giovedì 29 agosto 2013

La natura, nonostante tutto…




Il confronto con l’irrinunciabilità di fondo dell’elemento naturale, con l’imprescindibile ricorrenza del dato di realtà ambientale, mi procura talvolta una sottile consolazione sotterranea.

Meditare attimi di libertà, mentre un refolo di vento freddo mi scuote irrispettosamente la pelle; intuire che la pioggia, nonostante tutte le raffinate sottigliezze dei meteorologi, alla fine farà come diavolo le pare; sentire la cappa buia della sera che cala inesorabile, nonostante tutte le luminarie del mondo. Addirittura pensare alle galassie, all’indomabilità delle stelle e di tutto l’inimmaginabile e sconfinato spazio siderale…

Tutte queste cose mi fanno stare bene.

Non deve fare meraviglia poi che i medesimi identici pensieri, in altri frangenti, mentre altri stati d’animo attraversano il fluire dei tempi, siano fonte di angoscia pura e di smarrimenti fra i più disparati. Allora lo stesso vento, la medesima pioggia, li detesti di cuore, mentre ti avvoltolano il lembo dell’ombrello infradiciandoti i piedi con secchiate d’acqua miste a maledizioni. Oppure, ti percuote sin nel profondo il senso di impotenza, quando constati che una miriade di aspetti della realtà sono fuori della misera portata di mano di noi poveri umani.

Ma quando la sensazione giusta si sintonizza sulla frequenza d’animo appropriata, pensare che nonostante tutto, l’uomo non può farci proprio niente, che quello sfondo reale andrà avanti da solo, lo si voglia o no, tutto ciò procura una bizzarra soddisfazione. Forse sarà giusto la soddisfazione del fesso che taglia il ramo su cui sta bellamente seduto. Sono infatti pensieri che non si addicono ad ogni occasione, vanno riservati a rari bagliori di lucida idiozia e immagazzinati con cura nel “reparto reperti inutili” del nostro animo.

Non mi sembra tuttavia che sia tanto meno da fessi, pensare se stessi come i veri padroni della Terra, solo per il fatto che la si inquina in lungo e in largo, piegando le sue logiche in maniera distorta e pretendendo poi di averla dominata. La pretesa illusoria che tutto, ma proprio ogni aspetto del reale, sia ormai sotto il controllo della volontà umana, è forse molto più asfissiante ed “imbecillizzante” del fatto di assaporare il gusto della leggera e consolante disperazione dettata dall’impossibilità di avere in qualche modo voce in capitolo.

Molto meglio dunque riscaldarsi all’idea che la pioggia, il vento e il sole, capitano, scaldano, soffiano o muggiscono, quando minchia pare a loro.
 


venerdì 23 agosto 2013

Augusting cosy and warm


 
I giorni trascorrono agosteggiando attoniti ad ascella semi-tonica, mentre io continuo a non aver nulla da scrivere. 

Rovistando in un armadio alla ricerca di una cosa che regolarmente non ho trovato, mi sono imbattuto invece in alcuni vecchi disegni realizzati al tempo delle scuole medie. Di solito cerco di rifuggire queste “operazioni nostalgia”, del tipo passare in rassegna vecchie foto in bianco e nero, oppure rimirare oggetti e giochi dell’infanzia. Mi portano troppo lontano, a volte non reggo l’impatto ricordante, che mi sdrucisce l’anima, così se proprio proprio decido di mettere in moto un revival del genere, devo sentirmi dell’umore adatto.

Il disegnetto in questione però mi è quasi capitato fra i piedi, causandomi peraltro un moto di tenerezza discreto, e parecchi sorrisi. Non sono mai stato tanto portato per il disegno, ma mi è sempre piaciuto un sacco provarci. Qualcosa combinavo, ma da lì a poter dire che avessi un qualche talento vero con matita e pennarelli in mano, ce ne passava parecchio. Al di là dei miei limiti grafico-compositivi tuttavia, la molla principale che mi ha sempre spinto ad avventurarmi nel fatato mondo della creazione manuale d’immagini, credo sia stato sempre quel senso di “investimento fantasioso” concesso da questa operazione. Le figure che riuscivo a tirare fuori erano per me dei potenti mezzi di “fantasticheria applicata”. In quei quattro scarabocchi potevo vederci dentro tutti i miei mondi preferiti, lì si realizzavano le cose più “armonicamente compiute” che riuscissi ad immaginare.

