martedì 30 dicembre 2014

Ma robe da nutria – “Sillogismi di fine anno”



Cari amici viandanti per pensieri, da quando sono comparse le nutrie, mi sono oltremodo impigrito. Ormai il blog è praticamente in mano loro. Se la cantano e se la suonano alla grande, mentre io me ne sto per il momento un po’ in disparte. Quasi inevitabile allora, farvi gli auguri di buon anno ancora insieme alle nutrie. Dico dunque due cosette io e poi lascio la parola ai livorosi roditori.

Alcuni capodanni fa, ero solito fare una piccola disamina “numero-sgangherologica”, prendendo come spunto il numerillo di coda del nuovo anno in cui ci apprestiamo ad entrare. Osservando la coda del 2015, vi confesso che non ci ho visto proprio niente di buono. Questa cosa potrebbe anche non essere del tutto malvagia, perché date le mie scarsissime capacità di astrologo, forse è la volta buona che qualcosa di decente invece succederà. Sta di fatto che in questo 5 di coda annuale prossima ventura, per il momento ci vedo soltanto un omino che china il capo, un individuo che si dispone prono e rassegnato di fronte agli eventi. Speriamo davvero che non sia così.


Speriamo che questo sia invece un monito per tutti a non piegarsi in quel modo, a tenere alta la testa, chiaro il sorriso e pulito lo sguardo, di fronte alle persone e alle cose che incontreremo. Queste sono le previsioni astrogillipixologiche di mago Gillipixòt, l’unico astrologo da cui si spera di avere un oroscopo faloppo, perché tanto poi si è certi che non ci becca mai. 

Un altro anno “anche” in compagnia di Andarperpensieri sta volgendo alla fine. Ci sono stati molti momenti, durante questo anno e dintorni, in cui ho sinceramente pensato che questo blog fosse arrivato alla frutta, esalando l’ultimo gran rutto post-prandiale. Ma il 2014 è stato per fortuna anche l’anno di una piccola rinascita, grazie alla collaborazione con Kika, che con il suo entusiasmo artistico-modaiolo e la sua simpatia, mi ha spronato nel continuare a divertirmi ancora scribacchiando. Un grazie grande e un augurio bloghesco speciale allora a Kika, in vista di tante nuove belle rubrichette sulle quali sbizzarrirci insieme.

E poi auguri di cuore a tutti voi, cari amici viandanti per pensieri, a chi legge e a chi vorrà intervenire con commenti, osservazioni, apprezzamenti, pernacchie, pomodori, cavoli, castanole, trik e trak, fish & chips, Simon & Garfunkel (prego, astenersi lanciatori professionali di uova marce…).

Ora mi azzittisco e lascio la parola alle nutrie, che da mezz’ora scalpitano e mi danno di gomito. Da quando si sono messe su Facebook, si pavoneggiano alla grande. Ecco come la vedono loro, per il 2015 (ma non statele ad ascoltare più di tanto, si sa, soffrono di acidità d’animo…):

 
 
 


lunedì 29 dicembre 2014

Ma robe da nutria! - "Nutrie su Facebook"

Come volevasi dimostrare: queste nutrie si stanno rivelando davvero invadenti...adesso pretendono di infestare anche Facebook. Sanno di essere molto più tecnologiche di me e non volendo farmi sentire inferiore, mi avevano tenuto nascosto l'indirizzo della loro pagina. Alla fine, ho insistito un po' e me l'hanno rivelato: eccolo!

 
 


sabato 27 dicembre 2014

martedì 23 dicembre 2014

Ma robe da nutria! – “Babbo Nutriale”



Cari amici viandanti per pensieri, si sa, il Natale è merce delicata e va trattata con cautela. Il rischio di rimanere schiacciati da una valanga di retorica è sempre alto. Ci vogliono massicce dosi di ironia, per evitare il travolgimento. Ecco perché quest’anno, voglio fare a tutti gli immancabili auguri natalizi in un modo un po’ diverso. Le ultime nate, nella folle scuderia di Andarperpensieri, sono un gruppetto di nutrie un po’ indisponenti. Affido quindi a loro la benaugurante nota di quest’anno, con una nuova mini-avventura dal sapore natalizio un po’ “per modo di dire”.

