lunedì 24 settembre 2012

Bombus in fabula


Uno dei miei beniamini fotografico-entomologici prediletti, il bombo, è tornato a farmi visita nel weekend. Vi ho già raccontato in altre occasioni la simpatia particolare che nutro per questo cugino lievitato dell’ape. Per essere simpatico, ha tutte le carte in regola: è grassotto, si presenta sempre indossando una sontuosa pelliccetta striata, ha dei modi blandi di svolazzare da un fiore all’altro, ed il nome stesso suscita il sorriso solidale: bombo. Certo, come ogni altro suo parente con propulsione a ronzio, anche il bombo è potenzialmente “punzonante”, aspetto questo da non sottovalutare. Ma tale caratteristica la sfodera solo in casi rari. In generale il bombo, se osservato nel pieno rispetto della sua libertà bombonesca, risulta essere un bonaccione dei primi (oserei dire: un bombaccione…eheh…ahaha…uhuh…).

Avevo osservato un’altra volta il bombo esibirsi sopra uno dei palcoscenici floreali a lui più spettacolarmente consoni, ma allora non ero in condizioni di riportare con immagini quel delizioso evento. Se volete vedere il bombo all’opera mentre mette in mostra la sua bombaggine più strepitosa, dovete osservarlo alle prese con un particolare tipo di fiore che, tanto per cambiare, non so bene come si chiami. Credo che sia popolarmente noto come “scarpetta della Madonna”, oppure “scarpetta di Venere”, ma quasi sicuramente mi sbaglio.

Anche il bombo, e qui ne sono certo, non conosce il nome di questo fiore. Eppure la natura sembra aver fatto in modo di agevolare le loro rispettive evoluzioni al fine di farli ritrovare calati in una culo-e-camicevole sintonia che ha qualcosa di prodigioso e buffo nello stesso tempo. Cercai di descrivervi a parole il fenomeno, in un antico articoletto. Oggi ve lo posso documentare anche con qualche scatto fotografico.

Il fiore in questione (come potete vedere dalla foto sopra) ricorda una campanula terminante con una svasatura in due grossi petali sovrapposti e socchiusi l’uno contro l’altro. La scorsa volta mi pare di aver paragonato questa conformazione ad una bocca vegetale, o alle valve di una conchiglia. Un fiore carino, insomma, ma fino a qui niente di eccezionale: ce ne sono tanti di fiori belli. Tra l’altro, in condizioni normali, la duplicità dei petali non si nota neanche tanto. E’ soltanto quando entra in azione quel vecchio orsetto in miniatura del bombo che una simile struttura floreale si esalta esteticamente, grazie all’espressione massima di tutta la sua funzionalità formale.

Il bombo arriva nei pressi della bocca del fiore, ci piazza un paio di bzzzz-bzzzz di perlustrazione e poi pafff!!! Posa le zampette di dietro sulla pedana del petalo inferiore, il quale, come un fiabesco ponte levatoio staticamente calcolato dall’Ing. Natura per cedere di misura sotto il peso bombesco, lentamente si cala, agevolando il pertugio al nostro caro amico golosastro di polline.


Riuscendo a cogliere in foto il momento di questa magica schiusa ponderata a misura di bombo, ho avuto modo di notare un dettaglio ancor più esaltante. Il petalo basso presenta un bordo sagomato in modo tale da offrire un perfetto appoggio ai mini-piedozzi del bombo, tanto che, a ben guardarlo, il nostro beniamino, mentre si accinge a chiedere permesso inforcando la superficie floreale, ricorda una specie di gioioso John Wayne degli insetti ben saldo sulle staffe, oppure un biker mentre smacchina da par suo le pedivelle della beneamata Harley Davidson.

Fin qui, la dose di stupore naturalistico sfiora livelli già notevoli. Ma la cosa più fantastica, dal punto di vista della simpatia e della bombaggine  pura, si verifica qualche istante dopo. Ecco infatti che il nostro caro peluriato tricolore si tuffa a capofitto nel calice floreale e, dimenticando tutto il suo pingue aplomb britannico, si sgodazza una scorpacciata trimalcionesca da leccarsi la peluria.


Avevate mai visto una manifestazione di gioia più contagiosa, di questa postura a bombofitto di cui ci offre un mirabile saggio il pacioso insetto? Un’inquadratura laterale mette in rilievo inoltre una ulteriore affinità formale fra fiore e bombo. Il raggio di curvatura del petalo sembra calcolato con precisione al secondo di grado, in modo da modellarsi alla perfezione alla morbida panzetta bombonale, offrendo nel contempo un agevole appiglio alle zampette davanti.


Nell’immagine a seguire, si può apprezzare invece una variante della performance messa in scena su diverso sfondo cromatico.


A volte poi il bombo emerge dal bunker a prendere un po’ di fiato, mettendo in mostra un altro piccolo divertente dettaglio: la capoccetta ed il “coppino”, tutti spolverati di polline, denotano ancor meglio la passione sguaiata profusa in queste bellissime strippate godute a pieno ronzio.


In chiusura, solo un ultimo piccolo dettaglio riportato dall’osservazione bombale, purtroppo non riportabile attraverso un’immagine, vista la sua natura dinamica. Mentre tenevo d’occhio i movimenti del bombo major, sento un secondo ronzio provenire da un fiore completamente chiuso. Spalanco delicatamente i petali e: «...mmbbbzzz...mmmbzzz...» sento provenire dall’interno, «...Che bbbzzzo vuoi?...ma bzzz’an’zzulo, vàh!!!...», sino a vedere un bombo junior fare capolino con la sua capoccetta dall’imboccatura delle labbra floreali, per poi andarsene sdegnato. Si era tuffato completamente nella culla di polline, spaparanzato a doppia mandata nella goduria più completa, onnicomprensiva e totalizzante che solo ai bombi giovani è evidentemente concessa.

sabato 22 settembre 2012

Te possino dà tante…



Che cosa dire riguardo al recente squallidissimo scandalo alla Regione Lazio? Sapete che di politica ci capisco poco e raramente mi addentro in questo periglioso campo, perché finirei per ripetere il già detto da mille altre voci, inciampando per di più in una miriade di laccioli qualunquistici. 

Anche se, potrei auto-obiettare a me stesso, cosa c’è rimasto ormai di politico in tutto ciò? Qui si tratta semplicemente di depredazione allo stato puro (o di depredazione allo Stato, pura), senza un briciolo di pudore. Di politica qui non è rimasto proprio nulla.

Evito in ogni caso di addentrarmi oltre in analisi pseudo-tecniche, che esigerebbero considerazioni di tipo sociologico, storico, e simili complessità avulse dal limitato e sintetico spazio di un articoletto di blog. Il punto sul quale vorrei riflettere è invece l’ormai stra-vomitevolmente nota festa “in costume”. A dar retta al più immediato istinto polemico, il primo desiderio incontenibile che mi sale su per la gola sarebbe quello di poter vedere tutti gli invitati a quella geniale messa in scena, presi in blocco e consegnati (non dico per molto, al massimo un’oretta) nelle mani dei minatori del Sulcis Iglesiente. Tuttavia, come accennavo, a malincuore ho deciso di accantonare la strada maestra della grande affabulazione da Bar Centrale, e dunque di cruente risoluzioni della faccenda, ahimè, non ne posso parlare.