Non sto parlando di fantasticherie irrealistiche, tipo omini verdi con le antenne sulla capoccetta ad uovo, oppure chimere dal pelo fucsia duellanti con draghi convenzionati alla mutua di Roncisvalle. No, le mie fantasie si addentravano più che altro in ambiti “iperrealistici”. Nel senso: il disegno per me era uno strumento per vedere un’altra realtà ulteriore, una realtà più reale di quella che avevo sotto gli occhi ogni giorno, possibilmente meno imperfetta. Che poi le mie immagini risultassero ampiamente imperfette e sgangherate, questo è un altro discorso. Il punto era la quota di immaginazione che potevo concedermi mentalmente di infondere in quei pochi tratteggi malsicuri: quella era illimitata, senza confini.
 

Osservando il disegno ritrovato, mi sono accorto che presenta tantissime della caratteristiche tipiche del mio “codice immaginifico” di allora. Proprio nel periodo delle medie, mi specializzai in ometti nerboruti. Sempre “in virtù” dei miei limiti grafici, ogni volta che mi accingevo a tratteggiare una figura umana, e anche se magari le mie intenzioni erano tutt’altre, non c’era verso: mi veniva sempre fuori un bulletto muscolare, mezzo para-culturista della domenica.

Mai che mi riuscisse di fare una figura esile, gentile, dai tratti aggraziati. Sempre e soltanto bicipiti ipertrofici, pettorali da peso massimo, cosce da tiratori di fune provetti. Ormai avevo raffinato il mio tratto su quella modalità grafica: l’omino muscolettato mi usciva dalla matita quasi in automatico, come fosse un cliché utilizzato dalla zecca per battere moneta.

Credo ci fossero vari motivi per spiegare questa mia iper-specializzazione iconografica. Da una parte, il mio imaginario figurativo era molto influenzato dai fumetti. Fantastici 4, Dare Devil, Uomo Ragno, Zagor, Thor: tutta gentaglia dal muscolo vivace, che ho mangiato insieme al pane fin dalla più tenera età. Per di più, va aggiunto che il mio ideale grafico derivava anch’esso da uno dei personaggi “dialoganti a sbuffo” a miei più cari: Alan Ford, ovviamente nella versione disegnata dal grande Magnus. Il tratto di Magnus mi affascinava nel profondo, con quelle sferzate di china nerissime ed inequivocabilmente marcate, a segnare zigomi, menti, mascelle e curve muscolari.

La mia realtà immaginata era dunque costellata di forzuti dai muscoli levigati e formalmente impeccabili? Beh, sì, in un certo senso sì. Anche perché, per altri versi, questa mia ipotetica energia grafica trasfigurante, andava ad ovviare e compensare alcuni miei lievi crucci fisici, da sempre segretamente rimuginati. Anche se poi negli anni qualche chiletto assestato nei punti giusto son riuscito a metterlo su, da piccolo sono sempre stato magrolino e spilungone, con muscoletti agili e scattanti sì, ma alquanto parchi dal punto di vista volumetrico. Ecco allora che nella mia realtà disegnata, i muscoli si sprecavano, ed in quel mondo parallelo, i protagonisti erano tutti dei mezzi cinghialotti pronti a fracassarti sei falangi con una virilissima e fraterna stretta di mano.

Però, nonostante tutta la buona volontà che ci mettevo, le mie magagne di disegnatore erano pur sempre in agguato, pronte a riaffacciarsi ad ogni tentativo. Ecco dunque perché, quando mi capita di andare a rivedere con lo sguardo di adesso quei miei lontani abbozzi grafici, mi si disegnano in volto ampi sorrisi di tenerezza. M’intenerisce soprattutto l’ingenuità di quelle composizioni, mi ritorna alla mente la “purezza” dell’epoca, la freschezza mentale incontaminata di tutte quelle mie incursioni nel mondo della fantasia.

In questo disegnetto ritrovato, rendevo omaggio al mio periodo di infatuazione per il pattinaggio. Ovviamente, nella realtà concreta, i miei erano pattini a rotelle, di quelli da allacciare alle scarpe da ginnastica, e mai in vita mia avevo visto una vera pista, tanto meno di ghiaccio. Le mie evoluzioni le potevo fare al massimo nel corridoio di casa, oppure su qualche spiazzo di asfalto rugoso.