Per il resto: cercate di passare un lieto Natale. I guai al mondo non mancano di certo e di auguri ne abbiamo molto bisogno, tutti. Ma i regali, la luminarie, gli auguri…va beh, son tutte cose belle, per carità. Però la cosa fondamentale alla fine è riuscire a fare qualche riflessione, fermarsi a pensare, raccogliersi un po’ con se stessi e meditare su cosa davvero conta in questa vitaccia. Se il Natale non ci porta questo, passerà liscio e sciapo senza lasciare nulla di buono, di positivo. Se invece sarà occasione per scandagliare un po’ dentro di sé, un piccolo risultato potremo dire di averlo messo nel cassetto.

Buon Natale da me, allora. Grazie a tutti quelli che ogni tanto passano di qui. E’ sempre bello pensare che alcune strambe boiate pensate e messe nero su bianco qui, dalle parti di Gillipixiland, fanno poi un po’ il giro d’Italia e arrivano alla mente e al cuore di alcuni lettori che se leggono le mie cose, devono essere senz’altro tipi un po’ “particolari” :-) …e lo dico nell’accezione più nobile della parola…

E buon Natale, a modo loro, anche dalle sbiellatissime nutrie di "Ma robe da nutria!"
 
 


domenica 21 dicembre 2014

sabato 20 dicembre 2014

Ma robe da nutria! - "Estetica"



Nella caterva di contraddizioni scaturite dall’incontro-scontro fra la cultura della mia terra (pianura padana, in particolare "la Bassa") e l’avvento della modernità, ce n’è forse una che metaforicamente, e al tempo stesso anche concretamente, le riassume tutte: la presenza della nutria. Questo molesto (suo malgrado) animaletto incarna con la sua peculiare vicenda l’insieme delle storture derivate dall’ipertrofico produttivismo, che pur tanti benefici ha portato in termini di benessere a questa parte di stivalone Italico. 

Se volessimo azzardare una similitudine tragicomica (lo dico in modo scherzoso e lo sottolineo tre volte: di questi tempi, chi scherza viene spesso frainteso), potremmo dire che dare in mano trattori, mungitrici, diserbanti, presse e gran macchinari agli artigiani e ai contadini padani, ha comportato in qualche modo implicazioni antropologiche simili a quelle introdotte da bazooka e kalashnikov in mano ai guerrieri tribali africani. 

Una possanza lavorativa che fino ad allora era stata contenuta entro i limiti imposti dalla fatica, si è sprigionata come una poderosa reazione atomica a catena. Ne sono derivati vantaggi, sviluppo e ricchezza straordinari. Ma anche un sacco di deformazioni, dissonanze ambientali, umane, sociologiche e, non ultime, anche psicologiche. 

In tutto questo scenario, cosa c’entra la nutria? Anche lei è uno dei frutti amari cresciuti sui rami dell’Albero della Gran Forzatura. Alcuni anni fa, qualche furbacchione aveva sognato di fare soldi con la sua pelliccia. Non si rivelò poi quel gran business. Con ancor maggiore furbacchionità allora, si pensò “bene” di disfarsi di quelli che si erano rivelati solo degli ingombranti esemplari, liberandoli in aperta campagna. La nutria, nome scientifico Myocastor Coypus (per gli amici anche Mastonotus, Myopotamus, Potamys, oppure semplicemente castorino), è originaria del Sud America (“nutria” è alterazione spagnola del latino “lutra”, ossia lontra), e a parte il fatto che ama stare vicino a corsi d’acqua e canali, con la pianura padana non avrebbe proprio niente a che fare.

In poche parole, da queste parti non ci dovrebbe stare. E, se posso interpretare le sue eventuali volontà (che non ha mai espresso in modo palese, ma sono intuibili), nemmeno ci vorrebbe stare. Ormai che è qua, dato che ce l’hanno messa, lei tira a campare sfruttando tutte le caratteristiche territoriali più consone alla propria natura. Ma rimane pur sempre un simbolo evidente dello spaesamento etologico, della decontestualizzazione faunistica forzata dall’uomo. 

Era abituata ai vastissimi spazi delle semiselvagge prateria dell’America latina e si ritrova nella super antropizzata e circoscritta pianura padana. Appartenendo grosso modo alla grande famiglia dei roditori, non si è fatta certo pregare per riprodursi e il suo numero aumentato oltremodo entra inevitabilmente in collisione col numero altrettanto cospicuo degli umani. Risultato: nutrie e uomini non si sopportano a vicenda, si guardano in cagnesco (o meglio in nutriesco) ciascuno abbarbicato nella ristrettezza di una risicata coabitazione. Le prime fanno il loro normale mestiere di nutrie, ma questo rompe le balle ai mestieri umanoidi.