Oltre a poter ammirare le fantasmagoriche foto dell’eruditissimo convivio, sui giornali si leggono ora le abbozzate spiegazioni di chi organizzò quella presunta serata di divertimento. «…Una goliardata: non siate puritani…» leggo testualmente da un titolo del “Corriere della Sera”. 

Tutto, nelle nostre vite, presenta anche un riflesso estetico. Anzi, spesso la scelta estetica, intesa come motivazione esistenziale mossa prevalentemente dagli affetti e da tutte quelle componenti meno razionali che albergano nel nostro animo, finisce per diventare la molla preponderante a guida del nostro agire. Mi domando allora: cosa può nascondersi di minimamente buono dentro menti in grado di concepire una bruttura estetica simile? Si badi bene: qualcosa di minimamente buono non in senso generico, ma qualcosa di buono da poter essere trasmesso alla comunità. Dato che, d’accordo, si sarà pur trattato di una festa privata in quel contesto, ma organizzata per festeggiare una vittoria politica, quindi una importante componente di dimensione pubblica, volente o nolente, era contemplata.

Una goliardata non si nega a nessuno, per amor del cielo. Forse non si direbbe dalle cose che scrivo, ma pure il vecchio Gillipixel, non crediate, in passato non è che abbia sempre disdegnato ogni occasione di bagordi. Divertirsi è un diritto sacrosanto, che ognuno si può gestire come meglio crede, sempre nei limiti del rispetto della libertà e della incolumità altrui.

Questa però non era una goliardata qualunque. Ed è già solo nell’idea di festeggiare un’elezione politica con una goliardata, che si nasconde qualcosa di estremamente distorto. E’ questo il punto nodale della questione, il passaggio “concettuale” che forse inquieta in misura ancor maggiore della crassa manipolazione di una pseudo-cultura classica, acquisita più dalla visione dei film di Maciste, e di Franco e Ciccio (con tutto rispetto per i grandi comici siciliani), che non sui banchi di scuola.

Non si riuscirebbe a dire poi, riguardo alla giustificazione da parte degli sgangherati festaioli di non aver utilizzato soldi pubblici per pagare la bisboccia, se si tratti più di un’attenuante o di un’aggravante. Intendiamoci, dal punto di vista della contabilità spicciola, è assolutamente meglio così. Ma viene da pensare: sbattere via in quel modo bislacco i soldi, per tuoi che siano, non è che si possa definire esattamente una strategia da gran volpone nell'ovile. Se trattano con simile idiozia i soldi propri, c'è da figurarsi quanti scrupoli si saranno fatti in seguito con quelli degli altri.

Ci sono poi ulteriori spunti di riflessione sconsolata derivanti da questa vicenda. Sono connessi ad un certo mio sentirmi romano per “affettività onoraria”. A Roma ci sono stato non tantissime volte, in fin dei conti. Ma sono bastate per farmici affezionare nel profondo. Nel mio campagnolismo inveterato, non so se ci vivrei. Ma adorarla, quello sì. Roma mi piace per il suo spirito e per la sua storia, non solo antica, ma di tutte le sue epoche di maggiore o minore fulgore: dai secoli lontani della Lupa allattante, sino al Neorealismo; da Giulio Cesare ad Alberto Sordi, passando per il Barocco berniniano. Dal fascino di Roma non puoi fare a meno di lasciarti avvolgere. Roma è bellezza che attraversa i tempi, e trasversalmente a tutti i propri “gradi umani”: è ricca nei suoi aspetti popolareschi, così come la è quando si esprime attraverso quei picchi inimitabili di artisticità aulica di cui è capace. 

Dunque, al di là di tutto lo squallore “anti-politico” che esprimono, questi tristi rappresentanti di un trito e ritrito yuppismo fuori tempo massimo offendono innanzitutto la bellezza più vera di Roma. Rendendosi autori di una vera e propria caricatura del nulla con quella festa, soprattutto perché, come ho detto, imprescindibile da riferimenti ad un certo grado di coinvolgimento della collettività medesima, si sono macchiati in primo luogo di “lesa maestà estetica”. L'idea che l'energia più profonda di una grande città, ossia la sua carica ineguagliabile di bellezza culturale, possa essere stata “violentata” dall'alterigia di uno stonatissimo senso del ridicolo: questo è l'aspetto più offensivo di tutta la faccenda, a mio avviso.

La cultura e la bellezza hanno tuttavia una carica vitale che travalica le più infime insidie. Come consolazione sembrerà minima, ma ritengo sia fondamentale. Cultura e bellezza potranno patire momenti di sofferenza come questi, ma alla fine prevarranno con il loro fulgore, s'imporranno con la propria forza, al di sopra di ogni genere di squallore, lasciando i miseri a grufolare nel fango della propria insipienza, e concedendo ai più sensibili il privilegio di godere di tesori di “preziosità umana” simili a quello contenuto nel fantastico brano musicale che abbino oggi a questo articoletto.


lunedì 17 settembre 2012

Piccola discesa antica


E’ possibile leggere in un piccolo gesto insignificante tutta la sintesi di un’epoca? Forse un automatismo concettuale diretto in questo senso, risulterebbe lievemente azzardato. Le abitudini, tuttavia, non vanno sottovalutate, anche quelle in apparenza più casuali, perché possono offrire l’insospettato riflesso di un certo modo di guardare al mondo.

La casa vecchia, da me abitata per pochi anni quando ero un bambinetto, aveva davanti un cortile ampio. Questo immetteva, ed immette tuttora, sulla strada che porta alla piazza. Miei cari vicini di casa erano due “antichi” cugini, con le rispettive mogli. Li definisco antichi, perché quando i miei piccoli amici mi domandavano che tipo di parentela ci fosse con loro, mi trovavo sempre un po’ in imbarazzo. La parola “cugino” per me a quell’epoca era riferibile soltanto ad un mio pari età, o al limite a qualcuno con pochi anni in più. Quei due cugini vetusti avevano invece ormai un’età tale da poter essere miei nonni, oppure anche “bis”. Erano una specie di “cugini-nonnizzati” insomma, dei “cuginonni”. Ma come fare per spiegare questo arcano fenomeno ai miei amichetti delle elementari?

Ci ero affezionato, ai miei cugini vecchietti. Un po’ perché erano tipi simpatici, amanti della chiacchiera, ma capaci di misurare le parole, rigorosamente in dialetto. A volte mi facevano arrabbiare, in senso buono, mi canzonavano volendomi bene con un loro speciale modo burbero. Per altro verso, mi erano cari perché in effetti rappresentavano per me dei sostituti alla figura dei nonni, che di fatto non ho mai avuto modo di conoscere per davvero, per vicissitudini che sarebbero ora lunghe da spiegare. E poi, con i loro modi e la loro sapienza popolare d’altri tempi, mi apparivano come componenti di una tribù in via di estinzione. All’epoca, la mia visione di bambino non mi permetteva ovviamente di capire tutte queste cose, ma col senno di poi mi rendo conto che in qualche modo già le intuivo.

