Qual è, fra gli oggetti animati ed inanimati, quello che più di ogni altro ci staziona sotto gli occhi ogni giorno, praticamente senza interruzione per la maggior parte delle nostre ore trascorse non dormendo? La risposta è talmente scontata, al limite del banale, che quando ve la dirò, immagino già ognuno voi sbottare fra sé e sé: «…Eh, va beh…ma quella non vale, è troppo facile, e poi non è un oggetto nel vero senso della parola…».
D’accordo, quest’ultima obiezione posso anche accettarla. Eppure non potrete non convenire con me che quel semi-oggetto è proprio lei: la nostra mano, o meglio, sono loro, le nostre mani. Le vediamo ogni minuto e anche quando non le vediamo, impegnano quasi sempre le code degli occhi, con il loro fuggevole tramestio là sotto, a coronamento dei polsi.
La mano non è soltanto portatrice di evidenza visiva, ma direttamente o indirettamente sa spaziare anche in tutti i restanti sensi. Il tatto è il suo regno. Degli odori è ambasciatrice senza portare pena. Lo stesso dicasi del gusto: la mano è il nostro principale fornitore di cibo, e quando lo fa senza interposta posata, la sensorialità del gesto risulta ancor più marcata. Perfino nella dimensione sonora ha da dire la sua, non fosse altro che per il fatto di consentirci la facoltà d’applauso, oppure per i discorsi muti ma fondamentali di cui è capace, quando ci aiuta nell’imprescindibile attività espressiva della gesticolazione.
Con la mano capiamo la realtà, la mano (insieme a labbra e lingua) è il nostro primissimo veicolo di esplorazione del mondo, da neonati e da piccoli ometti in erba. Con la mano carezziamo, picchiamo, ci grattiamo, facciamo, brighiamo, blandiamo, ammicchiamo, invitiamo, respingiamo, lavoriamo e amiamo. Dare la mano è uno dei gesti più significativi, fra umani. Le mani, per chi purtroppo non ha avuto la fortuna di poterlo fare con le parole vere e proprie, diventano esse stesse parole di un linguaggio, quello dei sordomuti, molto vivace e dalle alte capacità comunicative. Con la mano facciamo anche quella cosa che tutti fanno, ma al contempo negano spassionatamente e spergiurano di non aver mai fatto, forse in quanto espressione suprema, nel bene come nel male, del proprio stare soli con se stessi. Con quello che con la mano si può fare, c’è anche chi ci ha fatto una “saccarifera” canzone.
Con ogni probabilità non si sbaglia allora constatando come la mano sia quell’entità reale che più di ogni altra ci testimonia, con assiduità ed evidenza incessante, il nostro essere “esseri” fisici e presenti a noi stessi, nella nostra dimensione reale di pertinenza. Ogni uomo, per quanto concerne gran parte della sua consapevolezza esistenziale, «è» le sue mani stesse. Non solo la mano è alla base della concezione numerologica fondativa del nostro modo di intendere il mondo matematicamente (se non ricordo male, già Aristotele intuì che il sistema decimale prende le mosse dalle nostre dieci dita), ma le ricerche più avanzate hanno addirittura evidenziato una corrispondenza “geografica” fra la spazialità sviluppata attraverso la mano e certe aree del cervello. La mano è portatrice insomma sia di una fisicità molto peculiare ed intensa, sia di una carica simbolica altrettanto densa.
La mano è anche uno dei soggetti da ritrarre più difficili ed impegnativi di sempre. Il confronto con l’«oggetto mano» è una sfida che ha messo e continua a mettere alla prova gli artisti di ogni epoca.
Sciorinata tutta questa altisonante parata di considerazioni, viene da chiedersi a questo punto come mai proprio ad un Gillipixel qualsiasi, lo scultore di serie “z” per eccellenza, il più scarso grattuggiatore di legno mai visto sulla faccia della Terra, sia venuto in mente di provare a cimentarsi con la sagoma lignea di una mano. Lo ammetto, stavolta ho osato un po’ troppo, e i risultati parlano chiaro in merito. Proprio per i motivi elencati sopra, con una mano non si può barare. Non puoi contrabbandare un dettaglio, buttandolo su alla bene meglio, sperando che non se ne accorga nessuno. A chi guarda, basterà abbassare un attimo lo sguardo sulle proprie mani e dal confronto sbugiardarti all’istante e alla grande.
