Mio fratello mi ricorda spesso un buffo aneddoto riguardante un suo compagno di classe del liceo. Al ritorno dalle vacanze estive, il professore d’italiano chiedeva conto ad ogni alunno delle letture fatte durante i mesi di riposo scolastico, da scegliere fra i vari classici della letteratura consigliati alla fine del precedente anno. Quando veniva la volta di quell’amico, noto scaldabanco semiprofessionale e goliardico compagnone, egli immancabilmente rispondeva: «…Eh, prof...sa com’è, non ho combinato molto…però ho iniziato a leggere “Guerra e pace”…».
Alla fine non so se il prof. se la sia mai bevuta quella gioviale balla, oppure se chiudesse un occhio giusto per onorare la simpatia della trovata, riproposta tale e quale ad ogni ripresa di anno scolastico. Di fatto so che quel “ganassa” letterario si è poi diplomato più che dignitosamente e dopo anche laureato con profitto, quindi in conclusione la sua strada l’ha saputa percorrere anche senza la guida della grande letteratura.
Un’altra avan-spettacolare facezia che chiama in causa il capolavoro tolstojano, posso attingerla invece dai miei ricordi personali, uscita dalla bocca di un geniale fine dicitore di Gillipixiland, mio caro amico da anni. Eravamo in piena e sfaccendata combriccola estiva, occupati in uno di quei raduni tardo-pomeridiani durante i quali l’occupazione più impellente di ciascuno consiste nello sparare la vaccata più degna di nota. C’era anche questo ragazzotto un po’ più giovane di noi, un piacevole guascone esuberante, la cui vivacità tuttavia non disdegnava di tracimare talvolta in una deriva “rompigliona”. Ad un certo punto, proprio nel mezzo di un “borseggio” praticato dal giovinastro in misura particolarmente molesta (in pratica, faceva un po’ l’idiota e dava fastidio), l’altro amico gran cantore della surrealtà se ne esce con questa perla: «…Se non la pianti di rompere i coglioni, ti scrivo “Guerra e pace” sulla fronte…» (ovviamente intendendo non il solo titolo, ma l’intero testo dell’opera riscritto da cima a fondo sull’esigua superficie della cute ante-cerebrale: precisazione inutile da aggiungere, per chi come noi era avvezzo alle arguzie illuminanti del caro amichevole motteggiatore).
Quando si dice la genialità…
«Guerra e pace» ha insomma sempre rappresentato per me (e credo anche per molti altri) quell’entità letteraria ignota e vagamente vagheggiata, capace di assumere risvolti buffi e surreali proprio in virtù del suo essere opera così mastodontica, titanica, sconfinata (e non sto qui nemmeno a citare, ad esempio, le esilaranti rivisitazioni di Woody Allen, oppure certe tenerissime vignette dei Peanuts, nelle quali Snoopy si era messo in testa di far rivivere tutte le vicende di «Guerra e pace» in forma di spettacolo di burattini da lui stesso buffamente manovrati).
Ricordo anche che con un altro caro amico, compagno di tante letture comuni, ad un certo punto decidemmo di acquistare insieme i micidiali due tomi dell’immenso romanzo di Tolstoj. E ricordo in particolare come quella spedizione in libreria si tramutasse in un’occasione di ulteriori facezie e battute, sparate per celebrare un qualcosa a metà fra il nostro potenziale eroismo di lettori a confronto con la sempiterna opera russa, ed il piacere di ironizzare su tutto, da noi spesso coltivato: «…Minchia “Guerra e pace”: ma chi ce la farà mai a leggerlo…diventiamo vecchi prima…» e giù risate di non senso culturale come se piovesse.
Quei due corposi tometti hanno poi continuato a vagare in casa per diversi anni, scalando comodini, infrattandosi fra scatoloni o scaffali di libreria, senza che mi decidessi mai ad affrontare seriamente il cimento con una così gigantesca sfida di lettore. La più tenera testimonianza di questo lungo peregrinare per casa di quei due cari librozzi, sottoforma di inquiete “anime non lette”, viene dal prezzo dei due volumi, ancora siglato in valuta “prei-spreadica” sulle terga del secondo tomo: 30mila lire avevo infatti sborsato all’epoca per assicurarmi quella piccola porzione d’eternità artistica.
Tutto questo sino a qualche giorno fa, quando, spinto non so bene da quale inusitata forza ispiratrice interiore, mi sono deciso una buona volta ad intraprendere sul serio e di buzzo buono la possente lettura del romanzo tolstojano.
Dire che si sta rivelando un’esperienza estetica di ordine superiore, è dire poco. Forse dovevano giusto passare circa vent’anni di decantazione dopo l’acquisto dei volumi, perché i tempi della mia lettura fossero maturi. Chi lo sa.