La strada che dal nostro cortile porta alla piazza sarà circa di 500 o 600 metri. Proprio il primo tratto, appena usciti dall’aia, per una cinquantina di metri scarsi presenta una lievissima discesa. Attenzione che quando dico lievissima, non esagero: si tratterà di un grado di dislivello a dire tanto. La mia terra normalmente è più piatta di un asse da stiro e se fosse una donna porterebbe la taglia “zero tettonico” di reggiseno, rigorosamente coppa di lambrusco. Le pendenze più forti che si possono vedere da queste parti s’incontrano quando la strada si arrampica su di un argine. Le prime volte che vidi qualche rilievo pre - collinare appenninico, mi stupii fortemente di come si potesse vivere in luoghi simili. Un posto in cui posando una cosa a terra, questa si mette a rotolare, doveva essere un posto dove anche i pensieri scorrono in maniera diversa.

Qualche giorno fa, ho visto una signora anziana compiere un atto, lungo quel piccolo declivio fra la vecchia aia e la piazza, che mi ha riportato subito alla mente come per incanto gli ormai scomparsi “cuginonni” della mia infanzia. La signora percorreva quella strada in bici e una volta giunta all’altezza della fatidica discesina, zac: ha smesso di pedalare. L’impercettibile declivio è infatti sufficiente a far sì che, una volta giunti al suo apice con un minimo di spinta, si possa poi sfruttare l’inerzia, almeno per quei 50 metri scarsi. Per quel piccolo tratto, non serve pedalare: si va pianissimo, ma si va, in virtù del dislivello minimale. Lo stesso identico “modus biciclandi” era appartenuto ai miei cari nonni-cugini. Decine e decine di volte li vidi incamminarsi, anzi, imbiciclarsi verso la piazza e, date due solerti pedalate d’avvio partendo dalla nostra aia, lasciarsi poi accarezzare nelle ruote dalle blandizie della discesina.

Questa tecnica viabilistica d’annata ormai non la pratica più nessuno, e nemmeno la conosce, o la vuol conoscere, più nessuno (giusto ancora qualche sporadica vecchietta). La discesina di per sé, come fatto fisico, è rimasta tale e quale. Insieme allo sfruttamento della blanda velocità della quale sa far dono, sono sparite una certa sensibilità per le cose ed i tempi consoni a quel modo di sentire. Per accorgersi dei possibili favori godibili da quella lieve discesa, bisognava aver condotto una vita a stretto contatto con le cose, aver maturato una “sapienza materiale” molto precisa, con una consapevolezza del presente intensa e preminente.

Non voglio fare un discorso passatista. Anzi. Mi limito solo a registrare un differenziale fra epoche. I miei cugini-nonni hanno avuto vite molto faticose, non se la sono certo spassata un granché. Quando li conobbi potevano contare su condizioni economiche più che dignitose, ma sono certo che da giovani vissero anche momenti di ristrettezze severe, parecchio dure. Il loro modo di guardare la realtà era molto diretto, concreto. Bisognava combinare qualcosa per arrivare a sera con la pancia, non dico piena, ma perlomeno “meno semivuota” del solito. Dalle poche risorse a disposizione era necessario spremere tutto il possibile, e andava fatto “adesso”, con pochi fronzoli di pensieri dedicabili al futuro e senza guardare nemmeno tanto al passato, se non come fonte di esperienza giocabile nell’immediato.

Della realtà, i miei nonni-cugini avevano imparato a sfruttare sino all’ultima stilla. Anche nel caso di un’insignificante discesa. Senza voler con questo evocare assurdi rimpianti per presunte epoche edeniche, di fatto mai esistite, quella discesina ed il modo di affrontarla da parte dei nonni-cugini, non di meno mi pare possano insegnare qualcosa ancora oggi. Insegnano un amore per la saggezza del vivere, basata prima di tutto sul confronto vero, immediato, con le cose. Insegnano a massimizzare le risorse, tema non da poco, nelle ben note condizioni planetarie attuali. Insegnano poi che per conoscere veramente i fenomeni del mondo serve anche una sapienza del tempo, con una grande attenzione per l’attimo presente. Insegnano forse persino che l’inseguimento spasmodico e disperato del tempo, altro non riflette se non l’angoscia nutrita verso l’ignoto della meta.

Ammetto di essere io il primo ad avere mille difficoltà nel mettere in pratica un insegnamento talmente alto. Proprio per questo, stamattina sono “andato a lezione”. Ho voluto ripercorrere la strada per la quale sarò passato milioni di volte in bici, facendolo però stavolta alla maniera dei miei cari nonni-cugini. Non a caso, subito mi sono ritrovato dietro un autotreno scassaminchia ed un altro ciclista “a pedalata continua”, che m’incalzavano. Non mi sono perso d’animo: son sceso un po’ di strada, lasciandoli passare oltre, e una volta giunto al limitare della discesina, ho smesso di far ruotare le gambe, in modo che la bici fosse spinta solo da quell’infinitesimale abbrivio. E per un attimo mi è sembrato di stare ancora seduto sul seggiolino, appeso al manubrio della bici di uno dei miei nonni-cugini, mentre, pur tacendo e senza smettere di risparmiare pedalate, mi raccontava qualche piccola frase saggia sulla vita.


domenica 16 settembre 2012

Spigoblog experiment


Leggendo qualche giorno fa sul blog gemellato cromaticamente ad Andarperpensieri, Spigoblog, ho trovato una cosa simpaticamente ben scritta, che mi è garbata parecchio. L'ho fatto presente tramite commento all'autrice del blog, Mattea, la quale mi ha invitato a realizzare una mia versione dello stesso scritto. Ecco come è venuto l'esperimento. Credo che il testo originale di Mattea sia molto migliore del mio, perché è più diretto e fresco. Il mio pecca un po' d'intorcinamento intellettualoide, come mi capita spesso. Ma è stato ad ogni modo divertente cimentarmi in questo esercizio di stile e di contenuto. E grazie a Mattea per l'invito a scrivere questa variazione sul tema.

Spigoblog experiment

Esiste un’attività precisa nella quale normalmente sono coinvolti “quasi” tutti gli esseri umani: vivere. Le ragioni di quel “quasi” si giocano spesso sul filo della comprensione della sottile differenza che intercorre fra due parole: VITA e PROBLEMA.

La vita ti capita fra i piedi ad esempio un giorno qualsiasi, uscendo di casa e notando che piove. Vita è anche notare che c’è nebbia, o il gelo, o nevica. Problema è quando, nonostante simili segnali di vita, decidi che raggiungerai ugualmente il luogo di destinazione guidando ad alta velocità, come tutti i giorni. Problema nel problema sono certe teste di minchia di certi giornalisti che, dopo, se ne escono con sparate del tipo “nebbia assassina”, “curva killer”, “dosso usuraio”.

