mercoledì 27 giugno 2012

Piccolo lutto felino




Piccolo lutto felino,
fruscia via lieve,
senza clamore, senza pretese.

Dolore e dignità
come fusto e corteccia.

Piccolo lutto felino,
mesto soffio minimale
di fronte ad uragani di male.

Ma una lacrima in pelliccia scorre
lungo la guancia,
l’anima ha le vibrisse
e polpastrelli a cuscinetto
picchiettano nel cuore
zampatine di nobiltà.

sabato 23 giugno 2012

Io com…peto, tu com...peti, noi com...petiamo

Ad essere troppo sottili, non saprei dire se si faccia peccato, ma qualche volta ci si azzecca.

Sul “Corriere della sera” non online di ieri, a corredo di un articolo che trattava delle infinite e travagliate negoziazioni economiche fra i governi europei in primis, e fra questi ultimi ed i vari istituti sopranazionali preposti alla vil tematica pecuniaria, era riportata questa foto.


Come si può arguire dalla didascalia che ho lasciato intonsa, si tratta del direttore del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la francese Christine Lagarde, e del lussemburghese Jaen-Claude Juncker, presidente dell'Eurogruppo, l'organismo che riunisce i ministri economici dell'Unione Europea.

Ora, non ci vuole un genio del senso dell'osservazione, per notare come la posa sia stata scelta in maniera piuttosto “furbetta”. I motivi veri, mi sfuggono, e magari poi provo a lanciare lì una mia ipotesi, ma è ormai un malvezzo notato fin troppo spesso, questo, anche su quotidiani nazionali di prestigio, per non far sorgere dubbi riguardo ad una qualche intenzionalità sottostante.

Si sa che una fotocamera in dotazione ai reporter di oggi può scattare nel giro di pochi attimi una pletora di immagini ravvicinate talmente ampia, da fiaccare non uno, bensì un mezzo esercito di redattori di giornale. In pratica, fanno quasi dei “filmati per fermo immagini”, e la marea di scatti fra cui scegliere dev'essere di un'estensione e di una varietà esagerate.

Ma chissà come mai, guarda caso dei putacasi, spesso va a finire che l'immagine scelta sia giusto giusto la più maliziosetta, quella vagamente scherzona e burloide, quella che ammicca non meglio precisati ammiccamenti. La foto in questione fa evidentemente parte di una sequenza di scatti sparati a raffica per ritrarre l'intera dinamica di un abbraccio con “bacio istituzionale” fra la Lagarde e Juncker. Proprio in virtù della potenza di fuoco sprigionabile con le macchine iper-catturone dei reporter di oggi, è chiaro come ogni posa sconveniente oppure più o meno ridicola sia sempre in agguato. Anche il gesto più normale, quando considerato integro e con la sua tempistica naturale, nasconde in sé pose bizzarre, una volta che venga sezionato in micro-frazioni di scena.

Senza ipotizzare la “sofisticata” situazione che sto illustrando, bastano frangenti molto più banali per raggiungere un qualche scopo. Tanto per dire, ogni essere umano, se non vuole ritrovarsi con il deserto del Kalahari nell'occhio destro ed il Sahara nel sinistro, per sua natura sbatte le palpebre con una certa frequenza. Vista la preponderanza temporal-tecnologica del fotografo, risulta dunque un gioco da ragazzi cogliere il povero soggetto con la bandiera dello sguardo ammainata ed un espressione non proprio da cugino più furbo del Wyoming. Lo stesso dicasi riguardo a tutta l'altra varietà di “debolezze posturali” e di “riti gestuali” in cui incappa continuamente ogni individuo: sbadigli, abbiocchi durante conferenze campali, grattatine, stirate di pelle, e così via. Se proprio si vuole, prima o poi un'espressione buffa la si cava sempre fuori.

