Forse non se ne saranno accorti in tanti, ma la vera calamità sociale degli ultimi anni è stata la chiacchiera da bar. Col suo fare subdolo, la chiacchiera da bar s’insinua fra la gente, si ammanta di autorevolezza presunta, si rigenera, si ricicla, si autoalimenta, sostiene se stessa sulle proprie fragili basi maldestramente contrabbandate come solide, ed un bel mattino te la ritrovi alla guida di una città, di un territorio, della nazione intera, che quasi nessuno si è reso conto di come abbia fatto ad arrivare sino a lì.
Per esprimere al meglio le proprie potenzialità, la chiacchiera da bar, al pari del plurinominato (e qui non nominabile…) accessorio anatomico virile protagonista di un celebre proverbio partenopeo, necessita di una imprescindibile condizione al contorno: non vuole pensieri. Si nutre di sottovuoto mentale spinto, prolifera nell’ambiente anaerobico tipico dei crani scarsamente irrorati d’ossigeno. La chiacchiera da bar ingolla aperitivi, salatini ed ipersemplificazione dei problemi, tutto in un sorso e una boccata soli.
E’ come una droga, la chiacchiera da bar: provoca dipendenza, assuefazione, degradazione intellettiva e intellettuale. Chi la padroneggia consapevolmente come strumento di sofisticazione esistenziale, spaccia la chiacchiera da bar agli ignari assuntori, che se la sparano in vena, la fumano, la sniffano, non importa se pura o tagliata con argomenti di ragionevolezza apparente. Lo spacciatore in grande stile di chiacchiere da bar, a differenza di quello di droga, non dissimula le proprie responsabilità con l’agire clandestino, ma si fa forte di smentite del giorno dopo ed appelli a presunti fraintendimenti riguardanti le stesse proprie parole.
Sempre a differenza della droga (intorno alla quale il dibattito sull’opportunità di una liberalizzazione controllata rimane ancora aperto alle più varie tesi ed interpretazioni), nel caso della chiacchiera da bar, sembra di poter dire che un eventuale atteggiamento antiproibizionistico gioverebbe quasi certamente a mitigarne le derive di maggior flagello sociale. L’overdose di chiacchiera da bar presenta infatti segno del tutto opposto rispetto all’eccessiva assunzione fatale di droghe: una volta superata la soglia tollerabile di chiacchiera da bar, l’organismo richiede naturalmente una purificazione raggiungibile solamente col narcan dei pensieri elevati, il metadone di ragionamenti profondi, con le comunità di recupero della lettura e dell’approfondimento veri.
Legalizzando la chiacchiera da bar, elevandola al rango di materia di studio e al contempo di libero sfogo controllato concesso alle persone comuni, favorendone la diffusione in maniera e in misura capillare, si potrebbe forse cagionare l’auspicata overdose epocale in grado di far deflagrare il bubbone liberatorio.
I bar come nuove sedi universitarie di sociologia applicata, cenacoli del luogo comune più frusto e ritrito nella propria pretenziosità: «...pena di morte…se ne stiano tutti a casa loro…la galera, ci vorrebbe…se fossi ministro io…chi non lavora non fa l’amore…», sino a che l’implosione ignorantizia letale non si manifesterebbe in tutto il suo deflagrante fulgore, ed i primi superstiti dalla grande ubriacatura di banalità inizierebbero ad invocare con flebile e provata voce: «...presto, soffoco: a me il primo volume di “Guerra e pace”!…», o ancora: «...aiuto, mi sento mancare, ho avuto un’allucinazione tremenda: Balotelli ministro della cultura!!!...Leggetemi subito qualche passo da “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith!…».
A pensarci bene però, non so nemmeno come mai mi sia venuto di scrivere queste cose, oggi…bah…vado a fare un giretto al bar, via…
Per esprimere al meglio le proprie potenzialità, la chiacchiera da bar, al pari del plurinominato (e qui non nominabile…) accessorio anatomico virile protagonista di un celebre proverbio partenopeo, necessita di una imprescindibile condizione al contorno: non vuole pensieri. Si nutre di sottovuoto mentale spinto, prolifera nell’ambiente anaerobico tipico dei crani scarsamente irrorati d’ossigeno. La chiacchiera da bar ingolla aperitivi, salatini ed ipersemplificazione dei problemi, tutto in un sorso e una boccata soli.