Rendersi conto che siamo fatti di mente e di corpo è vita. Capire che c’è tutto un equilibrio sottilissimo e fragile in noi, da curare, da tutelare continuamente, da correggere in corso d’opera con aggiustamenti infiniti ed infinitesimali: soprattutto questo è vita. Credere che sia sufficiente recuperare la propria naturale regolarità, questo è un problema.

E’ vita anche leggere libri, vedere film, godere di opere d’arte, nelle quali possiamo ritrovare effettivamente rispecchiata la vita coi suoi infiniti significati. E’ un problema illudersi di vivere trasgressivamente la vita quasi fosse la trama di un libro, come immersi nei fotogrammi di un film o fra le pennellate di un dipinto, senza rendersi conto che milioni di persone uguali a noi, fanno le stesse identiche cose nel modo esatto spiaccicato al nostro, tutti insieme appassionatamente belli e trasgressivi. Corollario di questo problema sta nel leggere libri o vedere film che rappresentano quella stessa inflazionata trasgressività. Ne può derivare una problematizzazione a valanga, perché dalla vita che imita una buona opera d’arte, si passa ad una vita che scimmiotta arte mediocre, fino ad una vita che è parodia di spazzatura espressiva, per sprofondare in una vita che è grottesco e caricaturale riflesso di una massa di informi balbettii pseudo-culturali.

Essere “italiano” è vita. Essere “italiani” è un problema. Sperare che tanti italiani (a partire dall’unità minima di un capannello di tre persone, in su…), unendo le proprie forze, possano trovare la soluzione ai problemi che ogni italiano vorrebbe veder risolti, è un problema disperato.


giovedì 13 settembre 2012

In the world of the dreamt words

Quando si passa molto tempo della giornata a cincischiare mentalmente e visivamente con le parole, si finisce talvolta per sognarne qualcuna. A forza di leggere, scribacchiare, sragionare in modo gioioso, sino a smarrirsi per labirintici sentieri ludico-pensierosi, l’immagazzinamento di parole su parole s’ingolfa nel proprio inconscio, sino ad indurre quest’ultimo a reificare, personificare quasi, trasformare in nostri cari vecchi amici, quei cari fonemi ingurgitati.

Tanto che, come accennavo, una parola può essere addirittura sognata. Devo chiarire tuttavia meglio a cosa mi riferisco. Mettiamo ad esempio che si tratti della parola “GATTO”: non intendo che da quest’ultima venga promanato direttamente il sogno dell’immagine felina relativa, oppure dei caratteri grafici letterali necessari a scriverla sulla pagina bianca. Il fenomeno di cui parlo, prerogativa dei viandanti per pensieri della più folle risma, è molto più sottile e si verifica quasi esclusivamente con parole delle quali non si ha ben chiaro il significato. Magari succederà anche con quelle note e familiari, ma a me di fatto è stata una parola sconosciuta a presentarsi in sogno.

La parola, pensate un po’, l’ho letta più volte sempre sulle righe del già citato testo di Enzo Siciliano, «Vita di Pasolini». Sapevo che si trattava di una figura retorica. Forse, al tempo della scuola, avrei saputo spiegarvela per filo e per segno. Ma nel momento in cui l’ho rincontrata fra le trame della vicenda pasoliniana, mi era divenuta di nuovo sconosciuta nel senso.

La parola è «litote». Per pigrizia, non mi sono premurato di andare a rivedere subito il significato del termine, per cui sono trascorsi vari giorni di lettura durante i quali ho trovato alcune volte, ad intervalli di tempo, la parola nel libro, seguitando a leggerla come un puro suono, familiare sì, ma sconosciuto per quanto riguardava il suo portato semantico.

E “litote” di qua, e “litote” di là, alla fine la “litote” me la sono sognata. Com’è possibile sognare alcunché riguardo ad una parola che non si conosce se non nei suoni delle sue sillabe? E soprattutto: come si fa a sapere che l’oggetto del sogno abbia effettivamente qualcosa a che fare con la parola in questione? Rispondendo al secondo quesito, riesco forse a spazzare il campo da entrambe le perplessità. Io sapevo che l’oggetto da me sognato era effettivamente una “litote” perché era l’evidenza onirica stessa a confermarmelo di continuo. Nel sogno, vedevo questo oggetto e una voce mi diceva chiaramente: «…è una litote, è evidente…».

La “litote”, per come l’ho sognata io (ma il bello di questa cosa è che, se la sognassero 10 altre persone diverse da me, ne deriverebbero altre 10 immagini differenti), aveva le fattezze che ho tentato di riprodurre nel piccolo disegno allegato.


La mia “litote” era una sorta di piolo con pomello per l’impugnatura. L’azione di pertinenza, lo scopo di questo oggetto, era di venire infilato nel foro apposito corrispettivo, presente su una superficie atta a riceve l’inserzione della “litote”. La cosa buffa, nel prosieguo del sogno, era che i continui tentativi della litote di infilarsi nel foro ad essa destinato, non andavano mai a buon fine. Dimensione del piolo e dimensione del foro erano perfettamente adattate con reciproca precisione, ma non quanto sarebbe stato necessario a garantire la durata dell’incastro. Il piolo scivolava continuamente giù. E per tutto il tempo, la stessa voce mi garantiva, mi rassicurava: «…è una litote, non dubitarne nemmeno per un secondo…».

Ora, a quali scorribande per pensieri mi ha concesso di dare il via, questa singolare avventura onirica? Mi ha fatto ritornare ad un caro e rarefatto concetto già varie volte visitato. La convinzione cioè che nelle parole, al di là del loro carattere strettamente funzionale, “meccanico-comunicativo” per così dire, si nascondano forze suggestive misteriose, legate alla sonorità, ad una verbale energia estetica sotterranea, la cui origine ci è tanto ignota quanto lo sono le radici dello sfavillare della più primordiale scintilla di umanità scoccata come flebile bagliore nell’animo del “primo uomo”, ad illuminare fiocamente la lontanissima “notte dei tempi”.
Le parole posseggono una bellezza che va oltre i loro significati. Hanno un’anima ineffabile che ce le fa amare di una devozione cieca, inspiegabile, perché in qualche modo connessa a quanto accadde nel mentre e appena dopo si succedevano quegli attimi d’incanto ultraumano, a partire dai quali potemmo iniziare a chiamarci “uomini”.

E meraviglia delle meraviglie, non solo la “litote” mi ha raggiunto in sogno grazie al libro sulla vita di Pasolini, ma in questo stesso libro, in una citazione delle parole del poeta, ho ritrovato, come per ulteriore prodigio onirico ad occhi aperti, una folgorante sequenza di versi incredibilmente affratellata con il mio sogno della “litote”:

«…Non questa mia espressione di poeta rinunciatario,
che dice solo cose,
e usa la lingua come te, povero diretto strumento;
ma l’espressione staccata dalle cose,
i segni fatti musica,
la poesia cantata e oscura,
che non esprime se non se stessa,
per una barbara e squisita idea ch’essa sia misterioso suono
nei segni orali di una lingua…»

Pier Paolo Pasolini - 1966
(Da un’inedita intervista in versi
per un ipotetico giornalista newyorkese).

