Quest’anno, più che “prima”,
arriverà forse seconda, oppure terza.
E non sembra nemmeno tanto “vera”,
ma noi facciam finta che lo sia.
Il meteorologico titubare
nell’animo della gente si va a specchiare,
quasi rinuncia sconsolata
ad un raggio di sole, a mezza rasserenata.
Sessantotto anni di voler solo avere
ci han ridotto a qualche scampolo
di giorno, per poter soltanto dare.
Ma l'istrice s'arrocca,
il bue placido s'arrabatta,
il volpone, infido, s'acquatta.
Ciascuno un terzo di cuore,
monco scettro, regge in mano:
chi un atrio, chi un ventricolo,
che proprio non sa dove attaccare,
per rendere senso alcuno
ad un qualche nuovo pulsare.
Noi la Buona Pasqua, lo stesso ce l'auguriamo:
andando per pensieri, non si scavalca il muro,
ma forse via via s'affina l'occhio amico,
e in compagnia degli altri suona men duro
il persistente affanno sotto il fico.
*******
E pur con rammarico febbrile,
per essermi sul final la rima venuta meno,
tal da non volger l'evocazione arborea al femminile,
a voi tutti, limpidi e sinceri,
Buona Pasqua auguro,
cari amici viandanti per pensieri.
Quante volte capita di pensare: «…Ah, se l’avessi scoperta prima, questa cosa…». Ma poi a ben vedere, ci si accorge di come esista un momento necessario ed opportuno per ogni faccenda, e si tende così a persuadersi della superfluità dell’iniziale rimpianto. Questo, giusto per non scomodare il celeberrimo passo del libro di Qohelet, o Ecclesiaste che dir si voglia: «…Ogni cosa ha il suo momento, ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo: Tempo di nascere e tempo di morire / Tempo di piantare e tempo di sradicare / Tempo di uccidere e tempo di curare…».
Gli accadimenti, le circostanze, le consapevolezze, i fatti e gli oggetti ci scorrono davanti, magari riproponendosi più volte a distanza di tempo, e chissà per quale misteriosa alchimia, in una data occasione li sappiamo comprendere apprezzare e fare nostri, mentre, in tutte le altre congiunture precedenti, li avevamo ignorati, se non addirittura screditati.
Ci si domanderà: ma cosa sarà successo di talmente sensazionale da far ricorso ad una così pretenziosa premessa? Beh, niente di che, a dire il vero. Ho semplicemente scoperto la superiorità sensorial-spirituale delle ciabatte infradito. Mi sono messo a frequentarle durante la scorsa estate, e da allora il pedonale idillio non si è ancora interrotto. Nemmeno gli ostacoli invernali delle calze hanno saputo interrompere il flusso positivo di energetico scambio che sono riuscito ad intessere con queste propaggini corporali umili, ma così dense di significazioni muscolo-epidermico-digitali.
Con l’approssimarsi dell’autunno, ero già fortemente preoccupato di doverle abbandonare in una scatola, in attesa di poterle inforcare di nuovo col ritorno dei primi tepori primaverili. E invece no. Non mi andava di separarmi da quella confortevole sensazione di pinzamento che ti sanno regalare, e così ho trovato la soluzione senza quasi nemmeno pensarla. Le infradito si portano benissimo anche con le calze, basta shiftare leggermente indietro queste ultime nella zona calcagno, in modo da concedere agio alla stoffa in punta di farsi golfo all’innesco fra “pòlluce ed ìnduce”. E così mi sono fatto tutto il mio bell’inverno infraditato e contento.
Infradito è meglio, per tanti motivi.
Innanzitutto l’infradito rimarca in modo pregevole il continuo dialogo sussistente fra consapevolezza del piede e consapevolezza corporale in generale. Il fenomeno è così noto e consueto, da passare quasi inosservato: quando ci muoviamo, camminiamo, arrestiamo il passo, oppure facciamo uno scarto per cambiare direzione, e così via, il piede dialoga continuamente col resto del corpo. Anche solamente per mantenere l’equilibrio stando fermi in piedi (e non è un caso che si usi l’espressione “in piedi”, pensateci…), attiviamo tutto uno scambio di informazioni propriocettive, per lo più inconsapevoli, fra il nostro “centro direzionale” fisico superiore, e quella lontana sua propaggine posta in vicinanza del suolo. Sono tantissime le informazioni con feedback in andata e ritorno, contrabbandate tra zone alte e periferia inferiore: magari l’alluce fa una piccola pressione per meglio distribuire i pesi delle braccia, che si sono per un attimo protratte in avanti; oppure le altre quattro dita accolgono altri movimenti del busto, con una piccola ondata di assestamenti assorbita lungo la propria raggiera; o ancora, la pianta si distende ampia per favorire l’assorbimento di una lunga falcata della gamba; e mille altre casistiche varie.