E’ come una droga, la chiacchiera da bar: provoca dipendenza, assuefazione, degradazione intellettiva e intellettuale. Chi la padroneggia consapevolmente come strumento di sofisticazione esistenziale, spaccia la chiacchiera da bar agli ignari assuntori, che se la sparano in vena, la fumano, la sniffano, non importa se pura o tagliata con argomenti di ragionevolezza apparente. Lo spacciatore in grande stile di chiacchiere da bar, a differenza di quello di droga, non dissimula le proprie responsabilità con l’agire clandestino, ma si fa forte di smentite del giorno dopo ed appelli a presunti fraintendimenti riguardanti le stesse proprie parole.
Sempre a differenza della droga (intorno alla quale il dibattito sull’opportunità di una liberalizzazione controllata rimane ancora aperto alle più varie tesi ed interpretazioni), nel caso della chiacchiera da bar, sembra di poter dire che un eventuale atteggiamento antiproibizionistico gioverebbe quasi certamente a mitigarne le derive di maggior flagello sociale. L’overdose di chiacchiera da bar presenta infatti segno del tutto opposto rispetto all’eccessiva assunzione fatale di droghe: una volta superata la soglia tollerabile di chiacchiera da bar, l’organismo richiede naturalmente una purificazione raggiungibile solamente col narcan dei pensieri elevati, il metadone di ragionamenti profondi, con le comunità di recupero della lettura e dell’approfondimento veri.
Legalizzando la chiacchiera da bar, elevandola al rango di materia di studio e al contempo di libero sfogo controllato concesso alle persone comuni, favorendone la diffusione in maniera e in misura capillare, si potrebbe forse cagionare l’auspicata overdose epocale in grado di far deflagrare il bubbone liberatorio.
I bar come nuove sedi universitarie di sociologia applicata, cenacoli del luogo comune più frusto e ritrito nella propria pretenziosità: «...pena di morte…se ne stiano tutti a casa loro…la galera, ci vorrebbe…se fossi ministro io…chi non lavora non fa l’amore…», sino a che l’implosione ignorantizia letale non si manifesterebbe in tutto il suo deflagrante fulgore, ed i primi superstiti dalla grande ubriacatura di banalità inizierebbero ad invocare con flebile e provata voce: «...presto, soffoco: a me il primo volume di “Guerra e pace”!…», o ancora: «...aiuto, mi sento mancare, ho avuto un’allucinazione tremenda: Balotelli ministro della cultura!!!...Leggetemi subito qualche passo da “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith!…».
A pensarci bene però, non so nemmeno come mai mi sia venuto di scrivere queste cose, oggi…bah…vado a fare un giretto al bar, via…
4 commenti:
non chiacchierare troppo! quando lo faccio, a me viene una specie di senso di pesantezza alla bocca dello stomaco. no, non si fa, non si fa e basta! ben ritrovato, gilli!
@->Maria Rosaria: ehehhehe :-) è vero, EmRose, la chiacchiera rimane spesso indigesta :-) però se è chiacchiera in libertà, senza pretesa moralizzatrice, chiacchiera d'amicizia, allora è un balsamo lenitivo per gli acciacchi dell'anima :-)
Grazie, è bello ritrovare te fra i miei commenti :-)
Bacini semi-zitti :-)
Caro gilly, torno dopo mesi di assenza e trovo una delle tue perle migliori! mi piace guerra e pace come antidoto, suggerisco per dosi meno pesanti di chiacchiera a vuoto anche solo un modesto signore degli anelli ... per dosi davvero elevate però temo che ci voglia proust....
baci di ritorno
@->Farly: sorpresa delle sorprese!!! :-) Farly!!! :-) Grazie, ben ritrovata :-)
Ci sarebbe da sbizzarrirsi a trovare antidoti per il chiacchieraggio vacuo :-) Temo però che per certi tg o programmi televisivi attuali, nemmeno un Carmelo Bene lubrificato con una botte di Lambrusco sarebbe stato sufficiente :-)
Bacini a porte sempre aperte per te :-)
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