martedì 30 settembre 2014

Chi mal comincia, si ritrova la sabbia fra i fotogrammi

«...Chi ben incomincia è a metà dell’opera...» dice un famoso proverbio. 

Ci sono proverbi per ogni circostanza e per ogni eventualità della vita. Una volta lessi una cosa interessante sui proverbi. Veniva fatto notare che praticamente per ogni proverbio, ne esiste un altro che sostiene la tesi opposta e contraria. Nel senso che, se un certo motto ti predica “pomo”, esisterà di sicuro il suo “gemello diverso” che ti raccomanda “pero”. Non ricordo gli esempi precisi che venivano riportati, ma ne ho ritrovati altri del genere, sul web:

Chi fa da sé fa per tre.
L'unione fa la forza.

Chi si loda s'imbroda.
Frate Modesto non fu mai priore.

Chi troppo vuole nulla stringe.
Chi non risica non rosica.

Nella botte piccola c'è il vino buono.
L'altezza è mezza bellezza. 

Chi di speranza campa, disperato muore!
La speranza è l'ultima a morire. 

Il riso abbonda sulla bocca degli stolti.
Il riso fa buon sangue!

Chi trova un amico trova un tesoro.
Meglio soli che male accompagnati.

Chi trova un amico trova un tesoro.
Dagli amici mi guardi Dio che dai nemici mi guardo io. 

Chi si accontenta gode.
Chi non risica non rosica.

Dulcis in fundo.
In cauda venenum.

Il mondo è bello perché è vario.
Tutto il mondo è paese.

Chi si somiglia si piglia.
Gli opposti si attraggono.

L'apparente caos proverbiale veniva motivato, in quello scritto, con il vasto retroterra di esperienze che solitamente si cela dietro il patrimonio della saggezza popolare. Il fatto che esistano detti opposti fra loro, non sarebbe dunque sintomo di confusione, bensì di complessità, di vasta e profonda stratificazione culturale. In altre parole, la contraddittorietà dei proverbi non sarebbe altro che lo specchio della contraddittorietà della vita. Solo le culture caratterizzate da una lunga tradizione secolare posseggono nel proprio patrimonio sapienziale un ampio e ricco spettro di esperienze in grado di abbracciare tale contraddittorietà.

I proverbi però hanno sempre quell'aura un po' pedante e “grillo-parlantina”, che non li rende propriamente la cosa più simpatica del mondo. Spesso affermano cose sagge, ma lo si ammette mal volentieri. Ecco allora che se mi chiedessero di coniare un proverbio sui proverbi, io sceglierei questo: «...I proverbi sono come la sabbia dentro il costume, in spiaggia...». Non puoi evitare di ammettere che hanno fastidiosamente ragione.

Che ci crediate o no, oggi non era mia intenzione parlare di proverbi, ma di cinema. Più precisamente, di come i film hanno inizio. Per questo ho tirato in ballo il classico «...Chi ben incomincia è a metà dell’opera...». Fior fior di esperti di cinema sostengono infatti che nei titoli d'inizio di un film (nella sigla, per così dire), il regista (o chi per lui) si giochi già una buona fetta di possibilità di catturare il gradimento dello spettatore. 

Anche se la mia opinione conta meno di nulla, questa cosa mi trova molto d'accordo. Un film con cattivi titoli è come un tizio che si avvia di slancio su per una scala, lisciando di brutto il primo gradino. Mentre un film ben introdotto e titolato è come una bella donna che scende dall'automobile, facendo sbucare con sapienza seduttiva le sue lunghe e sensuose gambe dalla portiera aperta.

Nel limite del possibile, non vedo mai un film se non dal primo millesimo di secondo iniziale. Soppeso e degusto ogni fotogramma inaugurale, centellino tutti i dettagli fin da subito. Negli ultimi anni si è affermato sempre più uno “stile” di far iniziare i film, assai “trombonesco”, pomposo, “impettito”. Sembra quasi che nella concezione di certi registi, partire con la coda di pavone completamente sventagliata, sia già di per sé garanzia di un buon inizio. Ma non sempre è così.

In particolare, uno dei vezzi più fastidiosi che sono invalsi è quello di propinare, come prima, immediatissima cosa, la gran sequela di “sborsatori di pecunia” e affini, interessati nella realizzazione del lungometraggio. Mi riferisco a quei film che cominciano con un interminabile elenco di soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nel patrocinio, nella promozione e così via. Per intenderci, sono quelle pellicole che non hai ancora fatto in tempo ad acclimatarti sul divano e già son lì che ti bombardano con scritte (mute o accompagnate ciascuna dal tipico jingle sonoro) del tipo: La «Ghedusa Midword Entarteinment» - (tre secondi di schermo nero) – PRESENTA – (due secondi schermo nero) - UNA PRODUZIONE «Flamming Farts» - (tre secondi di schermo nero) - In collaborazione con - (tre secondi di schermo nero) - «Geppo Video» & «Subsidium Falacius» - (cinque secondi di schermo nero) – con il patrocinio del «Ministero della Cultura Sub-Sahariana» e l'«Ente Proposizionale di Salvaguardia della Tutela Transmodale».

Capisco che magari certe produzioni devono avvalersi del contributo di tanti soggetti, perché fare un film è costoso, complesso, servono mezzi, risorse, tanta gente, e non ce n'è mai abbastanza. Ma perché tutta questa roba la butti addosso a me, povero spettatore, ancor prima di avermi fatto, non dico godere uno straccio di fotogramma, ma nemmeno respirare?

In questo modo, quello che un tempo era un elegante, deciso e autorevole, modo di introdurre il film, si è tramutato in una lagna para-spocchiosa e dispersiva. Il leone della MGM, i fari con gran scialo di trombe dalla Twentieth Century Fox, l'antenna sul globo che ruota della RKO, la vetta innevata della Paramount: tutte questi elementi avevano la forza, l'efficacia, l'immediatezza iconica del “marchio”, del simbolo, al quale lo spettatore si affezionava. Per fortuna rimangono ancora buoni esempi: l'omino-lampadina della Pixar, il bimbo che pesca sulla falce di luna della Dreamworks. Non saranno paragoni calzanti, perché si tratta di produzioni molto potenti, che si possono permettere l'asciuttezza dei titoli senza dover citare mille collaboratori. Ma fatto sta che risulta veramente insopportabile, in certi film, tutta  quella macedonia introduttiva frammentaria e simil-pretenziosa, che appesantisce già il film ancor prima che sia iniziato.