Tornando alla foto Lagarde – Juncker, credo che andare a scegliere esattamente quell'immagine in mezzo alle decine scattate, sia scorretto come travisare completamente il pensiero di un oratore, riportando solo citazioni isolate e mirate a distorcere il suo discorso. Forse gli esiti saranno meno gravi ed immediati, ma lo spirito è il medesimo. Lui “sembra” elargire il labbro un po' a ventosa, lei “sembra” in languida attesa, l'effetto “limonata incipiente” “sembra” sprigionarsi in tutto il suo fulgore, mentre niente di tutto ciò che la foto spaccia come maliziosamente ipotizzabile, è veramente mai accaduto. Tutto sembra, ma niente è ovviamente successo.

Anzi, rispetto al travisamento del pensiero di un oratore ottenuto tramite citazioni maliziose, questo modo di filtrare le immagini appare ancor più subdolo in forza della sua vacuità di fondo. Qui non c'è proprio niente da dimostrare, nemmeno una tesi distorta, nemmeno la menzogna. Scartata infatti l'ipotesi, talmente assurda quanto spropositata, che l'intento nascosto sia dimostrare effettivamente l'intercorrere di una relazione fra le due eminenti personalità, l'unica spiegazione rimanente per giustificare la scelta di questa foto è la volontà di suscitare puro stupore, curiosità spicciola fine a se stessa.

A questo punto, credo che entri in gioco la tanto osannata competizione, dai più salmodiata come il toccasana sociale destinato a cavarci tutti d'impaccio. A mio parere, la competizione è da considerare teoricamente un valore solo nel caso in cui abbia la possibilità di dispiegarsi in un ambito civile fondato su un forte e radicato senso etico. Praticamente però, siccome tale ambito è assai raro da trovare, di fatto viene sminuita a meschino strumento di lenta erosione delle regole.

Chi pratica una competizione sana, dovrebbe concentrarsi soprattutto su se stesso e sul proprio impegno, mirando al miglioramento progressivo della società intera. Chi pratica una competizione distorta invece, punta l'obiettivo principalmente sul confronto con gli altri e dovunque ci siano piccoli margini per venir meno alle regole traendone vantaggio, non esita a sfruttarli.

Posso aumentare il profitto pagando al minimo i dipendenti, anche se poi questi faranno i salti mortali per campare? E io lo faccio...
Posso trasferire la fabbrica all'estero, facendo ancora più grano e lasciando a piedi i vecchi dipendenti? E io lo faccio...
Posso pagare anche i nuovi operai della fabbrica trasferita all'estero al limite estremo degli standard di vita locali? E io lo faccio...

Posso mettere a corredo di un articolo una foto capziosamente ed inutilmente maliziosa, anche se calpesto “un filo” la dignità delle persone ritratte, ma magari riesco a titillare un non meglio precisato senso di stupore e di prurigine del lettore, ottenendo ad ogni modo lo scopo di “colpire l'attenzione”, meccanismo di competizione questo fra i più potenti e ricercati per prevalere nell'attuale lotta mediatica?

E io lo faccio...

Ovviamente, l'esempio riportato è minimale rispetto a quanto operato da taluni grandi “maestri del giornalismo” nel recente passato. Solo per fare un esempio, i pochi cm. di correttezza erosi dal Corriere non sono nemmeno paragonabili ai metri sciupati da Emilio Fede ai tempi del governo Prodi, quando le immagini del premier venivano scelte ad arte con le espressioni più strampalate e ridicolizzanti.

Ma il punto è che bisogna stare molto attenti, quando si parla di competizione: se si tratta di piccoli tarli destinati ad erodere la quercia fino a farla crollare, credo sia il modo di competere che alla fine nessuno vorrebbe.

martedì 19 giugno 2012

Bartolomé Esteban Murillo: nel flusso della vita

Quando, in altre occasioni, vi ho parlato di grandi maestri della pittura, di geniacci delle arti visive, l’ho fatto quasi sempre cercando di sviscerare retroscena più o meno filosofici della loro opera.