Cavalcando la ciabatta infradito, tutto il colloquio corpo-piede si affina e si arricchisce. Il piede sente la sua voce farsi più autorevole, ancorato com’è al delizioso tormento del piccolo piolo alloggiato fra il ditone ed il suo vicino. Per parte sua invece, il corpo si gusta con amplificato agio la maggior chiarezza dei segnali che provengono dalle sue propaggini basse. In sostanza è un parlarsi più franco e meglio definito, fra piede e corpo, quando sono le infradito a fare da interpreti.
La sensazione che per il neofita di questa ciabatta può ingannevolmente apparire di fastidio e di intrusione, con un breve periodo di rodaggio e di abitudine, volge in una gradevolezza e in un interessante senso di presenza. Anzi, è proprio una simile ambivalenza del sentire, un misto fra stimolo incessante e rassicurante conferma, che alla fine si apprezza di più nell’uso di questi semplici calzari. Il piede mastica di continuo il suo medesimo sentir se stesso.
Ma poi, oltre a questi aspetti, o forse proprio in approfondimento di questi aspetti, la ciabatta infradito introduce a mio avviso anche una vicinanza più prossima con una non meglio definibile sensazione di “sensuosità” diffusa. Non voglio esagerare, e infatti non ho parlato di sensualità in senso proprio. “Sensuosità” mi sembra termine più adeguato per indicare una sorta di piacevolezza fisica trasmessa dall’infradito, un tipo di sensualità più “laica” e meno sacrale di quella strettamente intesa.
Chissà se tutte le mie considerazioni c’entrano qualcosa col fatto che questo tipo di calzature, anche nell’immaginario comune, sono spesso associate alla figura di saggi e uomini di carisma orientali. Se penso alle infradito, mi vengono in mente fieri samurai, ieratici bonzi, illuminati monaci sprofondati nel trasporto meditativo più intenso, eleganti maestri delle più atletiche arti marziali, seducenti geishe ticchettanti a passetti rapidi sul tatami.
E dato che ho esagerato sin dall'inizio, introducendo il mio strano discorso di oggi con una forse troppo nobile citazione, soprattutto se confrontata con la pochezza del mio dire, mi affido sempre alla medesima fonte per completare la suggestione. Sempre nel libro dell’Ecclesiaste, ricercando il noto brano da riportare con precisione letterale in apertura, e poi sleggiucchiando oltre, ho trovato anche questo stupendo passaggio: «…Ciò che è già stato, è; ciò che sarà, già da tempo è accaduto. Dio riporta sempre ciò che è scomparso…».
Non lo conoscevo, ma a questo punto sono grato alle mie infradito, se girovagando per i pensieri da esse stimolati, sono giunto sino a questa perla di misterica saggezza. Mi lascio un po' cullare dalla stranezza culturale che mi fa cogliere una certa affinità fra il sapore orientaleggiante di questa citazione ed il riferimento alla predilezione dei saggi delle terre del sol levante per le ciabatte infradito.
La ciclicità temporale non è una categoria filosofico-teologica così usuale per le pagine della Bibbia. Eppure in questa frase del libro dell’Ecclesiaste, essa è suggerita in maniera piuttosto lampante. E sempre andando dietro alle mie imbizzarrite elucubrazioni, colgo insieme una certa espressione di ciclicità insita anche nelle umili dinamiche innescate dalle ciabatte infradito. E' forse proprio quello che esse sanno mettere in moto, quando le portiamo: una ciclicità piede-corpo, un continuo (se non proprio eterno) ritorno, un rimando fra parti del corpo che si mettono in armonia fra loro, parlandosi, interrogandosi e rispondendosi.
Ora, ritengo che considerazioni molto simili a queste introdotte riguardo alle valenze sensorial-significanti di pertinenza delle ciabatte infradito, si potrebbero fare magari, per somiglianza anatomico-percettiva, anche per quanto concerne l’uso del tanga o del perizoma. Ma essendo quello un territorio tematico alquanto delicato, mi accontento qui di aver stimolato la riflessione e concedo la gentile incombenza di sviscerare la variante, a chiunque si senta più ferrato di me, modesto pensatore coi piedi, nel discettare, “prosit” iniuria verbis, di emerite questioni da culo.