Ora, sono consapevole di non essere mai andato così vicino al parlare di nulla puro. E mi rendo conto anche del fatto che questa mia disamina non cambierà un'acca delle modalità di presentare certi film. I registi continueranno a sciorinarci il loro indigesto menù d'apertura, perché ormai viviamo in un mondo in cui le ragioni commerciali, come i proverbi, hanno sempre fastidiosamente ragione. Ma almeno, scrivendo oggi queste cose, ho provato a tirarmi via un po' di sabbia da dentro gli slip.


lunedì 29 settembre 2014

Gh…gh…gh…


Ci sono parole che sanno dar vita ad un’alchimia di bellezze non meglio definibile fino in fondo. 

Una componente importante, quasi banale dirlo, è data innanzitutto dal significato principale di un termine. Ma esso non basta. Va tenuto conto anche di una serie di accezioni secondarie, significazioni aggiunte, sensi associati, legati alla nostra esperienza personale. Non per niente si dice di una lingua che è viva. Le parole, mescolandosi agli stati d'animo, alla volontà, ai desideri, alle emozioni, agli affetti, ai sentimenti concomitanti alle situazioni in cui vengono pronunciate e utilizzate, si caricano di coloriture, di sfumature, di simbolismi, di valori semantici ulteriori. Addirittura si ammantano persino di un'energia vitale che non sapremmo meglio specificare se non corredandola di un aggettivo ulteriore: energia vitale “prodigiosa”. 

Le parole in qualche modo vivono le vite di chi le parla. Vivono nelle vite, con le vite: contribuiscono a rendere, le vite delle persone, vive. Conferiscono  al concetto di “vivere” il suo senso più completo e compiuto.

E non è ancora tutto. I significati associati ad una parola sono soltanto una parte dei fattori in gioco. Un ruolo fondamentale lo svolge anche il suono delle parole. Qui si aprirebbe un capitolo infinito, perché i suoni sono ancor meno codificabili e domabili dei significati. Mentre infatti il senso delle parole, pur godendo anch'esso di una libertà notevole, è tuttavia quasi sempre pertinente ad ambiti razionali, i suoni cadono invece sotto il dominio dei sensi, e come tali sono molto più imprevedibili, occasionali, estemporanei, intimi, personali. 

Il suono delle parole ne rappresenta la parte “tangibile”, per così dire. E mentre il confronto col significato di una parola si svolge prevalentemente sul piano mentale, aver a che fare col suo suono significa innescare meccanismi  “di pancia”. O meglio, per usare una metafora sensoriale ancor più pertinente, possiamo dire che attraverso il suono possiamo assaggiare il sapore delle parole. Scomponendosi in bocca nelle diverse sillabe, le parole si auto-invitano ad essere masticate, succhiate, spalmate lungo il palato o momentaneamente nascoste nelle profondità gutturali. 

Se dunque possiamo vedere il significato delle parole come l'impalcatura che regge il nostro vivere, per quanto riguarda il loro suono è possibile riferirci ad esso come al sapore della vita.

Questa mini-dissertazione, che può essere letta anche come mia personale “dichiarazione d'amore alle parole” (o una delle tante fatte su questo blog), ha il modesto scopo di introdurre una bellissima frase nella quale mi è successo di incappare recentemente. Come appassionato di lettura e di scrittura, sto sempre in piacevole allerta rispetto a tutto il “leggibile” e a tutto il “parlabile” che filtra attraverso il setaccio della mia attenzione. La bellezza si annida dietro ogni possibile fonte verbale, anche la più inimmaginabile. E a maggior ragione, dietro a quelle immaginabili. 

Il “bello della bellezza” riservata dalle parole è che si può esplicitare in due forme opposte, ma entrambe portatrici di pregevoli vantaggi. Da una parte, la bellezza delle parole è in grado di andare a sfiorare dimensioni talmente intime, personali e private da esser goduta soltanto “in singolar godimento esclusivo”; per altro verso, può essere condivisa anche solo da poche altre persone, in modo da funzionare così come dispositivo di “verifica empatica”.

Mi spiego meglio: prendiamo ad esempio una frase che ci colpisce in maniera intensa e smuove in noi corde molto profonde, in un modo che non sappiamo spiegare, ma che non di meno percepiamo con grande pregnanza. Può succedere che tali sensazioni siano tanto uniche e private da non poter essere condivise con nessun altro, e qui la soddisfazione è data dall'esclusività. Può capitare invece di ritrovarsi a condividere con altre persone il gusto di quella bellezza, e questo fatto ci dà modo di comprendere gli animi al nostro più affini, le sensibilità in sintonia con la nostra, e così via.

La frase di cui ho assaporato la profonda bellezza in questi giorni, si pone giusto giusto in mezzo al guado. Non riesco a capire se è talmente personale da suscitare meraviglia estrema soltanto “in me”,  oppure se contiene potenziale estetico condivisibile da altri. Mi pongo questo dubbio perché la frase di per sé è banalissima, ma così banale da riuscire a sfiorare a tratti la dimensione surreale. Prima però vi racconto dove l'ho incontrata. 

E' il titolo di un capitolo dello stupendo romanzone di Alexandre Dumas «Il conte di Montecristo», precisamente il capitolo sessantunesimo. Come sua consuetudine (lo fa anche nei «Tre moschettieri»), Dumas assegna un titolo ad ogni capitolo della sua storia. Ci sono tanti altri scrittori che fanno così, ma anche altri che usano solo una semplice numerazione. Sono scelte.