Volendo proprio azzardare una metafora gillipixiana, mi viene da dire che «Guerra e pace», dal punto di vista del lettore, si dipana con la struttura delle scatole cinesi. O ancor meglio: della matrioska, visto che si tratta di roba russa. Si procede nella lettura snocciolando vicende su vicende e mai si placa il desiderio di andare a vedere cose succede un po’ più addentro, e poi dentro ancora e così via. Cosa ancor più sorprendente: nonostante la marea di personaggi e le diramazioni a rivoli multipli delle loro vicende personali, non ci si perde praticamente mai. Il materiale narrativo è dominato con la maestria somma di un cocchiere che sa tenere a bada al tempo stesso centinaia di redini di un maestoso tiro composto da altrettanti cavalli.
A «Guerra e pace» sono estranei gli psicologismi gratuiti, le “filosofate” sovrapposte alla narrazione ed appiccicate sopra con un po’ di colla estetica. Il romanzo è ricco invece di “illuminazioni esistenziali” continue, piccoli barlumi lanciati sul senso del vivere e messi in evidenza dalla forza stessa del dipanarsi dell’azione, o dai comportamenti spiccioli dei protagonisti. In questo modo, le epifanie del lettore risultano essere innumerevoli, tanto che sarebbe impossibile farne una cernita per riportare le più significative.
Dopo qualche centinaia di pagine (perché «Guerra e pace», con la sua mole sterminata, è anche un grande riconciliatore coi tempi lunghi del vivere), si giunge a cogliere la tematica generale del romanzo, il filo conduttore di tutte le scatole cinesi fino a quel punto aperte e di quelle ancora da scoperchiare. Anticipando Marc Bloch e la storia degli Annales, «Guerra e pace» ci racconta come ciascun individuo sia mosso, o si illuda di esserlo, dal rigore ordinato della Storia corale con la “S” maiuscola, mentre di fatto sono sostanzialmente le piccole e grandi meschinità individuali, le spesso casuali ed involontarie glorie quotidiane, che ci fanno procedere.
Intorno alla 490esima pagina, sbuca fuori pure una piccola epifania programmatica ad enunciare il nucleo di questo tema generale del romanzo:
«…Intanto la vita, la vera vita degli uomini, coi suoi essenziali interessi, come la salute, la malattia, il lavoro, il riposo, con gli interessi del pensiero, della scienza, della poesia, della musica, dell’amore, dell’amicizia, dell’odio, delle passioni, procedeva come sempre, indipendentemente e al di fuori dell’intesa o dell’inimicizia politica con Napoleone Bonaparte e di tutte le possibili riforme…».
«Guerra e pace»
Lev Tolstoj – 1868-1869
A tener unite le due dimensioni, quella della “Storia Ufficiale” e quella della quotidianità più o meno spicciola, «Guerra e pace» è pieno zeppo di personaggi che riescono nella vita a dispetto della loro piattezza e dello scarso valore umano, e di altri che invece falliscono o riescono a fatica, nonostante i propri meriti e le notevoli qualità interiori.
Anatole, personaggio che fa una sporadica comparsa nel corso della narrazione, è il prototipo umano che meglio “epifanizza” questa verità:
«…Anatole non era né spiritoso, né pronto, né eloquente nella conversazione, ma aveva invece, qualità preziosa in società, una calma e una sicurezza che non veniva meno per nessuna ragione. Se un uomo, malsicuro di sé, tace in un primo incontro e mostra d’aver coscienza dell’inopportunità di quel silenzio e desiderio di trovar qualcosa da dire, tutto va male; ma Anatole taceva e dondolava una gamba, osservando allegramente la pettinatura della principessina. Si vedeva che egli poteva tacere così tranquillamente e molto a lungo. “Se qualcuno si sente a disagio per questo silenzio, parli pure, ma io non ne ho voglia”, pareva che dicesse il suo aspetto. Oltre a ciò, Anatole, nel trattare con le donne, aveva quel fare che più di tutto ispira alle donne curiosità, paura e anche amore: quel fare che mostra una sprezzante consapevolezza della propria superiorità. Pareva che dicesse loro col suo aspetto: “Vi conosco, vi conosco, perché darmi pena per voi? Certo ne sareste felici!” Forse egli non pensava così, quando s’incontrava con donne (era anzi probabile che così non pensasse, perché, in generale, pensava poco), ma tali erano il suo aspetto e il suo contegno…».
«Guerra e pace»
Lev Tolstoj – 1868-1869
«Guerra e pace» è anche quel portento di libro che, una volta giunti nei pressi di pagina 500, come sta succedendo a me adesso, si constata come sia possibile continuare a dire di aver praticamente appena iniziato, pur avendone ancora davanti altre 900 circa.
Tanto che a distanza di anni, grazie all’attuale mia lettura di «Guerra e pace», rivaluto volentieri la goliardia dell’allora compagno di classe di mio fratello. E in questo punto della mia vita in cui mi sto rendendo conto di stare concretizzando veramente poco, se d’ora in avanti qualcuno mi chiederà cosa sto facendo, potrò sempre rispondere: «...Eh, sai com’è, non ho combinato molto…però ho iniziato a leggere “Guerra e pace”…».