Questa settimana, per motivi “operativi”, la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” si presenta in modo un po' anomalo. Diciamo che per una volta facciamo un'eccezione. La scelta di Kika è caduta su un dipinto che non dava adito alla ricerca di un volto famoso dell'attualità ("Ragazza sul ponte della nave", del pittore americano Maurice Prendergast), per cui vi rimando senz'altro all'interessante proposta di moda ed arte fatta da Kika sul suo blog, e se vi va, vi invito a leggere quello che mi è venuto in mente per l'occasione, tra l'altro non necessariamente legato a questioni artistiche intese in senso più strettamente tipico.
La settimana di Kika è stata ispirata un po' tutta al tema del mare d'inverno ed anche il suo intervento su moda e pittura va in questa direzione. “Il mare d'inverno”, come ha ricordato Kika, è il titolo di una bella canzone di Enrico Ruggeri.
Avevo già parlato tanto tempo fa di come le parole e i motivetti delle canzoni a volte si insinuino nella mente in misura veramente molesta e, come terribili cagnetti tignosi, persistano col mordere il polpaccio dell’immaginazione, tornando imperterriti ad angariare lingua e palato, i quali quasi non possono fare a meno di ricalcare in modo ossessivo note e sillabe in questione.
Funziona così: senti alcuni secondi di una canzone alla radio, alla tele, oppure leggi distrattamente il suo famoso titolo da qualche parte e zac!...il fatidico contagio è innestato. Da qual momento in poi la devi cantare e ricanticchiare, di fatto, o anche solo mentalmente. L'impulso è irrefrenabile, e non riesci a placarlo se non dopo parecchie ore di lieve rimuginar canoro interiore.
Una cosa del genere mi è successa leggendo l'espressione “il mare d'inverno”, citata da Kika. Da quell'attimo, ho avuto Enrico Ruggeri direttamente trapiantato nel cranio come una protesi melodica. La cosa più buffa di questo fenomeno, mi succede dopo un bel po' di tempo di reiterazione mentale delle parole del motivetto. Ad un certo punto, sento il testo talmente frusto e ritrito in testa e sulla lingua, che questo si anima di vita propria, e finisce per distorcersi in stranissime varianti verbali senza senso.
Potrà sembrare la solita gillipixata irrilevante, ma non dimentichiamo che quella che potremmo definire come “spontaneità linguistica” è una delle tematiche più care ai surrealisti. Fra le sue teorie, Andrè Breton (Tinchebray, 1896 – Parigi, 1966) parla di “automatismo psichico”, riferendosi al libero affiorare allo stato conscio di parole casuali, lasciate scaturire senza intermediazione razionale e senza il filtro di una selezione intenzionale. Gli esperimenti di “scrittura automatica” proposti dai surrealisti conservano intatta la loro modernità e sono particolarmente affascinanti, anche perché ciascuno ha la possibilità di confrontarsi con questo tipo di curiosa pratica. Basta mettersi davanti ad un foglio con una penna in mano, o ad una pagina word bianca, e cominciare a scrivere ogni parola od espressione che passa per la mente, senza pensare minimamente al significato, o addirittura, affidandosi alla sola sonorità delle sillabe risultanti, magari creando dal nulla neologismi fatti di puro suono verbale.
Ci ho provato alcune volte, e la cosa, rivisitata in modalità gillipixiana, risulta alquanto divertente (almeno per me...). Improvviso un esempio al volo: «...Il berigullo smircofonico demirzinava estrobeppo e cingualloso nel feriluvento delle gardibuone sicomeritevoli...» e così via.
Ma tornando alla canzone “Il mare d'inverno”, come ben saprete ad un certo punto i versi del testo recitano: «...questo vento agita anche me...». Ed ora preparatevi a fare una gentile ghignata, perché dopo ore di biascicamento mentale, ecco come si sono mutate quelle parole nella mia testa: «...questo vento “rogita” anche me...». Non ha nessun senso, ma lo trovavo molto buffo, con quel suo vago riferimento a questioni edili-notaril-catastali che meno sentimentali di così non si potrebbe, e sono certo che lo stesso Breton in persona sarebbe stato fiero di me.