Si è innescata così una guerra per lo sradicamento dell’intruso avventatamente invitato al banchetto ambientale, ma finora né le trappole, né i fucili, né gli innumerevoli stiramenti sotto i copertoni delle auto, hanno potuto nulla di nulla. La vecchia Potamys continua a portare in giro la sua stridente pelliccia per campi, fiumi, fossi e rigagnoli, stonando da par suo l’interpretazione dello sgangherato spartito pseudo-naturalistico che le è stato affibbiato.

Ho pensato che da tutto questo, poteva nascere una serie di strisce simil-fumettistiche. Dico “simil”, perché non ho certo io le capacità per disegnare fumetti. Però l’intenzione va in questo senso. Protagoniste saranno proprio le nutrie. A partire dal mitico capostipite, Nonno NutriUno (lui sostiene di essere ancora uno dei vecchi venuti dal Sud America), conosceremo altri personaggi castorineggianti, tutti numerati per bene, come vuole la serialità dell’anonimato che si addice all’animaletto in questione. Subito appresso verrà Nonna NuTre, e via via aumentando di numero, avremo a che fare con le giovani leve dell’esercito nutriale. Saranno degli osservatori ironici appunto della realtà stonata da cui sono circondate.

Oltre al criterio secondo cui a cifra più alta, corrisponderà Nutria più giovane, il numero sarà scelto anche per la sua proprietà di armonizzarsi sonoramente al prefisso “nut” o “nutr”. E’ uno dei tanti esperimenti nati fra le righe di Andarperpensieri. Non so se avrà un seguito, ma di sicuro un inizio ce l’ha. Eccolo qua:

(…Ah, dimenticavo…la serie s’intitolerà: - Ma robe da nutria! -…)

 
 


venerdì 19 dicembre 2014

“Le muse di Kika van per pensieri”: Gustav Klimt (1862-1918)


La rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” ci porta oggi in Austria, con uno degli artisti moderni più illustri espresso dalla nobile nazione mitteleuropea: Gustav Klimt (Baumgarten, Vienna, 1862 - Vienna, 1918). In particolare, l’opera scelta da Kika è il “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”, del 1907.

Parlare di Klimt, significa parlare di un movimento culturale molto complesso e vasto (con ampie implicazioni sociologiche), che tra fine ‘800 e inizio ‘900 interessò gran parte dell’Europa, ma anche tante altre zone del mondo (soprattutto gli Stati Uniti), e che nei diversi luoghi venne declinato con sfumature e indirizzi di ricerca creativa differenti. Volendo assegnare a questa corrente culturale un nome di riferimento molto generale, potremmo indicare in primis la cosiddetta “Art Nouveau”, sviluppata in ambito franco-belga. Questa “etichetta” artistica assunse tuttavia una serie di specificazioni diverse, a seconda delle realtà nazionali in cui venne sviluppata: Liberty o floreale, in Italia, ad esempio, Modern Style in Gran Bretagna, Modernismo in Spagna, stile “coup de fouet” (“colpo di frusta”) o stile Velde in Belgio [dal grande pittore, designer e architetto belga Henry Van De Velde (Anversa, 1863 – Ober Ägeri, Svizzera, 1957)], Jugendstil in Germania e, nel caso che qui ci interessa maggiormente, Sezessionstil in Austria. 

La parola Secessione è forse quella che più di ciascuna delle definizioni sopra elencate, esprime al meglio uno dei principali propositi di queste correnti del pensiero creativo: operare una “secessione”, un distacco, una scissione (non a caso “jugend” in tedesco significa “giovinezza”), da tutto ciò che in ambito artistico e culturale rappresentava la “tradizione”, il “vecchio”. E nell’ambito della “Secessione viennese”, Klimt impersonò una delle figure di riferimento più attive e influenti.

A questo punto, il discorso, a voler essere esaustivi, si complicherebbe a dismisura. Mentre, a voler troppo sintetizzare, si banalizzerebbe altrettanto. Provo ad imbastire una via di mezzo, innanzitutto riportando i punti “programmatici” principali di questo grande movimento stilistico-culturale, così come sono condensati da Giulio Carlo Argan:

«…1) la tematica naturalistica (fiori e animali); 2) l’impiego di motivi iconici e stilistici, e perfino tipologici, derivanti dall’arte giapponese; 3) la morfologia: arabeschi lineari e cromatici; preferenza per i ritmi impostati sulla curva e le sue varianti (spirale, voluta, ecc.) e, nel colore, per le tinte fredde, attutite, trasparenti, assonanti, date in zone piatte oppure venate, iridate, trasparenti, sfumate; 4) l’insofferenza della proporzione e dell’equilibrio simmetrico e la ricerca di ritmi “musicali”, con marcati sviluppi in altezza o in larghezza ed andamenti per lo più ondulati e sinuosi; 5) l’evidente, costante proposito di comunicare per empatia un senso di agilità, elasticità, leggerezza, gioventù, ottimismo…».