Ma la cosa curiosa, nel «Conte di Montecristo», è che nessun altro titolo di tutti i centodiciassette capitoli del gran tomone, mi ha impressionato più di tanto. Nei rimanenti centosedici, non c'è gran ricerca dell'effetto solitamente desiderato con un titolo, quella volontà a mezzo tra lo stuzzicare la curiosità del lettore, il sintetizzare con espressione arguta il contenuto che si andrà a raccontare, oppure l'anticipare con una premessa poetica.

No, gli altri centosedici titoli sono lineari, non presentano un particolare pregio verbale che non sia la pura funzione informativa per il lettore. 

Ma il titolo del capitolo sessantuno...beh...per me è di una bellezza strepitosa. Fra poco ve lo svelo e come dicevo prima, forse la maggior parte di coloro che leggeranno le poche parole in questione si stupiranno a sentirlo, mi daranno del matto o del solito sempliciotto che si diverte con pochissimo. Oppure mi manderanno ad espletare funzioni corporali tra le ortiche. Tutte le reazioni sono lecite e comprensibili, ma nulla toglierà, per mio conto, alla bellezza portentosa di questa frase:

«...Come liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le pesche...».

venerdì 26 settembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Diana cacciatrice (IV secolo d.C.)

Tema molto particolare per questa puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Il leitmotif modaiolo della settimana scelto da Kika sono gli “short pants” (o “hot pants”, non so bene...noi all’osteria di Gillipixiland, nella nostra grossolanità, le chiamiamo ancora braghette corte). Siccome era molto difficile trovare in tutta la storia dell'arte un soggetto dipinto che indossasse short pants, Kika ha optato per un felice kikesko escamotage, scegliendo una pittura muraria tardo romana raffigurante “Diana cacciatrice”, con la sua breve veste, assai simile all'indumento braghettistico in questione.

Il dipinto è posto sulla parete di una struttura sotterranea, denominata “Ipogeo di via Livenza”, dal nome della attuale via di Roma più prossima al sito, poco lontano da Villa Borghese. Il complesso e le decorazioni risalgono al IV secolo d.C. Osservando la raffigurazione di questa “Diana cacciatrice”, si possono fare alcune considerazioni. 

Un primo importante elemento che ci viene in aiuto, è il dato cronologico. Non ci troviamo qui di fronte ad un esempio tipico di pittura romana “pura”, perché sono presenti già influenze del gusto artistico che genericamente possiamo indicare come paleocristiano. D'altra parte, è anche vero che i romani non svilupparono mai uno stile pittorico rigorosamente tipico di una loro tradizione propria: tutta l'arte romana risente dell'influenza di quella greca e in particolare degli stilemi elaborati nel periodo ellenistico di quest'ultima.

Per riprendere alla lontana un tema della scorsa puntata, si può dire che il periodo ellenistico, nell'ambito della parabola dell'esperienza artistica greco antica, rappresenta una sorta di corrispettivo delle nostre epoche “di crisi”, come il Manierismo o il Barocco. Superata l'età aurea classica dei vari Fidia e Policleto (che con le loro opere miravano a fissare “l'essenza idealizzata dell'essere”), con l'ellenismo s'inaugura un'età di incertezza, di dubbio e di meditazione sulla fugacità dell'esperienza vissuta. Il classicismo indagava l'«essere»; con la fase ellenistica si passa ad esplorare l'«esistente». «Essere» ed «esistente»: tra le due dimensioni passa una differenza filosofica enorme. Cercare di entrare in sintonia con l'«essere», significa mettersi alla ricerca di un'essenza fondativa, immutabile, eterna, del «tutto». Fare i conti con l'«esistente», vuol dire invece rapportarsi al divenire, accettare il paradosso secondo cui la vita può riservarci solo verità parziali, mai definitive. 

L'attenzione, dai grandi temi mitologici e “sovra-temporali” del periodo classico, viene spostata nella fase ellenistica su soggetti sorpresi nel loro agire, sugli attimi colti nel loro farsi, lungo il corso della vita quotidiana; sui piccoli dettagli vivi attinti dall'esperienza comune, dai quali s'intende carpire ad un tempo sia i segni evidenti della limitatezza della vicenda umana, sia i tratti della sua esuberanza rigogliosa.

Se si riflette un momento su tutte queste caratteristiche del cosiddetto stile ellenistico, non ci si stupirà del fatto che esso si attagliasse molto bene alla sensibilità romana (soprattutto da un certo periodo in poi). Fra le prerogative principali della cultura romana, ricordiamo infatti una marcata propensione ad immergersi nel flusso della vita, a confrontarsi con la realtà nella sua concretezza,  immediatezza e anche sensualità.

Tutto il discorso, riportato al caso della nostra “Diana cacciatrice”, si specifica e si precisa in vari significati. La scena è molto dinamica, la figura è colta nel pieno dell'azione: non c'è equilibrio, né stasi o sospensione del gesto. Diana è bensì immersa nello scorrere di una progressione temporale. Pollice ed indice corrono lesti alla faretra per cogliere con delicata rapidità la coda della freccia, mentre lo sguardo si preoccupa di puntare la preda. In perfetta coordinazione, l'altra mano regge l'arco, già pronta a caricare la freccia. Il piede e la gamba sinistra accennano ad un passo che, con l'insieme rimanente della gestualità complessiva, fa quasi protendere il corpo verso il bersaglio. Il dinamismo si riverbera poi nelle figure in secondo piano dei cervi, anch'essi ricchi di movimento e tensione visiva.

