Sono incappato in una piccola epifania nipponica, una micro-magia letteraria, di cui mi piacerebbe rendervi conto oggi. Circa tre anni e mezzo fa ormai, scrissi proprio qui su «Andarperpensieri» un articoletto dedicato ad un bel libro del romanziere giapponese Murakami Haruki, che all’epoca avevo appena finito di leggere. Il titolo del romanzo di allora era ed è «Kafka sulla spiaggia».
Nel mio scritto, mi ero un po’ divertito a fare il critico letterario della domenica, come spesso mi succede. Ad un certo punto, mi ero servito di una similitudine fra letteratura ed edilizia. Un po’ trombonescamente, cito un mio passaggio di quello scritto dove introducevo appunto la metafora:
«…Paragoniamo per un momento il romanzo ad un edificio.
Entrambi sono percorsi da linee di forza sotterranee, interne, che ne costituiscono la struttura nascosta. Nel caso dell'edificio forse il concetto è più immediato da cogliere. Nell'«intimo» di pilastri, travi, volte, arcate, si distribuiscono i pesi e i contrappesi che vanno a costituire la “macchina statica” di tutto l'insieme. Come una circolazione sanguigna di forze in gioco, che scorrono lungo le venature della costruzione.
Entrando in un edificio, questo suo flusso dinamico interiore è proprio l'ultimo aspetto al quale un visitatore andrebbe a pensare. Passando di stanza in stanza, salendo le scale, soggiornando nei suoi locali, l'unica cosa che ci interessa fare è “leggerne la forma”. Vogliamo provare comfort, senso di rifugio, di protezione, di domesticità. Tutto, tranne sapere se ad esempio, i mattoni di un arcata sotto l'intonaco si stanno spingendo a vicenda come dei dannati per fare stare in piedi la baracca, oppure se una trave armata ci sta dando dentro di buona lena per accogliere lungo i tondini di ferro della sua anima il peso delle persone che si muovono all'interno.
In un romanzo succede una cosa simile.
Però per questa volta, con il libro di Murakami Haruki, non cercherò di appurare se le stanze siano ben illuminate e cromaticamente equilibrate, se la temperatura risulti gradevole e ponderata rispetto alle modificazioni climatiche, o se la ventilazione sia dosata nella maniera giusta. Proverò invece proprio ad occuparmi della sua circolazione sanguigna strutturale, delle forze narrative che scorrono all'interno dell'opera.…».
Però per questa volta, con il libro di Murakami Haruki, non cercherò di appurare se le stanze siano ben illuminate e cromaticamente equilibrate, se la temperatura risulti gradevole e ponderata rispetto alle modificazioni climatiche, o se la ventilazione sia dosata nella maniera giusta. Proverò invece proprio ad occuparmi della sua circolazione sanguigna strutturale, delle forze narrative che scorrono all'interno dell'opera.…».
Questo vi raccontava il buon Gillipixel qualche tempo fa.
Poi di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’, e Murakami Haruki ha scritto altre cose. Sto sempre attento alla sua produzione, perché avendo letto quasi tutte le sue opere, lo conosco come autore che raramente mi delude. Anzi, il più delle volte mi esalta proprio.
In genere non mi precipito però sulle novità in libreria. Quando esce un libro nuovo che mi attira, lo lascio sempre decantare vari mesi, se non anni, sugli scaffali. Deve caricarsi della patina del tempo, prima che io provi quella sensazione di trovarmi ormai nel momento giusto per fare la conoscenza di quel libro. Non mi riferisco ad una questione fisica. Non è che il libro debba invecchiare in libreria come oggetto di per sé, nella sua qualità di volume, fatto di quelle pagine e di quella copertina. Di solito infatti va a finire che mi procuro una qualche ristampa, nuova di zecca nella confezione.
Ciò che deve maturare invece è la presenza di quel libro nel mondo. Forse il fenomeno è connesso all’idea di tutti i lettori che nel frattempo lo leggono, chi lo sa. Con questo non voglio nemmeno dire che il fatto di essere letto da tanta gente, sia sufficiente per suscitare l’attrazione in me. No, non mi riferisco di certo al fenomeno dei best seller. Il libro deve essere già carico in partenza di fascinose promesse, coltivate inconsciamente nel mio intuito. Poi però, in aggiunta e a tempo debito, pensare che la sua bellezza si sia già impastata nell’animo di tanti altri lettori che considero a me affini, mi fa sentire quel libro come un’entità viva. E mi fa assaporare il mio atto di leggerlo come fosse l’immissione in un flusso di pensieri sbocciati intorno alle parole del testo in questione, passate dalla pagina a centinaia di occhi e di menti di lettori.