Nel mio disegno invece, ovviamente, si pattina su una comoda e spaziosa pista di ghiaccio. Il protagonista è senz’altro iper-muscolato, nel modo strano che le mie possibilità tecniche mi consentivano di realizzare. E’ rigido in modo quasi semi-comico, gli arti non sono inseriti con un vero e proprio quadro armonico nella figura intera del corpo, ma sembrano quasi fare ciascuno parte a sé, appiccicati l’un l’altro, quasi fossero stati scagliati con la fionda. La gamba sinistra, il tronco e la testa sembrano formare un unico monolite compatto, dritto come un fuso; le braccia sono innaturalmente tese, come quelle di un soldatino assai impettito; mentre la gamba destra sembra stata piantata nel resto della figura con un mazzuolo.

Sullo sfondo, con due semplici righe, una perfettamente orizzontale e quella sotto obliqua, avevo reso un accenno di prospettiva. Ma la cosa più buffa sono i due slogan che avevo piazzato a decoro di quel muretto o palizzata che dir si voglia: «W l’inverno» e «W il pattinaggio». Non vi so spiegare bene il motivo, ma anche considerando tutto quello che ho conosciuto, studiato, imparato, letto, vissuto dopo, il misto d’ingenuità e di indifesa fiducia verso il mondo, scaturente dall’immagine di quel lontano bimbetto capace di scrivere due simili semplicità, mi commuove non poco. Che poi, tenuto conto del livello di idiozia raggiunto nel frattempo dalla pratica pubblicitaria, se proprio vogliamo dirla tutta quei due miei antichi slogan non sfigurerebbero neanche tanto nel demenziale scenario odierno.

Un altro dettaglio mi ha parecchio intenerito, e poi chiudo: le bandierine che sventolano dal bordo della palizzata, le avevo rigorosamente campite con una bipartizione fucsia e arancione, in abbinamento col costume del pattinatore, e mi ero preoccupato di alternare i due colori, mettendo ora l’uno nella parte vicina all’asta, ora in quella lontana, e così via. Diavolo di un mini-Gillipix!!!

Va beh, cari amici viandanti per pensieri: per oggi avevo da dirvi solo queste piccole boiate. Intanto che mi viene davvero in mente qualcosa da scrivere, io continuo ad agosteggiare questi scampoli di mese.


mercoledì 14 agosto 2013

Buon Ferra-putre-agosto



Doveva essere probabilmente la vigilia di Ferragosto del ’13. Quel giorno era successo proprio un bel succeder nulla.

Agosto d’altra parte è il putrescente fra tutti i mesi.

Sprofondato nell’humus soffocante dei suoi giorni afosi, marcisce inesorabile come il seme sottoterra. Agosto è il mese di dopo aver fatto l’amore. E’ la domenica dei mesi. E’ la disperante speranza rivolta alla ciclica rigenerazione del vivere. Dopo agosto, la rinascenza ancor una volta tornerà a stupirci, quando, esausta all’apparenza ormai ogni nostra energia esistenziale, la sua ricomparsa ci coglierà di sorpresa, estenuati ma consapevoli di latenti forze sotterranee incipienti, come un esangue e spossato viandante, nel riprendere i sensi dopo un asfissiante svenimento.

La nobile tribù pellerossa dei Sioux Lakota, nella loro lingua che traeva linfa direttamente dagli accadimenti naturali, lo chiamava «il mese in cui le ciliege diventano nere». Infatti Agosto è troppo maturo. Sotto la pelle tiratissima e traslucida del suo millantato divertimento vacanziero, un debordare incipiente di tumescenza zuccherina spinge, per frangere la superficie con mille spaccature e screpolature. Agosto è giovialità insistente e un po’ forzata, come una prugna congesta e paonazza per essere stata dimenticata appesa all’albero. Basta una bottarella insignificante per avere ammaccature e lividi facili.

Agosto, insieme a Luglio, è un intruso. Tutti gli altri mesi, richiamando la mitologia (Gennaio è per Giano; Marzo, per Marte; Giugno, per Giunone e così via), oppure rimandando al senso numerale (settembre, ottobre), hanno in qualche modo una loro maniera naturale di porsi. Luglio e Agosto sono invece stati incastrati lì dalle prepotenze imperiali di Giulio Cesare e di Augusto. Forse anche per questo Agosto suona sempre stiracchiato, come il sorriso in bocca ad un ricco nababbo. Bella forza: prova te a ridere con le pezze al culo, invece.