Come detto, in ogni realtà culturale, il discorso si specificò in vari modi, e quello espresso dalla realtà viennese fu uno dei più interessanti, soprattutto grazie all’opera di Klimt. Nella sua opera possiamo ritrovare per grandi linee tutti i punti elencati da Argan, ma ovviamente rielaborati secondo la peculiare sensibilità dell’artista. L’ambiente culturale viennese dell’epoca di Klimt vive un periodo di fervore eccezionale: in quegli stessi anni esprimono il meglio del loro genio e della loro arte, personalità del calibro di Sigmund Freud, Thomas Mann, Arthur Schnitzler (autore di “Doppio sogno”, romanzo del 1926 che ha ispirato il kubrikiano “Eyes wide shut”), Hugo von Hofmannstal, Karl Kraus, Hermann Broch. 

Largamente influenzato anche da questo retroterra culturale, Klimt predilige nelle sue opere un’espressività che sfiora da vicino le profondissime tematiche dell’inconscio. La sua pittura parla spesso per simboli e suggestioni, si fa espressione di una ricerca preziosissima e sublimata che, come acutamente osserva Massimo Donà nel suo libro “Arte e filosofia” (Bompiani, 2007), si indirizza quasi verso «…un ritorno al mosaico dell’arte ravennate e al modo bizantino; dove il terreno, il contingente e mortale per definizione, veniva proiettato su uno schermo illuminato da verità comunque oltre-umane…».

Le figure di Klimt esprimono una tensione continua verso una sensualità che spesso sfocia nell’erotismo puro, calato in atmosfere che stanno sempre ad un passo dal cadere nel corruttibile, in ciò che svanisce e muore. Insieme all’altro importante esponente del movimento, il pittore amico Egon Schiele (Tulln, 1890 – Vienna, 1918), Klimt può essere sotto questo punto di vista considerato uno dei “cantori moderni” dell’eterno “conflitto simbiotico” intrattenuto fra amore e morte. 

Klimt fu disegnatore di una raffinatezza superiore. Riporto in merito una mia piccola esperienza personale: diversi anni fa ormai, mi capitò di visitare a Firenze una bellissima mostra dedicata proprio all’artista viennese. Più che dai dipinti, più che dalle opere note, più che dagli sfavillanti ori sulle tele, rimasi fortemente impressionato da “semplicissimi” disegni a china (per lo più di soggetto erotico), all’apparenza quasi distrattamente tratteggiati su umili fogli di carta. Pur nella mia incompetenza in materia, posso dire di non aver mai visto in altra occasione un tipo di disegno più bello e “vivo”.

Su Klimt, ci sarebbe da scrivere ancora molto, ma mi limito a riportare un altro bel brano tratto dal libro di Massimo Donà, prima di passare agli esiti dell’odierna indagine fisiognomica. Donà cita a sua volta la vivida impressione espressa dallo scultore francese Auguste Rodin (1840-1917) di fronte ad un’opera di Klimt, nota col nome di “Fregio di Beethoven”: «…”Non ho mai provato tanta emozione. Il suo Fregio di Beethoven così disperato e felice […] e poi questo giardino, queste donne, questa musica! E tutta questa gioia fanciullesca. Ma cos’è?”…».

Prova a rispondere Massimo Donà: «…Un sogno? Una fantasia? La fissazione di un’estasi? La fede in una bellezza sacra ma al tempo stesso devastatrice; che strugge e consuma come il tempo; anzi, per mezzo del tempo, suo alleato e infido suggeritore. […] Una contraddizione che solo l’artista avrebbe potuto sopportare; stante che la filosofia aveva deciso proprio in quegli anni, e sempre in quelle stesse terre, di abdicare al proprio compito secolare. Ludwig Wittgenstein (1889-1951) lo scrisse senza titubanza nel suo “Tractatus”...».

Ma lasciamo, seppur a malincuore, questo dedalo di fascinazioni culturali, per concludere con le somiglianze che sono riuscito a scovare oggi. Devo dire che stavolta mi aspetto di ricevere una menzione d’onore da parte dell’ordine dei detective fisiognomici (o sarà una minzione in compagnia, dopo la solita birretta al “Bar del detective”? Mah…). Il viso che vi propongo mi pare infatti piuttosto calzante:


Si tratta dell’attrice comica e cabarettista Alessandra Faiella, nota come volto di Zelig e di altre trasmissioni tv firmate dalla “premiata ditta” Guzzanti-Dandini.

