Quando penso di aver scritto ormai tutte le cose che avevo da dire, faccio un giro sull’argine e mi accorgo che nella mia cartucciera c’è ancora qualche fregnaccia da sparare. Ne ho scritte tante su questo blog, anche se nel medesimo spazio, forse Tolstoj ci sarebbe stato giusto dentro con la sua lista della spesa. Ne ho scritte tante che adesso non so più se vado a raccontare una roba già detta, oppure qualcosa di nuovo.
Ma qualcuno ne doveva parlare come si deve di questa cosa, prima o poi.
L’argine è un elemento del paesaggio piuttosto importante, da queste parti. Sul suo crinale corre un filo di separazione esistenziale: di qui la ragione e la misura, di là la follia del fiume. Da qualche parte ho sentito dire che le persone nate e cresciute lungo il corso di un fiume, tanto più se di una certa portata, serbano in corpo una discreta dose di folle ineffabilità. Lo sforzo di essere ragionevoli nelle azioni quotidiane, collide di continuo con l’influsso energetico proveniente dal flusso fluviale. L’argine, nel mezzo, è un magnete di transizione fra i due estremi.
A cavallo dell’argine, mi sento in uòlt-uìtman-iana continuità con la terra (nel senso di Walt Whitman).
Qualcuno doveva parlare del micro-spettacolo che dalla cima dell’argine si può apprezzare ogni anno, più o meno di questi tempi. Perché è una faccenda tanto umile, ma al contempo così grandiosa, che immagino nessuno ne abbia mai parlato. C’è bisogno del sole radente autunnale, per poterlo notare. In altri frangenti della quotidianità, più che fornire uno spettacolo, questo elemento naturale comporta fastidi inenarrabili. Ma visto dall’argine, diventa stupore puro.
Basta un pezzo di terra arata, o ad ogni modo smossa, anche in fini zollette già pronte per la nuova semina. Lo sguardo in controluce non può fare a meno di posarsi su una miriade di fili luminosi. Migliaia, milioni, miliardi di collegamenti filamentosi intessuti fra la piccola vetta di una zolla e tutte quelle circostanti, in una trama complicata ed onnipresente, posata ovunque sul terreno, eppure semi-invisibile, se non fosse per quell’attimo in cui cade sotto la particolare inquadratura del sole proteso prono sull’umidiccia campagna.
Sono ragnatele, metri, chilometri di ragnatele. Un mantello impalpabile, eppure dalla complessità indicibile. Viene da domandarsi come sia stato possibile un lavorio del genere. Soprattutto pensando che appena poche ore prima, scrosci d’acqua violentissimi hanno dilavato il terreno con severità possente. O tutto è stato rifatto in mattinata con una celerità e un’organizzazione spaventose, oppure quell’impalcatura, all’apparenza così fragile, è in realtà una delle opere di ingegneria più gagliarde ammirabili sulla faccia della Terra.
Altro che internet, altro che “world wide web”. Ci sono più collegamenti in poche migliaia di metri quadrati di terra arata, che su tutta la rete telematica mondiale. E’ il magico “w.w.w.” dei ragni, lo strabiliante “http” entomologico, l’hiper text transfer protocol dei misteriosi otto zampe. Uno spettacolo della terra, grandioso nella sua umiltà, riservato solo a chi lo vuole davvero osservare. Tanto defilato che è persino arduo da fermare su una foto, sia per la sottigliezza fuggevole del soggetto, sia per le difficoltà aggiunte dal sole in faccia, necessario per dar risalto a quel vasto manto ragnatelato (l’immagine che riporto ha solo in parte a che fare con questo fenomeno: l’ho ritratta tempo fa, col favore della rugiada mattutina).
Osservando bene poi anche tutto l’intorno, si nota che lo stesso reticolo è posato sugli steli d’erba, le stesse liane di finissima luce si protendono da una prominenza erbacea all’altra, anche qui dando vita ad un infinitum di tessuto a perdita di riflessione solare.
Sembra così quasi che la Terra sia tutta avvolta in una palla di ragnatela, ma in pochissimi lo sanno. E forse giusto un pizzico di follia lungo-fluviale può aiutare ad accorgersene.