La pittura, così come la scultura, o il cinema, ma anche la letteratura o la musica, tutte le arti insomma, “argomentano” attraverso canali sensoriali più o meno immediati. Il ruolo giocato dai sensi, a seconda della disciplina artistica in questione, è piuttosto variabile.

Un dipinto, ad esempio, può parlare solo attraverso risorse sensoriali visive: senza linee, colori, luce, il pittore è muto. Nella letteratura, la risorse sensoriali visive divengono invece accessorie oppure soltanto evocate indirettamente: ovvio, rimane fondamentale l’atto di poter guardare le parole sulla pagina, ma loro componente primaria è il “beneficio espressivo” offerto da un corredo di concetti, immagini, significati, già ampiamente codificati nel linguaggio, aspetto questo che nelle arti visive rimane invece sempre più indefinito, sfumato, inafferrabile. Una pagina scritta può restituire anche molto vividamente una scena osservata nella realtà, un oggetto toccato, un odore annusato, ma lo fa sempre attraverso lo strumento incolore ed indiretto delle lettere dell’alfabeto.

Il pittore dunque, per giungere ad esprimere compiutamente le proprie intenzionalità artistiche, deve saper mettere in gioco ogni volta sia un “talento sensoriale diretto” (mentre lo scrittore lo sfrutta indirettamente), sia l’acuità della ragione unita alla felicità dell’intuizione, tanto più valida quanto più geniale.

Laddove ragione e intuizione supportano il carico filosofico della poetica dell’artista “visivo”, il “talento sensoriale diretto” (l’abilità di far dire al pennello ciò che si intende dire, di mettere giù fisicamente il colore sul supporto) è invece lo strumento “non mediato” per arrivare ad esplicitare, praticamente sulla tela, questa componente filosofica.

Altra cosa ancora, per fare un diverso esempio, è il cinema, dove le cose si rimescolano ulteriormente: qui l’immediatezza dei sensi gioca una parte fondamentale ed articolata su diversi piani, molto più che in un romanzo, per dire. Il regista si può avvalere di componenti sensoriali immediate (le immagini, i suoni) ma anche mediate, ad esempio la parola parlata, eventualmente anche quella scritta, oppure la musica.

Ma perché mi sono avventurato in una simile disquisizione introduttiva che, al di là della pretenziosità paludata con la quale ho cercato di dipanarla, magari cela sotto sotto poco meno di una caterva di ovvietà?

Tutto per raccontare due parole su un pittore spagnolo dal XVII secolo, che fino a pochi giorni fa quasi nemmeno conoscevo: Bartolomé Esteban Murillo (Siviglia, 1617 – Cadice, 1682). Anche questo autore l’ho scoperto grazie ai bei volumetti dell’editore Skira, che escono abbinati al Corriere della Sera. Alcune sue opere, non molte a dire il vero fra le diverse riprodotte, mi sono suonate subito familiari, mi “parlavano”.

Donne alla finestra - 1655/1660

Bambino con cane - 1660

Altre invece, la maggior parte, suonavano un po’ convenzionali, dicevano il “già detto”. Ma cercando di approfondire i loro significati attraverso l’apparato critico e di commento, sono rimasto leggermente deluso. Nei testi relativi alle riproduzioni delle opere, a parte dati perlopiù biografici e storici, non veniva detto nulla di eclatante riguardo ai contenuti. Sì, ci sono cenni ad aspetti tecnici, sottolineature riguardanti la struttura compositiva delle opere, l’uso della luce, e così via. Ma nulla, o molto poco, si dice riguardo all’«idea della vita» espressa da Murillo coi suoi lavori. Il nucleo innovativo del suo “discorso filosofico”: è questo che si fatica ad evincere.

Come mai, mi sono domandato allora? In parte, me lo sono spiegato notando come Murillo sia un tipo di artista inserito abbastanza mimeticamente nella tradizione della sua epoca, quella Barocca. Il nucleo filosofico del discorso di Murillo segue la scia delle tematiche del proprio tempo, senza la pretesa di affermare novità particolarmente rivoluzionarie. I soggetti di Murillo sono spesso ispirati a tematiche religiose: in questo si accontenta di non dire filosoficamente nulla di nuovo, è perfettamente allineato alla tradizione.