Addentrandosi ancor più nei dettagli, si notano tuttavia alcuni aspetti curiosi (che avranno poi conseguenze facete soprattutto nella mia indagine fisiognomica di oggi). Questa Diana non è molto femminile nel fisico. Se poi si zooma idealmente verso il viso della donzella, ci si accorge di un fatto ancor più buffo: sembra proprio un uomo. Il dubbio che sorge in merito, è se la cosa sia stata voluta intenzionalmente dall'autore, oppure se sia dovuta ad un certo grado di imperizia pittorica. Se proprio devo dire la mia, opterei per la prima ipotesi. Non mi sembra giusto infatti parlare di limiti tecnici: tutta la composizione denota una certa capacità e delicatezza espressiva. Non dobbiamo dimenticare poi che i pittori romani avevano raggiunto livelli di sensibilità visiva notevoli, come ci confermano i due esempi riportati di seguito, tratti dalla maggiore riserva di arte pittorica romana conservata sino ai giorni nostri, ossia quella dell'area pompeiana. La finezza di questo giovane fauno (da un particolare di pittura murale a Stabia) e l'eleganza della fanciulla (probabilmente una delle Ore, da un particolare di pittura murale a Ercolano) sono una prova lampante dell'alto grado di raffinatezza tecnica che la pittura romana era capace di esprimere.
“Fanciulla che coglie fiori”  – I secolo d.C.
“Testa di fauno”  – II secolo a.C.

La spiegazione della mascolinità di questa nostra Diana, va ricercata allora in altri moventi. Io, una mia personale idea me la sono fatta. Ve la espongo, assumendomi anche tutti i rischi di sparare una boiata. Come abbiamo detto, in quest'opera coesistono motivi romani, accanto ad intenzionalità espressive proto-cristiane. Ecco dunque che, concedendo poco o nulla alla femminilità di Diana, il pittore pare aver voluto minimizzare, per quanto possibile, la sensualità della sua figura. 

Gli sviluppi successivi dell'arte cristiana (in particolare quelli indirizzati verso l'esperienza bizantina) porteranno ad un sempre maggiore distacco dal dato materiale della realtà, per privilegiare la dimensione dell'ascesi e del superamento dei sensi. Nel nostro esempio, siamo ancora ad un grado di commistione di sensibilità diverse: la fisicità romana è ancora ben viva, ma al tempo stesso si tenta di attenuarla e di tenerla sotto controllo.
Come accennavo, da tutto questo sono derivate ben buffe conseguenze per la mia odierna indagine fisiognomica. Non a caso le sembianze della Diana mi sono sembrate alquanto mascoline. Infatti, i tratti che prevalentemente mi hanno suggerito, sono per lo più appartenenti a volti maschili. Senza dunque voler mancare di rispetto alla gloriosa tradizione dell'arte romana, né ai personaggi che citerò, ma considerando la cosa sotto un punto di vista squisitamente giocoso, passo ad esporvi i bizzarri esiti delle mie ricerche.

Ecco il primo curioso abbinamento:
 
Abbiamo qui un glorioso e vetusto attore nostrano, Gianrico Tedeschi, che si è distinto soprattutto in teatro, ma anche nell'ambito del varietà televisivo marcato RAI degli anno d'oro.

Proseguiamo con un volto altrettanto caratteristico:
 
Si tratta ancora di un bravo attore di cinema e teatro, Roberto Herlitzka. Personalmente lo ricordo prestare il volto ad uno struggente Aldo Moro, nel misterioso film di Marco Bellocchio “Buongiorno notte” (2003), che merita di essere visto, non fosse altro che per gustarsi tutta la bellezza dello straordinario e commovente finale.

Spirito buffo per spirito buffo, proseguo con  un altro viso, ancor più in tema scherzoso:
Lo avrete riconosciuto, è Max Pisu, stralunato e simpatico cabarettista, divenuto famoso per la sua partecipazione a Zelig.

Concludo infine con l'unico volto femminile che la Diana romana, in maniera molto vaga, mi ha saputo suggerire. E aggiungo una doverosa precisazione. Con questo, non voglio minimamente intendere che la signora in questione assomigli ad un uomo. Tutt'altro: trovo invece il suo viso molto delicato e ricco di magnetismo femmineo. E' vero invece il discorso contrario: ho voluto rendere giustizia al volto della Diana cacciatrice, che in fin dei conti rimane pienamente donna, al di là della direzione giocosa imboccata dalla mia indagine odierna.
 
Questo volto l'ho rinvenuto davvero per caso, girovagando per il web. E' una giornalista non molto nota, ma nelle notiziole che parlano di lei, mi hanno colpito tre coincidenze: si occupa di tematiche ambientali, e più propriamente di moda “eco-friendly”, viene definita “cacciatrice di tendenze”, ma soprattutto si chiama Diana. Il nome intero è Diana de Marsanich e tra le altre cose collabora con la rubrica RAI “Detto fatto”.

Anche per questa settimana è tutto, amici. L'appuntamento è alla prossima puntata, ma nel frattempo vi rimando al blog di Kika, dove possiamo scoprire insieme con quali magie kikeske è stata abbigliata ex-novo l'antica Diana romana.

venerdì 19 settembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: il Tintoretto (1519-1594)

Questa settimana, per motivi vari, non ce l'ho fatta ad uscire in contemporanea con Kika e col suo articolo su moda e pittura. Cerco di rimettermi in pari con una puntata “in contumacia” della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” (“in contumacia” non sarebbe espressione corretta, ma mi piaceva usarla un po' alla maniera di Totò). 

Stavolta Kika ha scelto un titano dell'arte: Jacopo Robusti, detto il Tintoretto (Venezia, 29 aprile 1519 - Venezia, 31 maggio 1594) e in particolare la sua opera intitolata “Ritratto di donna vestita all'orientale” (1560). Inutile dire che ci sarebbe da scrivere per otto anni di fila. Tante interessanti notizie su Tintoretto e su questo suo quadro, le trovate nel bell'articolo di Kika. Io proverò a dire due cose sul Manierismo, il periodo storico-artistico nel quale si è soliti includere la figura del grande pittore veneziano.

Tra Rinascimento e Barocco, si insinua una manciata di decenni (a cui è stata appiccicata appunto l'etichetta di “Manierismo”), importantissimi per l'evoluzione della storia dell'arte in senso moderno, ma non sempre tenuti nella dovuta considerazione. Consultando un po' le mie fonti, ho trovato una bella, ma non casuale coincidenza con le cose dette la settimana scorsa, riguardo a due autori moderni. L'urgenza di racchiudere l'infinito nella finitezza dell'opera d'arte (questione così fortemente sentita da  Matisse e da Picasso), trova nel periodo del Manierismo uno dei suoi massimi momenti di esaltazione. Il Manierismo introduce quei motivi d'incrinatura rispetto alle certezze rinascimentali, che rappresentano al tempo stesso un'anticipazione della “crisi” del successivo periodo Barocco.