Per farla breve, alcuni giorni fa ho sentito che era arrivato il momento di leggere «1Q84 – Libro 1 e 2», una delle ultime opere di Murakami Haruki. Il romanzo ha già più d’un paio d’anni e nel frattempo lui ha scritto già anche «1Q84 – Libro 3» e forse altre cose, ma in virtù dei miei criteri di scelta, mi confronto solo ora col libro, mettendoci di mezzo il mio fisiologico “gap temporale di lettore”. Le vicende narrate nel romanzo si dipanano su due storie parallele (struttura adottata spesso da Murakami). In una delle due storie, il protagonista è Tengo, promettente giovane romanziere in erba, alle prese con un manoscritto misterioso confezionato da un’ancor più enigmatica ragazzina. Nella finzione romanzesca, il testo del manoscritto è strepitoso in quanto a storia ed intensità narrativa, ma lo stile è disastroso, persino grammaticalmente traballante. Il giovane Tengo, su incarico di un editor dal fiuto sopraffino, ha il compito di riscrivere il libro, ripristinandone la forma, nel rispetto della sua potenza ed identità strutturale.
Ed ecco quale metafora, ad un certo punto, viene introdotta da Murakami Haruki per rendere l’idea dell’operazione in cui il giovane scrittore si deve calare:
«…Mantenere il contenuto identico, senza alcun intervento, e modificare drasticamente lo stile. Come quando si fa la ristrutturazione di un appartamento. La struttura la si lascia uguale, perché in sé non ha alcun problema. E non si va a cambiare la posizione delle condutture dell’acqua. Le cose che invece possono essere sostituite, come il parquet, il soffitto, i muri secondari e i divisori tra le stanze, vengono tolte e sostituite con le nuove. “Sono l’abile carpentiere al quale è stato affidato questo lavoro”, si disse Tengo “non c’è un progetto preciso. Devo ricostruire una parte alla volta, basandomi solo sul mio istinto e sull’esperienza”…».
Non ho fatto a tempo a leggere questo passaggio di «1Q84 – Libro 1 e 2», che subito un lieve sorriso epifanico mi si è dipinto sulle labbra. Era la stessa metafora che avevo usato io, tre anni e mezzo fa, per parlare sempre di un libro di Murakami Haruki. Libri ed architettura: l’affinità di meccanismi tra il fenomeno narrativo e quello costruttivo-edile. Non che questo voglia significare nulla. Solo la piacevole sensazione dettata da questa coincidenza del tutto casuale.
L’edizione giapponese di «1Q84 – Libro 1 e 2» credo sia uscita proprio nel 2009, mentre in Italia è comparso nell’ottobre 2011, credo. Proprio volendo, avrei potuto trarre ispirazione diretta. Ma oltre a quanto già detto riguardo alle mie abitudini di lettore, ci metto in sovrappiù anche la mia parola di giovane marmotta, per garantirvi che ho iniziato la lettura di «1Q84 – Libro 1 e 2» solamente sabato pomeriggio scorso, 27 luglio 2013. Il flusso di dati opposto mi pare poi veramente qualcosa di fantascientifico: a parte la discrepanza di tempi che già esclude l’ipotesi, non ce lo vedo proprio Murakami Haruki mentre si legge «Andarperpensieri». Va bene tutto, ma ci sarà pur anche un limite alla “sospensione dell’incredulità”.
Inoltre, la metafora libri-edifici non è forse nemmeno una di quelle più originali o illuminanti. Non saprei. Rimane però la magia di un incrocio concettuale a tempi sfasati, fra un grande scrittore ed un modesto scribacchino Gillipixante.
Aggiungo infine un’altra nota di immodestia personale, prima di rimettere il mio orgoglio nell’armadio, ben cosparso con palline di naftalina marca “umilìn”. In occasione del vecchio scritto relativo a «Kafka sulla spiaggia», realizzai una foto da abbinare al testo sul blog. I miei occhiali, posati sul romanzo, a sua volta posato a terra su un tappeto di foglie gialle (era novembre, giustamente).
Ora, non so se si tratti di un tiro mancino dei servizi sociali che, subdolamente a mia insaputa, stanno tentando, in combutta con i tecnici di Google, di iniettarmi qualche dose di autostima, visto che ne sono così sprovvisto. Probabilmente Google riconosce che sono io e mi restituisce questo risultato, non saprei. Ma di fatto mi sono accorto che, digitando «Kafka sulla spiaggia» nello spazietto di ricerca di “Google immagini”, una delle prime foto ad uscire è proprio la mia.
Non so nemmeno se la cosa sia effettivamente da considerarsi come un motivo di accrescimento dell’autostima. Molto meglio probabilmente vederla come il giusto completamento di questa curiosa epifania nippo-narrativa.