mercoledì 3 luglio 2013

Wile E. Don Coyote della Mancia

 
Un’opera della complessità del Don Chisciotte di Cervantes ha avuto nei secoli decine e decine di esegeti, che hanno sviscerato questo monumento della letteratura mondiale in ogni suo risvolto di senso, suggestione allegorica e profondità semantica. Non saprei dunque dire se le mie osservazioni attuali siano già state messe in rilievo da altri commentatori. Mi sembra in ogni caso interessante spenderci intorno ancora due parole, non fosse altro che per la curiosità delle questioni in gioco.
 
Parto innanzitutto da un’impressione nuda e cruda, scaturita spontaneamente dalla lettura dell’opera che mi vede impegnato in questo periodo. Si tratta di una reazione bizzarra e incontrollata, forse l’ultima che mi sarei aspettato da me stesso. Piccolo inciso. Mi pare di aver già espresso simili concetti, in un’altra occasione: quando ci si confronta con un’opera d’arte di un certo rilievo, ritengo sia molto importante documentarsi in merito, leggere quanto è stato detto dai critici più autorevoli, cercare di conoscere le diverse interpretazioni. Ma altrettanto importante è lasciarsi andare all’ascolto puro e semplice. Stare semplicemente “lì”, dinanzi all’opera, e osservare come reagiamo.
 
Una delle mie reazioni di fronte alla lettura di Don Chisciotte mi ha stupito, e non poco. E’ quasi superfluo ricordare il meccanismo narrativo più noto dell’opera. Don Chisciotte, signorotto decaduto di provincia, in un’epoca di crisi spirituale e forte disincanto (fine ‘500 - inizio ‘600), infervorato dalla smodata lettura di numerosi tomi che decantano una vagheggiata età dell’oro durante la quale l’impareggiabile mondo della cavalleria errante diede il meglio di sé, si autoconvince di essere egli stesso un valoroso armigero equestre e intravede poetiche fonti di mirabili avventure dove ogni altra persona non vede che banali episodi della quotidianità.
 
Risultato: il novello cavaliere errante s’incaponisce nel volersi cacciare a piè pari in queste fantomatiche imprese, alla conclusione delle quali si ritrova quasi ogni volta matematicamente scornato e mazzolato. Ed ecco la mia reazione al reiterarsi di questo dispositivo narrativo: da principio, le insistenze di Don Chisciotte nel voler vedere ciò che nella realtà non è, mi causano una specie di fastidio, a tratti anche intenso; quando poi inevitabilmente quel gran buffone si scorna contro la durezza dei fatti, provo una sorta di perfida soddisfazione e di sadica ricompensa, che si concretizzano in pensieri fra me e me, del genere: «..Toh, ti sta ben fatta, pezzo d’un coglionazzo…dovevano suonartele più forte…» o altre simili invettive interiori grondanti gaudiosa malvagità.
 
E’ vero che non ci si conosce mai abbastanza, ma la cosa mi ha meravigliato non poco, dicevo. Perché in generale mi sono sempre ritenuto una persona non solo mite, ma anche dotata di una certa dose di capacità comprensiva verso le debolezze, i limiti, le mancanze altrui. Non sono poi certo io il tipo del sostenitore ad oltranza del realismo più puro, anzi, ho sempre nutrito una certa simpatia per i sognatori e in generale per chi si appassiona alle «inutilità» della vita e alle cause perse.
 
Come mai, dunque, l’impianto narrativo del Don Chisciotte è in grado di andare a scoprire questo aspetto inatteso e nascosto del mio sentire, generandomi dentro sensazioni che reputavo piuttosto aliene dal mio modo di essere? Non so se l’effetto fosse stato ricercato con intenzionalità e chiara consapevolezza da Cervantes stesso. Di fatto questa reazione mi s’innesca dentro, per cui la annovero di diritto fra quelle potenzialmente suscitabili dalla lettura dell’opera.
 
Ho provato a darmi una spiegazione. Don Chisciotte è di fatto un folle, un debole all’ennesima potenza, perché esposto dalla sua fragilità psicologica a tutte le insidie del mondo «utilitaristicamente» inteso. Ha perso ogni contatto con le cose pratiche e con candida ostinazione vive in un suo mondo a parte. Don Chisciotte, rispetto alla «normalità», è dunque un estraneo. In sostanza, è un diverso. E la diversità, anche se a parole ci si proclama tutti pronti ad accettarla, a comprenderla e a capirla, la diversità, dicevo, nei fatti può dare fastidio. Una volta sentii le illuminanti parole di un saggio sacerdote, che diceva più o meno così: «…Aiutare gli altri può essere anche molto faticoso e antipatico, riserva situazioni spesso spiacevoli, perché chi è nel bisogno, chi sta male davvero, a causa delle sue stesse fragilità, riesce anche a trascinarti nel suo malessere, può buttarti addosso tanta sgradevolezza…».
 