Certe sue rappresentazioni sembrano il prototipo perfetto del santino della Prima Comunione o della Cresima.

Il buon Pastore - 1655/1660

Dove si cela allora la sostanza dell’enigma artistico di questo autore iberico così poco preoccupato di infrangere il “codice pittorico” del proprio tempo? Dov’è che, pur restando un autore minore rispetto ai grandissimi della storia dell’arte, nondimeno sa dire conoscitivamente qualcosa di nuovo?

A me sembra di poter rispondere che questo accade quando Murillo si discosta dall’ufficialità tematica delle sue opere a sfondo religioso, affrontando soggetti all’apparenza più ordinari. In quei casi, è lo stesso “talento sensoriale diretto” di cui si dimostra capace, che si carica di tutta l’energia filosofica della sua poetica. Con una rara sensibilità esecutiva, Murillo sa cogliere il flusso della vita nel suo scorrere, “semplicemente” fissando sulla tela l’ineffabilità di certi momenti quotidiani. Raramente in altri autori (seppur facendo riferimento alla mia limitata conoscenza), ho ritrovato una capacità così viva di cogliere l’essenza dei sorrisi, degli sguardi d’intesa fra i personaggi, il moto impalpabile di energia umana (o addirittura, spesso anche fra umani ed ineffabili cagnetti…) che si trasmette da individuo ad individuo attraverso il reciproco osservarsi, oppure dai personaggi verso chi osserva il quadro.

Bambini che mangiano uva e melone - 1650/1655

Lo stesso si può dire per la vitalità dei piccoli gesti ritratti. Sembra quasi di sentirlo uscire dal dipinto, celato sottopelle, nelle braccia, nelle gambe, nelle mani, negli sguardi di queste donne o di questi bambinetti che si spulciano, sbocconcellano frutta, contano soldi, si sorridono e ci sorridono, sembra quasi di poterlo sfiorare nella sua fuggevolezza, il flusso di dinamismo da cui sono percorsi.

Bambino che si spulcia - 1654/1650

Non ci sono verità filosofiche sottostanti, da portare a galla col gesto pittorico. Il gesto pittorico stesso è vitalità nel suo farsi: la verità filosofica in questo caso sta nel gesto pittorico stesso, in quello che ho definito prima “talento sensoriale diretto”.

Giovane fruttivendola - 1670-1675

E dove la freschezza di questa quotidianità viene felicemente innestata nei soggetti religiosi, essa riesce a trarre fuori dalle vischiosità della retorica e dell’ufficialità anche quelle scene.

Sacra Famiglia con uccellino - 1650

“Di genere”: così viene definita questa tipologia di dipinti, con espressione un po’ convenzionale che ingiustamente rende loro poco merito.

Ma è proprio nella mancanza di convenzionalità, nella ufficiosità dello sguardo lanciato sui fatti della vita, che risiede la forza pittorica di queste opere. Murillo è insomma a mio avviso un artista che dà il meglio di sé nelle occasioni in cui “si fa tutto pennello”: non ci annuncia sconvolgenti novità filosofiche riguardo ai significati della vita (per questo “capitolo” si affida con chiarezza alla parte formale del messaggio religioso), ma ci mette a disposizione la propria sensibilità pittorica, la sua “sapienza sensoriale”, per cogliere tutta la pregnanza di piccole molecole di esistenza, che elevate in questo modo al di sopra della contingenza aneddotica, assumono un certo qual sapore di universalità.

venerdì 15 giugno 2012

Grrr…Quanto siamo trasgressive!!!



Per mio conto, e dicendola in forma di metafora gillipixilandese il cui senso non si faticherà molto ad arguire, i «trasgressivi» hanno un po’ fiaccato la borsa.

