giovedì 1 gennaio 2015

L’anticamera dei sogni a spicchi d’arancio


Il modo ottimale per trascorrere l’ultimo dell’anno, a mio avviso è quello di poter stare insieme alla persona amata. Nell’impossibilità eventuale, la seconda opzione è di poter trascorrere qualche ora con alcuni amici cari. Se per una serie di motivi non si può realizzare nessuna delle prime due alternative, rimane solo una terza scelta dignitosa: andarsene a letto. Ed è quello che ho fatto ieri sera.

In queste circostanze, ci si sforza di raccomandare a se stessi che, sì, va beh, dai, la sera dell’ultimo dell’anno è pur sempre un sempre una sera come le altre. Ma alla fine non è mai così: che tu sia in compagnia o da solo, quella dell’ultimo non è mai una sera come le altre. Il punto è che a rimanere da soli, ci se ne rendo conto di più: la differenza è tutta lì.

Me ne stavo leggendo qualcosa sotto le coperte, infagottato nel mio dispositivo invernale brevettato di lettura. I botti di qualcun altro si sono messi a fracassare il buio di fuori. I botti per me, soprattutto quelli di Capodanno, sono un po’ come il tempo per Sant’Agostino. Se non me ne parli, nemmeno io ti dico niente, ma se mi chiedi dove andrebbero infilati, ti rispondo tirando in ballo innominabili sfinteri dei molesti acquirenti dei medesimi. Sottintendendo che dopo averli colà introdotti, si rende praticamente doveroso dar fuoco alla miccia.

Il fragore di quelle flatulenze emesse da minorati mentali (in una parola: “petardi”) mi ha distratto un attimo dalla lettura. Ho posato il libro sul petto, ho portato le mani agli occhi, sfregando delicatamente le palpebre chiuse. E’ bello concedersi questo gesto, centellinandolo ogni tanto per non renderlo scontato. Mi piace osservare lo sfavillio di stelline che si forma lungo la cupa superficie globosa sotto-palpebrale, mentre un senso di distensione para-sensuale si diffonde per tutto il corpo. Poi le mani si sono aperte, allargandosi alla faccia e impugnando praticamente tutta la testa, che così accolta tra i palmi mi ha rievocato qualcosa di molto familiare, benché lontano negli anni. In questo modo, migliaia, se non milioni di volte, ho tenuto fra le mani il pallone da basket.

Chi non ha mai giocato a pallacanestro forse non potrà capire, ma è stata una specie di rivelazione. Solo in quell’attimo ho capito che in ogni partita di basket giocata, per ogni tiro fatto, per ogni palleggio, insomma per ogni gesto cestistico compiuto nei tanti anni in cui ho amato questo sport, non tenevo fra le mani la beneamata palla a spicchi, bensì la mia testa. Il senso zen del basket, ma anche di tutti gli altri sport probabilmente, mi si è svelato. E non solo di tutti gli sport: forse persino il significato di ogni azione intensa nel senso più generale. 

Ricordo infatti che proprio l’azione di gioco, in particolare nel basket, riusciva al meglio quando la testa traslocava al di fuori di sé e prendeva dimora nel pallone per rimbalzare ed essere manipolato, nelle braccia per palleggiare o passare o tirare, nelle mani, nelle gambe e nei piedi per scegliere sul campo le traiettorie più indicate o per danzare al ritmo del palleggio. Meno si pensava e meglio si agiva. 

Intanto i botti hanno continuato ancora un po’, e io mi sono gustato questa piccola scoperta, ho palleggiato immaginariamente con la mia testa, ho tirato a canestro, da 5 o 6 metri, la mia distanza preferita. Ed anche se suona molto bizzarro, la testa rimbalzava lieta sul piano di gioco e poi contro il tabellone, oppure frusciava precisa nella retina del canestro, passava dalla carezza di una mano all’altra. In un modo alternativo di volersi un po’ bene con la fantasia. Al posto della testa avevo il salutare “vuoto” che occorreva, e per alcuni momenti tutto è stato perfetto così. 

Poi ho spento la luce, mi sono girato sul fianco per accogliere il sonno, riflettendo sul fatto che una serata trascorsa con la persona amata sarebbe stata “forse” un po’ meglio. Ad avercela, la persona amata. E poi, l’ultimissimo pensiero che mi ha colto prima di addormentarmi, con ampio sollievo vanziniano, è stato: «…e anche questo ultimo dell’anno se lo sémo levati dalle palle!...».


2 commenti:

Vanessa Valentine ha detto...

Gilli..che bello tutto il post..:))))
Il passaggio testa/pallone da basket/amore per lo sport/ergo la vita è tenero, delicato, malinconico.
Certo, il Capodanno sotto le pezze con la persona amata è notevole..ma oltre al 31 c'è il primo di gennaio, il 2, il 4 marzo, il 16 aprile..chi può dirlo?
La vita vuole stupirci, è una matta.
Lasciamoglielo fare..
E ti do ragione, il mio primo pensiero, passata la mezzanotte almeno degli ultimi 25 anni, è sempre stata "uff, che maroni, fatta anche questa".:)))))
Baci per l'anno nuovo ;)))))

Gillipixel ha detto...

@->Vale: ehehhehehe :-) grazie, Vale, sei sempre gentile super :-) certo che, ad averci la persona amata di fianco, mica avrei finito per pensare al basket :-) ma questo va da sé :-)

L'ultimo dell'anno rimane sempre un termine di confronto, non c'è nulla da fare...alla fine, è ad ogni modo impegnativo e foriero di stati d'animo complessi: minimizzare o euforizzare troppo, sono secondo me due atteggiamenti non tanto consoni...meglio, a mio avviso, osservare, stare in ascolto, cercare di capire cosa il nostro profondo ci vuole dire :-) è meglio così, per l'ultimo dell'anno, secondo me :-)

Bacini nel cesto :-)