Ah…dimenticavo. Non vi ho spiegato cosa sia una litote. Si tratta di una figura retorica attraverso la quale si cerca di attenuare l’inclemenza di un certo giudizio (pur accentuandone così il senso ironico), per lo più negando il concetto opposto a quello che s’intende comunicare. Forse con un esempio, risulterà più chiaro. Ecco la litote più “litotesca” del mondo: «…Gillipixel: non precisamente quello che si dice un tipo sano di mente…».


martedì 11 settembre 2012

Da pelo nasce cosa



Durante la lettura del complesso tometto «Vita di Pasolini», un interessante quanto impegnativo libro di Enzo Siciliano, che analizza molto in profondità la biografia del narratore di «Ragazzi di vita» e del poeta di «Le ceneri di Gramsci», sono incappato in un curioso elemento di divagazione.

Neanche poi così nascosto, non si sa bene se più sopra o più sotto la sequenza letteral-grammaticale «…scrittore, in-…» («…”scrittore” + virgola + “in” + trattino di “a capo”…», faceva capolino un peletto. Oppure, faceva capeletto un pelino, che è più o meno la stessa cosa. Non si trattava di un pelo vero e proprio, ovviamente. In quel caso, mi sarebbe bastata una rapida indagine interna per capire subito la provenienza del corpo pelliccifero estraneo. Non sarebbe potuto provenire che da me medesimo e un delicato sbuffo di fiato sarebbe stato sufficiente a far finire la storia lì.

Del pelo che fu, qui era rimasto soltanto il fantasma tipografico. Forse svolazzante nell’aria della stamperia, aveva finito per planare fra carta e rotativa, imbibendosi casualmente d’inchiostro, giusto in tempo e giusto quel tanto per andarsi ad imprimere con nettezza fra quelle parole del testo. Ovviamente nessuno può garantire la veridicità dello svolgimento dei fatti nella forma esatta da me ipotizzata. Avrebbe anche potuto trattarsi di uno sbaffo casuale di china, venutosi a formare del tutto indipendentemente dai capricci dell’alea pilifera umana. A me piace pensare però che di fortuita avventura pelosa si sia trattata, anche perché diversamente non mi sarei nemmeno preso la briga oggi di scribacchiare queste tre fregnacce.

Quale migliore stimolo per un’allegra scorribanda fra i pensieri, che un giulivo pelo dotato di non comuni velleità espressive…


La prima fascinazione che mi è passata per la mente ha riguardato la fondamentale differenza semiotica fra l’impronta impressa dal pelo ed i restanti simboli grafici presenti sulla pagina. Mentre le lettere stampate sono segni “di rimando”, in quanto trasportano concetti e riferimenti a cose reali in modo simbolico, il pelo no. Il pelo è un pezzo di realtà, e per di più realtà umana, che viene a parlare di se stesso sul foglio di carta in prima persona. Anzi, in primo pelo. A cavallo della parola “scrittore” e della virgola, non c’era la parola “pelo”: c’era il pelo veramente, o meglio la sua viva impronta. Mentre sotto l’impronta di pelo (o in fusione con essa), non c’è la sagoma ricalcata della persona dello scrittore, ma solo 9 segni neri (“s” – “c” – “r” – “i” – “t” – “t” – “o” – “r” – “e”) che messi in sequenza sulla pagina nel modo indicato, si è convenzionalmente d’accordo facciano riferimento all’idea di scrittore.

Si aprirebbero a tal proposito tutta una serie di sottocapitoli riguardanti la pittura. Anche la tela dipinta, in quanto espressione di stillicidio setolare, rimanda ad identità suine o cinghialesche direttamente trasposte sulla superficie materiale dal pittore, grazie ai colpi di pennello inferti. Ci avevate mai pensato? Tutta quella teoria di giapponesi e non, assiepati flashanti a migliaia ogni anno al cospetto della Gioconda di Leonardo al Louvre, se si osserva il fenomeno da un punto di vista strettamente meccanico-fisico, in fondo non fanno altro che andare in deliquio per uno stillicidio di impronte pelifere suine.

E’ qui tuttavia che le differenze tra la pelliccitudine pittorica ed il mio pelo libresco tornano a farsi ancor più marcate. Nell’impronta massiva delle setole del pennello di un artista, la singola identità dei peli si annulla per andarsi a sublimare in un diverso tipo di simbolizzazione, quella data dalle immagini, che a loro discendono dalla serie di segni pelosi intenzionalmente disposti con precisa composizione sulla tela.

Il mio riflesso inchiostrato di pelo rinvenuto solingo sulla pagina rivendica invece tutta la sua personalità ed unicità di pelo concreto, che nel segno lasciato sulla superficie cartacea vuole rimanere puro pelo e concettualmente niente più.

In più nel mio pelo libresco c’è tutta l’involontarietà del suo essere caduto proprio su quella pagina, laddove mai avrebbe dovuto venirsi a trovare. E’ il pelo di una persona, che ha svolto, detto pelo, un’azione indipendente dalla volontà della persona stessa alla quale apparteneva. In questo si è comportato come un odore corporale, al quale non possiamo impedire di agire di propria “volontà”, comunicando magari agli altri anche ciò che non vorremmo noi stessi come persone pensanti e decidenti.

Siccome ho già messo in chiaro che qui si sta cavalcando alla grande sulle ali di ipotizzate fantasie, e data per buona l’identità pilifera di provenienza umana di quella strana svirgolata d’inchiostro, se permettete immagino pure per esso pelo una provenienza di natura femminile. E no, cari signori: mica ho fatto tutta questa fatica a scrivere fin qui, per andare poi a parare in un pelazzo di uomo. Almeno lasciatemi la soddisfazione che si tratti di sottile crine o filamento setolare, lì planato giungendo leggiadro dal morbido corpo di una gentile donzella.

Passata in giudicato anche questa immaginata verità di fatto, si aprono nuovi fascinosi scenari d’indagine fantasiosa circa l’identità della medesima fanciulla, in prima battuta, ed in secondo luogo circa la localizzazione geografica del sito anatomico di provenienza del peluzzo caro. Come mi è capitato sovente di ricordare, non avendo attivato al mio blog il filtro per i contenuti riservati ai soli lettori adulti, dovrò limitarmi a prendere in esame possibili origini pilifere dalla cintola in su.

Tre opzioni si prospettano allora valide.

