Durante la lettura del complesso tometto «Vita di Pasolini», un interessante quanto impegnativo libro di Enzo Siciliano, che analizza molto in profondità la biografia del narratore di «Ragazzi di vita» e del poeta di «Le ceneri di Gramsci», sono incappato in un curioso elemento di divagazione.
Neanche poi così nascosto, non si sa bene se più sopra o più sotto la sequenza letteral-grammaticale «…scrittore, in-…» («…”scrittore” + virgola + “in” + trattino di “a capo”…», faceva capolino un peletto. Oppure, faceva capeletto un pelino, che è più o meno la stessa cosa. Non si trattava di un pelo vero e proprio, ovviamente. In quel caso, mi sarebbe bastata una rapida indagine interna per capire subito la provenienza del corpo pelliccifero estraneo. Non sarebbe potuto provenire che da me medesimo e un delicato sbuffo di fiato sarebbe stato sufficiente a far finire la storia lì.
Del pelo che fu, qui era rimasto soltanto il fantasma tipografico. Forse svolazzante nell’aria della stamperia, aveva finito per planare fra carta e rotativa, imbibendosi casualmente d’inchiostro, giusto in tempo e giusto quel tanto per andarsi ad imprimere con nettezza fra quelle parole del testo. Ovviamente nessuno può garantire la veridicità dello svolgimento dei fatti nella forma esatta da me ipotizzata. Avrebbe anche potuto trattarsi di uno sbaffo casuale di china, venutosi a formare del tutto indipendentemente dai capricci dell’alea pilifera umana. A me piace pensare però che di fortuita avventura pelosa si sia trattata, anche perché diversamente non mi sarei nemmeno preso la briga oggi di scribacchiare queste tre fregnacce.
Quale migliore stimolo per un’allegra scorribanda fra i pensieri, che un giulivo pelo dotato di non comuni velleità espressive…
La prima fascinazione che mi è passata per la mente ha riguardato la fondamentale differenza semiotica fra l’impronta impressa dal pelo ed i restanti simboli grafici presenti sulla pagina. Mentre le lettere stampate sono segni “di rimando”, in quanto trasportano concetti e riferimenti a cose reali in modo simbolico, il pelo no. Il pelo è un pezzo di realtà, e per di più realtà umana, che viene a parlare di se stesso sul foglio di carta in prima persona. Anzi, in primo pelo. A cavallo della parola “scrittore” e della virgola, non c’era la parola “pelo”: c’era il pelo veramente, o meglio la sua viva impronta. Mentre sotto l’impronta di pelo (o in fusione con essa), non c’è la sagoma ricalcata della persona dello scrittore, ma solo 9 segni neri (“s” – “c” – “r” – “i” – “t” – “t” – “o” – “r” – “e”) che messi in sequenza sulla pagina nel modo indicato, si è convenzionalmente d’accordo facciano riferimento all’idea di scrittore.
Si aprirebbero a tal proposito tutta una serie di sottocapitoli riguardanti la pittura. Anche la tela dipinta, in quanto espressione di stillicidio setolare, rimanda ad identità suine o cinghialesche direttamente trasposte sulla superficie materiale dal pittore, grazie ai colpi di pennello inferti. Ci avevate mai pensato? Tutta quella teoria di giapponesi e non, assiepati flashanti a migliaia ogni anno al cospetto della Gioconda di Leonardo al Louvre, se si osserva il fenomeno da un punto di vista strettamente meccanico-fisico, in fondo non fanno altro che andare in deliquio per uno stillicidio di impronte pelifere suine.
E’ qui tuttavia che le differenze tra la pelliccitudine pittorica ed il mio pelo libresco tornano a farsi ancor più marcate. Nell’impronta massiva delle setole del pennello di un artista, la singola identità dei peli si annulla per andarsi a sublimare in un diverso tipo di simbolizzazione, quella data dalle immagini, che a loro discendono dalla serie di segni pelosi intenzionalmente disposti con precisa composizione sulla tela.
Il mio riflesso inchiostrato di pelo rinvenuto solingo sulla pagina rivendica invece tutta la sua personalità ed unicità di pelo concreto, che nel segno lasciato sulla superficie cartacea vuole rimanere puro pelo e concettualmente niente più.
In più nel mio pelo libresco c’è tutta l’involontarietà del suo essere caduto proprio su quella pagina, laddove mai avrebbe dovuto venirsi a trovare. E’ il pelo di una persona, che ha svolto, detto pelo, un’azione indipendente dalla volontà della persona stessa alla quale apparteneva. In questo si è comportato come un odore corporale, al quale non possiamo impedire di agire di propria “volontà”, comunicando magari agli altri anche ciò che non vorremmo noi stessi come persone pensanti e decidenti.
Siccome ho già messo in chiaro che qui si sta cavalcando alla grande sulle ali di ipotizzate fantasie, e data per buona l’identità pilifera di provenienza umana di quella strana svirgolata d’inchiostro, se permettete immagino pure per esso pelo una provenienza di natura femminile. E no, cari signori: mica ho fatto tutta questa fatica a scrivere fin qui, per andare poi a parare in un pelazzo di uomo. Almeno lasciatemi la soddisfazione che si tratti di sottile crine o filamento setolare, lì planato giungendo leggiadro dal morbido corpo di una gentile donzella.