Il mio paese a me mi piace
perché non conta una minchia.
Non l’ha mia contata
e mai la conterà.
Il mio paese a me mi piace
perché, vivendoci, puoi permetterti
di non contare una minchia
e nessuno ci fa caso.
Il mio paese a me mi piace
perché è esattamente
uno di quei posti in
cui la gente dice:
«…Ma qui non c’è niente…».
Il mio paese a me mi piace
perché nonostante la gente,
a me mi pare che
ci sia anche troppo.
Il mio paese a me mi piace
perché per quanto succedano
nel mondo cose gravi
o meravigliose
puoi sempre andare un attimo
dietro casa, e con lo sguardo
pulito rivolto verso l’argine,
farti una bella pisciata per
spazzare ogni pensiero.
Il mio paese a me mi piace
perché se sei povero
o se sei ricco,
la differenza si nota
meno che altrove.
Il mio paese a me mi piace
perché ti sembra di stare
spesso altrove,
anche se rimani sempre qui.
Il mio paese a me mi piace
anche perché a voi
non ve ne potrà
fregare una suprema fava.
L’eccessiva reiterazione comunicativa rischia a volte di inflazionare la stessa bontà del messaggio originariamente presente in quanto s’intendeva trasmettere. Siamo quotidianamente bombardati da una miriade di stimoli informativi e questo stillicidio di sollecitazioni culturali ripetute e ribadite in tutte le salse, è addirittura in grado in taluni casi di logorare anche il concetto più nobile, anche la citazione più raffinata, anche l’immagine più stimolante.
Mi è venuto da fare simili riflessioni l’altra sera, 8 marzo. Una storica conduttrice di varietà satirici di successo era ospite di un altrettanto noto programma tv, dove si discuteva della condizione della donna e, di riflesso, anche della più generale situazione di crisi socio-economico-culturale generalizzata, in cui ci ritroviamo tutti calati fino al collo, ad arrancare.
Preciso che valuto positivamente la figura di questo personaggio, mi è sempre risultata simpatica, apprezzo la sua arguzia, l’intelligenza, il suo senso dell’ironia ed il garbo nel fare il proprio mestiere in tv. Tuttavia, non ho potuto fare a meno di provare un leggero moto di repulsione, quando la stessa se n’è uscita con una suggestione culturale, di per sé pregevolissima, ma sentita ormai tante volte, da risultare insapore e slavata come un brodo di carne fatto con un solo dado per 100 ettolitri d’acqua.
Il riferimento culturale richiamato, di suo è pregiatissimo e non mi sento di biasimare la brava conduttrice tv per averlo tirato in ballo. Forse sono io a fare troppo lo schizzinoso. Ma quello che mi interessa mettere in rilievo è piuttosto la potenza “banalizzatrice” del mezzo comunicativo. Quando questo viene esasperato a livelli di amplificazione quantitativa esagerata, esso è capace di rovinare persino la pur alta qualità culturale di ciò che si sta trasmettendo. La ridondanza, in questo ambito, davvero riesce a tramutare in ghiande anche le migliori perle per porci (non so se l’immagine fila più di tanto, ma ormai che così m’è uscita, tale la lascio).
Parlando della crisi, dunque, la simpatica conduttrice televisiva ha citato l’ormai visitata e rivisitata questione dell’ideogramma cinese utilizzato per esprimere appunto il concetto legato alla parola “crisi”. La grafia di questo segno, in quella complicatissima selva orientale di “simboli-parola-immagine”, risulta essere non a caso affine alla struttura grafica utilizzata per indicare anche la parola “opportunità”. Questo è bellissimo, è molto stimolante da un punto di vista culturale: in ogni crisi si nasconderebbe dunque sempre anche l’appiglio relativo per il proprio riscatto. Una crisi, ci dice l’antichissima tradizione cinese, non sarebbe altro che il versante opposto della medaglia sul cui retro sono impresse tutte le occasioni favorevoli a disposizione per trarci fuori da quella crisi medesima. Tutto dipenderebbe da come si osserva la realtà: da un certo punto di vista è “crisi”, ma rigirando lo sguardo in modo adeguato, essa risulta essere “occasione da cogliere”.