L’altro volto di oggi non saprei definirlo diversamente, se non con l’uso dell’aggettivo “eccezionale”. A ben guardare, questo personaggio fondamentalmente non somiglia tantissimo al viso klimtiano del “Ritratto di Adele Bloch-Bauer” (che, per completezza informativa, era la moglie dell’industriale Ferdinand Bloch-Bauer). Ma trovo che in questa particolare foto, i suoi tratti esprimano un’affinità degna di nota (riporto anche il confronto con un’altra sua foto…sapete com’è: noi detective fisiognomici ci teniamo molto alla correttezza deontologica):


A mio modesto parere, nella sua “singolarità” e nella misteriosa carica energetica di fascinazione picassiana che è in grado di esprimere, questo è uno dei volti più straordinari dell’universo femminile. Sprigiona una femminilità “stratosferica”. E’ la dimostrazione vivente degli arcani sentieri che a volte l’empatia umana sa percorrere attraversando i tratti di un volto. Sono proprio lieto di poterla avere come ospite nella galleria di questa rubrichetta: il suo nome è Rosa Elena García Echave, ma è conosciuta al pubblico come Rossy De Palma (nome altrettanto fantastico del viso), modella e attrice spagnola, protagonista di varie pellicole di Pedro Almodovar.

Si chiude qui, questa ricchissima puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Oggi sono più che mai curioso di vedere come Kika ha riabbigliato la sontuosa signora klimtiana. Vi invito a scoprirlo tutti insieme, sul blog della nostra maghetta modaiola preferita.

martedì 16 dicembre 2014

La ballata di Monti col cane, dalla Bignardi


In un’epoca che si è lasciata definitivamente alla spalle il 68 per prediligere ormai in pianta stabile il 69, può anche succedere di svegliarsi un bel mattino con addosso direttamente l’eskimo al posto del pigiama. Lo stupore ci fa portare una mano alla faccia, dove notte tempo si è inerbata una folta e spessa barba, anche se ne siamo più che sicuri, la memoria non c’inganna, l’avevamo rasata giusto ieri.

E mentre laggiù in basso, dalle zampe di elefante fanno capolino due Clark sdrucite, sbocciate anch’esse chissà come durante il sonno tormentoso, l’improbabile spirito d’un Francesco Gillini s’insinua nell’animo, l’aura di un Gil Dylan transtemporale si mette a sgangherare dentro, facendo versi da gatti, spoetando con malagrazia parole stonate di antiepocalità sospesa. 

Nessuno, alla fine dei conti, comprende mai sino in fondo il proprio tempo. Forse ci riusciranno poi in seguito gli storiografi di ogni domani che compete a ciascun oggi. Però ad ogni uomo, in ogni epoca, può capitare di venir folgorato da un’immagine che sembra spiegare tutto. Non si saprebbe spiegare come quel dettaglio riesca a spiegare. E tuttavia in qualche modo lo fa. 

Mario Monti col cane, dalla Bignardi” è secondo me una di queste immagini. Ecco com’è stata mutata in stramba ballata dall’estemporaneo Francesco Gillini che mi ha colto di sorpresa:


A duro prezzo, ogni giorno
ci conquistiamo 
la nostra umile fetta di disumano, 
con fatica dalle fauci del comico
ce la strappiamo,
esigendo uno scampolo 
superstite di tragico

Questo impero da tempo è già crollato,
ma nessuno, né altrove, ha sentito il boato
Niente lampi, nemmeno il suon di bagliori
Si son solo spostati di tasca gli ori

Mario Monti col cane,
dalla Bignardi
ed è subito gloria
per noi bastardi

Siamo oltre gli zombie
È sempre più tardi
Mario Monti col cane,
dalla Bignardi

Il buon Benigni ti spiega 
i comandamenti, dopo mille 
pubblicitari ammonimenti,
che ben prima ancora di cominciare
hai già una sacra voglia di bestemmiare

Tecno-economi, sontuosi burocrati,
avete eretto un gran muro
ed è ormai certo, senz’altro, è più che sicuro
di noi vi prendete persin quella parte
che con mulo fa bella rima, precisa ad arte. 