Passata in giudicato anche questa immaginata verità di fatto, si aprono nuovi fascinosi scenari d’indagine fantasiosa circa l’identità della medesima fanciulla, in prima battuta, ed in secondo luogo circa la localizzazione geografica del sito anatomico di provenienza del peluzzo caro. Come mi è capitato sovente di ricordare, non avendo attivato al mio blog il filtro per i contenuti riservati ai soli lettori adulti, dovrò limitarmi a prendere in esame possibili origini pilifere dalla cintola in su.
Tre opzioni si prospettano allora valide.
Potrebbe essere stato un peletto di ciglia. L’ipotesi è azzardata quanto seducente. La lunghezza dell’impronta scoraggerebbe dall’abbracciare tale congettura, ma forse quella stessa leggera dismisura può essere ulteriore ingrediente di suggestione. Un ciglio sinuoso e ribelle staccatosi per eccesso di grazia seducente dalla palpebra ondulata di una elegantissima responsabile di redazione. Sfilando leopardesca fra le rotative pronte ad entrare in azione, e facendo cenno con una repentina rita-hayworthiana rotazione del capo che tutto era in ordine per procedere, deve aver contemporaneamente agevolato il decollo, dalla rampa di lancio della propria avvenenza, anche di quella sua minima propaggine pelosa. La poetica infinitesimale dell’episodio sarebbe andata perduta irrimediabilmente e per sempre nei meandri della mancata annotazione cronachistica, persino rispetto alla considerazione di schiere di addetti alle rotative stillanti testosteroniche velleità nei riguardi della bellezza superiore in grado aziendale, se il caso non avesse voluto riferircene grazie a quella malandrina impronta sulla carta.
Potrebbe essersi trattato di un capello cortissimo. Caduto stavolta dal di qua della barricata professionale. Sarebbe appartenuto ad un altrettanto aggraziata operaia, sodale di quegli stessi colleghi maschi ai quali la venustà dirigenziale era interdetta. Con la sua rada acconciatura declinata al maschile sopra uno scenario di formosità allettanti, avrebbe fatto scorrere adrenalina sensuosa fra cuore e ginocchia dei colleghi uomini. Uno solo fra questi sarebbe stato il fortunato ad avere il privilegio di imprimere i propri caratteri di stampa sulla rotativa della florida collega. A tal proposito, la leggenda narra che durante un turno di notte, unici addetti alle macchine presenti in promiscua letizia nella tipografia, dovettero fermare e far ripartire da capo il lavoro, per eccesso di altre impronte pilifere depositate sulle stampe, causa eccessivi scuotimenti duali all’unisono. Quella volta, le poche copie per fortuna stampate prima di accorgersi del difetto, furono buttate, ma queste sono sfumature scaturite da quelle parti della storia annidate dalla cintola in giù, e non ve ne posso raccontare oltre.
Potrebbe essere stato infine un soave, anticonformistico ed antistorico peluzzo d’ascella. Presa dalla smania del lavoro, si sarebbe dimenticata di depilarsele per oltre un mese la graziosa correttrice di bozze incaricata di occuparsi dello scritto in questione. Con indosso un gentile prendisole smanicato, sfinita e bellissima nella sua sudata armonia riconquistata al termine della lunga fatica di rettifica, si sarebbe accorta all’ultimissimo minuto di un errore grafico non segnalato. Sarebbe corsa trafelata nella sala rotative, e col braccio alzato per segnalare l’estrema necessità correttiva, avrebbe sparato a suo modo quella piccola porzione di incanto fisico, testimonianza viva e tangibile dello sforzo umano speso, giungendo in tempo per salvare l’integrità formale dell’opera e suggellare su di essa l’indelebile ricordo si sé.
E poi c’è ancora chi ha il coraggio di parlare di peli superflui…bah…
2 commenti:
Gilli, sei incredibile... Da un pelo e' nato uno sfiziosissimo post. A guardarlo bene, visto l'arco che disegna, sembrerebbe proprio un pelo. Avevo pensato che il tuo romanticismo lo facesse attribuire ad una donna, ma ti sbagli, o e' un pelo umano come tutto lascia pensare, ma di uomo... Capello... O altrimenti di un indumento, maglione ad esempio. Ma so che così ti rovino la festa. ;) baci
@->Maria Rosaria: ehehehehe, ebbene sì, EmRose...:-) purtroppo avevo anche io questo grosso sospetto, ma non volevo arrendermi al destino baro e cieco :-)
Facciamo così: diciamo che le mie ipotesi sono plausibili al 10%, e invece le tue osservazioni rimangono valide al 90%...un 10% di speranza al giorno d'oggi è già molto :-)
Grazie sempre per i tuoi cari commenti...
Bacini in pelliccia :-)
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