Mi spingo oltre: il Manierismo in qualche modo anticipa il dubbio cartesiano circa l'effettiva sussistenza di una realtà esterna al nostro pensiero (la scoperta dell'America e la sempre più diffusa consapevolezza circa le più recenti conoscenze astronomiche, avevano inferto un duro colpo alla pretesa della figura umana come fulcro portante del senso dell'universo).

L'arte del Rinascimento aveva inteso operare una sintesi idealizzante del mondo osservato, nel nome di un classicismo ancora possibile. Il Manierismo spezza il preteso equilibrio fra realtà e pensiero, raggiunto dall'arte rinascimentale, e ripiega su un'interiorità problematica, combattuta, multiforme, contraddittoria per certi versi. Per il Rinascimento, l'imperfezione delle cose veniva nobilitata passando attraverso la sublimazione del pensiero. Col Manierismo, si smarrisce la fiducia in questa operazione, mentre si va formando il concetto moderno di un “individuo” preso nell'incessante ed ineludibile confronto con la propria singolarità di “soggetto esistente”.

Nel Rinascimento, il pensiero pensa ancora il mondo. Col Manierismo, il pensiero tende sempre più a pensare se stesso, e alle proprie questioni intime. Raffinando ancor più il ragionamento: da un periodo in cui l'arte dialoga ancora con la realtà (Rinascimento), si passa ad una fase storica in cui le problematiche dell'arte divengono esse stesse argomento di meditazione artistica (Manierismo). La lucida e luminosa sintesi rinascimentale, deflagra nelle infinite tessere di quell'inesauribile ed interminabile mosaico che prende a diventare il mondo, osservato attraverso la nuova lente d'ingrandimento manierista.

I concetti che ho tentato di riassumere sopra, sono detti in forma più efficace (anche se più complessa) da un insigne storico dell'arte, da me già citato nella scorsa puntata. Scrive Massimo Donà, nel suo “Arte e filosofia” (Bompiani – 2007):

«...Ormai, esperire la differenza non significava quasi più patire lo scarto tra una realtà imperfetta e per ciò stesso perfettibile ed una compiuta beatitudine di cui solo l'artista e pochi altri privilegiati avrebbero potuto avvertire in qualche modo il richiamo. Abitare la differenza cominciava a significare trovarsi costretti al riconoscimento di una dimensione paradossale e comunque caratterizzata da una così variegata tipologia di forme da apparire essa medesima in-finita...[...]...e in grado di legittimare qualsivoglia tentativo di “superamento” o trascendimento del finito in quanto tale. Quale estrema e aporetica conferma della sua effettiva intrascendibilità. Ormai lo si intuiva: l'anelito all'Assoluto, ovvero a quel Principio definitivamente pacificante caro in fondo a tutte le diverse religioni della terra, dimostrava l'infinita potenza di una finitudine che, proprio in quanto articolata per differenze, non avrebbe sicuramente potuto rinunciare ad istituire anche quell'estrema e paradossale differenza costituita appunto dal rapporto abissale tra la contingente finitezza di questo mondo e l'immota infinitudine di un Altro perfettamente irrelazionabile...».

Il passaggio è molto arduo, lo so. Vi invito tuttavia a riflettere su due espressioni che ne rappresentano il nucleo, a mio avviso, e che colgono in pieno la natura del Manierismo come periodo storico di crisi. Il Rinascimento entra in crisi (mutandosi appunto nell'epoca manieristica), di man in mano che acquista la consapevolezza della paradossale “intrascendibilità del finito” e della “infinita potenza della finitudine”.

Prosegue Donà: «...Da un lato, dunque, l'anelito ad un Assoluto originariamente deciso e privo di incertezze, e dall'altro la costitutiva “insecuritas” di un'esistenza sempre individuale, ma soprattutto destinata alla parzialità e all'indigenza, per quanto travolta dal progressivo differenziarsi di ogni apparente identità, e dunque invitata a farsi sempre curiosa di altri infiniti modi di essere...[...]...Ormai il Cinquecento si avviava al declino; la pochezza del mondo non consentiva altra via d'uscita che non fosse l'infinita moltiplicazione della sua parzialità, lo stordimento delle esagerazioni della fantasia; nella fittizia maestosità cui nulla di fatto corrisponde davvero...». 

Un certo, moderno, sguardo “relativo”, posato sulle cose del mondo, in qualche modo nasce con la sensibilità Manierista. 

Ma come si riflette operativamente tutto ciò nell'espressività del Tintoretto? Ancora Massimo Donà aggiunge che le scene del Tintoretto scaturiscono «...dal disegnarsi di un universo vibrante e teso, le cui intrinseche possibilità sarebbero state esaltate da una composizione quasi sempre obliqua e ricca di scorci davvero inusitati...».

Vacillano sempre più le certezze rinascimentali fondate sull'equilibrio prospettico. Molto interessante anche l'analisi di un celebre dipinto di Tintoretto, “Il miracolo dello schiavo” (1546), fatta da Giulio Carlo Argan:
Il miracolo dello schiavo (1846) - Tintoretto

«...Tintoretto non si propone di ricostruire un fatto storico, ma di rappresentarlo in modo che produca determinati effetti nell'animo di chi guarda. Sa di fare del teatro; ma ciò che conta, per lui, non è la verità storica, bensì l'autenticità del sentimento suscitato dalla rappresentazione...». Come ho tentato di dire sopra: l'interiorità, come dato primario, che si impone rispetto all'interesse per la realtà.