Agosto è un mezzo rintronato come me, che non so più ormai se cose simili le ho già scritte e ripetute magari in occasione di altri Ferragosti. Ma va bene lo stesso, fa tutto parte del fecondo, malcelato, rigenerante, marciume agostano.

Agosto, in fondo in fondo, forse non è nient’altro che una trentina di giorni più o meno uguali a tanti altri.

Buon Ferragosto del ‘13, cari amici viandanti per pensieri.




giovedì 8 agosto 2013

La strisciante combutta della lobby segreta delle sotterranee congreghe delle leggende metropolitane



«…S’lé véra, l’è ‘na gran bàla!…».
(N.d.t.: «…Se è vero, è una gran balla!…»).

Antica e paradossale constatazione gillipixilandese

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Le leggende metropolitane possono fare uno strano effetto. Non riesci mai a capire bene se ascoltandole, ti colga più intensamente il timore che siano balle, oppure la speranza che siano verità. La cosa più suggestiva è cercare d’indovinare cosa passi per la mente luminosa di quei tizi che le mettono in giro. Quale molla scatta fra le pareti craniche del cazzaro di alta qualità, tanto da indurlo a sfornare simili perle d’inusitata semi-esaltante irrealtà post-deprimente?
 
Ma forse si punta al bersaglio sbagliato, così interrogandosi. Probabilmente le leggende metropolitane non nascono belle fatte e rifinite, già complete, dal parto di una sola mente. Forse sono l’esito cumulativo di uno sforzo di squadra. Certe leggende metropolitane sono così raffinate ed architettate con sapienza, da far pensare a vere e proprie equipe di metropolitanisti leggendari, riuniti per sommare i loro sforzi di fantasia perversa. Magari un gruppo di amici assai affiatati, in una sera di cazzeggio particolarmente felice, riescono a sfornare certi diamanti rarissimi di spropositata inenarrabilità. Oppure la cosa nasce semplice semplice, ma poi s’ingrossa passando di bocca in bocca, e qualche goccia iniziale di banalità finisce per sfociare in voluminosi fiumi straripanti di fandonie.
 
L’atteggiamento rispetto alla leggenda metropolitana dev’essere ad ogni modo velato di paradossalità da ambo i lati. Da parte di chi la mette in circolazione, c’è il dovere d’impegnarsi a spararla molto, ma molto grossa, sapendo che più grossa la si sparerà, più grossa sarà anche la mole dei pesci presi all’amo. Da parte di chi ascolta invece, la disposizione d’animo ideale dovrebbe essere quella di colui che pur credendoci fortemente, sa benissimo che si tratta di una palla micidiale.
 
Non ricordo più nemmeno dove la sentii, questa. Forse dal barbiere, o in qualche altro consesso culturale di simile levatura accademica.
 
Girava voce che qualcuno avesse scoperto l’antidoto definitivo per debellare la carie dentaria. Niente più otturazioni, niente più denti trapanati. Più niente di niente di tutto questo: solo denti intatti e dalla superficie inattaccabile. Si trattava di una sorta di sostanza speciale, una non meglio precisata vernice trasparente, che una volta cosparsa a tempo debito sulle 32 mini-zanne umane, avrebbe formato una pellicola protettiva capace di salvaguardare per sempre l’integrità di molari e compagnia.
 
Ovviamene però, così sarebbe stata troppo breve. Mi sono divertito allora ad immaginare come avrebbe potuto proseguire.
 
La lobby dei dentisti, in combutta con la lobby dei produttori di pasta per le otturazioni, d’intesa con la lobby dei fabbricanti di trapani per otturazioni, col beneplacito della lobby degli industriali delle poltrone da dentista, sentito anche il parere del sindacato delle assistenti alla poltrona, si accordarono tacitamente per tenere nascosta all’umanità la scoperta della imperitura sostanza anti-carie. Da quel momento, i dentisti, i produttori di pasta, i fabbricanti di trapani, gli industriali delle poltrone e le assistenti alla poltrona insieme ai loro sindacalisti, non soltanto non hanno più avuto carie, ma hanno anche fondato dei club esclusivi, la cui principale attività consiste nel riunirsi in serate di gala, durante le quali si sghignazza a pieno ed intatto sorriso di tutti quei fessi che continuano a farsi otturare i denti.
 