Sta imperversando Madonna col suo tour mondiale di concerti e ha appena fatto tappa a Milano. Ora, ci tengo a precisare di non avere nulla personalmente contro la vecchia Veronica Louise Grande Chewing-gum. Anzi, se devo dirla tutta, come personaggio mi è sempre andata anche abbastanza a genio e alcune sue vecchie canzoni le ascolto ancora volentieri. Non che siano capolavori, nella mia personale classifica di preferenze. Ma come tante canzonette, anch’esse si sono irrimediabilmente fuse a certi miei ricordi dei tempi andati: hanno fatto così il loro dovere di canzonetta e già per questo possono essere computate col sorriso sulle labbra. Mi spingo addirittura a concordare con quanti definiscono Madonna un abile conoscitrice dei meccanismi della comunicazione. Su tutte questi aspetti insomma non ci piove: può piacere o no, ma non si può negare che la ragazza possegga una sorta di fiuto sopraffino per il successo mediatico, e di questo bisogna darle atto.

Dove invece la seguo sempre meno, è nella faccenda della cosiddetta trasgressività. «…Ah Madò!!! Ma quale trasgressione, via…noi sì che si sta qui a smadonnare giorno dopo giorno con l’IMU e con lo spread, e te nun c’hai niente di meglio da fa’ che menalla ancora co’ la trasgressione de ‘sta cippa!…».

Il punto è che dopo Jim Morrison, Sid Vicious, Lou Reed et similia, da un punto di vista della rock star maledetta, da trasgredire c’è rimasto poco o nulla. Vista col senno di poi (e sebbene nessuno di quegli artisti del passato sia stato mai mosso da intenti sociologici, ovviamente), quel tipo di trasgressione per lo meno ha svolto la “funzione” storica di svecchiare certe mentalità, di dare una scossa elettrica ad alto voltaggio verso cambiamenti della società di cui poi tutti più o meno hanno in qualche modo beneficiato. Non sto auspicando che l’esempio autodistruttivo di quei vecchi rockettari venga seguito da chicchessia. Loro scelsero quella strada ed andò così: ci fu chi la pagò fino alle estreme conseguenze e chi ne venne fuori, magari parecchio rintronato, ma pur sempre vivo.

Quella di Madonna invece, o della sua fotocopia sbiadita degli anni 2000, Lady Gaga, la definirei un tipo di trasgressione munita di codice a barre. La puoi trovare facilmente nella corsia dedicata, all’interno del supermercato, al reparto trasgressione: c’è nella pratica confezione risparmio da pochi etti, oppure nel gran pacco famiglia a lunga conservazione, da diversi chili. Passi alla cassa e la commessa te la striscia sul lettore ottico. Paghi e ti danno pure lo scontrino: ecco, ti porti a casa i tuoi etti o chili di trasgressione, ti senti appagato dall’illusione di aver acquistato qualcosa di esclusivo, insieme alle migliaia di altri che provano la tua stessa sensazione, tornandosene a casa con in mano il tuo medesimo scontrino.

La trasgressione da supermarket è un po’ come la guerra fatta coi “droni” al posto dei soldati in carne ed ossa. Ha tragicamente senso fino a quando i droni, o missili “intelligenti” a lunga gittata, o altre simili diavolerie distruttive “ad culum paratum”, sono a disposizione di una sola delle due parti belligeranti, mentre sull’altro fronte ci sono dei poveracci col flobert o poco più, forti solo del loro rimetterci di persona.

La guerra a colpi di trasgressione combattuta fra Madonna e Lady Gaga non è altro invece che un continuo invio di droni da un fronte verso l’altro, in un crescendo di trovate pseudo-scandalistiche con così poco da perdere che ormai non farebbero più né caldo né freddo nemmeno alla cara nonna Carolina.

Tu fai vedere una tetta? Io faccio vedere il culo.
Tu metti in scena un attore nei panni di un prete con le dita nel naso? Io rincaro con un figurante vescovo che pesta una cacca di cane.
Tu spari nel microfono un rutto in dolby surround? Io ribatto con una scoreggia a riverbero quadrifonico.