Mario Monti col cane,
dalla Bignardi,
indigesto come
il tonno coi savoiardi

Il cielo squarciano in un sol suono
mille peti e petardi,
Mario Monti col cane,
dalla Bignardi


venerdì 12 dicembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Aleksei Mikhailovich Korin (1865-1923)

Oggi, puntata alquanto “minimale” della rubrichetta “Le muse di Kika van pensieri”. Kika ha infatti scelto un dipinto realizzato nel 1910 da un artista russo assai poco noto, Aleksei Mikhailovich Korin (1865–1923), intitolato “L’albero di Natale”.

Dire che sul web si trovano poche notizie di questo autore, significa rifugiarsi fra le braccia di un eufemismo sfacciato. Si fa prima a dire che non si trova nulla. Anche le immagini relative sono poche e per lo più di piccole dimensioni. Ma un audace detective fisiognomico non si lascia (o quasi) scoraggiare da simili inezie, per cui cercherò anche stavolta di dire due parole e di proporvi alcune somiglianze, seppur stiracchiando un po’ per i capelli sia l’una che l’altra cosa.

Ho osservato a lungo la nostra opera odierna, soprattutto per cercare di carpire un minimo di informazioni somatiche dal viso della donna ritratta, così succintamente delineato. Devo ammettere che in un primo momento non mi ha esaltato tanto, come dipinto. La fattura mi è parsa un po’ grossolana, anche se mi rendevo conto che si trattava di un giudizio sommario e frettoloso. Non mi riusciva di trovare uno spunto di interesse decisivo, se non nel modo “magmatico” con cui l’uso del colore è giostrato sulla tela. Nell’immediato, è stato proprio questo, l’unico aspetto che mi colpiva: come le macchie di colore sono trattate, quasi fossero ondate di un flusso composto da un materiale visivo indefinito. Per affinità compositive, la cosa mi ha suggerito alcuni vaghi agganci all’opera di Edvard Munch. Tuttavia, non mi sembrava sufficiente per cogliere qualcosa di essenziale in questo pittore russo.

Ma c’è una cosa che imparo sempre meglio, affrontando di volta in volta questi quadri proposti da Kika: per ben osservare un’opera servono pazienza, tempo e anche parecchia umiltà. Dietro ad ogni quadro, c’è la volontà di una persona (l’artista che lo ha dipinto) di trasporre un qualcosa della propria interiorità sul supporto pittorico scelto. Di fronte ad ogni quadro (di qualsiasi livello qualitativo esso sia), ci deve essere un individuo ricettivo, in ascolto, disposto a lasciar dire all’opera tutto ciò che essa ha da dire, senza interporre pregiudizialità e interferenze preconfezionate. 

In questo caso, il quid decisivo per poter cogliere qualcosa di più qualificante riguardo alla creatività di Aleksei Mikhailovich Korin, mi è scattato guardando le poche altre sue opere che sono riuscito a ritrovare in rete. Le riporto di seguito, scusandomi per le ridotte dimensioni:





Questi altri quadri, non solo mi hanno fatto rivalutare “L’albero di Natale”, ma mi hanno anche fatto cogliere un tratto assai pregevole di questo autore: la resa della luce. Ora, l’impressione in merito di un tizio (e sarei io) che al massimo si spinge ogni tanto a fare un giro a piedi sull’argine, potrà sembrare poco degna di credibilità. Ma se si trascura questo dettaglio, ecco a mio parere l’aspetto più pregevole che si può assaporare nelle opere di Aleksei Mikhailovich Korin: esse sono immerse in una luce inequivocabilmente “russa”. O meglio, sempre rimanendo consapevole dei limitati miei orizzonti abbracciabili dalla modesta cima di un argine padano, questa è la luce russa per come l’ho sempre immaginata e “sentita vibrare”, leggendo i capolavori senza tempo dei grandi maestri della letteratura di quell’immenso paese. 

E’ la luce di “Guerra e pace”, dei “Fratelli Karamzov”, di “Oblomov”, dei racconti di Gogol' e di Leskov. E l’impressione si è rivelata “retroattiva” anche verso il quadro dapprima osservato soltanto con sufficienza. Se una qualche preziosità ulteriore si può rilevare in questo delicato interno casalingo ritratto nell’opera “L’albero di Natale”, è esattamente questa sua luminosità russa, o potremmo anche dire, questa sua “russità luminosa”. E se qualcosa di Munch è pur presente nel modo di trattare le macchie di colore, qui tuttavia la scelta tecnica non è tesa a rendere atmosfere drammatiche e soffocanti, bensì a creare un clima di vastità interiore e di quasi magica impalpabilità d’animo.
Per gli evidenti motivi già sottolineati, oltremodo ostica si è dimostrata l’indagine fisiognomica relativa a questo dipinto. Ma non ho voluto rinunciare alla sfida, e qualche risultato l’ho portato a casa, seppur con tutti i limiti e le nebulosità del caso.