Ora, va tutto bene: magnifico, ripeto.
E so anche che non tutti saranno a conoscenza di tale perla culturale, ma io questa storia l’ho già sentita ripetere un sacco di volte, e quando anche l’ottima conduttrice è andata a rispolverarla, invece di un moto di soddisfatta ponderazione interiore, l’unico pensiero che mi è balzato fulmineo alla mente, pur continuando a voler sempre bene a quel caro personaggio tv, è stato: «…Ma va a dà via al cül, tè e i Cinèès!...» (ometto la traduzione per manifesta evidenza semantica).
Così con altrettanta subitaneità, qualche attimo dopo, considerato il picco d’inflazione sfiorato ormai da talune immagini antropologico-culturali evocate nei più svariati consessi comunicativi (per ricordarne solo un’altra, al limite della leggenda metropolitana antartica: gli eschimesi hanno 20 o passa parole differenti per indicare le varie sfumature di bianco della neve), ho pensato che fosse giunto il momento di creare almeno qualche nuovo ideogramma, ancora non usurato. Li metto a disposizione di qualsiasi oratore tv o comunicatore in genere, per le loro citazioni di antropologia spicciola. Non saranno ovviamente cinesi, questi ideogrammi, ma apparterranno ad una lingua immaginaria, il Gillipixilandese Mandarancio (contorta derivazione del più noto “Mandarino”), una forma antica di dialetto cino-gillipixiano, abbandonata ormai secoli fa, per eccesso di surrealismo presente nelle sue forme e significati.
Dunque, tra i numerosi suoi evocativi ideogrammi, i parlanti Gillipixilandese Mandarancio vanno particolarmente fieri di un simbolo grafico a loro molto caro: si tratta del celeberrimo ideogramma usato per esprimere il concetto di “fortuna”. Sono pochi a sapere infatti che in Gillipixilandese Mandarancio, l’ideogramma di “fortuna” è praticamente identico a quello indicante un’azione, riassumibile nella perifrasi “pestare una merda di cane”. Tanto che l’augurio derivante, il classico nostro “…buona fortuna…”, in Gillipixilandese Mandarancio risulta così suonare: “…Buone merde di cane pestate…” (toh, una faceta curiosità, che vi segnalo: il correttore di word mi sottolinea la parola “merda” come un errore: forse che i programmatori di word sono ancora all’oscuro del misterioso concetto?).
Altro pregiatissimo ideogramma in Gillipixilandese Mandarancio, è quello utilizzato per raffigurare il concetto di “…auto schiantata contro un platano…”. In questo caso, la grafia connessa all’espressione è strettamente apparentata con la sua consimile frase “…assicuratore con le tasche gonfie…”.
Altro esempio: in Gillipixilandese Mandarancio, quando si vuole rendere in ideogramma il concetto di “…martellata sul pollicione…”, ci si serve di un costrutto di segni molto somigliante a quello indicante l’altrettanto complessa idea di “…bestemmiatore fantasioso…”.
Ancora: il Gillipixilandese Mandarancio solo leggermente distingue la propria grafia, quando si tratta di indicare il concetto maschile di “…sabato pomeriggio libero…”, insieme al suo omologo al femminile. Questo è proprio un caso sorprendente, perché praticamente con gli stessi identici tratti, vengono espressi sia l’idea del “…semi-comatoso poltrire sul divano davanti alla tele…” (nell’accezione pertinente all’uomo), sia il concetto di “…4 ore filate all’Ikea…” (nell’accezione che compete alla donna).
Altre interessanti bivalenze si possono poi rinvenire fra gli ideogrammi della tradizione Gillipixilandese Mandarancia. Uno dei più oscuri, tuttora oggetto di dispute etimologiche clamorose fra i più dotti esegeti, è l’ideogramma che con lievi sfumature grafiche sta ad indicare sia l’espressione “…occhio di bue…”, sia l’apparentemente assai lontana idea di “…ultras di calcio…”.
Insomma, questi sono soltanto alcuni fulgidi esempi di ideogrammi tratti dal repertorio millenario della lingua Gillipixilandese Mandarancia, ma all’occorrenza se ne potrebbero citare a decine. Li offro gratuitamente, in uso a chiunque si trovi a dover sostenere prove comunicative, al fine di poter sfoggiare una maggiore varietà concettuale, evitando così di incagliarsi nelle secche del più pernicioso inflazionamento culturale. Quando anche questi si saranno frustati per l’eccessivo utilizzo, citofonatemi pure, ore pasti: vedrò di sfornarne di nuovi, freschi e croccanti.