E così via, “trasgredendo” di brutto. Ma di brutto, brutto, brutto, eh...

Alla fine, cara Madonna, esimia Lady Gaga, i vostri concerti saranno anche spettacoli fantasmagorici, non ne dubito e sono anche certo che se qualcuno mi offrisse il biglietto, vedendoli poi, mi divertirei un mondo. Ma date retta ad un fesso e fate un piccolo pensiero per il prossimo tour. Aprite magari le esibizioni mandando sul palco una casalinga di Voghera che spiega come si prepara il brodo di cappone per le feste, invocando lo sfortunato pennuto mentre cala nella pentola con siffatto appellativo: «…Alehhhandro, Alehhhandro», oppure un ragioniere di Mondovì che bestemmia compilando il 7 e 40 al ritmo di “Like a payer” (senza la prima “erre”, mi raccomando): l’effetto trasgressione ne guadagnerà in misura esponenziale.

martedì 12 giugno 2012

Dino, un nocino!


 Forse non se ne saranno accorti in tanti, ma la vera calamità sociale degli ultimi anni è stata la chiacchiera da bar. Col suo fare subdolo, la chiacchiera da bar s’insinua fra la gente, si ammanta di autorevolezza presunta, si rigenera, si ricicla, si autoalimenta, sostiene se stessa sulle proprie fragili basi maldestramente contrabbandate come solide, ed un bel mattino te la ritrovi alla guida di una città, di un territorio, della nazione intera, che quasi nessuno si è reso conto di come abbia fatto ad arrivare sino a lì.

Per esprimere al meglio le proprie potenzialità, la chiacchiera da bar, al pari del plurinominato (e qui non nominabile…) accessorio anatomico virile protagonista di un celebre proverbio partenopeo, necessita di una imprescindibile condizione al contorno: non vuole pensieri. Si nutre di sottovuoto mentale spinto, prolifera nell’ambiente anaerobico tipico dei crani scarsamente irrorati d’ossigeno. La chiacchiera da bar ingolla aperitivi, salatini ed ipersemplificazione dei problemi, tutto in un sorso e una boccata soli.

E’ come una droga, la chiacchiera da bar: provoca dipendenza, assuefazione, degradazione  intellettiva e intellettuale. Chi la padroneggia consapevolmente come strumento di sofisticazione esistenziale, spaccia la chiacchiera da bar agli ignari assuntori, che se la sparano in vena, la fumano, la sniffano, non importa se pura o tagliata con argomenti di ragionevolezza apparente. Lo spacciatore in grande stile di chiacchiere da bar, a differenza di quello di droga, non dissimula le proprie responsabilità con l’agire clandestino, ma si fa forte di smentite del giorno dopo ed appelli a presunti fraintendimenti riguardanti le stesse proprie parole.

Sempre a differenza della droga (intorno alla quale il dibattito sull’opportunità di una liberalizzazione controllata rimane ancora aperto alle più varie tesi ed interpretazioni), nel caso della chiacchiera da bar, sembra di poter dire che un eventuale atteggiamento antiproibizionistico gioverebbe quasi certamente a mitigarne le derive di maggior flagello sociale. L’overdose di chiacchiera da bar presenta infatti segno del tutto opposto rispetto all’eccessiva assunzione fatale di droghe: una volta superata la soglia tollerabile di chiacchiera da bar, l’organismo richiede naturalmente una purificazione raggiungibile solamente col narcan dei pensieri elevati, il metadone di ragionamenti profondi, con le comunità di recupero della lettura e dell’approfondimento veri.

Legalizzando la chiacchiera da bar, elevandola al rango di materia di studio e al contempo di libero sfogo controllato concesso alle persone comuni, favorendone la diffusione in maniera e in misura capillare, si potrebbe forse cagionare l’auspicata overdose epocale in grado di far deflagrare il bubbone liberatorio.