Potrebbe essere stato un peletto di ciglia. L’ipotesi è azzardata quanto seducente. La lunghezza dell’impronta scoraggerebbe dall’abbracciare tale congettura, ma forse quella stessa leggera dismisura può essere ulteriore ingrediente di suggestione. Un ciglio sinuoso e ribelle staccatosi per eccesso di grazia seducente dalla palpebra ondulata di una elegantissima responsabile di redazione. Sfilando leopardesca fra le rotative pronte ad entrare in azione, e facendo cenno con una repentina rita-hayworthiana rotazione del capo che tutto era in ordine per procedere, deve aver contemporaneamente agevolato il decollo, dalla rampa di lancio della propria avvenenza, anche di quella sua minima propaggine pelosa. La poetica infinitesimale dell’episodio sarebbe andata perduta irrimediabilmente e per sempre nei meandri della mancata annotazione cronachistica, persino rispetto alla considerazione di schiere di addetti alle rotative stillanti testosteroniche velleità nei riguardi della bellezza superiore in grado aziendale, se il caso non avesse voluto riferircene grazie a quella malandrina impronta sulla carta.

Potrebbe essersi trattato di un capello cortissimo. Caduto stavolta dal di qua della barricata professionale. Sarebbe appartenuto ad un altrettanto aggraziata operaia, sodale di quegli stessi colleghi maschi ai quali la venustà dirigenziale era interdetta. Con la sua rada acconciatura declinata al maschile sopra uno scenario di formosità allettanti, avrebbe fatto scorrere adrenalina sensuosa fra cuore e ginocchia dei colleghi uomini. Uno solo fra questi sarebbe stato il fortunato ad avere il privilegio di imprimere i propri caratteri di stampa sulla rotativa della florida collega. A tal proposito, la leggenda narra che durante un turno di notte, unici addetti alle macchine presenti in promiscua letizia nella tipografia, dovettero fermare e far ripartire da capo il lavoro, per eccesso di altre impronte pilifere depositate sulle stampe, causa eccessivi scuotimenti duali all’unisono. Quella volta, le poche copie per fortuna stampate prima di accorgersi del difetto, furono buttate, ma queste sono sfumature scaturite da quelle parti della storia annidate dalla cintola in giù, e non ve ne posso raccontare oltre.

Potrebbe essere stato infine un soave, anticonformistico ed antistorico peluzzo d’ascella. Presa dalla smania del lavoro, si sarebbe dimenticata di depilarsele per oltre un mese la graziosa correttrice di bozze incaricata di occuparsi dello scritto in questione. Con indosso un gentile prendisole smanicato, sfinita e bellissima nella sua sudata armonia riconquistata al termine della lunga fatica di rettifica, si sarebbe accorta all’ultimissimo minuto di un errore grafico non segnalato. Sarebbe corsa trafelata nella sala rotative, e col braccio alzato per segnalare l’estrema necessità correttiva, avrebbe sparato a suo modo quella piccola porzione di incanto fisico, testimonianza viva e tangibile dello sforzo umano speso, giungendo in tempo per salvare l’integrità formale dell’opera e suggellare su di essa l’indelebile ricordo si sé.

E poi c’è ancora chi ha il coraggio di parlare di peli superflui…bah…


lunedì 10 settembre 2012

Di nervi o di sangue?



Una delle pubbliche discussioni più calde degli ultimi giorni è sorta intorno alle dichiarazioni “a microfono spento” rilasciate dal consigliere regionale emiliano-romagnolo Giovanni Favia, uno degli esponenti più in rilievo del Movimento 5 Stelle.

Valutazioni politiche “pure” sul caso non mi sento in grado di farle. Il Movimento 5 Stelle è un’entità politica talmente giovane che solo il tempo saprà dirci qualcosa di più preciso sul suo conto. Mi piacerebbe invece proporre alcuni spunti di riflessione, per così dire, di carattere più filosofico-storico, che sono anch’essi in qualche modo politici, è vero, ma in prospettiva “esistenzialmente” più vasta.

La trasmissione da cui è stato realizzato lo scoop (“Piazza pulita”, giovedì ore 21, LA7), a detta dei sostenitori del movimento di Beppe Grillo che si sono successivamente calati nell’agone del contraddittorio, peccava di neanche tanto ben celate mire denigratorie nei confronti del movimento stesso. Questo io non saprei dirlo, ma di fatto durante i vari servizi sono emersi dei dati, a mio avviso non così scontati e lineari. Una cosa per esempio non la sapevo per nulla. Dietro a tutto il movimento di Grillo, c’è questo super esperto di dinamiche della rete (intesa come internet, ovviamente, non quella per pigliare i pesci gatto), che si chiama Gianroberto Casaleggio e pare goda di una fetta di potere decisionale notevole nell’ambito del movimento.

La mia sprovvedutezza politica è senza dubbio assai estesa, per cui magari il mio esempio non farà granché testo. Per molti questo fatto sarà stato già arcinoto. Ritengo tuttavia che dovrebbe essere un dato esposto molto più chiaramente, dichiarato alla luce del sole e non abbandonato fra le righe, nella penombra del detto e del non detto mediatico. Per quanto mi riguarda, da semplice componente dell’opinione pubblica che cerca di osservare i fatti del mondo e dell’Italia, mi sono sempre fatto un’idea del movimento di Grillo come di un fenomeno sorto dalla spontaneità popolare, dal desiderio di cambiamento, dalla diffusa volontà di rinnovamento serpeggiante fra le persone comuni. Ora sapere che dietro esiste questa specie di “timoniere occulto” (sia detto con tutti i benefici metaforici del termine e senza voler fare alcuna insinuazione di sorta) perlomeno mi stupisce un po’.

Per poter aspirare ad un minimo di conseguimento di risultati e di concretezza nelle dinamiche politiche di grande portata, occorrono mezzi, occorre essere strutturati operativamente e soprattutto economicamente, con il supporto di forze ed esperienze di alto livello. Ma perché tenere nascosto l’esistenza di una struttura simile in un movimento? Per lasciare che la faccenda esca fuori alla chetichella, un qualche giorno quasi per caso, come fosse una faccenda poco chiara, in un qualche servizio televisivo, in modo da offrire il fianco a tutte le dietrologie immaginabili? Per gettarsi poi in pasto ai cronisti meno scrupolosi che non vedono l’ora di sfoderare angoscianti espressioni come “eminenza grigia”, “burattinaio”, “grande fratello” e così via?

Ma non è questo il punto principale di cui volevo trattare. Il passaggio che più mi ha impressionato in tutta la trasmissione sono state alcune dichiarazioni dello stesso Casaleggio, rilasciate non molto tempo fa nel corso di una conferenza. L’esperienza ed il valore professionale di Casaleggio nel suo settore di competenza (comunicazione via web più annessi e connessi) vengono riconosciute senza meno e sono tra l’altro comprovate dai fatti, ossia dal blog di Beppe Grillo stesso, una delle realtà internettiane più efficaci e capace d’imporsi con grande evidenza non solo in Italia, ma addirittura su scala mondiale. La sua opinione su questi temi va dunque tenuta in alta considerazione, perché quando affronta simili questioni, è uno che sa molto bene di cosa parla. 