In generale, a partire da questo leggiadro episodio di “spontaneismo verbale”, mi è venuto da riflettere su un'altra questione sempre legata alle canzonette. Come si sa, molte canzonette (forse non quella di Ruggeri, d'accordo) sono spesso il trionfo della futilità pura, un inno spudorato al “banalismo” romanticheggiante più ritrito. La cosa suona quasi sempre molto fasulla, ma la forza della musica spesso riesce a passare sopra a tutto, tanto che non ci facciamo quasi più caso a certe boiate melense talvolta spacciate attraverso una bella melodia. Però la mellifluità viene intanto assorbita, e probabilmente questo finisce per influire sulla sincerità dei rapporti fra le persone. Ecco allora che dilaga un romanticismo di maniera, s'insinua nelle menti una visione sentimentalistica di bassissima lega, che tutto ammanta di un velo falso e verbalmente attaccaticcio (invece che in falsetto, è proprio il caso di dire: canzoni cantate in falsotto...).
A questo punto, l'«automatismo psichico» di Breton non figurerebbe più soltanto come una stravagante sperimentazione artistica, ma potrebbe funzionare come vero e proprio antidoto a questo ozioso meccanismo, un genuino strumento adottabile per una sana “deromanticizzazione” della realtà. Volete mettere quanto ci guadagnerebbero, ad esempio, i rapporti fra due persone che si amano, se invece di dichiararsi a vicenda uno dei soliti ritornelli da repertorio stantio, tipo «...amore, sei la luce dei miei occhi...», optassero invece per un ben più franco e pirotecnico «...amore, vieni qui che ti rogito tutta...»? E lei di rimando: «...Sì, caro, mi piaci tanto quando sei così estrobeppo e cingualloso...».
Nel rinnovare così l'appuntamento ad una prossima, più canonica, puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”, rimane da domandarsi cosa c'entrasse tutto questo col dipinto scelto oggi da Kika. Assolutamente nulla, ma questi sono i piacevoli rischi che si corrono andando liberamente per pensieri.
La settimana di Kika è stata ispirata un po' tutta al tema del mare d'inverno ed anche il suo intervento su moda e pittura va in questa direzione. “Il mare d'inverno”, come ha ricordato Kika, è il titolo di una bella canzone di Enrico Ruggeri.
Avevo già parlato tanto tempo fa di come le parole e i motivetti delle canzoni a volte si insinuino nella mente in misura veramente molesta e, come terribili cagnetti tignosi, persistano col mordere il polpaccio dell’immaginazione, tornando imperterriti ad angariare lingua e palato, i quali quasi non possono fare a meno di ricalcare in modo ossessivo note e sillabe in questione.
Funziona così: senti alcuni secondi di una canzone alla radio, alla tele, oppure leggi distrattamente il suo famoso titolo da qualche parte e zac!...il fatidico contagio è innestato. Da qual momento in poi la devi cantare e ricanticchiare, di fatto, o anche solo mentalmente. L'impulso è irrefrenabile, e non riesci a placarlo se non dopo parecchie ore di lieve rimuginar canoro interiore.
Una cosa del genere mi è successa leggendo l'espressione “il mare d'inverno”, citata da Kika. Da quell'attimo, ho avuto Enrico Ruggeri direttamente trapiantato nel cranio come una protesi melodica. La cosa più buffa di questo fenomeno, mi succede dopo un bel po' di tempo di reiterazione mentale delle parole del motivetto. Ad un certo punto, sento il testo talmente frusto e ritrito in testa e sulla lingua, che questo si anima di vita propria, e finisce per distorcersi in stranissime varianti verbali senza senso.