Dialogo fra un “cittadino n° 1” dell'anno 1976 ed il suo amico, “cittadino n° 2”:
Cittadino n° 1:
- Ci scommetti che fra circa 37 anni, il destino dell'Italia sarà nelle mani di un cabarettista?
Cittadino n° 2:
- Ma vai a cagare, va, te e chi non ti ci manda!
*******
Da tanto, troppo tempo ti trascuro, caro piccolo mio blog antico. Non temere, non ho alcuna intenzione di abbandonarti senza guinzaglio lungo un’autostrada digitale, alla mercé di lettori distratti ed ipercinetici. Non ti darò in pasto alla twitterizzazione delle menti. Continuerai ad essere un luogo della lettura misurata, dove ci si prende tutto il tempo che si vuole per calarsi nelle parole. Questo spazio del dire rimane e rimarrà sempre caldamente indicato a chi ha del tempo da perdere. Proprio per questo, anche io mi sono preso i miei tempi, nel frattempo.
E scusa se salto di pelo in fresca, ma tra l'altro, non so se te ne sei accorto, ne sono successe di cose nell'ultimo periodo durante il quale ci siamo sentiti poco. Io prestavo servizio come scrutatore, nel mentre che l'Italia veniva rivoltata come un pedalino. Si sono vissute e si continuano a vivere giornate molto surreali. Era il Papa che ha ammonito i crucchi a non fare troppo i furbi, o il presidente della Repubblica che sarà eletto in conclave?
Un flashback retro-lampante, nella sua tautologica evidenza, mi s'impone alla mente. Dev'essere stata l'estate del 1986...già. Trascorrevo le vacanze in un'amena località marina della riviera toscana. La doppia settimanata di periodo feriale preventivato si srotolava nel normale tran tran vacanziero, tra spiaggia, bagni e scottanti letture sotto l'ombrellone (fu quell'anno che crogiolai la mia intera persona fra gli orridi socio-politici del «1984» orweliano).
Mentre passeggiavo con mio fratello un bel giorno sul lungomare, un'allettante locandina attirò la nostra attenzione. Nella “verzeggiante” pineta del piccolo abitato balneare, era in programma lo spettacolo di un giovane cabarettista, all'epoca già assurto con sommo riconoscimento di pubblico ai clamori della ribalta artistica. Non ci pensammo un attimo ad aderire all'iniziativa. Quel comico ci stava proprio simpatico, con la sua espressività diretta ed suoi modi sferzanti di mettere sotto la spada di Damocle dell'ironia, comportamenti, virtù e vizi quotidiani dell'italica turba.
L'esibizione non tradì le aspettative. Mio fratello ed io assaporammo proprio di gusto quella luminosa dimostrazione d'istrionismo sapiente. Tanto che ricordo ancora una delle mille gag introdotte nel suo monologo dal faceto mattatore. Parlava di quando si viene invitati ad una festa, con tutti gli annessi e connessi involontariamente comici che si possono innescare. Tra le mille boiate menzionate, non so proprio come mai, mi rimane impresso il riferimento alla dinamica dei bicchieri di plastica, usati appunto nel corso delle feste. Il tuo, lo posi sempre nel posto più strano e bizzarro, di modo che la posizione inusuale ti faccia da promemoria infallibile, per ritrovarlo intonso da sbavate estranee. Ma con regolarità svizzera, intervengono poi i più buffi fattori depistanti che ti fanno calare nel disorientamento “bicchierale” più assoluto. Capita magari che il tuo cilindretto di plastica, te lo ritrovi assediato da un'altra mezza dozzina di suoi simili, posati lì intorno, esattamente nel tuo stranissimo inequivocabile punto, da altri astutissimi invitati. Oppure, capita che nella baraonda festosa, scordi completamente l'ubicazione del tuo indimenticabile posizionamento. Di fatto, alla fine della festa, ogni invitato si ritrova a mettere in pista almeno una decina di bicchieri a testa, sperduto sulla sommità dell'incertezza dubbiosa del non riconoscere più la paternità delle “ciucciate” inferte ai bordi di tutti quelli già disseminati in ogni angolo dell'ambiente festaiolo...