Ciononostante, mi hanno lievemente inquietato alcuni affermazioni stralciate dal suo discorso. Più precisamente quando, esternando la più cieca fiducia nel mezzo internet (verrebbe quasi da dire “fede”), come ad ammonire la cecità di chi non si avvede dei mutamenti epocali in atto, ad un certo punto ha proclamato: «…fra cinque anni non ci saranno più i giornali, fra dieci non ci saranno più i libri…» o una cosa simile (non ricordo precisamente la quantificazione degli anni, ma il succo del discorso era esattamente questo).

La parte che maggiormente inquieta di questi concetti non sta tanto nella eventuale prossima sparizione dello “strumento” libro o dello “strumento” giornale, come espressioni materiali di per se stesse. Per quanto il mio romanticismo libresco mi causerà di certo una non lieve sofferenza, il giorno in cui i cari vecchi tomi e tometti in formato cartaceo dovessero sparire per sempre, tutto questo appartiene alla logica di dinamiche tecnico-produttive di carattere troppo vasto per poterci opporre noi, umili lettori dei tempi andati, alla loro ineluttabile evoluzione. C’era chi amava con tutta l’anima le passeggiate in carrozza, ma ha dovuto rassegnarsi all’avvento delle automobili.

La parte più inquietante di quei concetti sta invece nel loro eventuale presupporre, insieme alla sparizione di libri e giornali, anche la sparizione delle “modalità di essere uomini” che fino ad oggi hanno giustificato l’esistenza della funzione di libri e giornali. Che dei libri e dei giornali, insieme alla loro forma tradizionale, sparisca anche la loro “sostanza storica”: questo risulta estremamente inquietante, se è veramente questo ciò che ci si vuol dare a bere.

Senza voler esprimere giudizi prematuri ed incauti sulle potenzialità ancora inesplorate degli e-book, la cui valentia nel ruolo di sostituto libresco è ancora tutta da sperimentare, mi soffermo ad osservare un aspetto di tipo concettuale più profondo. Se si pretende che il “modo di essere” presupposto da libri e giornali venga soppiantato in toto dal “modo di essere” confacente ad internet, ci s’incammina su una strada molto malsicura, a mio avviso. Internet è un’ottima strada alla “comunicazione”. I libri e i giornali sono sempre stati invece strade privilegiate alla “conoscenza”. 

Internet consente di immettere le menti in una corrente di flusso di tipo nervoso. I libri e i giornali, così come li abbiamo sempre conosciuti, coinvolgono le menti pensanti in una circolazione di tipo sanguigno. La prima, la corrente nervosa del web, è fatta di rapidità, di espansioni quantitative sconfinate, di possibilità relazionali virtualmente infinite, ma tende ad assestarsi per sua natura in superficie. La seconda, la circolazione sanguigna di libri e giornali, è fatta invece di grandissime opportunità offerte all’approfondimento riflessivo, giocato fra le diramazioni complesse della propria profondità interiore. Le modalità internettiane sono eccellenti nel veicolare comunicazione. Libri, giornali e tutti i supporti simili a “ bassa velocità” (penso anche ad un’opera d’arte vista dal vivo, un dipinto, una scultura, una rappresentazione teatrale, ecc.) sono i depositari imprescindibili della conoscenza. Non perché non si possa fare a meno della carta, ma perché non si può fare a meno dei ritmi vitali e conoscitivi che dal libro e dai giornali sono consentiti.

Bisognerebbe essere molto meno leggeri allora, quando si dà per scontata la sparizione di libri e giornali. Perché se un mondo che offre “anche” la possibilità culturale di facebook, twitter e blog, può risultare per certi versi molto esaltante, al contrario l’idea di un mondo che offre “esclusivamente” l’opportunità culturale di facebook, twitter e dei blog, non solo mi mette addosso non poca angoscia, non solo mi causa tristezza e malinconia, ma se proprio la volete sapere tutta, mi fa anche parecchio cagare.


venerdì 7 settembre 2012

The sad short story of King Great Growth




I neologismi di Gillipixel:
- En plein merd (pronuncia = “énplèmérd”)
Espressione mutuata dal francese “En plein air”,
a denotare l’attuale situazione socio-esistenziale
diffusa un po’ dappertutto, per ogni dove umano.

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Anche i miti, di tanto in tanto, hanno bisogno di una rinfrescata. Se re Mida vivesse ai giorni nostri, si chiamerebbe re Crescenzone. Anche se noi lo chiameremo re, in fiducia e per semplicità, non si tratterebbe propriamente di un sovrano, professione ormai alquanto desueta. Re Crescenzone sarebbe piuttosto uno di quei tizi che credono nella crescita economica indefinita, nella progressione quantitativa senza limite. Che ne so, potrebbe essere un finanziere dei più arrembanti e privi di scrupoli, che si mangia a colazione il PIL di uno stato di medie dimensioni,  e ne sbocconcella uno più piccino per pranzo. Oppure un politico stra-neo-liberista, iper-devoto al dio mercato. O ancora, un imprenditore senza ritegno che delocalizza una fabbrica al mattino in Romania, per poi ricollocarla nel Burundi dopo mezzogiorno.

Come a re Mida era stato spesso ricordato che la ricchezza non è l’unico fattore utile per procacciarsi un po’ di felicità a questo mondo, e lui no, testardo, non volle sentire ragione, così capita un po’ anche con re Crescenzone. In molti provano a spiegarglielo. Ogni fenomeno reale si presenta con una sua fase di crescita, per arrivare ad un’acme che poi volge in declino. Ma non c’è verso: re Crescenzone insiste che la crescita senza termine sia del tutto plausibile e realizzabile.

Nel vecchio mito, Re Mida, per aver ospitato con mille onori il vecchio Sileno, patrigno di Dioniso, viene da quest’ultimo ricompensato con la possibilità di esprimere il desiderio che più gli stesse a cuore. Mida non ha dubbi: vuole poter trasformare in oro ogni cosa che tocca. A Dioniso, da gran esperto di bevute e baldorie con gli amici, non parve vero di sentire una richiesta così balzana, e già sghignazzandosela alla grande sotto i baffi, disse: «...e sia...». Tutti sappiamo come andò a finire: dopo i primi momenti di euforia, re Mida si accorse di essersi tirato proprio un bell’incudine sul ditone del piede. Non poteva più nutrirsi, perché anche i cibi in bocca gli si mutavano beffardamente in oro, per cui fu costretto a scongiurare il divertito Dioniso di revocargli quel nefasto potere a taglio più che doppio.

Re Crescenzone possiede un paio di fabbrichette ben avviate, ma il suo sogno è espandersi, incrementare il profitto, godersi ad occhi strabuzzanti di gioia la vista delle linee sui diagrammi mentre schizzano verso l’alto, più su, sempre più su, laddove nemmeno Renato Zero ha mai osato immaginare. Un giorno, mentre si reca in auto da casa alla sede di una delle sue aziende, re Crescenzone incalza l’autista a fare più in fretta, dai corri, va làh Gino, che ogni minuto sprecato sono punti percentuali di crescita che se ne vanno. Nel marasma accrescitivo, il povero autista fa confusione e finisce per urtare lievemente un povero ciclista nel traffico, facendolo cadere. Tocca fermarsi, e porca la stagflazione maiala!!! 