Potrà sembrare la solita gillipixata irrilevante, ma non dimentichiamo che quella che potremmo definire come “spontaneità linguistica” è una delle tematiche più care ai surrealisti. Fra le sue teorie, Andrè Breton (Tinchebray, 1896 – Parigi, 1966) parla di “automatismo psichico”, riferendosi al libero affiorare allo stato conscio di parole casuali, lasciate scaturire senza intermediazione razionale e senza il filtro di una selezione intenzionale. Gli esperimenti di “scrittura automatica” proposti dai surrealisti conservano intatta la loro modernità e sono particolarmente affascinanti, anche perché ciascuno ha la possibilità di confrontarsi con questo tipo di curiosa pratica. Basta mettersi davanti ad un foglio con una penna in mano, o ad una pagina word bianca, e cominciare a scrivere ogni parola od espressione che passa per la mente, senza pensare minimamente al significato, o addirittura, affidandosi alla sola sonorità delle sillabe risultanti, magari creando dal nulla neologismi fatti di puro suono verbale.
Ci ho provato alcune volte, e la cosa, rivisitata in modalità gillipixiana, risulta alquanto divertente (almeno per me...). Improvviso un esempio al volo: «...Il berigullo smircofonico demirzinava estrobeppo e cingualloso nel feriluvento delle gardibuone sicomeritevoli...» e così via.
Ma tornando alla canzone “Il mare d'inverno”, come ben saprete ad un certo punto i versi del testo recitano: «...questo vento agita anche me...». Ed ora preparatevi a fare una gentile ghignata, perché dopo ore di biascicamento mentale, ecco come si sono mutate quelle parole nella mia testa: «...questo vento “rogita” anche me...». Non ha nessun senso, ma lo trovavo molto buffo, con quel suo vago riferimento a questioni edili-notaril-catastali che meno sentimentali di così non si potrebbe, e sono certo che lo stesso Breton in persona sarebbe stato fiero di me.
In generale, a partire da questo leggiadro episodio di “spontaneismo verbale”, mi è venuto da riflettere su un'altra questione sempre legata alle canzonette. Come si sa, molte canzonette (forse non quella di Ruggeri, d'accordo) sono spesso il trionfo della futilità pura, un inno spudorato al “banalismo” romanticheggiante più ritrito. La cosa suona quasi sempre molto fasulla, ma la forza della musica spesso riesce a passare sopra a tutto, tanto che non ci facciamo quasi più caso a certe boiate melense talvolta spacciate attraverso una bella melodia. Però la mellifluità viene intanto assorbita, e probabilmente questo finisce per influire sulla sincerità dei rapporti fra le persone. Ecco allora che dilaga un romanticismo di maniera, s'insinua nelle menti una visione sentimentalistica di bassissima lega, che tutto ammanta di un velo falso e verbalmente attaccaticcio (invece che in falsetto, è proprio il caso di dire: canzoni cantate in falsotto...).
A questo punto, l'«automatismo psichico» di Breton non figurerebbe più soltanto come una stravagante sperimentazione artistica, ma potrebbe funzionare come vero e proprio antidoto a questo ozioso meccanismo, un genuino strumento adottabile per una sana “deromanticizzazione” della realtà. Volete mettere quanto ci guadagnerebbero, ad esempio, i rapporti fra due persone che si amano, se invece di dichiararsi a vicenda uno dei soliti ritornelli da repertorio stantio, tipo «...amore, sei la luce dei miei occhi...», optassero invece per un ben più franco e pirotecnico «...amore, vieni qui che ti rogito tutta...»? E lei di rimando: «...Sì, caro, mi piaci tanto quando sei così estrobeppo e cingualloso...».
Nel rinnovare così l'appuntamento ad una prossima, più canonica, puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”, rimane da domandarsi cosa c'entrasse tutto questo col dipinto scelto oggi da Kika. Assolutamente nulla, ma questi sono i piacevoli rischi che si corrono andando liberamente per pensieri.