mercoledì 14 novembre 2012

Piccoli boom diseconomici in tempo di crisi



Una volta sentii Vittorio Sgarbi fare una bellissima considerazione riguardo a «Le diable au corps», il romanzo di Raymond Radiguet («Il diavolo in corpo» - 1923). Non ho letto «Il diavolo in corpo» e nemmeno ricordo per filo e per segno la riflessione sgarbiana, per cui stavolta siamo messi proprio male. Nondimeno mi piacerebbe imbastire un discorso intorno a questi temi, intrecciandoli con un piccolo dettaglio quotidiano osservato nei giorni scorsi, più un’epifania del lettore di tutt’altra origine, dalla quale, allo stesso modo, sono stato calamitato di recente.

Mi sono documentato e, sulla Garzantina di letteratura, a proposito di «Le diable au corps» ho trovato il seguente, succinto, ma interessante sunto: «…storia di un amore del tempo di guerra, nella prospettiva stupita e inquieta  di un adolescente costretto a subire le regole della sconfitta esistenziale degli adulti...».

Il caso di Raymond Radiguet (1903 – 1923), poeta e scrittore francese, impersona forse meglio di qualunque altro il fenomeno del genio artistico sublimato dalla morte nella dimensione di un eterno riferimento ai valori della giovinezza. Visse soli venti anni, ma nel breve lasso di tempo di un lustro o poco più, fece in tempo a scrivere due romanzi (l’altro è «Il ballo del conte d’Orgel», pubblicato postumo nel 1924) e una raccolta di poesie («Le joes en feu», «Le gote in fiamme», anch’essa postuma, del 1925), nonché a fondare nel 1920, insieme a Jean Cocteau, una rivista d’avanguardia artistica intitolata «Le Coq».

L’osservazione di Sgarbi era semplice ma molto efficace. La poetica fondamentale di «Le diable au corps» si incentra sull’idea dello stato di grazia in cui si dipana la giovinezza. Tutto il mondo intorno può anche andare in fiamme, ma il parallelo del proprio vissuto interiore, in quel periodo della vita, è plasmato in continuazione da folgoranti stupori ed “eroismi della gratuità”, in grado di far vivere come immersi in un ininterrotto stato esistenzialmente febbrile. Il protagonista di «Le diable au corps» vive una storia d’amore molto coinvolgente con una donna di qualche anno più grande, ed al cospetto di questo dato così totalizzante per il proprio vissuto personale, anche l’immane tragedia della Prima Guerra Mondiale, uno dei momenti più disperati e disumanizzanti dell’intera storia del mondo, si muta quasi in uno sfondo sfocato e senza sostanziale importanza immediata.

Si badi bene: non è questione di superficialità o di “apatia civile” e sociale, da parte del protagonista di «Le diable au corps», e nemmeno c’entrano il cinismo, l’indifferenza. Si tratta molto più nobilmente di dinamiche esistenziali dalle quali difficilmente ciascun essere umano può esimersi. Per quanto sia smisurato l’universo, per quanto infinite possano essere le stelle, enormi le galassie ed i pianeti rispetto alla nostra misera esistenza individuale, quest’ultima sa tuttavia riservarci immensità interiori la cui estensione emotiva riesce sempre immancabilmente ad oltrepassare in proporzioni persino quello “sproposito dimensionale” celeste. Non c’è infinitezza materiale o storica che un nostro incontaminato e semplice sentimento non sappia sopravanzare con la pura forza del proprio paradossale imporsi a noi stessi.

Come al solito, gli aneddoti tratti dalle mie osservazioni quotidiane sono sempre ben più modesti, rispetto alle originali fonti artistiche in riferimento alle quali mi pare di volta di in volta di poter stabilire un’affinità poetica. Ma la poesia non è mai questione di dimensioni. 