Iniziamo col primo volto, che sarà senz’altro una sorpresa:



Abbiamo qui niente meno che Miley Cyrus: chi avrebbe mai pensato di vederla sbucar fuori da un dipinto russo del 1910! Come personaggio, non ha certo bisogno di presentazioni: è la ragazzina terribile sfornata dallo star-systemificio disneyano, negli ultimi tempi forse un po’ incerta riguardo al verso da far prendere alla propria carriera. Dopo l’esordio nei panni di Hanna Montana, le deve infatti esser giunta l’eco di una vetusta pubblicità italica di carne in scatola (“…laggiù nel Montana, tra mandrie e cowboy…”) e facendo qualche confusione, ha forse pensato bene di impersonare il ruolo di “allegra frisona” dello spettacolo. Ma queste sono solo malignità che girano nel pettegolissimo ambiente di noi detective fisiognomici (in realtà è tutta invidia: ad avercene, di simili “pezzate”!). Ah...come sono cambiate le cose dai tempi di Clarabella (...non fateci caso, è sempre e solo invidia di detective...).

Dopo il faceto intermezzo, vi propino il secondo, più improbabile volto:


Si tratta di Elisabetta Ferracini, conduttrice tv nota anche in quanto figlia di cotanta mamma, ovverossia la Mara Venier nazional-popolare.

Chiudo infine con una somiglianza ancor più vaga, ma alla quale non ho voluto ad ogni modo rinunciare, perché come spesso capita, non è ciascun volto trovato che conta, ma un po’ l’insieme ideale di tutti e tre, ad avvicinarsi ad una qualche analogia col viso del dipinto:

Anche qui abbiamo un personaggio notissimo, in quanto più che mai alla ribalta delle cronache in questi giorni: è la nostra valorosa cosmonauta Samantha Cristoforetti, attualmente impegnata in una importante missione spaziale in orbita sopra le teste di tutti noi.

E così si conclude anche questa puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van pensieri”. Stavolta la sfida è stata difficile su vari fronti, ma l’importante è aver combinato qualcosa. Ed ora tutti da Kika, per scoprire quali magie modiaol-natalizie al sapor di Russia è riuscita ad escogitare in questo caso.

venerdì 5 dicembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Anna Bilińska-Bohdanowicz (1857-1893)


Le muse di Kika vanno ancora una volta per pensieri, veleggiando lungo i lidi della creatività femminile. Per l’occasione, Kika ha infatti scelto un interessante dipinto realizzato nel 1888 dall’artista polacca Anna Bilińska-Bohdanowicz (Złotopol, 1857–Varsavia, 1893). Il quadro è intitolato “Donna con parasole giapponese”.

Trattandosi anche stavolta di un’autrice non molto nota, eviterò di inoltrarmi in specifiche esegesi critiche e mi concentrerò su una analisi di mie impressioni strettamente personali riguardo al quadro, per poi dare spazio all’indagine fisiognomica di oggi, che si è rivelata particolarmente suggestiva.

Anna Bilińska-Bohdanowicz fu sicuramente un personaggio notevole del suo tempo, così come tutte le donne che sfidando soprattutto le convenzioni sociali, all’epoca decidevano di dedicare la propria vita all’arte. Tra le notizie degne di nota della sua purtroppo breve biografia (morì molto giovane, a 36 anni, a causa del suo fragile cuore), va segnalato il fatto che studiò anche all’Accademia Julian di Parigi, la quale, come abbiamo già detto altre volte, era l’unica scuola all’avanguardia di fine Ottocento ad accettare le donne fra i propri allievi. Di Anna Bilińska-Bohdanowicz rimane anche una bella immagine, grazie allo stupendo autoritratto da lei eseguito nel 1887. 
Autoritratto (1887) - Anna Bilińska-Bohdanowicz


Già solamente osservando la sua persona da se stessa ritratta, si capiscono due cose importanti: primo, dev’esser stata una donna veramente notevole. In questo quadro, di lei s’impone una bellezza non strettamente e banalmente estetica, ma soprattutto profondamente umana. Seconda cosa, guardando non soltanto questo “autoscatto ante litteram”, ma anche l’opera di cui trattiamo oggi e tante altre sue realizzazioni, si capisce chiaramente che siamo di fronte ad una ritrattista di una qualità innegabile. I volti che ritrae evocano mondi, richiamano a galla infinitezze interiori. E questo è in fin dei conti lo scopo del ritrarre il caleidoscopico volto dell’umanità nelle sue infinite declinazioni.