Oggi siamo andati parecchio sul difficile e non poteva essere da meno neanche la ricerca di un volto noto moderno, da assimilare a quello della dama del Tintoretto. Ho trovato un'unica somiglianza e anche parecchio “elitaria”. Immagino infatti che saranno pochissimi a riconoscere questo personaggio:
Si tratta di una brava giornalista della Rai, Bianca Maria Piccinino, attiva ormai diversi anni or sono. Divenne nota al pubblico in particolare per i suoi garbati e competenti servizi relativi al mondo della moda, ed anche per questa coincidenza, mi pare s'intoni curiosamente bene con le atmosfere kikeske di questa rubrichetta.

Si conclude qui questa puntata di recupero di “Le muse di Kika van per pensieri”. E per le magie modiaole di Kika, come sempre, non dovete fare altro che sintonizzarvi sul suo blog.

venerdì 12 settembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Henri Matisse (1869-1954)

Per la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”, si continua anche questa settimana con un grandissimo dell’arte moderna: Henri Matisse  (Le Cateau, 1869 – Cimienz, Nizza 1954). Il dipinto del maestro francese scelto da Kika si intitola “Giovane donna alla finestra, tramonto”, del 1921.

Tralascio gli aspetti strettamente biografici, che sarebbero tantissimi e in ogni caso si possono rinvenire facilmente in altri siti molto più documentati. Mi concentro invece nel tentativo di tratteggiare (come cerco sempre di fare con ogni autore preso in considerazione) l'essenza della poetica matissiana.

Ogni artista,  in seguito riconosciuto come un “grande” dalla storia, ha battagliato tutta la vita con un'utopia. Si è scontrato cioè con la finalità di riuscire a “dire l'indicibile”, riguardo al mondo e al senso del nostro esistere in esso. Perché questa assurda pretesa? Perché l'insoddisfazione fa parte della sostanza stessa dell'essere uomini e non possiamo fare a meno di fronteggiare l'infinito con le nostre armi irrimediabilmente finite. L'insaziabilità di significati e di conoscenza fornisce all'arte la sua benzina più potente (come già nel caso di altre mie perle scritte in passato, anche per questa concedo il copyright gratuito a chiunque la volesse istoriare nei cessi degli autogrill: chiedo solo che venga citata la fonte, magari anche sotto la catena dello sciacquone, non importa...).

Il ragionamento vale per tutti i tipi di espressione artistica, e assume forme specifiche in base ai vari linguaggi a disposizione nei diversi casi. E' banale, ma voglio dire: la letteratura dispone delle parole e con esse deve esprimersi, diversamente non sarebbe letteratura; la musica ha le note di tanti strumenti con le quali poter dire le cose che vuole dire; la scultura può valersi della fisicità dei materiali; e così via. La pittura è forse la modalità artistica che dispone dei mezzi più semplici: deve operare sul piano, servendosi solo di linee e colori, che volendo possiamo semplificare ancora di più, chiamandoli “segni”. Le “regole di base” sono queste. La sfida di Matisse consistette nel cercare di racchiudere il senso dell'infinità dell'essere, nello spazio finito del quadro, con possibilità di linguaggio fondamentalmente così “povere”. 

Di Matisse si parla spesso in relazione a Picasso. I due artisti si conobbero, si stimarono e rivaleggiarono, si confrontarono, attingendo anche energia creativa l'uno dall'altro, sebbene i loro percorsi poetici seguissero strade alquanto differenti. Un breve parallelo col genio spagnolo, in particolare col Cubismo da lui introdotto, ci può aiutare a capire meglio il senso della ricerca di Matisse. 

Anche il Cubismo è un tentativo di racchiudere significati infiniti, in uno spazio delimitato e con mezzi finiti. Ma gli oggetti “raccontati” dal Cubismo per la loro stessa natura concettuale rimandano ad altro: anzi, si può quasi dire che il Cubismo sia il “rimandare ad altro” che si fa pittura. Quelle sagome picassiane così bizzarre e ormai così familiari, coi loro occhi, bocche, mani e  piedi quasi come “fiondati” nelle parti del volto e del corpo più improbabili, esprimono la più intensa “sete di altro”, la volontà della nostra mente di non accontentarsi della pretesa che la realtà si esaurisca in ciò che vediamo. La realtà è prima di tutto ciò che di essa sappiamo, per questo, quando ne guardiamo una porzione, non possiamo dimenticare tutto il resto delle nostre conoscenze in merito alla scena specifica. Fin qui, il Cubismo, che in questo senso si può dire prediliga un approccio razionale alla visione delle cose, perché ciò che delle cose “sappiamo”, s'impone.

Per Matisse è diverso: il suo abbraccio finito nei confronti dell'infinito passa attraverso un tentativo di  fusione suprema dettata da una forma di «...intuizione sintetica del tutto...», come egregiamente dice Giulio Carlo Argan. Ogni quadro di Matisse, pur essendo per forza di cose limitato e delimitato, tende allo sforzo supremo di non lasciare fuori nulla dei significati della “totalità”, così come ai nostri mezzi esistenziali è dato di poterla cogliere. Laddove il Cubismo è “ragione”, per Matisse subentra la “intuizione”: Picasso indaga all'infinito le mille e una faccia della verità, Matisse cerca di abbracciarla tutta in un solo sguardo paradossale.