Fra gli invitati a queste feste, chissà per quale confusione di bigliettini erroneamente recapitati, capitò una sera un imbucato. Era niente meno che uno dei più influenti esponenti della lobby dei produttori di lamette da barba. Intrufolandosi a tradimento nel ridereccio consesso degli onnipotenti dentari, riuscì a carpirne il capitale segreto riguardante la carie. Dando ampia dimostrazione del meglio del proprio spirito lobbysta, subito si propose per un ricatto in piena regola: chiese una sacco di soldi per non rivelare al mondo la scoperta dei dentisti. Ma quando una lobby sola si mette contro tante lobby, difficilmente la spunta.
 
Ecco allora che le lobby dentistiche riunite, facendosi forte del contributo della lobby degli investigatori privati, i cui favori erano stati acquisiti promettendo a tutti i detective denti sani per sempre, poterono proporsi per un contro-ricatto verso la lobby dei produttori di lamette. Il loro silenzio venne carpito tramite la minaccia di rivelare a loro volta un altro fondamentale segreto, scoperto nel frattempo grazie alla sagacia dei detective. I produttori di lamette avevano inventato la lametta infinita, che non si consuma mai, neanche dopo milioni di rasature. Se avessero continuato ad accampare pretese verso le lobby dentistiche, il mondo avrebbe conosciuto anche questa nuova sorprendente verità pilifera.
 
Si addivenne allora ad un compromesso: nessuno avrebbe rivelato nulla, accontentandosi di godere il frutto delle nuove scoperte. Da allora, i protagonisti del mondo dentario, insieme ai detective, e in compagnia dei produttori di lamette, si riunisco in feste serali ancora più grandi e divertenti, durante le quali, tutti sbarbati al millesimo di millimetro (anche le assistenti alla poltrona, in altri posti rispetto alla faccia, ma pur sempre sbarbate), con dentatura perfette si ride della grossa di tutto il resto dell’umanità che continua a sfoggiare barbette mal rasate per risparmiare sulle lamette, e si concede solo sorrisi di seconda mano, offuscati dal timore di mostrare l’ombra inelegante delle otturazioni.
 
A furia di sghignazzare a denti impeccabili e di crogiolarsi senza sosta nel narcisistico e vicendevole rimirar di rasature perfette, le lobby dentistiche e investigative, unite a quella delle lamette, vennero travolte da incipiente delirio di onnipotenza. Ben sbarbati e sorridenti com’erano, si misero in testa di voler conquistare la Terra. Pensarono così di avvalersi del contributo della lobby degli ipnotisti e degli illusionisti mondiali. Grazie ai loro servigi, contavano di sottomettere al proprio volere tutta l’umanità. Ma male gliene incolse, perché non fecero i conti con la sagacia lobbystica degli ipnotisti ed illusionisti.
 
Questi ultimi dapprima illusero i dentisti, i detective e i lamettari, fingendo di stare al gioco,  ma poi li ipnotizzarono, facendosi rivelare tutti i loro segreti, e causando poi la rimozione assoluta da tutte le loro menti di ogni barlume di ricordo riguardante la scoperta della cura definitiva della carie e l’invenzione della lametta senza fine.
 
Ora gli unici grandi depositari della conoscenza di tutta questa leggenda metropolitana, nonché esclusivi beneficiari dei vantaggi dentali e depilatori connessi, rimangono soltanto i componenti della lobby degli ipnotisti e degli illusionisti mondiali. Se tuttavia vi capitasse di incontrarne uno, guardatevi bene dall’obbiettare di non averlo mai sentito parlare di dentista, oppure di non averlo mai visto acquistare lamette da barba. Vi potreste risvegliare il giorno dopo nel vostro letto, con un lieve intorpidimento alla bocca e quattro nuove otturazioni che non ricordate quando mai vi siano state fatte. Poi alzandovi, inciampereste in uno scatolone posato vicino al comodino, contenente una fornitura per tre anni di rasoi usa e getta, mentre sul vostro blocchetto degli assegni, mancherebbe misteriosamente un talloncino.
 
Ed è sempre per lo stesso arcano motivo che una moltitudine di dentisti, di produttori di pasta per le otturazioni, di fabbricanti di trapani per otturazioni, di industriali di poltrone da dentista, di assistenti alla poltrona coi loro sindacalisti, vagano per le strade di tutto il mondo, incrociando di tanto in tanto un produttore di lamette da barba. Si guardano un attimo negli occhi, non capiscono e passano oltre, pur senza rinunciare a borbottare per un attimo fra sé e sé: «…Sarà…ma io quel tizio l’ho già visto da qualche parte. Bah, vatti a ricordare dove…».