Veniamo dunque al dipinto “Donna con parasole giapponese”, del 1888. Le brevi annotazioni riportate sopra, si confermano in pieno anche in questa opera. Il viso della donna ritratta non ci parla di una bellezza canonica, bensì di una bellezza enigmatica e multiforme. Nei semplici tratti di questa donna, passano in un lampo una miriade di opzioni esistenziali. Non si capisce bene se sia assonnata, o se abbia appena pianto, oppure se addirittura i suoi tratti non denuncino una sorta di appagamento trasognato susseguente ad una tumultuosa tenzone erotico-amorosa (detto in parole povere: se è appena stata a letto col suo amante).

Il suo sguardo è curiosamente profondo nelle due direzioni, sia verso l’interno della sua persona, sia verso l’esterno. Attira dentro sé lo sguardo dello spettatore, ma nel contempo lo porta verso un orizzonte che è difficile da afferrare, posto sempre di un niente al di là di una normalmente concepibile e misurabile distanza. Altrettanto notevole l’impianto compositivo, chiaramente impostato su un disegno radiocentrico, dettato dalla sagoma dell’ombrellino. Tuttavia, il nucleo visivo a cui i raggi del parasole conducono, è curiosamente “scentrato” rispetto al viso. Questo crea uno sfalsamento molto significativo di forze visive. Il nostro occhio viene risucchiato dalle bacchette a raggera, fino a precipitare sul collo della donna, inseguendo poi da qui una seconda e fondamentale ondata di energia visiva, che vede il suo massimo fulcro di esaltazione nella pienezza del viso.

Notevoli anche due altri dettagli. Un primo dettaglio: la delicatezza ineffabile con cui la mano sorregge il manico dell’ombrellino, quasi a voler evocare una molle e languida fragilità, che poi come una corrente di precarietà si trasmette attraverso tutto il tracciato del manico stesso, sino ad andare a “contaminare” il volto medesimo. Un secondo particolare: l’effetto “ventoso”, creato con rapide e non meglio definite pennellate oblique, sul kimono della donna all’altezza del petto e in generale nella parte bassa della figura, come a voler immergere quella parte della scena in un’atmosfera indefinita e impalpabile.

Venendo alla ricerca di volti famosi della modernità da assimilare al soggetto del dipinto, devo dire che si è trattato stavolta di una delle indagini fisiognomiche più esaltanti realizzate da quando questa rubrichetta è nata. Il motivo non sta tanto nell’aver trovato somiglianze particolarmente efficaci. Sta piuttosto nel fatto che questo volto si è rivelato un vero e proprio caleidoscopio somatico. Come vedrete, i volti noti che vi proporrò non somigliano al modello pittorico in una maniera banalmente “fotocopiativa”, ma lo evocano, chi più chi meno, andando a sfiorare misteriosi sentieri della “sintonia estetica”. Altro dato curioso, in particolare per me: tutte le donne che ho scovato sono dotate, a mio personale giudizio, di un fascino profondissimo, di una bellezza non solo “non canonica”, ma soprattutto (ed è ciò che fa la differenza vera) non “canonizzabile”.

Le elenco rapidamente, perché sono diverse. Ecco il primo volto:



Abbiamo qui di Geppi Cucciari, brava comica e conduttrice tv, che si è fatta conoscere dapprima sul palco di Zelig (la "contiguità fisiognomica" si fa più intensa nella terza, rara foto giovanile di Geppi che sono riuscito a scovare).

Il secondo volto:

Questa è Michela Murgia, una delle più apprezzate scrittrici dell’ultima generazione di autori italiani.

Il terzo volto:


Qui abbiamo l’inconfondibile Frida Kahlo, tormentata e complessa artista messicana.

Rimanendo in tema, ecco il quarto volto:

Stavolta si tratti della fascinosa attrice americana Salma Hayek, quando interpretò appunto il ruolo della stessa Frida Kahlo.

Ed infine l’ultimo, straordinario volto:



Non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo: questa è una delle attrici più brave ed importanti della storia del cinema “mondiale”, Anna Magnani.

Si conclude così anche per oggi questa puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Ma l’avventura estetica continua sul blog di Kika, dove possiamo andare a scoprire insieme le sorprese che la nostra sempre stupefacente maghetta della moda ci ha riservato stavolta.