Durante le mie solite camminate sull’argine, vedo (e sento) spesso, appena più sotto la piccola altura di difesa fluviale, un gruppetto di bambini sui dieci anni o poco più, che fanno scoppiare dei petardi. Si dedicano interi pomeriggi alla futile operazione, vari giorni alla settimana, e le piccole esplosioni si susseguono a raffica, senza tante pause. Conosco abbastanza questi bimbi, e meglio i loro genitori. Non sono teppistelli molesti frutto di famiglie problematiche. Sono ragazzini normali, un po’ vivaci forse. E brave persone sono le loro mamme e i babbi. Mi è sorta così una miriade di pensieri fatti a forma di sorriso maldestro, nel considerare questo loro pervicace attaccamento allo spreco economico più futile, praticato in un momento storico in cui tutto intorno, il resto dell’umanità è indaffarata a darsi di gomito, in un vicendevole e continuo ammonirsi riguardo alla drammatica verità di fondo: «…C’è la crisi…». Quei ragazzini non sono stupidi e vagamente credo intuiscano già di stare sprecando soldi sudati con difficoltà dai rispettivi genitori. Ma la loro natura li spinge a rivendicare il proprio diritto ad essere felicemente inconsapevoli. L’energia vitale propria del periodo bambinesco che stanno attraversando s’impone loro senza troppe titubanze o interrogativi ulteriori. La gioia sprigionata da quei mini-botti, per i loro piccoli animi acerbi, è incommensurabilmente indicibile rispetto ad ogni altra ragionevole considerazione.

Visitando i paraggi di questi pensieri, mi se ne è poi imposto un altro ancor più singolare ed indistinto. Mi sono domandato se forse, chissà, in fondo in fondo non stiamo sbagliando proprio ogni cosa, affidandoci esclusivamente a tutto il tecnicismo ed alla commisurata ragionevolezza messi in gioco nel tentativo di superarla, questa crisi. Supportato anche dalla suggestione fornita da alcuni bellissimi versi letti sulla quarta di copertina di «Lettere luterane», una raccolta di illuminati articoli scritti poco prima di morire da Pier Paolo Pasolini, sono rimasto col dubbio se, insieme a tutte le ricette economiche che da più parti si vanno ammannendo, non sarebbe forse altrettanto efficace saper riscoprire nell’intimo dell’umanità un po’ della freschezza di quella insensata energia, ancora custodita incontaminata nell’animo degli svagati bombaroli in miniatura di mia conoscenza.

Non a caso, rileggendo varie volte il densissimo poetare di Pasolini, mi è sembrato che le sue parole si armonizzassero bene con l’eco dei mitraglianti scoppiettii provenienti da poco oltre l’argine:

«…Siamo stanchi di diventare giovani seri,
o contenti per forza, o criminali, o nevrotici:
vogliamo ridere, essere innocenti, aspettare
qualcosa dalla vita, chiedere, ignorare.

Non vogliamo essere subito già così sicuri.
Non vogliamo essere subito già così senza sogni…»

2 commenti:

MR ha detto...

Che bello, Gilli! Le tue similitudini sono sempre molto fascinose. Sono d'accordo con te, e credo che in ogni essere umano ci sia una parte che debba necessariamente sprigionare un'energia ludica. Certo, esagerare e' esagerare, e vale per tutto... Magari poi sarebbe importante anche fermarsi a riflettere, tra un botto e l'altro. Belle anche le tue passeggiate sull'argine, che come ti dico sempre mi riportano indietro nel tempo sui miei argini. Io "il diavolo in corpo " l'ho letto, ma ricordo poco o niente :( baci

Gillipixel ha detto...

@->Maria Rosaria: grazie, Em Rose, sono contento di esser riuscito a trasmetterti qualcosa...temevo di essere stato troppo oscuro e contraddittorio :-) questi vagabondaggi per pensieri spesso non resistono alla verifica della logica stringente...vanno presi più sul piano poetico e sono lieto che tu lo faccia sempre in modo molto attento :-) peccato che tu non possa più avere a disposizione i tuoi argini, ma passeggiare andando dietro al filo dei pensieri si può fare ovunque, secondo me...per dire, a me riusciva benissimo anche nel caos di Milano :-)

Bacini senza argini :-)