I bar come nuove sedi universitarie di sociologia applicata, cenacoli del luogo comune più frusto e ritrito nella propria pretenziosità: «...pena di morte…se ne stiano tutti a casa loro…la galera, ci vorrebbe…se fossi ministro io…chi non lavora non fa l’amore…», sino a che l’implosione ignorantizia letale non si manifesterebbe in tutto il suo deflagrante fulgore, ed i primi superstiti dalla grande ubriacatura di banalità inizierebbero ad invocare con flebile e provata voce: «...presto, soffoco: a me il primo volume di “Guerra e pace”!…», o ancora: «...aiuto, mi sento mancare, ho avuto un’allucinazione tremenda: Balotelli ministro della cultura!!!...Leggetemi subito qualche passo da “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith!…».

A pensarci bene però, non so nemmeno come mai mi sia venuto di scrivere queste cose, oggi…bah…vado a fare un giretto al bar, via…

giovedì 7 giugno 2012

Binario!!! Lungo ed erotario…




«…educazione significa 
arricchire le cose di significati…».
John Dewey

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Come forse alcuni di voi già sanno, di tanto in tanto mi diletto a dare qualche sferzata agli usi improvvidi del linguaggio e delle parole, che nelle più svariate sedi vengono maldestramente e perlopiù presuntuosamente sperimentati. Una simile pratica non mi è suggerita tanto dalla pretesa di sfoggiare dosi massicce di “saputellismo” applicato. Né tanto meno lo faccio per millantare chissà quale superiorità linguistica che di fatto non posseggo.

Gli errori linguistici fatti in buona fede, l’uso delle parole distorto in misura ingenua, alla fin fine mi stanno anche simpatici. Eccezion fatta forse per alcuni grandi esperti o per chi tratta le parole in modo assolutamente professionale, chiunque può incappare in questo tipo di sviste o di omissioni conoscitive: l’onniscienza linguistica è una chimera per tutti e probabilmente nessuno la possiederà mai in forma definitiva.

Quello che non mi piace invece è la pretenziosità di chi usa le parole al di sopra delle proprie possibilità, di chi non commisura l’utilizzo della lingua alla giusta dose di umiltà che compete al proprio livello culturale. Uno dei paradigmi di questo uso fastidioso della lingua si riassume nell’espressione “piuttosto che”, usata in senso “alternativo” anziché “esclusivo”, come sarebbe corretto, e da me già stigmatizzata a dovere in altre occasioni. Se tra due termini frappongo l’espressione “piuttosto che”, in italiano intendo che preferisco la prima cosa menzionata alla seconda. Ad esempio se dico: «…a questo punto, preferirei mangiare una mela piuttosto che una pera…», intendo scartare la pera come frutto conclusivo del pranzo, e non che l’una o l’altra mi vanno ugualmente bene (come vorrebbe invece l’odioso uso stravolto che dell’espressione viene fatto).

Sul fronte opposto, ho sempre visto con occhio bonario certi strafalcioni scaturiti dall’uso promiscuo di dialetto ed italiano. Anzi, questi possono essere anche divertenti e sintomo di una fertilità linguistica tutta da prendere in considerazione, perché dietro di sé reca sempre nascosti taluni aspetti d’ingenuità creativa.

Una di queste espressioni derivate dalla bislacca con-fusione italico-dialettale, che mi ha sempre regalato un sorriso di stupore linguistico, nasce dall’uso “traslatorio” dell’articolo, per nominare uno strumento della modernità: la radio. Fin da quando ero piccolo, ricordo di aver sentito nominare spesso, soprattutto dagli anziani perlopiù mono-parlanti vernacolari, l’apparecchio ricevente delle omonime onde con la parola “aradio”.

E’ buffo e significativo ad un tempo che questo fenomeno di distorsione espressiva si sia verificato con un oggetto non facente parte della tradizione culturale antica e come tale non ancora catalogato fra gli oggetti linguistici solidamente riconosciuti. Nemmeno allo scemo più incolto del villaggio sarebbe mai venuto in mente, ad esempio, di dire “la ratro”: un aratro sapevano benissimo tutti cosa fosse.

