio amico tramutare completamente espressione. Dalla letizia era passato allo sconforto più intenso, ci era rimasto veramente male, ma la bellezza di quel gesto così spontaneo e naif si era cristallizzata tutta intatta nel mio senso di ammirazione, e lì permane incontaminata anche oggi. La sua gioia nel gioco aveva toccato vette di purezza così elevate da fargli dimenticare persino se fosse in attacco o in difesa. L’importante era essere parte di quella festa, dire agli altri, parlando con la semplicità insuperabile di una pedata al pallone: ci sono anche io!

Ecco perché fa tanta rabbia quando si sentono notizie di vergognosi scandali malignamente germogliati in quel terreno che dovrebbe essere humus per la purezza ludica più disinteressata. L’appassionato di calcio, se è veramente tale, in fondo rimane sempre un bambino, per tutta la vita. Ecco perché, in questi casi, vengono alla mente famose parole come queste:

«…È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi!...» (Luca – 17,2)

O per compensazione spirituale, altre parole come le seguenti, che ci riportano a quello che il calcio dovrebbe essere, un rito sacro in cui celebrare l’inutilità nelle sue forme più nobili, per imparare ad essere uomini, facendo finta di essersi dimenticati per un momento del mondo intorno:

Goal

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l'amara luce.
Il compagno in ginocchio che l'induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l'odio consuma e l'amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
- l'altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch'io son parte.

Umberto Saba – 1940 / 1947

Squadra paesana

Anch'io tra i molti vi saluto, rosso
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.

Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.

Le angosce
che imbiancano i capelli all'improvviso,
sono da voi così lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.

Umberto Saba – 1940 / 1947

venerdì 3 giugno 2011

Ain’t life unkind?


«...Goodbye, ruby tuesday
Who could hang a name on you?
When you change with every new day...»

Mick Jagger - Keith Richards – 1967

*******

Eppure, essere tristi si può.
Essere tristi è nostro diritto e paradossalmente anche nostro dovere, molte volte. Certo, è meglio esserlo per piccoli dettagli, se solo è appena possibile. Tuttavia la tristezza è parte fondamentale e nobile del nostro essere umani. Negarla significa negare l’umanità di cui siamo composti come nostro elemento proprio, come sostanza esistenziale costitutiva.

Non saprei dirvi quante volte in vita mia sono stato triste, giusto per il gusto di non dare soddisfazione a come, secondo la gente, «…le cose dovrebbero andare…».

«…Su col morale, Gillipix…la vita è bella!…».
L’avrò già scritto di sicuro, ma tant'è, se vi va di farmi incazzare, non dovete far altro che venirmi a dire una a scelta fra queste frasi fatte, o qualcosa di similare. Soprattutto se sono dette come fraseggio dal tono “riempitivo ed imperativo”. Perché poi io sono per natura gentile, ed abbozzo ogni volta con un sorriso di circostanza, ma la mia tacita reazione interiore in questi casi è sempre stata del tipo: «…La vita è bella?!?!?...Sì, una cespugliosa e strabordante fava, è bella!!!…». Nel senso che, sì, può essere anche bella, ma non fatemi sentire come in obbligo di aderire a verità preconfezionate, che allora diventa un’ipocrisia bella e buona.

Insomma, tutte queste considerazioni un po’ sfilacciate, per arrivare a dirvi oggi che mi sento nel giusto ad essere triste per il fatto che Farly ha chiuso il blog. E’ una di quelle tristezze “giuste”, per l’appunto. Perché il motivo, per fortuna, non è dei più gravi. Nel senso che con Farly c'è sempre la possibilità del contatto telematico ed è questa la cosa più bella.

Detto questo però, per me rimane una tristezza importante. Perché con la chiusura di «Era di notte...» in qualche modo finisce un periodo.

Questa nostra condizione umana è veramente contorta.
Siamo continuamente sballottati fra il desiderio, da una parte, di veder fissati per sempre certi “punti cardinali” di riferimento stabile, e la sete invece, dall’altra parte, di novità, di freschezza, di rigenerazione, di andare oltre per vedere cosa c’è più avanti. Ragionamenti simili (...meglio forse dire “impressioni”) stanno celati dietro al fatto che la tristezza altro non è se non l’altra faccia della gioia.

Non solo nel senso che prima o poi tutto finisce e i momenti belli sono destinati a svaporare. Ma soprattutto perché è come dicevo in apertura: la felicità è una condizione artificiosamente idealizzata, la realtà invece è fatta di ambivalenze d’animo, di contrapposti spirituali che si reggono vicendevolmente. Per fare l’esempio più banale: ogni umano è disposto ad investire tutto se stesso nell’amore, e in particolare nei suoi aspetti fisici, anche se sa che dopo l’appagamento verrà la mestizia per l'«energia desiderante» momentaneamente attutita e lasciata dietro le spalle.

Quando qualcosa finisce, proviamo smarrimento, ma è forte anche l’inquietudine che ci coglie nel pensare alla possibilità di eventi senza fine. La nostra mente non si capacita, né con l’una, né con l’altra di queste idee, e forse la quintessenza del significato di ciò che intendo più propriamente con la parola “tristezza”, sta esattamente in questo paradosso. Il finito e l'infinito “si strattonano” spesso dentro di noi, che finiamo per caricarci sulle spalle tutta la spossatezza e la fatica di quello sforzo.

Con Farly si è creata nel tempo una complicità bloghesca speciale. Ad un certo punto, bella come tutte le cose nate spontaneamente, si è pure fatta strada questa buffa storia della “chimera”. Visto che ci commentavamo vicendevolmente ed assiduamente nei rispettivi blog, divertendoci anche parecchio, c’è stato chi ha insinuato il sospetto che Farly ed io fossimo la stessa persona.

Da qui Farly coniò la leggenda della chimera, uno strano essere mitologico metà Farly e metà Gilli, una sorta di leggendario Farlipixel scaturito dai più reconditi meandri della mitologia internautica. La cronaca spicciola non ha mai smentito quei mitologici sospetti ed anche questa è stata una delle parti più belle del mio entrare in contatto col blog di Farly. Siamo due persone? Siamo una persona sola? Io sono uno o “bino”? Sono un uomo o una donna? Che importanza aveva, in fin dei conti? (…e non mi scomodo nemmeno a dare un’occhiata in tralice dentro le mutande, per verificare…).

La cosa importante era scrivere due blog che in qualche maniera si compensavano, entrando in sintonia spontanea fra di loro. Perché sia Farly che io scrivevamo seguendo un certo “spirito narrativo”, quasi dimenticando entrambi chi siamo nella vita reale. Non per chissà quale desiderio di mistero, o per atteggiarsi a “personaggi”.

Nostra intenzione era entrare in una dimensione più pura, la dimensione “sacrale” della parola, la dimensione del votarsi interamente ad un senso di gratuità e di bellezza superiore. Senza la pretesa di fare “alta letteratura”, ma molto più semplicemente per sfiorare aspetti della vita più rarefatti e sublimati, anche attraverso la presa in considerazione di piccole cose di poco conto ed ironie spicciole, eventualmente.

Da buon amico, dovrei ora chiedere a Farly di ripensarci, che magari questa è solo una fase di stanca, che poi le potrà ritornare la voglia di continuare a scrivere su «Era di notte...»....che poi, che poi...
Ma se così facessi, dimostrerei solo di non aver imparato nulla dai fondamentali insegnamenti dei più grandi maestri spirituali del '900, e in particolare passerei insensibilmente sopra il primo comandamento secondo Jagger e Richards, che così recita:

«...Don't question why she needs to be so free
She'll tell you it's the only way to be...».