Non so allora bene come mai mi sia venuta l’idea di confrontarmi con questo soggetto così arduo. Un po’ mi affascinava la sfida «sculturale», un po’ lo spunto è nato per caso. Da gran sostenitore della «casualarte» quale io sono, attenendomi al mio manifesto programmatico di farmi suggerire dal pezzo di legno stesso la sagoma che ne uscirà fuori, anche in questo caso ho lasciato parlare il tronchetto in questione (è anche stavolta un pezzo di nocciolo). Gli appigli formali erano davvero minimi. Si trattava di uno dei tronchetti più anonimi mai visti. Eppure, in un paio di quasi impercettibili bozzi che facevano capolino nel bel mezzo della distesa della corteccia, io ci ho visto le nocche di una mano. Non chiedetemi come ho fatto, ma le ho viste.
Come ho già detto presentando altre sculturalate, per tutti i miei limiti tecnici, operativi, espressivi e figurativi, quando cerco di fare uno di questi esperimenti plastici, non posso ambire all’operazione realistica in senso stretto. Quello che posso fare è mettere in atto una sorta di avvicinamento alla sagoma immaginata, nel nome di una verosimiglianza di massima. Questo non significa che non ne escano alla fine delle forme interessanti e suggestive. Anzi, a mio modesto parere e mettendo da parte per un attimo l’atavico senso di umiltà di cui ho impregnate persino le mutande, i risultati sono anche interessanti. Soltanto che si tratta sempre di esiti formali che, per così dire, scendono un po’ a compromesso con la realtà.
Il dato fondamentale tuttavia sta nel fatto che tentando e ritentando, confrontandosi con dettagli e globalità formale, nella speranza di cavarci fuori parvenze non solo plausibili, ma magari anche significative, si provano emozioni molto belle. Certo, non nego che l’ambizione di far sortire un qualcosa di esteticamente decente rappresenti una molla altrettanto decisiva per mettersi lì a spendere tempo con in mano una lima e la carta vetrata. Ma mai come in questa pratica si può dire che il cammino sia più importante della meta.
Alla fine ne è risultato un oggetto che paga forse un debito eccessivo al fatto di derivare da un pezzo di legno cilindrico. Il pollice si presenta un po’ sacrificato, non c’era legno sufficiente per coniugare le dimensioni dell’insieme con un’estensione più libera del “ditone”. La posa di per sé non è impossibile, ma un po’ forzata sì. Anche le falangi anteriori sono troppo lunghe, me ne rendo conto. Ma in questi esperimenti lignei, mi succede che ad un certo punto la forma mi appare finita, anche se magari sarebbe migliorabile. Così la lascio com’è in quel dato momento. Levare materiale dall’incavo e soprattutto praticare il foro dello spazio fra pollice, indice e resto delle dita, è stata un’operazione che ha messo alla prova al massimo le mie scarse capacità tecniche. Ma in qualche modo me la sono cavata.
L’abbozzo di prisma alla base della parte di tronchetto rimasta al naturale, in teoria avrebbe dovuto evolvere in ulteriori sviluppi, ma poi ho deciso che anche quel dettaglio fosse finito così. Ho allora completato il tutto con un piedistallo in cui la mano si inserisce ad incastro, tanto da risultare come immersa nel legno di base. L’idea è quella di suggerire un effetto “pinna di squalo”, come se la manina affiorasse a pelo d’acqua in un suo immaginario peregrinare marino o fluviale.
Alla fine è una metà via fra un pugnetto chiuso o una manina semi-aperta. E con una lieve sfumatura d’ironia, ho deciso d’intitolare questa mia creazione «Disimpugno».