Il culmine più eclatante della poetica matissiana è toccato col capolavoro “La danza”, del 1910, ma per lui ogni scena ritratta era finalizzata a “racchiudere il senso del tutto”. Come annotò l'artista stesso nel suo “Scritti e pensieri sull'arte” (citato da Massimo Donà in “Arte e filosofia” - 2007), «...Egli [Matisse] si predispose a cogliere “il momento in cui tutte le parti avessero trovato i loro rapporti definitivi e non potesse essere apportato un qualsiasi ritocco al quadro senza rifarlo».
"La danza" (1910) - Henri Matisse
"Musica" (1910) - Henri Matisse

Non a caso, Matisse era anche un appassionato e studioso di musica, e l'ideale “sintetico” della musica tentò per tutta la vita di trasporlo, per l'appunto, nelle sue sperimentazioni e ricerche pittoriche. In un brano musicale, il tema che ricorre a fare da struttura melodica portante, sfugge ad una “dimensionalità” precisa. La musica ha una sua “materialità”, perché altrimenti non riusciremmo a coglierla fisicamente per mezzo del senso uditivo, eppure non è collocabile facilmente in nessun dove. Questa caratteristica fra le più esaltanti della musica, ossia il suo essere “infinita nella finitezza”, Matisse cercò sempre di catturarla per mezzo della sua espressività pittorica.
Come avete potuto constatare, Matisse non è certo il più comprensibile e semplice degli artisti moderni (e sempre ammesso che io sia riuscito a scriverci in merito qualcosa di sensato...). Torniamo allora un po' più terra terra, con la parte dedicata alla mia indagine fisiognomica per questa puntata. Il volto della ragazza di Matisse è molto indefinito, e dunque il mio compito poteva essere facile, ma anche difficile sotto altri punti di vista (oh, con 'sto Matisse, il rovescio della medaglia è sempre assicurato...).

Di fatto, il volto che ho scovato stavolta, è questo:
 
Sì, dai, è proprio lei: la più famosa delle ragazze di Gianni Boncompagni a “Non è la Rai”, Ambra Angiolini. In particolare, la somiglianza mi sembra calzare meglio nella foto in cui Ambra fa la faccetta un po' schifata.

Si conclude così un'ostica, ma stimolante puntata di “Le muse di Kika va per pensieri”. E adesso, tutti a casa di Kika (in senso metaforico, per fortuna di Kika medesima), ad ammirare le sua magie modaiole al sapore matissiano.

venerdì 5 settembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Claude Monet (1840 – 1926)

Le déjeuner sur l'herbe (1865) - Claude Monet

Le déjeuner sur l'herbe (1865) - Claude Monet (dettaglio)

Apro la puntata odierna della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” con un aneddoto faceto, tanto per capire il genere di “strampalato storico dell’arte” che sono. Quando Kika mi ha comunicato che per questa settimana aveva scelto come dipinto “La colazione sull’erba” di Claude Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 6 dicembre 1926), del 1865, io ho regolarmente inteso sbagliato, pensando a “La colazione sull’erba” di Édouard Manet (Parigi, 23 gennaio 1832 – Parigi, 30 aprile 1883), del 1863. 
Le déjeuner sur l'herbe (1863) - Édouard Manet

Il fatto è che da sempre confondo Monet con Manet. Non posso farci niente, è un'impresa culturale eccessiva, che va troppo oltre le mie capacità. Non mancasse questo, hanno pure avuto l'idea di andare a dipingere un quadro con lo stesso titolo e soggetto. A dire il vero, quello di Manet è il più famoso dei due, in questo caso. Forse anche perché nel mezzo della compagnia degli allegri amici riuniti in picnic, campeggia una donna completamente nuda. Roso allora dal dubbio, mi ero ripromesso di chiedere chiarimenti a Kika, quando sono stato folgorato dalla mia stessa balordaggine potenziale: come poteva essere quello di Manet, se c'è una donna nuda? Come avrebbe fatto Kika a interpretare in chiave moderna il suo vestiario, se non c'era vestiario alcuno? 

Sulla buffa scia di queste titubanze interiori, mi accingo dunque a dire due cose su Monet. Parlare di lui è impresa assai ardua. Si tratta di uno dei colossi dell'impressionismo, colui che ha portato la ricerca pittorica di questa fondamentale corrente artistica alle sue estreme conseguenze. L'argomento è dunque vastissimo. Con l'aiuto della mia solita guida fidata, Giulio Carlo Argan, e di un commentatore d'eccezione, Alessandro Baricco, provo a raccontare qualcosa, focalizzando il discorso più che altro sull'impressionismo in generale.

Dove volevano andare a parare in sostanza gli impressionisti, con il loro discorso figurativo? Argan ci ricorda lo scopo della loro ricerca: «...rendere la sensazione visiva nella sua assoluta immediatezza...». Essi intendevano andare oltre la «...nozione comune, per cui il riflesso di una cosa è meno certo e fermo della cosa...[...]...il problema non era la natura (l'oggetto), ma l'attività del soggetto che percepisce. Monet ha il coraggio di eliminare tutti i tramiti tra sé e l'oggetto...[...]...uno studio che, in ultima analisi, mira a separare l'immagine, come fatto interiore, dall'esteriorità della cosa...».

Non bisogna dimenticare a questo punto che circa due secoli prima Renè Descartes aveva di fatto inaugurato la filosofia moderna, fissando il colossale punto fermo del suo rivoluzionario “cogito”. Cartesio, ponendo in essere il dubbio più “radicale” mai concepito da mente umana, ci dice: a stretto rigore filosofico non possiamo affermare che dietro alle cose percepite o pensate, esistano effettive entità reali, sussistenti indipendentemente da quello che a noi “consta”. Nessun altra “risorsa” filosofica è riuscita in seguito a bypassare questo scoglio. Nemmeno la vertiginosa levatura del genio di Kant. Il “cogito” cartesiano è stato shakerato, emulsionato, camuffato, imbellito, blandito in mille modi, ma rimane ancora oggi un ostacolo insormontabile per il pensiero.

Ecco, l'attività degli impressionisti può a mio avviso anche essere vista come un modo di fare i conti col “cogito” cartesiano. Intendiamoci: può darsi che Monet, Renoir e compagnia non avessero mai approfondito in modo particolare il pensiero di Cartesio. Ciò che importa è che la loro ricerca si immerge a capo fitto nelle tematiche del discorso della modernità iniziato dal filosofo francese. Se riguardo alla “cosa in sé” non è possibile affermare nulla di “fondante”, senza incappare nel rischio di “dire cose sbagliate”, gli impressionisti si focalizzano giustamente sul crinale principale che in pittura intercorre fra realtà e coscienza, ossia il momento della pura visione.