Ma perché mi ricordo questi dettagli realmente appartenuti all'economia concreta del divertimento di quella lontana serata, ed invece non riesco ricordare un altro piccolo fatterello che, sempre sotto gli aghi aromatici di quella piacevole pineta mutata per una sera in goliardico anfiteatro, avrebbe dovuto succedere, ma non successe effettivamente mai? Che scherzi fa a volte, la memoria. Un vecchietto gentile, di quei tipici omini toscani su d'età, un po' burberi ma dal cuore d'oro, avrebbe dovuto passarmi a fianco, nella bolgia degli spettatori ridanciani, sussurrando con fare oracolare all'orecchio degli astanti più prossimi: «...Ghignate, ghignate, oh bischeri...ma la battuta più bella de 'sto spettacolo, gli autori se la son proprio scordata ne la penna, Maremma tautologica...e allora eccovela servita su un bel cabaret futuristico: fra 'na saccocciata d'anni, il destino dell'Italia sarà proprio nelle mani de 'sto scapigliato 'nventore di risate...».
Ma il burbero-bonario vecchietto toscano quella sera non passò e nemmeno disse mai nulla.
Sì, perché quel comico, di chiome ne ha sempre avute da vendere, e si appassionava al suo stesso parlare, com'è giusto che sia, stillava sudore traslucido, copioso, altrettanto quanto il profluvio della sua loquela. Da allora, non ha cambiato molto il suo stile: le chiome sono sempre le stesse, un po' ingrigite, e di sudore ne spende ancora molto. Però ha cambiato l'obiettivo delle sue argomentazioni. Si sono fatte via via più impegnate. I temi si son politicizzati e sociologicizzati. E forse oggi non ha più tanto senso domandarci com'è che l'Italia sia finita per dipendere dalle mani di un comico. Probabilmente l'unica risposta sta nel fatto che l'Italia non è altro che un paese da barzelletta. E' una grossa, unica, pervasiva barzelletta, con 60 milioni di protagonisti, che siamo tutti noi, italici aborigeni.
Ma...si badi bene. Non è tanto l'autocommiserazione che mi sento di invocare, con queste mie considerazioni all'apparenza un po' velate da un retrogusto apocalittico sbracato. No, non è questo il sentire che mi sento d'esprimere. Piuttosto, sto pensando invece ad un sottile sapore di speranza, che mi auguro titilli l'animo di molti, in questo difficile passaggio della nostra gloriosa storia patria. E' spropositatamente strano ed esageratamente paradossale a dirsi, ma se siamo un paese da barzelletta, due devono essere i motivi ad indurci a non smarrirci.
Il primo motivo, è molto generale, e valido in ogni circostanza dell'umano considerare. Se la nostra essenza è la barzelletta, allora sarà inutile ribellarci alla nostra essenza. Meglio, molto meglio, è assecondarla. Ne potranno venire molti più benefici che non dal fatto di pensarci, con millantata malafede, personaggi di una trama narrativamente più seria o seriosa. Non saremo mai protagonisti di un poliziesco all'americana, o di una piece esistenzialista francese. I nostri orizzonti caratteriali rimangono Pierino, il fantasma formaggino, o al massimo certe combriccole composte da un francese, un tedesco, un inglese, che non a caso son sempre lì ad aspettare un italiano.
Il secondo motivo: la comicità è uno dei tratti più nobili che la natura umana sappia esprimere. L'ironia e l'auto-ironica considerazione di sé, sono privilegio delle grandi, antiche, stanche, scafate, nobili, baroccheggianti o tardo-manieristiche civiltà. Hai visto mai che noi, popolo italico del 2013, essendo ormai giunti a sfiorare persino certe dimensioni da barzelletta, non siamo infinitamente più avanti di tutti gli altri della zona euro?
QUESTO BLOG E' FELICEMENTE IMMUNE DAL "PIUTTOSTO CHE"UTILIZZATO (SBAGLIANDO) COME SINONIMO DI "OPPURE"
Gemellaggi e altre Gillipixate...
Cari lettori di andarperpensieri,
Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
«...Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...»
Montale (...E' u' Genio) ---
«Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici.»
Villiers De L'Isle Adam ---
«Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere...».
Bruce Chatwin - "What am I doing here" --- «Tempo fa ero indeciso, ma ora non ne sono più così sicuro» Boscoe Pertwee - XVIII secolo
--- «Non mi sono mai pentito di essermi sempre pentito» - Gillipixel - XXI secolo
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