Nel caso della radio, il trasferimento della “a” dell’articolo sulla prima “punta” della parola avveniva per la non conoscenza del termine per iscritto e forse anche per comodità sonora: “l’aradio” suonava forse più naturale di “la radio”. A ben pensarci, la parola “radio”, rimanendo a livello di pronuncia, di espressione orale, sembra proprio calamitare verso di sé la “a” del suo articolo.

 Il bello di questo errore poi stava nel fatto che esso rimaneva subdolamente camuffato nelle forme parlate, perché il suono effettivo risultante era pur sempre “laradio”, sia che s’intendesse “la radio” oppure “l’aradio”. Ed il divertimento stava in quelle occasioni rare in cui il parlante dialettale era costretto a citare l’apparecchio senza il supporto dell’articolo, oppure magari al plurale (“le aradio”, caso però piuttosto desueto), sbugiardandosi a quel punto nel pieno del proprio guado “strafalciante”.

Un po’ sulla scia di queste reminiscenze fanciullesco-lessicali, nel dormiveglia di una delle scorse mattine (periodo della giornata assai foriero di deformazioni ludico-espressive), mi è venuto in mente un gioco di “travasi vocalici” simile a quello innescato con “l’aradio” dei bei tempi andati. Da questo giochetto è poi scaturito un curioso neologismo, al quale mi sono divertito ad assegnare possibili significati.

Non so come mai stavo pensando a “le rotaie” (nel semisonno le parole si parlano da sole, ci avete mai fatto caso?), quando tutto d’un tratto l’abbinata “articolo più parola” mi si è mutata in “l’erotaie”, o “le erotaie”, vedendo scivolare la vocale dell’articolo sull’inizio del termine stesso, incerta tra l’elisione ed il raddoppio. Per completare il gioco (e senza negare una piccola forzatura grammaticale d’origine, a dirla tutta…), sono passato poi a considerare la paroletta neonata al singolare, “l’erotaia”, e mi è parsa ancor più efficacemente densa di significati potenziali.

In fondo, molto del senso stesso di tutta la nostra vita consiste in un cammino continuo effettuato lungo un’erotaia. Eros, in tutte le sue declinazioni e sfumature (dal piano spirituale sino ai livelli più carnali), è l’energia (“le nergia”?...va beh, ora non esageriamo…) vitale più intensa con la quale ci ritroviamo a fare i conti nel corso di ogni età. Ce lo insegnavano già gli antichi greci e poi i romani, con una schiera di déi olimpici addetti all’argomento, da Afrodite al figliolo Eros, da Priapo sino alle ninfe, coi fauni e i satiri, ed altre entità più piccole del gran parentado erotico.

Il concetto, abbinato all’idea di rotaia, s’invera ancor di più nel fior di conio della mia nuova buffa parola, caricandosi anche di risvolti schopehaueriani: la forza di eros (che il filosofo tedesco interpretava come “volontà della specie di auto-perpetuarsi”, travalicando di fatto le volontà individuali) permette all’uomo una libertà di movimento esistenziale molto simile a quella concessa da un binario.

Con Freud abbiamo poi saputo che ogni deragliamento da questo tracciato umanamente pressoché imprescindibile, può essere causa di guai notevoli, per cui è sempre consigliato cercare di mantenersi sulla linea dettata dal percorso ferrato che l’erotaia ci indica, sfruttando magari l’occasione offerta da qualche scambio provvidenziale, la distrazione di qualche stazione particolarmente accogliente, ma in ogni caso scorrendo con le ruote ben saldamente ancorate alla lunghissima doppia barra d’acciaio amoroso.

Per cui, cari amici viandanti per pensieri, d’ora in avanti, quando vi sentirete attratti da una persona, invece di sfoderare le antiche ed ormai usurate formule seduttive, perché non provate con un più aggiornato: «…Chiedo scusa: mi concederebbe il transito sulla sua erotaia?...».