A proposito di questo punto, mi viene da fare un'osservazione, riferita però a “La colazione sull'erba” nel nostro caso “sbagliata”, ossia quella di  Édouard Manet. Anche se Manet ci teneva a non essere confuso con gli impressionisti (non espose mai nei saloni da loro organizzati), possiamo considerare la sua ricerca indirizzata verso i medesimi obiettivi di questi ultimi. E, è pure vero, la sua scelta di inserire una donna nuda nella famosa composizione sarà stata ispirata anche ai grandi dipinti mitologici dei maestri veneti del passato (Giorgione e Tiziano), come tutta la critica dà ormai per certo. 

Ma la mia riflessione va nella direzione di una scelta pittorica più legata al senso creativo intimo di quell'opera: a mio avviso, Manet ritrasse una donna inopinatamente nuda in quel contesto, per sostenere la “neutralità” di tutte le superfici accarezzate dallo sguardo. Il suo interesse era talmente indirizzato al fenomeno puro della visione, che con questa scelta provocatoria, egli voleva sostenere come la superficie di un corpo nudo, in questa ottica, non avesse nulla di diverso da quella di un albero, dalla superficie erbosa del prato e così via. Anzi, in questo senso, Manet forse va addirittura oltre. Pone nel riquadro in basso a sinistra della scena, proprio sotto il corpo scoperto della signora, una composizione di frutti, coi suoi vestiti abbandonati e altri ammennicoli festaioli, talmente vivida e visivamente “autorevole”, da farla diventare un fulcro di attenzione che quasi annulla, in quanto a forza espressiva, l'energia pressoché svuotata del corpo nudo.

Tornando a Monet, abbiamo detto che fu questo artista a portare ai suoi estremi la ricerca impressionista sul fenomeno della “visione”, intesa nella sua essenza ontologica, ossia nel suo ruolo di “movente fondamentale dell'essere”. Alla vicenda biografica di Monet è legata infatti un'impresa leggendaria. E' noto che il pittore trascorse gli ultimi trent'anni della propria vita a dipingere ripetutamente e quasi ossessivamente un medesimo soggetto: le ninfee del laghetto che sorgeva nella propria tenuta di campagna, a Giverny. A cosa mirava la ripetizione all'apparenza insensata di un soggetto così modesto? Ce lo spiega una bellissima suggestione contenuta nel caleidoscopico romanzo “City” (1999), di Alessandro Baricco.

Cosa serviva a Monet per portare la “logica impressionista” alla sua massima esaltazione, ossia per imbastire un'indagine il più possibile approfondita del fenomeno visivo nella sua purezza? Gli serviva annullare il soggetto ritratto, condurlo al punto estremo della propria “neutralità”. 

Ci aveva già provato agli inizi degli anni '90 dell'800, coi covoni di paglia ripresi a ripetizione, in ogni ora della giornata, nelle diverse stagioni, con ogni tipo di luce possibile. Ma fu con le Nimphéas che il progetto di Monet si distese nel più ampio respiro immaginabile.
 Covone d'inverno (1891) - Claude Monet
 Covoni a fine estate (1891) - Claude Monet
Covoni d'estate (1890) - Claude Monet

Racconta Baricco in “City”: «...Per dipingere il niente, prima doveva trovarlo. Monet fece qualcosa di più: lo produsse. Non dovette sfuggirgli che la soluzione del problema non era ottenere il nulla saltando il reale (qualsiasi pittura astratta è in grado di fare una cosa del genere), ma piuttosto ottenere il nulla attraverso un processo di progressivo decadimento e dispersione del reale. Capì che il nulla che cercava era il tutto, sorpreso in un istante di momentanea assenza. Lo immaginava come una zona franca tra ciò che era e ciò che non era più...[...]...Per ottenere un simile, ambizioso, risultato, Monet si affidò a un trucco [...] la cui devastante efficacia è testimoniata da qualsiasi vita matrimoniale. Nulla può diventare così insignificante come qualsiasi cosa se ti ci svegli di fianco tutte le mattine della tua vita...[...]...Creò uno stagno di ninfee nel preciso punto in cui gli sarebbe stato impossibile evitare di vederlo...[...]...Monet aveva bisogno del nulla, affinché la pittura potesse essere libera di ritrarre, in assenza di un soggetto, se stessa. Contrariamente a ciò che un consumo ingenuo potrebbe suggerire, le Nymphéas non rappresentano delle ninfee, ma lo sguardo che guarda. Sono il calco di un determinato sistema percettivo...».

Molti lunghi pannelli risultanti da anni ed anni di instancabile lavoro attorno al tema delle ninfee, furono donati da Monet alla Francia, in onore della Vittoria nella Grande Guerra. Vennero assemblati in un maestoso allestimento a pianta ellittica, nel Museo dell'Orangerie, ma il pittore non fece in tempo a vederlo, perché morì prima della conclusione dell'opera. Questo estremo omaggio all'opera del maestro è stato definito da alcuni “la cappella Sistina dell'Impressionismo”.
Les Nymphéas  (1899 - anni '20 del '900) - Claude Monet - Musée de l'Orangerie, Parigi

A dispetto di una così ricca sezione critica, l'odierna indagine fisiognomica relativa a “La colazione sull'erba” di Monet si è rivelata un po' scarna. La bassa risoluzione delle immagini reperite su internet ha ostacolato alquanto le ricerche. Mi sono focalizzato sul “viso più visibile” (Aaahhh!...il “senso della frase” alla Andrea G. Pinketts...), ossia quello della donzella accovacciata con vestito bianco a pois neri, intenta a prendere in mano un piatto. 
Il meglio che son riuscito a fare in fatto di somiglianze, è quanto segue.

Il volto è quello notissimo della comica toscana Athina Cenci, protagonista di tante scenette e divertenti film, schierata ad inizio carriera nella formazione cabarettistica dei Giancattivi (con Francesco Nuti e Alessandro Benvenuti), e poi in seguito anche come “solista” dell'umorismo.

Si conclude così anche questa puntata delle rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Nella speranza di non aver preso “Monet per Manet”, nel salutarvi, vi invito anche all'immancabile visita al blog di Kika, per ammirare le sue magie modaiole di oggi.