Ci sono parole che sanno dar vita ad un’alchimia di bellezze non meglio definibile fino in fondo.
Una componente importante, quasi banale dirlo, è data innanzitutto dal significato principale di un termine. Ma esso non basta. Va tenuto conto anche di una serie di accezioni secondarie, significazioni aggiunte, sensi associati, legati alla nostra esperienza personale. Non per niente si dice di una lingua che è viva. Le parole, mescolandosi agli stati d'animo, alla volontà, ai desideri, alle emozioni, agli affetti, ai sentimenti concomitanti alle situazioni in cui vengono pronunciate e utilizzate, si caricano di coloriture, di sfumature, di simbolismi, di valori semantici ulteriori. Addirittura si ammantano persino di un'energia vitale che non sapremmo meglio specificare se non corredandola di un aggettivo ulteriore: energia vitale “prodigiosa”.
Le parole in qualche modo vivono le vite di chi le parla. Vivono nelle vite, con le vite: contribuiscono a rendere, le vite delle persone, vive. Conferiscono al concetto di “vivere” il suo senso più completo e compiuto.
E non è ancora tutto. I significati associati ad una parola sono soltanto una parte dei fattori in gioco. Un ruolo fondamentale lo svolge anche il suono delle parole. Qui si aprirebbe un capitolo infinito, perché i suoni sono ancor meno codificabili e domabili dei significati. Mentre infatti il senso delle parole, pur godendo anch'esso di una libertà notevole, è tuttavia quasi sempre pertinente ad ambiti razionali, i suoni cadono invece sotto il dominio dei sensi, e come tali sono molto più imprevedibili, occasionali, estemporanei, intimi, personali.
Il suono delle parole ne rappresenta la parte “tangibile”, per così dire. E mentre il confronto col significato di una parola si svolge prevalentemente sul piano mentale, aver a che fare col suo suono significa innescare meccanismi “di pancia”. O meglio, per usare una metafora sensoriale ancor più pertinente, possiamo dire che attraverso il suono possiamo assaggiare il sapore delle parole. Scomponendosi in bocca nelle diverse sillabe, le parole si auto-invitano ad essere masticate, succhiate, spalmate lungo il palato o momentaneamente nascoste nelle profondità gutturali.
Se dunque possiamo vedere il significato delle parole come l'impalcatura che regge il nostro vivere, per quanto riguarda il loro suono è possibile riferirci ad esso come al sapore della vita.
Questa mini-dissertazione, che può essere letta anche come mia personale “dichiarazione d'amore alle parole” (o una delle tante fatte su questo blog), ha il modesto scopo di introdurre una bellissima frase nella quale mi è successo di incappare recentemente. Come appassionato di lettura e di scrittura, sto sempre in piacevole allerta rispetto a tutto il “leggibile” e a tutto il “parlabile” che filtra attraverso il setaccio della mia attenzione. La bellezza si annida dietro ogni possibile fonte verbale, anche la più inimmaginabile. E a maggior ragione, dietro a quelle immaginabili.
Il “bello della bellezza” riservata dalle parole è che si può esplicitare in due forme opposte, ma entrambe portatrici di pregevoli vantaggi. Da una parte, la bellezza delle parole è in grado di andare a sfiorare dimensioni talmente intime, personali e private da esser goduta soltanto “in singolar godimento esclusivo”; per altro verso, può essere condivisa anche solo da poche altre persone, in modo da funzionare così come dispositivo di “verifica empatica”.
Mi spiego meglio: prendiamo ad esempio una frase che ci colpisce in maniera intensa e smuove in noi corde molto profonde, in un modo che non sappiamo spiegare, ma che non di meno percepiamo con grande pregnanza. Può succedere che tali sensazioni siano tanto uniche e private da non poter essere condivise con nessun altro, e qui la soddisfazione è data dall'esclusività. Può capitare invece di ritrovarsi a condividere con altre persone il gusto di quella bellezza, e questo fatto ci dà modo di comprendere gli animi al nostro più affini, le sensibilità in sintonia con la nostra, e così via.
La frase di cui ho assaporato la profonda bellezza in questi giorni, si pone giusto giusto in mezzo al guado. Non riesco a capire se è talmente personale da suscitare meraviglia estrema soltanto “in me”, oppure se contiene potenziale estetico condivisibile da altri. Mi pongo questo dubbio perché la frase di per sé è banalissima, ma così banale da riuscire a sfiorare a tratti la dimensione surreale. Prima però vi racconto dove l'ho incontrata.
E' il titolo di un capitolo dello stupendo romanzone di Alexandre Dumas «Il conte di Montecristo», precisamente il capitolo sessantunesimo. Come sua consuetudine (lo fa anche nei «Tre moschettieri»), Dumas assegna un titolo ad ogni capitolo della sua storia. Ci sono tanti altri scrittori che fanno così, ma anche altri che usano solo una semplice numerazione. Sono scelte.
Ma la cosa curiosa, nel «Conte di Montecristo», è che nessun altro titolo di tutti i centodiciassette capitoli del gran tomone, mi ha impressionato più di tanto. Nei rimanenti centosedici, non c'è gran ricerca dell'effetto solitamente desiderato con un titolo, quella volontà a mezzo tra lo stuzzicare la curiosità del lettore, il sintetizzare con espressione arguta il contenuto che si andrà a raccontare, oppure l'anticipare con una premessa poetica.
No, gli altri centosedici titoli sono lineari, non presentano un particolare pregio verbale che non sia la pura funzione informativa per il lettore.
Ma il titolo del capitolo sessantuno...beh...per me è di una bellezza strepitosa. Fra poco ve lo svelo e come dicevo prima, forse la maggior parte di coloro che leggeranno le poche parole in questione si stupiranno a sentirlo, mi daranno del matto o del solito sempliciotto che si diverte con pochissimo. Oppure mi manderanno ad espletare funzioni corporali tra le ortiche. Tutte le reazioni sono lecite e comprensibili, ma nulla toglierà, per mio conto, alla bellezza portentosa di questa frase:
«...Come liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le pesche...».
2 commenti:
Sarà che adoro i ghiri, Dumas, le pesche, la tua scrittura...o forse perché, da linguista, amo il potere delle parole sulla nostra vita..comunque sia, sono soggiogata dal tuo post e dalla sua bellezza, tenera e profonda. Spero di avere più tempo per leggerti, Gilli, davvero. ;)
Baci bagigi :)
@->Vale: ma grazie Vale, sono bagigiamente commosso da quello che hai scritto :-) un commento così, fatto da una gran maghetta delle parole come te, è una soddisfazione sbarluccicosa :-)
Sono onorato di averti fra i miei lettori, quando vuoi, per me è sempre un piacere...viva i ghiri, le pesche, Dumas e una certa bagigian way of life :-)
Bacini ghiropesca :-)
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