Per fortuna il giovane incidentato non si è fatto particolarmente male, solo qualche leggera ammaccatura. Re Crescenzone gli offre di accompagnarlo al pronto soccorso, mettendogli poi anche a disposizione l’autista tutta la giornata, per rientrare a casa dopo le cure. Casualità vuole che il malcapitato ciclista non sia un tizio qualunque, bensì un’entità semidivina, il giovane Prevarichello, figlio di Sgomito, il dio della competitività e di Marchettona, una ninfa dei marciapiedi.

Venuto a conoscenza del bel gesto di re Crescenzone, Sgomito si reca immediatamente da lui in visita di cortesia. Per contraccambiare, gli propone di esprimere il suo desiderio più grande. Qualsiasi esso sia, Sgomito cercherà di esaudirlo. Re Crescenzone, ostentando la medesima sicurezza e decisione di re Mida, subito esclama: «...voglio che tutto quanto tocco si metta a crescere senza limite...». Ad udire una così strampalata aspirazione, sulle prime lo stesso Sgomito è colto in cuor suo da un lieve accenno di perplessità. Tuttavia, per non venir meno alla parola data, abbozza una calma padronanza di sé: «...Non è un desiderio facile, caro Crescenz, ma aspettati da un momento all’altro di vederlo esaudito...».

Oltre alle mezze stagioni, non ci sono più nemmeno gli dèi di una volta e la promessa di Sgomito finisce per avverarsi, sì, ma con qualche magagna. Già da diversi giorni, re Crescenzone prova a toccare questa e quella cosa, nella speranza di vederla lievitare. Sfiora la cifra di un assegno ricevuto in pagamento, ma niente, i numeri rimangono gli stessi. Corre in banca, si chiude nella cameretta riservata ai titolari di cassetta di sicurezza, estrae i cari lingotti d’oro e i gioielli, li palpeggia, li accarezza, li titilla, e ancora nulla di fatto, non si schiodano di un millimetro dalla loro sagoma.

«...Pazienza...» pensa re Crescenzone, «...ci vuole pazienza, anche Sgomito l’ha detto, bisogna aspettare ancora qualche giorno...». Re Crescenzone si mette a letto ogni sera fiducioso e si alza al mattino testando subito sulla prima cosa che gli capita a tiro, per verificare se il prodigio s’è compiuto. Trascorre così un po’ di tempo, fino alla fatidica mattina in cui, quasi non pensandoci più, preso com’è dai mille pensieri aziendali della giornata, re Crescenzone si alza, si reca in bagno e lì, dritto in piedi di fronte al water, immancabilmente regge in mano una delle prime cose che sono soliti toccare gli esemplari maschi del genere umano a quell’ora. Ed ecco che d’un tratto «la cosa» si mette a crescere, all’unisono con le dimensioni dei sottostanti penduli ammennicoli sferoidali. A re Crescenzone non pare vero: il portento è andato a incominciare. E proprio a partire dal simbolo più simbolico della crescita virile, il massimo delle massime espressioni dell’erigendo orgoglio mascolino.

Non passa il tempo di una sbarbata e di una doccia veloce, che la faccenda si è già fatta grossa sino a sfiorare calibri degni di roccosiffrediche epopee. Re Crescenzone è fuori di sé dalla gioia, non vede l’ora di mettere piede in azienda per mettersi a stoccazzare in libertà registri contabili, rendiconti azionari e interi reparti produzione, facendoli impennare verso le inarrivabili vette del crescere eterno senza sosta alcuna. Prima di uscire, forte della sua rinnovata euforia, re Crescenzone assesta addirittura una ripassatina alla moglie ancora semi-assonnata nel tepore dell’alcova, la quale, incredula e sollazzante, colta a metà guado del “sogno o son desta dimensionale”, non può far a meno di mugolare il proprio apprezzamento in semiveglia, che sia vero o immaginato, ogni centimetro è tutto di guadagnato.

Re Crescenzone non sta nella pelle, non riesce a pazientare, né attende di giungere in fabbrica: già durante il viaggio in macchina, si mette a toccare cose con le dita. Nel frattempo il gonfiore della patta evolve imperterrito, mentre i primi atroci dubbi si fanno strada inesorabili. Toccando una moneta da un euro, questa si mette a crescere. Toccando una banconota, succede lo stesso, toccando invece la catenina d’oro appesa al collo, non succede nulla. Il cellulare, sfiorato appena dai polpastrelli Crescenzoni, si dilata anch’esso senza ritegno. 

Intanto la patta si gonfia, si gonfia, si gonfia, insieme al panico di re Crescenzone. Fortunatamente, fra le cose contagiate dalla crescita smodata, sono comprese anche le mutande e il cavallo dei pantaloni, di modo che re Crescenzone fa in tempo a rifugiarsi nel suo ufficio reggendosi e celando a stento quel fagotto incrementale di virile contro-produttività. Barricato nella propria stanza, a re Crescenzone si svela d’un tratto tutto l’arcano. Sgomito l’aveva avvisato: non si sarebbe trattato di un desiderio facile. Dopo alcune altre prove, è chiaro come la malaugurata previsione si sia avverata nel più bislacco dei modi: le cose toccate da re Crescenzone effettivamente crescono, ma sono per lo più cose svantaggiose, se non portatrici addirittura di danno vero e proprio.

A re Crescenzone, prima che la cornetta raggiunga dimensioni tali da sfondare il soffitto, non rimane altro che telefonare immediatamente a Sgomito, supplicandolo di accorrere subito, per esentarlo dal malefico potere.

Sgomito si precipita per riparare il malfatto, con tanto di consorte Marchettona al seguito e figliolo Prevarichello. Devono sfondare la porta dell’ufficio, dentro al quale trovano il povero re Crescenzone che galleggia letteralmente sopra il rollio di un paio di mongolfiere, ornate al centro da un mini-dirigibile spropositato, armamentario al quale il re medesimo si ritrova saldamente ancorato nei pressi delle parti inguinali. Bastano due parole di rito ben assestate ed il sollievo cala finalmente ristoratore lungo le membra dell’ormai sgonfiato e messo in salvo re Crescenzone.

Con un sorriso, per sdrammatizzare la situazione e festeggiare l’afflosciato pericolo, alla fine al buon Sgomito scappa pure detto: «...anche tu, però, caro Crescenz: andarti a fidare degli déi della competitività...».

Il rinnovato mito finirebbe qui, ma so che a questo punto vi attenderete una sorta di morale della favola. La morale, se mai ce ne fosse una, non ve la saprei dire. So però che una persona almeno è uscita soddisfatta da tutta la vicenda: mi riferisco alla moglie di re Crescenzone che, scordavo quasi di dirvi, non a caso si chiamava principessa Godilla.