Fenomeni interiori molto simili succedono quando ci si confronta con la diversità. La diversità può essere sgradevole e fastidiosa, antipatica. Forse allora Don Chisciotte, col suo smuoverci dentro sentimenti di questo tipo, ci mette in guardia dall’edulcorata visione incentivata dagli idealismi di tutte le specie, quelli che ci fanno illudere di essere per natura ben disposti verso il diverso, verso l’eccezione umana, verso l’anomalo. In realtà, il diverso sotto sotto ci spaventa e ci causa fastidio, irritazione, ripulsa, e se capita di vederlo mazzolato, ne godiamo pure. Ma alla fine, ripensando a tutta la dinamica del meccanismo nella sua subdola interezza, possiamo prendere atto di questo automatismo emotivo leggermente perverso che alberga in noi, e trarne spunti di riflessione.
 
Non so se questa mia interpretazione del Don Chisciotte possa essere plausibile. Si tratta solo di una mia ipotesi estemporanea.
 
Un altro aspetto del Chisciotte che ho notato, più leggero e superficiale stavolta, è sempre connesso al continuo suo esser fatto oggetto di “mazzuolamenti” spropositati, al limite della grottesca esagerazione. In altre parole, percorrendo le righe dell’immortale avventura di Cervantes, ci si meraviglia altresì di come il suo cavaliere sgangherato venga legnato e bastonato in modo ogni volta così feroce, ma risulti poi sempre pronto ad affrontare quasi subito nuove peripezie. Certo, se si fa bene attenzione, la cosa è ben giostrata da Cervantes, ma non si può fare a meno di notare una certa sproporzione fra le botte prese, che stenderebbero per sei anni di fila una persona anche di robusta costituzione, e la vivacità polemica che invece Don Chiscotte sa andare sempre prontamente a ripescare nel suo animo e nel suo fisico.
 
Quest’altra sfaccettatura del Chisciotte mi ha fatto venire in mente un buffo parallelismo con lo sfortunatissimo protagonista di uno dei cartoon più famosi, l’acerrimo nemico dell’inafferrabile Road Runner Beep Beep, ossia sua eminenza il gran cerimoniere della sfiga, Wile E. Coyote. Tenuto conto delle debite distinzioni, Don Chisciotte e Wile E. Coyote mi sembrano allora un po’ imparentati, come personaggi. Tutti e due ambiscono all’impossibile, si prefiggono mete irrealistiche, si sfasciano contro il muro inamovibile del non plausibile, ma in qualche modo sono commoventi nel loro idealistico ostinarsi, si ricompongono come esseri di gomma, anche dopo le batoste più clamorose e ancor più del fisico, hanno incrollabile lo spirito, che non teme ferita, ammaccatura, o “spatasciamento” di sorta.
 
Sempre fatte salve le differenze d’importanza artistica, vedo allora in Don Chisciotte una sorta di anticipazione di certe tematiche dei cartoni animati moderni. Perché in fondo anche Wile E. Coyote, ancor prima che di Beep Beep, è nemico di una realtà ostile che non vuole piegarsi ad obbedire ai mille marchingegni da lui architettati per farla andare secondo la propria volontà. Cosa che, a ben vedere, non è poi molto distante da quanto capita anche a ciascuno, nell’esperienza comune di tutti i giorni.


3 commenti:

Marisa ha detto...

Don Chisciotte mi ha sempre fatto tanta pena, un uomo così puro e idealista che non si accorge della cattiveria degli altri di cui è oggetto proprio per la sua diversità.
In musica Massenet ha messo in scena questa bellissima opera ed io l'ho eseguita tanti anni fa, il regista di allora aveva ambientato la trama in una carbonaia dove in una pausa dal lavoro arrivava il guitto Don Chisciotte per intrattenere e far divertire la gente che vi lavorava.
Meravigliosa, il ricordo di questo capolavoro mi è rimasto scolpito nella memoria e ne raccomando l'ascolto così come pure la lettura.

Marisa ha detto...

A proposito, Sinceramente non vedo nessuna affinità con Wile Coyote che è solo uno sfigato, gli va male ogni cosa perché Bip Bip è troppo fortunato e antipatico come il cugino di Paperino, Gastone.

Gillipixel ha detto...

@->Marisa: cara Mari :-) ti ringrazio della segnalazione dell'opera di Massenet...da ignorante musicale quale sono, non la conoscevo...sicuramente merita un approfondimento...

Credo però che la tua visione del Don Chisciotte sia troppo "sbilanciata" nel senso dell'interpretazione che di questa figura letteraria è stata fatta appunto nel periodo del Romanticismo...il Don Chisciotte di cui parli tu, credo sia appunto più quello "di Massenet" che non quello "di Cervantes"...però il discorso qui si farebbe un po' lunghetto ed ho pensato che magari merita un articolo intero, tutto dedicato alla questione :-) prossimamente, se riesco, lo scrivo :-)

Grazie per avermi stimolato nuove riflessioni sul tema :-)

Bacini sanciopanzeschi :-)